Primo Maggio del Terzo Millennio: per i giudici è lecito denunciare su
Facebook le condizioni di lavoro anche quando c'è in ballo la
"credibilità" dell'azienda
Si può usare
Facebook per denunciare, anche con ironia, le condizioni di lavoro. Purché i
disagi siano veri. E’ quanto stabilisce una sentenza della giudice del lavoro
Daniela Paliaga che obbliga l’ASL TO1 a risarcire Tiziana Pistol, una psicologa
che sul social network aveva postato le immagini del degrado della sede dei
consultori di via Monte Ortigara (oggi chiusi) in cui era stata trasferita dal
Martini. I fatti risalgono al 2011, la sentenza è di questi giorni. Quelle foto
e i commenti sarcastici le erano costati una sospensione di sei giorni, con la
trattenuta dallo stipendio di 1.696 euro (l’ASL li ha restituiti dopo la
sentenza). Le era stato contestato di aver postato contenuti “denigratori,
gratuiti e infondati”. A una foto di un cartello messo dall’Asl che, informando
della presenza di amianto nelle pareti, diceva “Respirare polvere di amianto è
pericoloso”, Pistol commentava su Facebook: “Cos’è? Un invito a non respirare
per le nove ore al giorno in cui lavoro qui?”. Ancora, una foto del cartello
“Consultorio, in fondo al corridoio”. E il commento: “Guardate tutto l’album e
vi accorgerete di come la realtà possa superare la fantasia e di quanto Cota
(allora presidente regionale), rispetti la vita”.
Per l’ASL TO1 ce n’è abbastanza per denunciare “un comportamento idoneo a screditare l’azienda agli occhi di terzi”, ovvero gli utenti dei social. La giudice ribatte che la situazione descritta da Pistol sul degrado della struttura, accertata anche da un’ispezione dello Spresal dopo un esposto della stessa psicologa, era vera. “Il tono dei commenti era tra l’ironico e il sarcastico e certamente non li rende graditi all’azienda” – scrive – “ma è francamente incensurabile in chi sia appena stato trasferito in un luogo di lavoro in quelle condizioni”. Non solo: è piuttosto la scritta dell’ASL a lasciare di stucco. Il tono sarcastico è giustificato soprattutto “davanti a un cartello, il cui tenore letterale tipicamente usato per impedire comportamenti pericolosi, come sporgersi, viene utilizzato in relazione a un comportamento involontario ed ineliminabile, quale il respirare”, dice la sentenza.
Paliaga stronca un’altra obiezione: Facebook viola la riservatezza. Trattandosi di un luogo aperto al pubblico, quello che Pistol ha messo in rete “era comunque di per sé visibile da una molteplicità di soggetti”. Perciò non ha violato l’obbligo di fedeltà. Nel frattempo la psicologa ha cancellato il suo profilo e non pensa di riattivarlo adesso: “Ho pensato che è un’arma a doppio taglio, visto che do anche all’azienda modo di controllarmi. Questa vicenda mi è costata l’isolamento dai consultori famigliari, ora sono in un poliambulatorio”. Pistol aveva anche chiesto i danni per aver lavorato in una sede inadeguata e insicura. Qui la giudice non le è andata dietro: “La situazione, pur essendo idonea a giustificare l’iniziale reazione critica, non appare tale da configurare un effettivo pericolo”.
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