SICUREZZA
SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS!
NEWSLETTER
N. 211 DEL 29/05/15
NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
L’ILLUMINAZIONE
NATURALE E ARTIFICIALE DEGLI AMBIENTI DI LAVORO CON PARTICOLARE RIFERIMENTO
AGLI UFFICI E ALLE POSTAZIONI CON VIDEOTERMINALE – PRIMA PARTE
A
seguito di varie richieste sui requisiti relativi all’illuminazione degli
ambienti di lavoro in generale e delle postazioni con videoterminale in
particolare, ho realizzato la seguente relazione relativa a tutti gli obblighi
di legge finalizzati a tale aspetto.
Come
sempre ho fatto in precedenti occasioni, riporto tale relazione all’interno
della mia Newsletter per rendere edotti tutti coloro che la seguono su quelli
che sono i loro diritti relativamente ai requisiti dell’illuminazione degli
ambienti di lavoro.
Visto
la vastità dell’argomento ho diviso la relazione in tre parti.
La
prima parte (che viene pubblicata nella presente Newsletter) è relativa a:
-
premessa;
-
normativa
di riferimento.
La
seconda parte (che verrà pubblicata nella Newsletter 212) è relativa a:
-
l’illuminazione:
concetti generali.
La
terza parte (che verrà pubblicata nella Newsletter 213) è relativa a:
-
requisiti
minimi per l’illuminazione dei luoghi di lavoro;
-
conclusioni.
Marco
Spezia
1.
PREMESSA
Una
corretta illuminazione naturale e artificiale degli ambienti di lavoro è
requisito fondamentale per la tutela della salute e della sicurezza dei
lavoratori coinvolti.
Una
corretta illuminazione infatti permette una visione ottimale degli spazi di
lavoro, sia in termini assoluti, sia in riferimento ad altre fonti luminose
(per esempio gli schermi dei videoterminali) e permette di non sollecitare
l’apparato visivo, prevenendo affaticamento visivo nel breve termine e disturbi
alla vista nel lungo termine.
Una
corretta illuminazione permette inoltre l’esecuzione in sicurezza di
lavorazioni potenzialmente pericolose per l’interfaccia uomo/macchina
(lavorazioni alle macchine utensili o con utilizzo di attrezzature) e per
l’interfaccia uomo/ambiente (chiara percezione dei percorsi, degli ostacoli, di
altri lavoratori).
Infine
una corretta illuminazione di emergenza consente, anche nel caso di mancanza
della illuminazione principale o in caso di presenza di fumo, di avere una
chiara percezione dei percorsi di esodo e delle uscite di sicurezza.
Per
tali motivi, all’interno della legislazione per la tutela della salute e della
sicurezza, cioè del Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 (“Testo unico
sulla sicurezza”, nel seguito Decreto) sono contenute precise disposizioni con
carattere di obbligatorietà per l’illuminazione naturale e artificiale.
Disposizioni aggiuntive sono poi previste per lavorazioni con utilizzo di
videoterminali.
Oltre
a tale testo normativo trovano applicazione nell’ambito della definizione delle
caratteristiche dell’illuminazione naturale e artificiale, anche norme tecniche
e in particolare le seguenti:
-
UNI
EN 12665:2011 “Luce e illuminazione - Termini fondamentali e criteri per i
requisiti illuminotecnici”;
-
UNI
10840:2007 “Luce e illuminazione - Locali scolastici - Criteri generali per
l’illuminazione artificiale e naturale”;
-
UNI
EN 12464-1:2011 “Luce e illuminazione - Illuminazione dei posti di lavoro -
Parte 2: Posti di lavoro in interni”.
2.
NORMATIVA DI RIFERIMENTO
2.1
FONTI LEGISLATIVE
Il
Decreto stabilisce precisi obblighi a carico del datore di lavoro relativamente
all’illuminazione naturale e artificiale degli ambienti di lavoro.
Tali
obblighi sono contenuti tra quelli relativi alle caratteristiche generali dei
luoghi di lavoro, all’interno del Titolo II “Luoghi di lavoro” del Decreto.
In
tale ambito l’articolo 64, comma 1, lettera a) del Decreto stabilisce che:
“Il datore di lavoro provvede affinché i
luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di cui all’articolo 63, commi 1
[...]”.
A
sua volta l’articolo 63, comma 1 dispone che:
“I luoghi di lavoro devono essere conformi ai
requisiti indicati nell’allegato IV”.
Il
mancato adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 64, comma 1, lettera a) (e
quindi dei requisiti di cui all’allegato IV) costituisce reato penale punto
dall’articolo 68, comma 1, lettera b) del Decreto con l’arresto da due a
quattro mesi o con l’ammenda da 1.000
a 4.800 euro.
All’interno
dell’allegato IV un intero capitolo (il 1.10) è dedicato ai requisiti richiesti
per l’illuminazione naturale e artificiale dei luoghi di lavoro.
Tale
capitolo riporta quanto segue.
“1.10.1. A meno che non sia richiesto
diversamente dalle necessità delle lavorazioni e salvo che non si tratti di
locali sotterranei, i luoghi di lavoro devono disporre di sufficiente luce naturale.
In ogni caso, tutti i predetti locali e luoghi di lavoro devono essere dotati
di dispositivi che consentano un’illuminazione artificiale adeguata per
salvaguardare la sicurezza, la salute e il benessere di lavoratori.
1.10.2. Gli
impianti di illuminazione dei locali di lavoro e delle vie di circolazione
devono essere installati in modo che il tipo d’illuminazione previsto non
rappresenti un rischio di infortunio per i lavoratori.
1.10.3. I luoghi di
lavoro nei quali i lavoratori sono particolarmente esposti a rischi in caso di
guasto dell’illuminazione artificiale, devono disporre di un’illuminazione di
sicurezza di sufficiente intensità.
1.10.4. Le
superfici vetrate illuminanti e i mezzi di illuminazione artificiale devono
essere tenuti costantemente in buone condizioni di pulizia e di efficienza.
1.10.5. Gli
ambienti, i posti di lavoro e i passaggi devono essere illuminati con luce
naturale o artificiale in modo da assicurare una sufficiente visibilità.
1.10.6. Nei casi in
cui, per le esigenze tecniche di particolari lavorazioni o procedimenti, non
sia possibile illuminare adeguatamente gli ambienti, i luoghi e i posti
indicati al punto 1.10.5, si devono adottare adeguate misure dirette a
eliminare i rischi derivanti dalla mancanza e dalla insufficienza della
illuminazione.
1.10.7.
Illuminazione sussidiaria
1.10.7.1. Negli
stabilimenti e negli altri luoghi di lavoro devono esistere mezzi di
illuminazione sussidiaria da impiegare in caso di necessità.
1.10.7.2. Detti mezzi
devono essere tenuti in posti noti al personale, conservati in costante efficienza
e essere adeguati alle condizioni e alle necessità del loro impiego.
1.10.7.3. Quando
siano presenti più di 100 lavoratori e la loro uscita all’aperto in condizioni
di oscurità non sia sicura e agevole; quando l’abbandono imprevedibile e
immediato del governo delle macchine o degli apparecchi sia di pregiudizio per
la sicurezza delle persone o degli impianti; quando si lavorino o siano
depositate materie esplodenti o infiammabili, l’illuminazione sussidiaria deve
essere fornita con mezzi di sicurezza atti a entrare immediatamente in funzione
in caso di necessità e a garantire una illuminazione sufficiente per intensità,
durata, per numero e distribuzione delle sorgenti luminose, nei luoghi nei
quali la mancanza di illuminazione costituirebbe pericolo. Se detti mezzi non
sono costruiti in modo da entrare automaticamente in funzione, i dispositivi di
accensione devono essere a facile portata di mano e le istruzioni sull’uso dei
mezzi stessi devono essere rese manifeste al personale mediante appositi
avvisi.
1.10.7.4.
L’abbandono dei posti di lavoro e l’uscita all’aperto del personale deve,
qualora sia necessario ai fini della sicurezza, essere disposto prima
dell’esaurimento delle fonti della illuminazione sussidiaria.
1.10.8. Ove sia
prestabilita la continuazione del lavoro anche in caso di mancanza
dell’illuminazione artificiale normale, quella sussidiaria deve essere fornita
da un impianto fisso atto a consentire la prosecuzione del lavoro in condizioni
di sufficiente visibilità”.
All’interno
del punto 1.10 dell’allegato IV, in questo ambito, trova particolare interesse
quanto stabilito dal punto 1.10.5: “Gli
ambienti, i posti di lavoro e i passaggi devono essere illuminati con luce
naturale o artificiale in modo da assicurare una sufficiente visibilità”.
Per
definire cosa si intenda per “sufficiente visibilità” occorre fare riferimento
alla normativa tecnica di riferimento (in particolare le norme UNI EN elencate
al punto 1.)
Oltre
a tali prescrizioni di natura generale, essendo relative ad ogni ambiente di
lavoro, il Decreto prevede requisiti specifici per l’illuminazione delle
postazioni di lavoro dotate di videoterminali.
A
tale proposito l’articolo 174, comma 3 impone come obbligo a carico del datore
di lavoro, il seguente:
“Il datore di lavoro organizza e predispone i
posti di lavoro di cui all’articolo 173, in conformità ai requisiti minimi di cui
all’allegato XXXIV”.
Il
mancato adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 174, comma 3, (e quindi
dei requisiti di cui all’allegato XXXIV) costituisce reato penale punto
dall’articolo 178, comma 1, lettera 1) del Decreto l’arresto da tre a sei mesi
o con l’ammenda da 2.500 fino a 6.400 euro.
Il
punto 2, lettera a) dell’allegato XXXIV del Decreto dispone relativamente
all’illuminazione delle postazioni di lavoro con videoterminali quanto segue:
“L’illuminazione generale e specifica
(lampade da tavolo) deve garantire un illuminamento sufficiente e un contrasto
appropriato tra lo schermo e l’ambiente circostante, tenuto conto delle
caratteristiche del lavoro e delle esigenze visive dell’utilizzatore.
Riflessi sullo
schermo, eccessivi contrasti di luminanza e abbagliamenti dell’operatore devono
essere evitati disponendo la postazione di lavoro in funzione dell’ubicazione
delle fonti di luce naturale e artificiale.
Si dovrà tener
conto dell’esistenza di finestre, pareti trasparenti o traslucide, pareti e
attrezzature di colore chiaro che possono determinare fenomeni di abbagliamento
diretto e/o indiretto e/o riflessi sullo schermo.
Le finestre devono
essere munite di un opportuno dispositivo di copertura regolabile per attenuare
la luce diurna che illumina il posto di lavoro”.
Anche
in questo caso il rispetto di quanto stabilito dal Decreto deve essere attuato
con specifico riferimento alla normativa tecnica di riferimento (in particolare
le norme UNI EN elencate al punto 1.)
2.2
FONTI DELLA NORMATIVA TECNICA
L’illuminazione
di un ambiente di lavoro deve essere tale da soddisfare esigenze umane fondamentali
quali:
-
buona
visibilità: per svolgere correttamente una determinata attività; l’oggetto
della visione deve essere percepito e inequivocabilmente riconosciuto con
facilità, velocità e accuratezza;
-
confort
visivo: l’insieme dell’ambiente visivo deve soddisfare necessità di carattere
fisiologico e psicologico;
-
sicurezza:
le condizioni di illuminazione devono sempre consentire sicurezza e facilità di
movimento e un pronto e sicuro discernimento dei pericoli insiti nell’ambiente
di lavoro.
Per
soddisfare queste tre esigenze fondamentali è necessario riferirsi a parametri
qualitativi e quantitativi definiti per i sistemi di illuminazione naturale e
artificiale.
Tali
parametri e le loro caratteristiche sono definite in dettaglio nelle norme
tecniche:
-
UNI
EN 12665:2011 “Luce e illuminazione - Termini fondamentali e criteri per i
requisiti illuminotecnici”;
-
UNI
10840:2007 “Luce e illuminazione - Locali scolastici - Criteri generali per
l’illuminazione artificiale e naturale”;
-
UNI
EN 12464-1:2011 “Luce e illuminazione - Illuminazione dei posti di lavoro -
Parte 2: Posti di lavoro in interni”.
Nel
seguito si riporteranno alcune considerazioni fondamentali, senza pretendere
ovviamente di esaurire l’argomento, ma solo di dare indicazioni su quali
debbano essere i parametri minimi di illuminazione dei posti di lavoro.
SUL CONCETTO DI SALUTE IN KARL MARX
Da Antonio
Turi
Pubblicato
sul Gruppo “Collettivo Giulio Maccacaro”
IL CAPITALE
LIBRO I
SEZIONE III
“LA PRODUZIONE DEL
PLUSVALORE ASSOLUTO”
CAPITOLO 8 “LA GIORNATA LAVORATIVA”
Il dott.
Greenhow dichiara che la durata media della vita nei distretti ceramieri di
Stoke-upon-Trent e di Wolstanton è straordinariamente breve. Benché nel distretto
di Stoke soltanto il 36,6 per cento della popolazione maschile sopra i venti
anni e a Wolstanton solo il 30,4 per cento sia occupato nelle fabbriche di
stoviglie, più della metà dei casi di morte fra gli uomini di quell’età, nel
primo distretto, circa due quinti nel secondo, risulta da malattie polmonari
fra i vasai.
Il dott.
Boothroyd, medico praticante a Hanley, depone: “Ogni generazione successiva di
vasai è più nana e più debole della precedente”.
Altrettanto
un altro medico, il sig. McBean: “Da quando iniziai la mia pratica fra i vasai,
venticinque anni fa, la marcata degenerazione di questa classe si è
progressivamente mostrata in una diminuzione di statura e di peso”. Queste
deposizioni sono tratte dalla relazione del dott. Greenhow del 1860.
Quanto segue
si trova nella relazione dei commissari del 1863.
Il dott. J.
T. Arledge, primario dell’ospedale del North Staffordshire, dice: “Come classe,
i vasai, uomini e donne, costituiscono una popolazione degenerata, fisicamente
e moralmente. Di regola sono piccoli e mal cresciuti, mal fatti e spesso
deformi di petto. Invecchiano prematuramente e vivono poco tempo; sono
flemmatici e anemici; rivelano la loro debolezza di costituzione con ostinati
attacchi di dispepsia, di malattie del fegato e dei reni e di reumatismo. Sono
soggetti soprattutto a malattie di petto: polmonite, tisi, bronchite e asma.
Una forma d’asma è ad essi peculiare ed è conosciuta come asma dei vasai o tisi
dei vasai. La scrofolosi, che attacca le glandole, le ossa o altre parti del corpo,
è malattia di più di due terzi dei vasai. Che la degenerazione (degenerescence)
della popolazione di questo distretto non sia ancor maggiore, si deve soltanto
al reclutamento dai circostanti distretti agricoli e allo scambio di matrimoni
con razze più sane”.
Il sig.
Charles Pearson, già house surgeon dello stesso ospedale, scrive fra l’altro in
una lettera al commissario Longe: “Posso parlare soltanto in base a
osservazioni personali e non a statistiche, ma non esito ad assicurare che la
mia indignazione tornava sempre a sollevarsi, alla vista di quei poveri
fanciulli la cui salute veniva sacrificata in omaggio all’avidità dei loro
genitori e dei loro datori di lavoro”. Enumera le cause delle malattie dei
vasai, e conclude la serie con quella culminante: “long hours” (lunghe ore
lavorative).
La relazione
della commissione spera che “una manifattura che ha una posizione così preminente
agli occhi del mondo non sarà più soggetta all’accusa infamante che il suo
grande successo sia accompagnato da degenerazione fisica, molteplici e diffuse
sofferenze corporali e morte precoce della popolazione operaia col cui lavoro e
con la cui abilità sono stati raggiunti così grandi risultati. Quel che vale
per le industrie ceramiche in Inghilterra, vale anche per quelle della Scozia”.
La
manifattura dei fiammiferi data dal 1833, dalla scoperta del modo di fissare il
fosforo sull’accenditoio. Si è sviluppata in Inghilterra dal 1845 in poi, rapidamente, e
si è estesa, partendo specialmente dalle parti di Londra a densa popolazione,
anche a Manchester, Birmingham, Liverpool, Bristol, Norwich, Newcastle,
Glasgow; con essa s’è diffuso il trisma, che un medico di Vienna scoperse già
nel 1845 esser la malattia peculiare dei lavoranti in fiammiferi.
Metà degli
operai di questa manifattura sono bambini sotto i tredici anni e adolescenti di
meno di diciotto anni. Essa ha così cattiva fama, per la sua insalubrità e per
la repugnanza che desta, che soltanto la parte più decaduta della classe
operaia, vedove semiaffamate ecc., le cede i figli, “fanciulli stracciati,
semiaffamati, del tutto trascurati e non educati”.
Dei
testimoni esaminati dal commissario White (1863), duecentosettanta erano sotto
i diciotto anni, quaranta sotto i dieci anni, dieci avevano solo otto, cinque
avevano solo sei anni.
Giornata
lavorativa che andava dalle dodici alle quattordici, alle quindici ore; lavoro
notturno; pasti irregolari, per lo più presi negli stessi locali di lavoro, che
sono appestati dal fosforo. Dante avrebbe trovato che questa manifattura supera
le sue più crudeli fantasie infernali.
Nella
fabbricazione di carta da parati, i generi più grossolani vengono stampati a
macchina, i generi più fini a mano (block printing). I mesi di affari più
intensi sono fra i primi di ottobre e la fine di aprile. Durante tale periodo
questo lavoro dura spesso, e quasi senza interruzione, dalle sei di mattina
alle dieci di sera, e anche più avanti nella notte.
J. Leach
depone: “L’inverno passato (1862), su diciannove ragazze sei mancarono insieme
dal lavoro, per malattie derivate da sovraccarico di lavoro. Per tenerle
sveglie, devo urlare”.
W. Duffy:
“Spesso i bambini non potevano tenere gli occhi aperti per la stanchezza; ma
spesso nemmeno noi possiamo tenere gli occhi aperti”.
J.
Lightbourne: “Ho tredici anni... L’inverno scorso abbiamo lavorato fino alle
nove di sera, e l’inverno precedente fino alle dieci. L’inverno scorso piangevo
quasi tutte le sere dal dolore delle piaghe ai piedi”.
G. Apsden:
“Quando questo ragazzo aveva sette anni, avevo preso l’abitudine di portarlo attraverso
la neve sulle spalle, andando e venendo dalla fabbrica, e lui soleva lavorare
sedici ore... Spesso mi inginocchiavo per dargli da mangiare mentre stava alla
macchina, perchè non doveva né lasciarla, né fermarla”.
Smith, il socio
direttore di una fabbrica di Manchester: “Noi (vuol dire: le sue “braccia” che
lavorano per “noi”) lavoriamo senza interruzioni per i pasti, cosicché il
lavoro giornaliero di dieci ore e mezza è finito alle quattro e mezza
pomeridiane, e dopo è tutto tempo extra” (Ma questo signor Smith non si prende
nessun pasto durante dieci ore e mezza?).
“Noi” -
sempre Smith - “raramente cessiamo il lavoro prima delle sei di sera” (intende
dire, cessiamo il consumo delle “nostre” macchine di forza-lavoro), “cosicché
noi (iterum Crispinus) lavoriamo di fatto per un tempo extra durante tutto
l’anno... I fanciulli e gli adulti (centocinquantadue bambini e adolescenti
sotto i diciotto anni, centoquaranta adulti) hanno lavorato, tanto gli uni che
gli altri, in media, durante gli ultimi diciotto mesi, al minimo sette giornate
e cinque ore alla settimana, cioè settantotto ore e mezza alla settimana. Per
le sei settimane che finiscono il 2 maggio di quest’anno (1863) la media è
stata più alta: otto giornate, ossia ottantaquattro ore alla settimana!”.
Eppure lo
stesso signor Smith, così devoto al pluralis maiestatis, aggiunge sorridendo:
“Il lavoro a macchina è facile”. E altrettanto dicono quelli che usano il
sistema del block printing: “Il lavoro a mano è più sano che il lavoro a
macchina”. Nel complesso i signori fabbricanti si dichiarano, con indignazione,
contrari alla proposta di “fermar le macchine per lo meno durante i pasti”. Il
signor Otley, direttore di una fabbrica di carta da parati nel Borough (a
Londra), dice: “Una legge che permettesse ore lavorative dalle sei di mattina
alle nove di sera, ci (!) converrebbe molto, ma le ore del Factory Act, dalle
sei di mattina alle sei di sera, non ci (!) convengono... La nostra macchina
viene fermata durante il pasto di mezzogiorno” (che magnanimità).
“Fermare la
macchina non procura perdite degne di nota, né di carta, né di colore. Ma” -
continua con simpatia -, “posso capire che la perdita che ne segue non
piaccia”.
La relazione
della commissione ritiene ingenuamente che il timore di alcune “ditte
principali” di “perdere” tempo, cioè tempo nel quale appropriarsi di lavoro
altrui, perciò di “perder profitto”, non sia “ragione sufficiente” per “far
perdere” a bambini sotto i tredici anni e a adolescenti sotto i diciotto, anni
il loro pasto di mezzogiorno, durante 12 o 16 ore, oppure per darglielo come si
dà carbone e acqua alla macchina a vapore, come si dà sapone alla lana, come si
dà olio alla ruota ecc. durante il processo di produzione stesso, come puro e
semplice materiale ausiliario del mezzo di lavoro.
Nessun ramo
d’industria inglese (facciamo astrazione dalla panificazione meccanica che comincia
a farsi strada solo da poco tempo) ha conservato fino ad oggi modi di
produzione così antichi, anzi, come si può vedere dai poeti dell’età imperiale
romana, precristiani, quanto il panificio. Ma il capitale, come abbiamo già
osservato, è in un primo momento indifferente di fronte al carattere tecnico
del processo di lavoro del quale si impadronisce: in un primo momento lo prende
come lo trova.
L’incredibile
adulterazione del pane, specialmente a Londra, venne rivelata la prima volta
dal conhitato della Camera bassa “sul l’adulterazione dei cibi” (1855-7856) e
dallo scritto del dott. Hassall: Adulterations detected.
Conseguenza
di queste rivelazioni fu la legge del 6 agosto 1860: “for preventing the
adulteration of articles of food and drink”; legge inefficace, poiché
naturalmente mostra la massima delicatezza verso ogni freetrader che
intraprende “to turn a honest penny” (Di guadagnarsi qualche meritato soldo)
mediante la compravendita di merci falsificate.
Il comitato
stesso aveva formulato, in maniera più o meno ingenua, la convinzione che il
libero commercio significa in sostanza commercio di materiali adulterati o,
come dice spiritosamente l’inglese, “materiali sofisticati”. E infatti questa
specie di “sofistica” sa far nero del bianco e bianco del nero, meglio di
Protagora, e sa dimostrare ad oculos che ogni realtà è pura apparenza, meglio
degli Eleati.
Ad ogni
modo, il comitato aveva diretto gli occhi del pubblico sul suo “pane
quotidiano”, e così sui fornai.
Contemporaneamente,
risuonava in pubbliche adunanze e in petizioni al parlamento il grido dei
garzoni fornai londinesi sul sovraccarico di lavoro, ecc. Il grido divenne così
urgente che il signor H. S. Tremenheere, che era anche membro della più volte
ricordata commissione del 1863, venne nominato commissario reale inquirente.
Il suo
rapporto, insieme alle deposizioni dei testimoni, eccitò il pubblico (non il
cuore del pubblico, ma il suo stomaco). L’inglese, che conosce bene la sua
Bibbia, sapeva sì che l’uomo (se non è, per elezione gratuita, capitalista o
proprietario terriero o fornito di una sinecura) è chiamato a mangiare il suo
pane col sudore della sua fronte; ma non sapeva di dover mangiare nel suo pane,
quotidianamente, una certa dose di sudore umano, mescolato con deiezioni di
ascessi, ragnatele, blatte morte e lievito tedesco marcito (senza tener conto
dell’allume, dell’arenaria e di altri piacevoli ingredienti minerali).
Senza nessun
riguardo a sua santità il freetrade, la fin allora “libera” panificazione venne
sottoposta alla sorveglianza di ispettori statali (conclusione della sessione
parlamentare del 1863).
Con lo
stesso Atto del parlamento venne proibito il lavoro dalle nove di sera alle
cinque di mattina per i garzoni fornai al disotto di diciotto anni.
Quest’ultima clausola dice quanto interi volumi sul sovraccarico di lavoro in
questo ramo d’affari così patriarcalmente casalingo.
RLS, RLS TERRITORIALE, RLS DI SITO
PRODUTTIVO: MANCA QUALCUNO?
Da Muglia La Furia
Tra i
soggetti del sistema di prevenzione, cui il Testo Unico D.Lgs. 81/08 ha
riservato un’attenzione particolare definendone ruolo, attribuzioni e strumenti
operativi, vi è sicuramente il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza
(RLS).
In realtà i
rappresentanti sono più di uno. A quelli già individuati dalla 626, l’aziendale
(RLS) e il territoriale o di comparto produttivo (RLST), il Testo Uncio ha
aggiunto infatti quello di sito produttivo (RLS di sito).
Se qualcuno
di voi ha avuto occasione di conoscerne ce ne dia notizia. Gliene saremo grati.
Gli sforzi
del legislatore sono stati vanificati dall’inerzia delle parti sociali che non
hanno saputo/voluto/potuto (fate voi) approfittare del ruolo loro affidato dal
legislatore. Sono loro infatti che, nel rispetto dell’autonomia delle parti,
avrebbero dovuto regolare attraverso gli strumenti della contrattazione, molti
aspetti riguardanti la rappresentanza dei lavoratori: dalla formazione,
all’aggiornamento, dalle modalità di elezione agli ambiti di attività, dal
tempo a disposizione alla tutela.
Analoga
attenzione, sempre da parte del legislatore del Testo Unico, hanno trovato gli
organismi paritetici e gli enti bilaterali, con un forte aumento del loro ruolo
e del loro “potere” organizzativo.
In questo
caso, il penoso stato delle relazioni industriali in Italia e bassi interessi
di bottega, hanno lasciato campo aperto alla proliferazione di organismi in
stile “4 amici al bar” che, preso a riferimento un contratto di lavoro (magari
rumeno che nessuno in Italia si sogna di applicare) si sono trasformati in un
“presunti” organismi paritetici/enti bilaterali conquistando la scena della
formazione per tutti e ovunque, senza accreditamento...basta pagare.
Davvero un
quadro penoso dello stato delle relazioni industriali in Italia e c’è da
domandarsi che cosa si aspetti ancora per dare attuazione all’articolo 39 della
Costituzione (*).
A nulla è
valsa (e con il prossimo accordo per la formazione degli RSPP si prosegue su
questa strada) l’incessante azione definitoria portata avanti da Ministeri e
Regioni nel tentativo di inquadrare (inutilmente) il ruolo di tali organismi
“farlocchi” per limitare l’attività “piratesca” svolta. Prendete tutti gli
accordi sulla formazione, le linee guida interpretative o applicative e, già
che ci siete, andate a vedervi anche gli interpelli. Tutto inutile.
Adesso poi
siamo alle comiche con organismi cosiddetti “paritetici” che denunciano altri
enti cosiddetti “bilaterali” per attività illegittime.
Ma andiamo
avanti. Risulta non attuata anche la previsione del registro nazionale degli
RLS e quella dell’istituzione del fondo per la pariteticità con il quale si
sarebbero dovuti retribuire i rappresentanti territoriali e sostenere gli
organismi paritetici. Un fondo alimentato dai datori di lavoro nella cui
azienda non sia stato eletto un RLS con due ore di retribuzione/anno per ogni dipendente.
E
dell’election day qualcuno ha mai sentito parlare? Nooo? Ma daiiii… andate a
leggervi l’articolo 47, comma 6 del D.Lgs. 81/08.
A me pareva
una cosa interessante aver definito un “tempo” certo per discutere di tutela
del lavoro e approfittare dell’occasione per procedere alla elezione e
rielezione dei rappresentanti dei lavoratori.
So che
potrebbe sembrare il contrario. Ma deve essere chiaro che io porto molto
rispetto per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. Non così per le
organizzazioni che dovrebbero regolare il loro lavoro, sostenerli sul piano
della formazione e della capacità operativa e invece li abbandonano a loro
stessi quando non li trasformano, questo vale soprattutto per gli RLST, in meri
procacciatori di tessere. Anche per questo motivo ho dedicato molti post al
tema e in calce troverete i link per andarli a ripescare nel blog.
Un ruolo
quello del rappresentante dei lavoratori spesso “controverso” (si discute
ancora molto sul fatto che “debba” esserci in ogni azienda); “mistificato”
soprattutto da parte dei datori di lavoro che lo definiscono “responsabile
della sicurezza dei lavoratori”; “ignorato” da parte degli stessi lavoratori
quando neppure sanno che esiste o “denigrato” quando i si aspettano cose che un
RLS non può fare; “trascurato” dalle organizzazioni che avrebbero il dovere di
sostenerlo e, infine, fortemente “deluso” ad esempio quando viene a sapere che
il suo “parere non è vincolante” (trattasi infatti di consultazione, peraltro
obbligatoria per il datore di lavoro) il che rappresenta l’ancora di salvezza
per un soggetto che altrimenti si vedrebbe trascinato nell’alveo della
corresponsabilità penale per scelte che sono e devono rimanere in capo al
datore di lavoro.
Muglia La Furia
(*) Articolo
39 della Costituzione
L’organizzazione
sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la
loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
E` condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un
ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno
personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei
loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia
obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto
si riferisce.
Sullo
stesso argomento nel blog vedi:
Per
quanto riguarda gli accordi sul ruolo e la formazione dei rappresentanti dei
lavoratori per la sicurezza vedi:
Accordo
interconfederale Applicativo Dlgs 81/08 RLS-RLST Confapi-Cisl-Uil 22 luglio
2009
Accordo tra
Confindustria Piemonte e Cgil, Cisl e Uil del Piemonte (Formazione RLS), 23 novembre
2010
Accordo
interconfederale sui RLS e sicurezza, Confapi-Cgil-Cisl-Uil, 20 settembre 2011
Accordo tra
Confindustria Piemonte e Cgil, Cisl, Uil del Piemonte - Salute e sicurezza nei
luoghi di lavoro formazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza
(RLS), 8 febbraio 2013
http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9663:2013rlspiemonte&catid=140:2013&Itemid=61
SULLA RESPONSABILITA’ PER UN
INFORTUNIO OCCORSO A UN LAVORATORE DISTACCATO
Da:
PuntoSicuro
18 maggio
2015
di Gerardo
Porreca
Nel caso di
distacco di un lavoratore da un’impresa all’altra tutti gli obblighi di
prevenzione e protezione dai rischi sono a carico del distaccatario fatta
eccezione degli obblighi di formazione e informazione che restano a carico del
distaccante.
Torna la Corte di Cassazione in
questa sentenza ad esprimersi in merito alla individuazione delle
responsabilità nel caso di un infortunio occorso ad un lavoratore distaccato.
Lo aveva già
fatto in occasione della sentenza della Sezione IV penale n. 30483 del 10/07/14
nella quale la stessa Corte aveva avuto modo di precisare che, secondo quanto
indicato nelle disposizioni previste dal D.Lgs. 81/08, contenente il Testo
Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro, nel caso in cui un datore di
lavoro distacchi un proprio dipendente perché svolga la propria attività per
conto di un altro datore di lavoro, tutti gli obblighi di prevenzione e protezione
sono a carico del distaccatario fatta eccezione degli obblighi di formazione e
informazione che restano a carico del distaccante.
Il caso
sottoposto all’esame della Corte di Cassazione in questa occasione riguarda in
particolare l’infortunio occorso al dipendente di una società mandato a
svolgere la propria attività presso un’altra società, il cui amministratore
unico, coimputato, è stato anche giudicato e riconosciuto colpevole (ma
comunque non ricorrente), senza che il suo datore di lavoro avesse proceduto
preventivamente ad una adeguata valutazione dei rischi connessi all’attività
stessa.
L’amministratore
e legale responsabile di una società ha fatto ricorso avverso la sentenza della
Corte di Appello che, confermando quella di primo grado, lo aveva riconosciuto
colpevole del reato di cui all’articolo 589 del Codice Penale [omicidio
colposo], commesso in violazione della normativa antinfortunistica in danno di
un suo lavoratore dipendente.
La Corte di merito, ripercorrendo gli
argomenti già sviluppati in primo grado, aveva individuato i profili di colpa
del datore di lavoro distaccante per avere questi, nell’ambito di un rapporto
di appalto intercorrente con una società distaccataria, consentito al proprio
dipendente di svolgere la propria attività presso la stessa senza avere
proceduto a una preventiva e adeguata valutazione dei rischi connessi a tale
attività. Anzi, era risultato che il datore di lavoro distaccante non si era
neppure curato di conoscere in anticipo le mansioni che il proprio dipendente
era chiamato a svolgere presso la sede dell’altra società.
In
particolare l’operaio infortunato era stato chiamato a svolgere un’operazione
di “rabbocco” di olio in condizioni di precario equilibrio e senza le dovute
misure di sicurezza per evitare la caduta dall’alto per cui, nel corso
dell’operazione, aveva perso l’equilibrio ed era caduto a terra, riportando le
lesioni che lo avevano condotto alla morte.
Tale
situazione, vuoi sotto il profilo della ricostruzione dell’incidente, vuoi con
riferimento all’addebito di colpa, era stata ricostruita valorizzando, tra
l’altro, la deposizione di un lavoratore della società committente, che spesso
svolgeva personalmente quel lavoro, ma anche gli esiti degli accertamenti
svolti dal personale dell’Ispettorato intervenuto a effettuare le indagini ed a
determinare la dinamica dell’incidente.
Nessun
apporto decisivo, inoltre, era stato attribuito alle dichiarazioni rese da un
altro testimone, collega di lavoro dell’infortunato, che si era limitato a
illustrare una diversa, possibile modalità di effettuazione dell’operazione e
anzi ciò ha rafforzato la convinzione del Giudice in merito alla carenza di una
preventiva attività prevenzionale, formativa e informativa nei confronti del
lavoratore distaccato.
Il ricorso è
stato ritenuto manifestamente infondato dalla Corte di Cassazione che lo ha
pertanto rigettato. Il ricorrente, secondo la suprema Corte, ha proposto una
ricostruzione del fatto non risultante dal testo della Sentenza e come tale
preclusa alla cognizione del giudice di legittimità limitandosi ad una censura
sulla valutazione dei fatti come ricostruiti dal Giudice di merito, pur in
presenza di una motivazione logicamente argomentata.
La censura,
infatti, ha precisato la
Sezione IV, si è limitata a richiamare il contenuto di una deposizione
testimoniale, su cui i giudici si erano ampiamente soffermati e la stessa ha
sottolineato che, se anche l’operazione si fosse potuta compiere in modo
diverso, l’individuazione d’una modalità alternativa era rimessa, di fatto,
alla fantasia e all’iniziativa della persona chiamata a eseguire l’operazione
di rabbocco. La doglianza del ricorrente è stata ritenuta senz’altro generica e
comunque inammissibile perché mirava a proporre una rinnovazione
dell’apprezzamento del compendio probatorio concordemente sviluppato nei due
gradi di giudizio.
“In caso di
distacco di un lavoratore da un’impresa ad un’altra” - ha sostenuto la suprema
Corte - “per effetto della modifica normativa introdotta dall’articolo 3, comma
6 del D.Lgs. 81/08 sono a carico del distaccatario tutti gli obblighi di
prevenzione e protezione, fatta eccezione per l’obbligo di informare e formare
il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle
mansioni per le quali questo viene distaccato, che restano a carico del datore
di lavoro distaccante”.
Il datore di
lavoro, infatti, ha così proseguito la Sezione IV, in termini generali è corresponsabile
qualora l’evento si colleghi casualmente anche alla sua colposa omissione e ciò
avviene, ad esempio, quando abbia consentito l’inizio dei lavori in presenza di
situazioni di fatto pericolose, come si è verificato nel caso in esame in cui
non erano presenti nel luogo di lavoro attrezzature idonee per l’esecuzione dei
lavori, e l’omessa adozione delle misure di prevenzione prescritte sia
immediatamente percepibile.
In tal
senso, secondo la Sezione
IV della Corte di Cassazione, i Giudici di merito avevano evidenziato
che l’imputato era venuto meno all’obbligo di valutazione del rischio specifico
connesso all’opera di manutenzione ordinaria da eseguirsi presso l’impresa
distaccataria, aggiuntiva rispetto ad altri lavori che erano stati oggetto di
uno specifico contratto di appalto ed erano già stati conclusi, consistente nel
rabbocco dell’olio di un motoriduttore installato presso l’impresa stessa.
L’imputato,
ha sostenuto ancora la
Sezione IV, “aveva violato i propri doveri di tutelare la salute
e la sicurezza dei lavoratori, inviando gli operai presso l’impresa
distaccataria senza fornire loro dettagliate informazioni sui rischi specifici
e senza collaborare nell’attuazione delle misure di prevenzione e protezione
del lavoratore dal rischio di incidenti connessi alla esecuzione della nuova e
diversa prestazione”.
Né nel caso
in esame potrebbe essere invocato, ha così concluso la Corte di Cassazione, il cosiddetto
principio di “affidamento” in tema di infortuni sul lavoro, in virtù del quale
ciascun consociato può confidare che ciascuno si comporti secondo le regole
precauzionali normalmente riferibili all’attività che svolge, dato che detto
principio non opera allorché il mancato rispetto da parte di terzi delle norme
precauzionali di prudenza abbia la sua prima causa nell’inosservanza di tali
norme da parte di colui che invoca il suddetto principio, così come è accaduto
nel caso in esame.
Tale
principio non potrebbe, infatti, essere utilmente richiamato dall’imputato né
con riferimento all’operato dei suoi dipendenti, da lui non istruiti sulle
corrette modalità di esecuzione dell’operazione di manutenzione ordinaria, nel
corso della quale si è verificato l’incidente, né con riferimento alla condotta
del coimputato legale rappresentante della ditta distaccataria (non
ricorrente), considerata proprio la pregressa violazione rimproverata al datore
di lavoro distaccante.
La Sentenza n. 15696 del 16 aprile 2015 della
Corte di Cassazione “Nel caso di distacco di un lavoratore da un’impresa
all’altra tutti gli obblighi di prevenzione e protezione dai rischi sono a
carico del distaccatario fatta eccezione degli obblighi di formazione e
informazione che restano a carico del distaccante” è consultabile
all’indirizzo:
AGENZIA UNICA PER LE ISPEZIONI DEL
LAVORO
Da:
PuntoSicuro
15 maggio
2015
Il prossimo
14 giugno scade la delega che il Parlamento ha concesso per emanare i decreti
per istituire la “Agenzia unica per le ispezioni del lavoro”.
Angelo
Branduardi e Frederick Frankenstein ci ricordano che “si può fare”.
La Giornata mondiale per la salute sul lavoro,
dello scorso 28 aprile dovrebbe darci l’occasione per fare qualche riflessione
fuori dal nostro piccolo condominio. Quest’anno il tema è stato la “Salute e
sicurezza nell’utilizzo di prodotti chimici sul lavoro”. Quelli su cui il
nostro Paese e il Servizio Sanitario Nazionale globalmente, in particolare i
Servizi per la Prevenzione
e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro (gli SPSAL), sono alquanto inadempienti in
relazione all’organizzazione dei controlli necessari per verificare
l’attuazione delle normative europee REACH (Registration, Evalutation,
Authorisation and Restriction of Chemicals) e CLP/GHS (Classification, labeling
and packaging of substances and mixtures/Globally Harmonised System of
classification and labelling of chemicals).
Il prossimo
14 giugno scade la delega che il Parlamento ha concesso al Governo per emanare
i Decreti Legislativi previsti nella Legge n. 183 del 10 dicembre 2014. In particolare, mi
riferisco all’istituzione della “Agenzia unica per le ispezioni del lavoro”,
come la definisce il provvedimento legislativo.
In una
precedente occasione, mi sono occupato della necessaria modifica costituzionale
dell’articolo 117 e dei riflessi che questa dovrebbe avere sul sistema di
controllo per la salute e la sicurezza dei lavoratori, terminando con la
“peculiarità che ci contraddistingue rispetto al resto del mondo”.
Questa volta
cercherò di spiegare perché ritengo necessario che il nostro sistema si evolva,
magari ispirandosi ai modelli esistenti in altri Paesi. A mio avviso questo è
il modo in cui si deve razionalizzare tutto il complesso in discussione,
mediante il quale si otterrebbe anche la sua semplificazione, almeno
organizzativa e strutturale. Quella legislativa, sarebbe una conseguenza
inevitabile.
Senza andare
molto lontano, negli USA o in Australia, ad esempio, vorrei fare qualche confronto
con gli altri Paesi dell’Unione Europea. Come ho già avuto modo di argomentare
in altre circostanze, le informazioni che cito sono tratte dall’ILO,
dall’EU-OSHA, da EUROSTAT, dall’INAIL e dai rapporti annuali della Conferenza
delle Regioni e delle Province autonome sull’Attività delle regioni e delle
province autonome per la prevenzione nei luoghi di lavoro.
Ma prima,
qualche numero.
Con tutta la
prudenza necessaria nel trattare questi dati, l’ILO ci dice che il 9,8% degli
infortuni che accadono nel mondo avvengono in Italia (esclusi quelli in
itinere) e di questi il 2,7% sono mortali, avendo l’1,2% dei lavoratori del
resto del mondo.
Con
altrettanta prudenza, bisogna sapere quali sono i tassi standardizzati europei
dei casi mortali italiani (incidenza infortunistica per 100.000 occupati): 1,3
nel 2012 contro lo 0,1 della Finlandia, lo 0,6 del Regno Unito e dei Paesi
Bassi, lo 0,8 della Svezia, lo 0,9 della Germania.
Purtroppo,
per le malattie professionali, reperire i dati da confrontare è estremamente
difficoltoso per molte ragioni. L’ILO ci indica il numero complessivo di quelli
mortali per ogni anno: 2.020.000 su un totale di 160.000.000. Nonostante l’UE
abbia emanato il regolamento 1338/2008 che stabilisce l’obbligo di
comunicazione di questi dati, è ancora molto difficile averne di perfettamente
confrontabili a causa delle differenze esistenti nella varie legislazioni.
Passando a
un sommario esame di come sia articolata la vigilanza nei luoghi di lavoro per
verificare la rispondenza alla legislazione che tutela la salute e la sicurezza
dei lavoratori, si nota come in quasi tutti i 38 Paesi su cui ho fatto qualche
approfondimento, ci siano degli unici organismi pubblici di controllo (in
genere Agenzie) supervisionati dai Ministeri del lavoro o Ministeri
multifunzionali a esso assimilabili. In nessun caso questi compiti sono svolti
esclusivamente dai servizi sanitari pubblici, come in Italia. Neppure nel Regno
Unito, dove hanno inventato il “national health service”, il servizio sanitario
nazionale.
In quasi
tutti i 38 Paesi il sistema è unico con quello che garantisce il rispetto delle
norme contrattuali e assicurative, ma sempre con ispettori che si occupano solo
di una funzione: salute e sicurezza o aspetti contrattualistici, contributivi,
assicurativi.
L’unica
eccezione (ma non nelle funzioni ispettive descritte) esiste in Irlanda, in cui
ci sono due agenzie nazionali separate. Nel Regno Unito, è stato molto
indicativo e interessante constatare che nelle pagine di presentazione di
questi compiti, vi è sempre riportata la possibilità per le aziende
ispezionate, di segnalare alla medesima autorità locale le eventuali difformità
di applicazione della normativa da parte degli ispettori, rispetto agli
standard fissati dall’HSE. In Italia ci sarebbero un fiume di segnalazioni.
Ai patiti
del federalismo non dovrebbe sfuggire il sistema tedesco, formato da 16 agenzie
federali (una per ogni Land) coordinate da quella nazionale, che a sua volta
dipende dal solito Ministero del lavoro e degli affari sociali
(Bundesministerium für Arbeit und Soziales). Altro che 250 SPSAL/SIA dipendenti
da altrettante amministrazioni diverse esistenti in Italia.
Ma, in
parte, queste non sono informazioni nuove. Le avevano già date alcune delle sei
commissioni d’inchiesta parlamentari sul fenomeno degli infortuni e delle
malattie professionali che si sono succedute negli anni.
Un’agenzia
che mi è sempre piaciuta, fin dalla sua istituzione, è quella portoghese:
l’ACT, la “Autoridade para as Condições do Trabalho”, l’Autorità per le
condizioni del lavoro, nata dalla fusione in un solo organo dei vari
ispettorati locali.
Nel nostro
Paese i controlli sulla salute e la sicurezza dei lavoratori civili nei settori
marittimo, aereo, ferroviario e minerario, sono demandati ad organismi diversi:
-
al Servizio
Sanitario Nazionale (SSN), quelli del personale che lavora nei porti in
collaborazione/coordinamento con le Autorità portuali;
-
alle
Capitanerie di Porto (cioè alla Marina Militare, Ministero della difesa),
quelli del personale che lavora a bordo della imbarcazioni italiane e a questo,
sarebbe stata intenzione dell’ex ministro Lupi, aggiungere anche quello
straniero per effetto della Convenzione internazionale sul lavoro marittimo
del’ILO, MLC 2006 (una scelta tutta italiana non ancora del tutto superata);
-
agli uffici
periferici del Ministero dei trasporti, quelli del personale degli aeroporti;
-
congiuntamente
a Trenitalia/RFI e Ministero del lavoro e delle politiche sociali, quelli di tutto
il personale di queste aziende pubbliche, ma solo per gli aspetti di sicurezza,
con il grosso limite che solo una piccolissima parte della legislazione in
vigore è applicabile e sanzionabile, mentre, i rischi per la salute sono appannaggio
del SSN; a tutto ciò, si aggiunge la particolarità che queste divisioni di
competenze non valgono per i gestori privati di concessioni ferroviarie, poiché
la vecchia legislazione non contemplava l’esistenza di concessioni a privati:
il trattamento legislativo a loro riservato è del tutto simile a quello di una
officina meccanica privata; si deve necessariamente aggiungere un altra
singolarità: spesso le indagini per gli infortuni accaduti nel settore
ferroviario sono svolte dalla Polizia Ferroviaria, invece che dagli ispettori
tecnici del Ministero del lavoro e delle politiche sociali;
-
alle
Regioni, direttamente e non tramite il SSN, quelli del personale che lavora
nella miniere, nelle cave, nelle torbiere e nell’estrazione delle acque
minerali.
A tutto ciò,
si aggiungono le competenze del Ministero dello sviluppo economico (MISE) e quello
della salute. Al primo giungono tutte le segnalazioni di non conformità alle
Direttive di prodotto (in genere dal SSN) che riguardano la sicurezza delle
attrezzature e delle macchine, che le “istruisce” e demanda all’INAIL (oggi,
prima era l’ISPESL) la verifica dell’attendibilità di quanto segnalato e al
Ministero del lavoro e delle politiche sociali il controllo delle modifiche richieste
dal MISE.
Il Ministero
della salute, tramite la sua Direzione generale della prevenzione sanitaria, ha
tra le sue funzioni anche quella della “prevenzione degli infortuni e delle
malattie professionali, ivi incluse le altre competenze sanitarie in materia di
sicurezza nei luoghi di lavoro previste dal Decreto Megislativo 9 aprile 2008,
n.81”.
Che dire,
solo in qualche altro Paese esistono divisioni per grandi settori produttivi,
ad esempio in Finlandia: petrolifero, porti, aeroporti. Ma sempre e comunque,
gli organi sono unici, la legislazione non contempla “zone franche” e
l’autorità di supervisione statale è sempre una sola. Da questa dipendono i
singoli organi.
Solo in
Italia esiste una confusione così estesa e una arretratezza/scoordinamento
legislativo in alcuni settori, sconvolgente: marittimo/portuale e ferroviario.
Forse non è un caso che se si cerca l’organizzazione ispettiva esistente in
Italia nel sito dell’ILO, si troveranno delle scarse informazioni.
Qualche
annotazione sulla parte principale della nostra pubblica amministrazione che si
occupa di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro: i Servizi di prevenzione
e sicurezza negli ambienti di lavoro (SPSAL) delle ASL (cioè del SSN).
Qualcuno
dovrebbe spiegare il perché di questi dati, calcolati dalla fonte ufficiale,
relativi agli SPSAL di tutto il Paese:
Indagini di
polizia giudiziaria per infortuni concluse con contravvenzioni:
-
2012 28,2%
-
2011 36,0%
-
2010 32,1%
-
2009 29,2%
-
2008 30,4%
Indagini di
polizia giudiziaria per malattie professionali concluse con contravvenzioni:
-
2012 8,5%
-
2011 9,1%
-
2010 12,1%
-
2009 19,1%
-
2008 10,6%
Aziende
ispezionate in cui sono state rilevate irregolarità sanzionate:
-
2012 31,8%
-
2011 36,1%
-
2010 33,2%
-
2009 34,0%
-
2008 49,8%
Totale medio
delle violazioni riscontrate da ogni ufficiale di polizia giudiziaria:
-
2012 € 14
913.87 euro
-
2011 € 17
628,27 euro
-
2010 € 19
489,33 euro
-
2009 € 21
057,45 euro
-
2008 € 16
062,06 euro
Secondo me,
sono dati lontani dalla normalità. Lo dico con cognizione di causa.
Sempre dai
rapporti annuali della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome,
rilevo che non vengono mai quantificate le “disposizioni” (istituto previsto
dall’articolo 10 del D.P.R. n. 520 del 19 marzo 1955,) e mi torna in mente una
affermazione fatta dal dottor Beniamino Deidda e contenuta negli atti
“Organizzazione dell’attività inquirente e strumenti per garantire una cultura
specialistica negli uffici giudicanti”, Incontro di studio sul tema tutela
della sicurezza del lavoro – Roma 24 maggio 2007, Consiglio Superiore della
Magistratura, in cui diceva: “Penso all’uso illegittimo della disposizione cui
si è già fatto cenno. Ci sono regioni in cui quest’uso è assai diffuso e sembra
non avere rilievo la circostanza, che in verità appare decisiva, che l’articolo
25 del D.Lgs. 758/94 faccia divieto di utilizzare gli istituti della diffida e
della disposizione nelle contravvenzioni. Ma i servizi di certe regioni
italiane ritengono che la prescrizione sia misura troppo dura nei confronti del
contravventore e allora adottano la più dolce misura della disposizione, una
sorta di avvertimento che entro un certo termine il contravventore deve
mettersi a posto”.
Questa
“prassi”, che dura da tantissimi anni, mi pare che sia materia per la Corte dei Conti.
Intanto, i
morti in mare e nelle ferrovie continuano ad esserci. La legislazione di
settore è inadeguata, scoordinata rispetto al Decreto Legislativo 81 del 2008 e
i sindacati di categoria fanno appelli, petizioni e protestano da anni.
Le malattie
professionali in agricoltura sono cresciute del 141,7% (avete letto bene,
141,7%!) confrontando il 2013 con il 2009. Gli esposti a polveri di legno sono
120.000. Il 62% delle cassiere hanno patologie diagnosticate alle spalle e alle
mani. Esiste il fenomeno diffusissimo e perdurante della “sottonotifica” anche
perché c’è una “evasione degli obblighi di denuncia da parte dei medici” e
“difficoltà diagnostiche nei casi più complessi, pressioni dirette o indirette
da parte dei datori di lavoro sui lavoratori e sugli stessi medici competenti,
soprattutto nelle piccole imprese, per timori di aumento dei premi assicurativi
e azione penale”.
Diverse
Regioni sono ancora inadempienti all’obbligo di censire l’amianto, che risale
al 1992 ed ogni anno ci sono 1.500 morti, ma solo 700 vengono indennizzati.
Di fronte a
questi problemi, anche frutto della frammentarietà e disomogeneità dei
controlli (se ci sono), quando leggo sui rapporti annuali regionali, prefazioni
rassicuranti e auspicanti, da parte di qualche medico, mi chiedo (veramente,
penso di saperlo) perché non è ancora stato realizzato il SINP, il Sistema
Informativo Nazionale per la
Prevenzione? Non è certo la panacea di tutti i mali, ma
sarebbe indispensabile nel sistema frammentato attuale. Invece, diventerebbe
inutile se esistesse una sola agenzia per il controllo delle condizioni del
lavoro, perché questa dovrebbe necessariamente avere tutti i dati utili a
gestire le attività prevenzionistiche e ispettive per conoscere i problemi
della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Dunque, se
vogliamo superare queste “inefficienze”, sarebbe il caso di iniziare a
unificare le competenze che ha lo Stato e, non appena definita la riforma
costituzionale, aggiungere eventualmente anche quelle delle Regioni, cioè del
SSN. Esiste già il “germe” aggregatore (in senso chimico): si chiama INAIL e
tale unificazione rappresenterebbe il naturale completamento di questo ente,
come è avvenuto con l’ISPESL e l’IPSEMA. Insomma, iniziare con una Agenzia
“leggera” che diventi completa non appena possibile. Si può fare da subito e la
delega in scadenza ne è l’occasione. A tale scopo, da oltre un anno esiste un
apposito progetto di legge.
Ovviamente,
per farlo sono necessarie delle risorse umane ed economiche. Quelle umane possono
essere reperite con la mobilità intercompartimentale, ad esempio accettando le
richieste dei tecnici della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro,
oppure di ingegneri, tutti da assegnare al profilo professionale di ispettori
tecnici. Per quelle economiche, premesso che l’Agenzia dovrebbe essere
costituita secondo quanto previsto dal Decreto Legislativo n. 300 del 30 luglio
1999, le risorse posso essere reperite anche dalla modifica dell’articolo 13,
comma 6 del Decreto Legislativo n. 81 del 9 aprile 2008, oltre quanto già
previsto dal D.Lgs.300/99.
Con questi
fatti potremo dare una rispettosa, concreta e piccola risposta, ad esempio, ai
familiari di Giuseppe Toneatti, morto lo scorso 30 marzo nell’esplosione di una
cisterna dell’inceneritore di rifiuti speciali di Spilimbergo (PN), su cui
Stefano Pedica della direzione PD ha dichiarato: “Sulla sicurezza non si deve
mai abbassare la guardia e, anche in tempi di spending review, bisogna
aumentare i fondi per gli ispettorati del lavoro. La morte di un operaio sul
lavoro è un fatto gravissimo che deve impegnare il governo a investire di più
sulla sicurezza, incrementando l’attività ispettiva. E’ doveroso aumentare i
controlli, in quanto sono ancora tanti i posti di lavoro dove si rischia la
vita perché non vengono rispettate le norme. Questo non deve più avvenire e lo
ribadiamo nel giorno in cui, purtroppo, piangiamo l’ennesima morte bianca”.
Massimo Peca
Ispettore
tecnico
Ministero
del lavoro e delle politiche sociali
NB: Le
considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del
pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per
l’Amministrazione di appartenenza.
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