La vittima lavorava in un
cantiere navale-meccanico
di CORRADO
RICCI
La Spezia, 22 marzo 2016 - Dolore, rabbia,
morte e rivalsa giudiziaria. Un rincorrersi di tribolazioni che, sempre più spesso,
approdano al conforto delle sentenze. L’esposizione all’amianto presenta
il conto, dopo 20-30-40 anni dall’insinuarsi della prima fibra killer
nei polmoni. Ma là dove è provata la connessione del mesiotelioma con
l’ambiente di lavoro a rischio e con la mancata adozione, a tempo
debito, di misure protettive, il verdetto arriva, inesorabile, a compensazione
del dolore di chi piange il proprio caro, ucciso dal tumore che è conseguenza
dell’esposizione all’amianto. È di ieri un’altra sentenza che riconosce
il diritto degli eredi di una vittima dell’amianto ad ottenere il risarcimento
del danno per la perdita del congiunto e per il dolore da lui sofferto.
L’ultimo
verdetto riguarda la storia di un lavoratore del comparto navalmeccanico,
con lunghi periodi di servizio nei cantieri, quando le coibentazioni di
vecchia generazione erano a base di amianto: dal 1954 al 1970 all’Inma, dal
1972 al 1975 all’Alinavi spa poi incorporata in Fincantieri, dove lavorò fino
al 1991, quando andò in pensione. Visse ancora 12 anni. Nei primi dieci si
godette il tempo libero. Gli ultimi due, col palesarsi della malattia, furono
un calvario. Esalò l’ultimo travagliato respiro il 16 dicembre del 2003. Aveva
63 anni. Ieri il Giudice del Lavoro Gabriele Romano ha chiuso il cerchio della
giustizia che, dal 2008, è stata impegnata – con citazione in giudizio dei
cantieri da parte di moglie e figlio della vittima – nella ricostruzione del
nesso causale ambiente di lavoro-malattia. In corso di causa Fincantieri ha
rinunciato a puntare i piedi; ha raccolto l’appello del giudice alla
conciliazione: ai ricorrenti è andato un modesto riconoscimento economico. Invitalia
Partecipazione, la società che ha ereditato le spoglie dell’Inma, ha invece
voluto resistere per dimostrare che, poiché non è possibile stabilire la genesi
temporale della malattia, non è possibile risalire a colpe mirate. Il Giudice
del Lavoro ha invece accolto la tesi dei legali che hanno assistito i familiari
della vittima, gli avvocati Chiara Lavagnini e Francesco Persiani del foro di
Massa, con ancoraggio ad una perizia d’ufficio, svolta dal dottor Danilo
Battaglia: le fibre inalate più anticamente e quindi durante il rapporto di
lavoro alla Inma hanno sicuramente svolto un ruolo «patogenetico» più rivelante
rispetto alle fibre inalate successivamente. Risultato: la condanna di
Invitalia spa a risarcire moglie e figlio della vittima per i danni non
patrimoniali patiti dal congiunto (con riconoscimento di 240mila euro a testa)
e per i danni patiti in proprio (e quantificati, ad personam, pari a 163mila
euro). Totale: 806mila euro. Somme su cui ‘caricare’ interessi e rivalutazioni
dalla data della sentenza.
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