La rivincita degli schiavi del solare
in tribunale un esercito di sfruttati
Indagini chiuse, 438 le parti civili nel più grosso processo per riduzione
in schiavitù mai celebrato in Italia. Una vera e propria rivolta civile dei
braccianti dei campi di silicio contro i referenti di Tecnova e i caporali:
15 gli indagati
Hanno lavorato 12 ore al giorno, sotto il caldo torrido e la pioggia
battente, senza l'adeguata attrezzatura, immersi nel fango fino alle
ginocchia e con gli stivali troppo stretti tagliati sulle punte per riuscire
a calzarli. Niente contributi, ferie, malattie, straordinari, alla fine -
dopo mesi trascorsi a posizionare pannelli fotovoltaici nei campi del
Salento - niente retribuzione.
Sono stati trattati come schiavi ma hanno reagito da cittadini, firmando
denunce su denunce, sottoponendosi a interrogatori fiume e preparandosi a
diventare testimoni nel più grosso processo per riduzione in schiavitù mai
celebrato in Italia. Sono 438 i lavoratori che compaiono come parti offese
nell'avviso di conclusione delle indagini preliminari fatto notificare dalla
Dda di Lecce a quindici persone, indagate a vario titolo per associazione a
delinquere, riduzione in schiavitù, estorsione, favoreggiamento della
permanenza irregolare di clandestini sul territorio italiano e truffa
aggravata ai danni dello Stato.
Un esercito di disperati, che da due anni e mezzo aspetta l'epilogo
giudiziario del calvario vissuto tra gli ulivi della Puglia, dove in pochi
mesi sono stati costruiti tredici parchi fotovoltaici dalla società spagnola
Tecnova. Uomini provenienti dal Ghana, Tunisia, Algeria, Marocco, Senegal,
reclutati con il passaparola e la chimera di un contratto da metalmeccanico
con stipendio da 1.200 euro al mese e finiti a fare gli schiavi nei campi di
silicio. Il capo d'imputazione, che inchioda alle loro responsabilità i
referenti italiani e spagnoli della Tecnova (Luis Cardenos, Luis Gutierrez,
Josè Martinez, Manuela Costabile e le collaboratrici di quest'ultima Anna
Maria Bonetti e Tatiana Tedesco), i titolari della B. D. Consulting che si
occupava di reclutare gli immigrati (Cosima De Michele e Bagnulo Marco
Damiano) e sette caporali stranieri, è la sintesi giudiziaria dei racconti
dell'orrore fatti dai lavoratori e raccolti per primi dai sindacalisti
dell'Ugl, poi dalla polizia e dalla guardia di finanza. Scientifico il
metodo che sarebbe stato attuato per utilizzare manodopera a bassissimo
costo: gli operai venivano individuati in varie regioni d'Italia e fatti
arrivare in Puglia, sistemati in abitazioni fatiscenti e da lì prelevati
ogni mattina dai caporali per essere condotti sui cantieri di Lecce,
Galatina, Collepasso, Francavilla, San Pancrazio e in ogni angolo di Salento
in cui Tecnova era riuscita a ottenere subappalti dal colosso delle
rinnovabili Gsf.
Le giornate erano infinite, le condizioni di lavoro pessime, gli infortuni
continui, le minacce di licenziamento costanti e molto dure anche le
pressioni per non denunciare i torti subiti. I lavoratori del silicio erano
trattati alla stregua degli schiavi, scrivono i pm Alessio Coccioli e
Pierpaolo Montinaro nell'avviso di conclusione delle indagini, bollando
nuovamente gli indagati come gli schiavisti del Terzo millennio, nonostante
il parere negativo del Riesame e della Cassazione in merito alla
contestazione dell'articolo 600 del Codice penale. Il reato di riduzione in
schiavitù, nato per punire lo sfruttamento della prostituzione e poi esteso
a quello dei lavoratori agricoli, è già arrivato alla sua prova
dibattimentale davanti al Tribunale di Lecce, dove è in corso il processo a
7 imprenditori salentini e 9 caporali stranieri accusati di avere
trasformato i migranti in schiavi nei campi di angurie di Nardò. E se in
quel fascicolo le parti offese individuate sono poche decine, nel caso
Tecnova si parla di un numero enorme di vittime, che renderà inevitabilmente
difficile lo svolgimento del maxi-processo.
Alcuni di loro hanno già annunciato che saranno in aula per guardare negli
occhi i loro aguzzini e testimoniare, con le loro parole, come lo
sfruttamento avesse stravolto ogni diritto di lavoratori e cittadini e come
proprio lo stato di bisogno e di soggezione impedisse loro di ribellarsi e
lasciare quell'inferno. "Ci trattavano peggio di quanto avveniva ai nostri
nonni nelle piantagioni di cotone, ma avevamo bisogno di soldi per poter
mangiare", usavano dire molti di loro durante le manifestazioni in cui
chiedevano il pagamento degli stipendi, mostrando sul corpo e sul viso i
segni degli incidenti. Alla fine la maggior parte degli schiavi del
fotovoltaico ha lasciato il Salento. E a ricordare il loro dramma sono
rimaste solo lunghe colonne di pannelli tra gli ulivi e un processo ancora
tutto da scrivere.
(09 aprile 2013) © Riproduzione riservata
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