giovedì 7 gennaio 2016

6 gennaio - Sentenza ‘Eternit’. Quando le parole non sono pietre



In questo nostro tempo l’affollarsi delle notizie ne provoca la rapida evaporazione. Quando furono pubblicate le Motivazioni della Sentenza della Corte di Cassazione… 


 OPINIONI - In questo nostro tempo l’affollarsi delle notizie ne provoca la rapida evaporazione.  Quando furono pubblicate le Motivazioni della Sentenza della Corte di Cassazione, la quale aveva dichiarato la prescrizione dei reati attribuiti al miliardario ex industriale svizzero (nato nel 1947) Stephan Schmidheiny, condannato  nei due processi torinesi per il disastro ambientale provocato dall’Eternit a Casale e altrove, alcuni insigni giuristi espressero la loro perplessità di fronte a una sentenza definita quanto meno opinabile. L’uscita del film “Un posto sicuro”, in programmazione al Macallè durante le prossime vacanze, rende necessario un ripasso: da quell’infausto 23 febbraio 2015 sono trascorsi dieci mesi.  Ho pertanto l’intenzione, se ci riuscirò, di commentare parte di quelle Motivazioni;  ho insegnato per quarant’anni educazione civica a scuola, ma sono del tutto ignaro di diritto: per cui ho lo svantaggio di dire sicuramente alcune stupidaggini, ma nel contempo il vantaggio di non essere succube del linguaggio burocratico, la cui vetta è indiscutibilmente costituita da quello giuridico. 
Leggendo da profano le Motivazioni della Sentenza, e ovviamente i commenti dei giornali di allora, ho la sensazione che quasi tutte le argomentazioni utilizzate dall’estensore, senza essere neppure cambiate di segno, avrebbero potuto portare alla decisione opposta. Attenzione, l’imputato non è stato considerato innocente dalla Cassazione, tutt’altro:  mai confondere la prescrizione con l’assoluzione.
Io non ho né la competenza né l’intenzione di accusare nessuno: se nell’articolo che intendo scrivere darò malauguratamente questa impressione, me ne scuso fin d’ora; la mia analisi vorrebbe avere un carattere parzialmente (ma inevitabilmente non solo) linguistico, poiché tutti i processi, dall’inizio alla fine sono fatti di parole, fino alla sentenza compresa.  Naturalmente cercherò di tenere il livello più alto di quello del tifoso nel bar: “Volevo vedere come andava a finire se un industriale italiano faceva in Svizzera quello che quello là ha fatto a Casale, l’ergastolo gli davano”.  Senza alcun pregiudizio; verso il tifoso, naturalmente.
Per spiegare la prospettiva in cui intendo muovermi, riporto uno scritto di Italo Calvino (ammirato da Pier Vincenzo Mengaldo e Tullio De Mauro) del 1965:  sia chi lo conosce sia chi lo ignora, potrà sorriderne. Il pezzo si intitola L’ANTILINGUA (Italo Calvino, Una pietra sopra, Einaudi, Torino,1980, pp.122-26).
Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata”.
Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: “Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante”.
Calvino spiega che ogni giorno, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati, funzionari, gabinetti ministeriali, consigli di amministrazione scrivono parlano pensano nell’antilingua, la cui caratteristica principale è  il “terrore semantico”, cioé la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se fiasco, stufa, carbone fossero parole oscene, come se andare, trovare, sapere indicassero azioni turpi. La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza di un vero rapporto con la vita.  La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione.  Perciò dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato”-  la lingua viene uccisa (con tagli miei).
Se nel verbale il carabiniere di Calvino usa inconsapevolmente un’antilingua a sé commisurata, figuriamoci quanto sia antilingua quella in cui si incarnano la dottrina e la competenza di avvocati e giudici nel processo.   Preciso subito che i linguisti che studiano il linguaggio giuridico sono ormai moltissimi e da loro il termine antilingua, che presumo coniato da Calvino, è adoperato correntemente. Per decenni Sabino Cassese ( prestigioso giudice emerito della Corte Costituzionale, linguista per passione civile) ha provato a , se non eliminare, almeno a ridurre l’antilingua dal linguaggio burocratico, soprattutto giuridico, ottenendo qualche risultato.
Pier Vincenzo Mengaldo analizza così il brano di Calvino (riassumo, con tagli; non me ne voglia il mio maestro): caratteristica fondamentale della lingua burocratica è l’essere trasformazione per alzo di registro e ridondanza, si vorrebbe dire traduzione, della lingua normale. Altro dato fondamentale è (come percepisce immediatamente chiunque legga una sentenza) l’ipertrofia: la trascrizione del brigadiere si gonfia a un solo periodo, con sette subordinate:  L’antirealismo dell’antilingua è dovuto anche alla volontà di celare ai riceventi il vero, nascondendolo sotto il fumo della ridondanza e insignificanza linguistica (Pier Vincenzo Mengaldo, Il Novecento. Storia della lingua italiana, Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 277-280).
Il principale testo di riferimento è di Bice Garavelli Mortara (Le parole e la giustizia, Einaudi, Torino, 2001), alessandrina e moglie di un giudice, massima esperta di linguistica testuale, retorica e stilistica; studio secondo il quale le caratteristiche del linguaggio giuridico sono (ne cito alla rinfusa alcune; gli esempi tra parentesi sono inventati da me): i tecnicismi collaterali: espressioni stereotipiche non necessarie; l’uso sfrenato di cumuli di subordinate indigeste, con ipotassi a oltranza; la defatigante sgradevolezza delle contorsioni sintattiche; il ricorso al dimostrativo “quello”, responsabile di difficoltà ed equivoci; gli elenchi che diventano enumerazioni caotiche; la preferenza per costruzioni negative (la catena dei non: “Non si pensi che non si possa compiere ciò che non si ritiene non sia acconcio”: enunciato tanto impeccabile grammaticalmente quanto insensato); gli iperbati (dell’imputato acclarata la reità); l’ermetismo di formule iniziatiche che contraddice il sacrosanto diritto alla comprensione; il “si” enclitico nei costrutti verbo modale+infinito: deve osservarsi, desumersi, trarsi0, derubricarsi, trattasi (che nella lingua comune sono ridicoli “al bambino deve concedersi il gelato”); l’inversione soggetto verbo: ritiene la Corte, sostiene Pereira; l’anteposizione dell’aggettivo attributivo al nome (la digerita pizza, il bevuto vino); l’abbondanza di participi presenti in sostituzione di una frase relativa (lo stitico diventa: il non defecante); l’uso degli astratti tipico di ogni discorso che verta sui principi, su categorie piuttosto che su accadimenti particolari; la struttura subordinativa che via via si sfalda in un affastellarsi di “che” con funzioni disparate; l’abuso di espressioni latine.
(*) tratto da Città Futura
6/01/2016
Elvio Bombonato - Redazione Appunti Alessandrini - redazione@alessandrianews.it




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