“Italia prima in Europa per
emissioni di arsenico, cadmio, mercurio nell’acqua”
I dati emergono dall'ultimo dossier di Legambiente in
materia di sostanze immesse in laghi, fiumi, mari e falde dagli impianti
industriali. Sono questi ultimi a fornire i numeri che, quindi, sono
inevitabilmente parziali visto che mancano dal computo i fenomeni di illegalità
totale
È ancora
forte in Italia l’impatto dell’attività industriale sullo stato di salute delle
acque. Lo rivela l’ultimo dossier di Legambiente, pubblicato proprio in
occasione della Giornata mondiale dell’acqua appena trascorsa (22 marzo), che
mette in evidenza come il Belpaese superi le nazioni europee più
industrializzate nell’emissione di metalli pesanti, in particolare di mercurio,
nichel, cadmio e arsenico, direttamente nei corsi d’acqua. Anche per quanto
riguarda le emissioni di cianuro è in testa alla classifica; arriva
seconda, invece, subito dopo la Germania, per i cloruri. I dati
(risalenti al 2011) sono stati estrapolati dal registro “European pollutant release and transfer
register”, un registro
delle emissioni inquinanti prodotte dalle varie industrie europee, in cui
sono gli impianti stessi a comunicare, annualmente, la quantità di sostanze
immesse direttamente nell’ambiente e, in questo caso, nelle acque. Una analisi
parziale, dunque, che non tiene conto dei vari fenomeni di illegalità
totale, ma che rende comunque chiaro come in l’Italia gli scarti di
lavorazione delle attività industriali continuino, in buona parte, a finire
inesorabilmente nelle nostre acque, alterandone quindi le caratteristiche
chimiche. Legambiente, di tutta la mole di informazioni contenti nel registro,
ha preso in considerazione solo i dati relativi alle principali sostanze “pericolose prioritarie”.
Ebbene, nel 2011, in Italia sono state emesse oltre 140 tonnellate di metalli pesanti direttamente nelle acque, di
cui 51 tonnellate di zinco, 31 tonnellate di nickel, 31
tonnellate di cromo, 12,7 tonnellate di piombo, 9 tonnellate di rame,
4,85 tonnellate di arsenico, 1,84 tonnellate di cadmio e 258
chilogrammi di mercurio. Per quanto riguarda le sostanze inorganiche, in particolare cloruri
fluoruri e cianuri, si arriva a quasi 2,8 milioni di tonnellate, di
cui quasi la metà derivanti da attività di tipo chimico. Ci sono poi le sostanze organiche, sempre nelle classe di
quelle “pericolose prioritarie”, come l’antracene, il benzene,
gli idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) e i nonilfenoli. Se
per i primi non risultano emissioni in acqua da parte degli impianti
industriali, per i nonilfenoli ammontano a 2,9 tonnellate, quantità
corrispondente a circa il 60% dell’emissione europea totale, per gli Ipa a 1,25
tonnellate – pari al 39% della quantità totale a livello europeo – e per il
benzene a 0,91 tonnellate. Confrontando singolarmente ciascuna emissione con
quella degli altri paesi europei più industrializzati (Francia, Germania e
Regno Unito), emerge come ben quattro metalli pesanti su otto siano emessi
in quantitativi maggiori dall’Italia. Sono appunto: arsenico, cadmio,
mercurio e nickel. Tutti metalli che, ad alcuni livelli, oltre a essere
dannosi per l’ecosistema – perché ne alterano appunto le caratteristiche
chimiche – sono estremamente tossici per l’uomo. Ma come fanno a finire
i metalli pesanti nelle acque? Sicuramente, gran parte della responsabilità va
attribuita al tipo di impianto: le centrali elettriche a carbone,
ad esempio, emettono, per loro natura, sostanze cancerogene per l’uomo
in enorme quantità, come benzene, mercurio, cadmio e molto altro. Ma, secondo
Legambiente, le cause sono da ricercarsi nella qualità degli impianti e negli
scarsi controlli ambientali nel territorio. “Occorre migliorare in qualità
e quantità l’impiantistica esistente specifica del trattamento delle acque
industriali – si legge nel dossier – aumentare i controlli sul territorio e non
permettere il mescolamento delle acque reflue industriali con quelle
civili per evitare che le prime vadano a finire in impianti non idonei al
trattamento specifico di inquinanti chimici”. L’Italia, dunque, è ancora bel
lontana dal recepire la direttiva 2000/60 del Parlamento europeo, che
cerca di disciplinare e salvaguardare le acque. Una direttiva nata dopo i vari
casi di grave inquinamento ambientale di zone, come laghi, falde, fiumi
utilizzate negli anni ’80 come discariche naturali per rifiuti industriali e
inseriti adesso nei siti di interesse nazionale da bonificare (con soldi
pubblici). La direttiva europea chiedeva agli Stati membri che andassero verso
una “graduale riduzione di scarichi, emissioni e perdite di sostanze
prioritarie e l’arresto o la graduale eliminazione di scarichi,
emissioni e perdite di sostanze pericolose prioritarie” e aggiungeva che “l’inquinamento
chimico delle acque è una minaccia per l’ambiente acquatico, con effetti
quali la tossicità acuta e cronica negli organismi acquatici, l’accumulo
di inquinanti negli ecosistemi e la perdita di habitat e biodiversità, e
rappresenta una minaccia anche per la salute umana”. Le conclusioni
dell’associazione ambientalista si possono leggere già nella premessa. “I fiumi
italiani, ma anche le falde e i laghi, continuano a essere considerati troppo
spesso solo come un pericolo o una minaccia per il rischio connesso con
la loro esondazione o un ricettacolo di scarichi non depurati,
industriali, sversamenti accidentali, se non una risorsa da sfruttare il più
possibile per altri usi accumulando derivazioni, prelievi di acqua o di ghiaia,
interventi di regimazione o cementificazione degli alvei. Sono
ancora troppo pochi in Italia, i casi in cui si è deciso di investire sui corsi
d’acqua attraverso la loro riqualificazione, interventi di rinaturalizzazione,
di prevenzione e mitigazione del rischio e insieme di tutela
degli ecosistemi”.
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