venerdì 17 novembre 2017

17 novembre - da M. Spezia: SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! “LETTERE DAL FRONTE” DEL 17/11/17



 INDICE
 Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com
MONSANTO: L’INCHIESTA DI LE MONDE
 Medicina Democratica segreteria@medicinademocratica.org
NEWSLETTER MEDICINA DEMOCRATICA
 Carlo Soricelli carlo.soricelli@gmail.com
REPORT MORTI SUL LAVORO DAL 1 GENNAIO AL 31 OTTOBRE 2017
COMUNICATO STAMPA ANNIVERSARIO TRAGEDIA EURECO

SOLIDARIETA’ CON GLI OPERAI ILVA DI CORNIGLIANO: NO AI LICENZIAMENTI PER I PROFITTI!
LO STATO COME DATORE DI LAVORO

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From: Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com
To:
Sent: Thursday, October 26, 2017 4:25 PM
Subject: MONSANTO: L’INCHIESTA DI LE MONDE

di Stéphane Foucart, Stéphane Horel
Tratto da Le Monde
Tradotto e pubblicato da Internazionale
“In passato siamo già stati attaccati e calunniati, ma questa volta siamo al centro di un’offensiva senza precedenti per portata e durata”.
Christopher Wild si risiede rapidamente e smette di sorridere.
Dal suo ufficio all’ Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) si vedono i tetti di Lione.
Wild, il direttore della IARC, ha soppesato attentamente ogni parola, con la gravità richiesta dalla situazione.
Da due anni, infatti, l’istituzione che dirige è al centro di un duro attacco: la credibilità e l’integrità del suo lavoro sono criticati, i suoi esperti denigrati e attaccati per vie legali, i finanziamenti ostacolati.
Da quasi cinquant’anni, sotto la guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il compito principale della IARC è individuare e catalogare le sostanze cancerogene, ma ora quest’importante istituzione comincia a vacillare sotto il peso degli attacchi.
Le ostilità sono cominciate il 20 marzo 2015.
Quel giorno La IARC annuncia le conclusioni della sua Monografia n. 112 sui possibili effetti cancerogeni di alcuni pesticidi ed erbicidi organofosforici, lasciando tutto il mondo sbalordito.
Al contrario della maggior parte delle agenzie, la IARC considera il diserbante più usato al mondo genotossico (cioè capace di danneggiare il DNA), cancerogeno per gli animali e “probabilmente cancerogeno” per gli esseri umani.
La sostanza in questione, il glifosato, è il principale componente del Roundup, il più importante prodotto di una delle multinazionali più conosciute del mondo: la Monsanto, un mostro sacro dell’agrochimica.
Usato da più di quarant’anni, il glifosato entra nella composizione di almeno 750 prodotti commercializzati da un centinaio di aziende in più di 130 paesi.
Tra il 1974, data del suo lancio sul mercato, e il 2014 il glifosato impiegato nel mondo è passato da 3.200 a 825.000 tonnellate all’anno.
L’aumento spettacolare è dovuto all’adozione sempre più diffusa di semi geneticamente modificati per tollerare questa sostanza, i cosiddetti semi Roundup Ready.
La Monsanto rischia addirittura di non sopravvivere se l’uso di questa sostanza sarà limitato o proibito del tutto. L’azienda statunitense ha sviluppato il glifosato e ne ha fatto la base del suo modello economico.
Ha costruito la sua fortuna vendendo il Roundup e i semi che lo tollerano.
Così, quando la IARC annuncia che il glifosato è “probabilmente cancerogeno”, la Monsanto reagisce con una violenza inaudita.
In un comunicato critica la junk science (scienza spazzatura) della IARC, parla di una “selezione distorta” di “dati limitati”, fatta in base a “motivazioni nascoste”, che portano a una decisione presa solo dopo “qualche ora di discussione nel corso di una riunione di una settimana”.
Mai un’azienda aveva messo in discussione in modo così brutale l’integrità di un’agenzia legata alle Nazioni Unite.
L’offensiva della Monsanto è cominciata, almeno quella che si propone d’influenzare l’opinione pubblica.
In realtà la Monsanto sa bene che questa valutazione del glifosato è stata fatta da un gruppo di esperti dopo un anno di lavoro e dopo una riunione durata diversi giorni a Lione.
Le procedure della IARC prevedono inoltre che le aziende legate al prodotto esaminato abbiano il diritto di assistere alla riunione finale.
Per la valutazione del glifosato, infatti, la Monsanto ha inviato un “osservatore”: l’epidemiologo Tom Sorahan, professore dell’università di Birmingham, nel Regno Unito.
Il rapporto che lo scienziato stila il 14 marzo 2015 per i suoi committenti conferma che tutto si è svolto nei modi previsti.
“Il presidente del gruppo di lavoro, i copresidenti e gli esperti invitati alla riunione sono stati molto cordiali e disposti a rispondere a tutte le mie richieste di chiarimento”, scrive Sorahan in una lettera inviata a un dirigente della Monsanto.
La lettera figura nei cosiddetti Monsanto papers, un insieme di documenti interni dell’azienda che la giustizia statunitense ha cominciato a rendere pubblici all’inizio del 2017 nell’ambito di un procedimento giudiziario in corso.
“La riunione si è svolta rispettando le procedure della IARC”, aggiunge l’osservatore dell’azienda statunitense.
“Il dottor Kurt Straif, il direttore delle monografie, ha una grande conoscenza delle regole in vigore e ha insistito perché fossero rispettate”.
Del resto Sorahan (che non ha risposto alle domande di Le Monde) sembra molto imbarazzato all’idea che il suo nome sia associato alla risposta della Monsanto:
“Non vorrei apparire in alcun documento dell’azienda”, scrive, ma allo stesso tempo offre il suo “aiuto per formulare” l’inevitabile contrattacco che il gruppo organizzerà.
Qualche mese dopo, infatti, tutti gli scienziati non statunitensi del gruppo di esperti della IARC sul glifosato ricevono una lettera inviata da Hollingsworth, lo studio legale della Monsanto, che intima di consegnare tutti i file legati al loro lavoro per la Monografia 112: bozze, commenti, tabelle, tutto quello che è passato attraverso il sistema informatico della IARC.
“Se dovesse rifiutare”, avvertono gli avvocati, “le chiediamo di prendere tutte le misure ragionevoli in suo potere per conservare questo materiale intatto, in attesa di una richiesta formale ordinata da un tribunale degli Stati Uniti”.
“La vostra lettera è intimidatoria e pericolosa”, scrive uno degli scienziati nella sua risposta del 4 novembre 2016. “Trovo la vostra procedura criticabile e priva di ogni riguardo, anche in base agli standard contemporanei”.
Il patologo Consolato Maria Sergi, professore dell’università dell’Alberta, in Canada, aggiunge: “La vostra lettera è dannosa, perché cerca di provocare volutamente ansia e apprensione in un gruppo di studiosi indipendenti”.
Sugli esperti statunitensi del gruppo si esercitano pressioni con altri mezzi, ancora più “intimidatori”. Negli Stati Uniti il Freedom Of Information Act (FOIA), la legge sulla libertà d’informazione, permette a qualunque cittadino, nel rispetto di determinate condizioni, di chiedere l’accesso ai documenti prodotti dalle istituzioni e dai loro funzionari, come gli appunti, le email e i rapporti interni.
Secondo le informazioni in possesso di Le Monde, gli studi legali Hollingsworth e Sidley Austin presentano cinque richieste.
La prima nel novembre del 2015 ai National Institutes of Health (NIH), l’agenzia del dipartimento della salute statunitense a cui appartengono due esperti del gruppo.
Per gli altri ricercatori vengono fatte richieste all’Agenzia Californiana per la Protezione dell’Ambiente (CalEpa), alla Texas A&M University e all’Università Statale del Mississippi.
In seguito alcune di queste istituzioni sono addirittura citate dagli avvocati della Monsanto nei procedimenti giudiziari sul glifosato e sono costrette a consegnare alcuni documenti interni.
L’obiettivo di queste manovre intimidatorie è far tacere le critiche?
Alcuni scienziati di fama mondiale, di solito disponibili a parlare con i mezzi d’informazione, hanno preferito non rispondere a Le Monde, nemmeno attraverso semplici incontri informali.
Altri hanno accettato di parlare per telefono su una linea privata e fuori dagli orari d’ufficio.
I parlamentari statunitensi non hanno bisogno di fare ricorso al FOIA per chiedere informazioni alle istituzioni scientifiche federali.
Il repubblicano Jason Chafetz, che presiede la commissione della camera statunitense per il controllo e la riforma dello stato, scrive al direttore dei NIH, Francis Collins, il 26 settembre 2016.
Gli ricorda che le scelte della IARC “hanno suscitato molte polemiche” e che, nonostante un “passato ricco di polemiche, ritrattazioni e incoerenze”, l’istituto beneficia di “significativi finanziamenti pubblici” statunitensi attraverso l’agenzia.
In effetti 1,2 milioni di euro sui 40 milioni del bilancio annuale della IARC provengono dal NIH.
Il deputato chiede quindi a Collins chiarimenti e giustificazioni sulle spese dell’agenzia legate alla IARC.
Il giorno stesso quest’iniziativa viene elogiata dall’American Chemistry Council (ACC), la potente lobby dell’industria chimica statunitense di cui fa parte anche la Monsanto: “Speriamo che sia fatta luce sulla stretta e opaca relazione” tra la IARC e le istituzioni scientifiche statunitensi, si legge in un documento.
Senza dubbio l’ACC ha trovato in Chafetz un alleato prezioso.
Già nel marzo del 2015 il deputato repubblicano aveva scritto alla direzione di un altro organismo di ricerca federale (il National Institute of Environmental Health Sciences) per chiedergli informazioni sulle ricerche relative agli effetti nocivi del bisfenolo A, un elemento molto diffuso in alcune plastiche.
Nei mesi successivi alla pubblicazione della Monografia 112 la Croplife International, l’organizzazione che difende a livello mondiale gli interessi dei produttori di pesticidi e sementi,
contatta i rappresentanti di alcuni dei 25 paesi riuniti nel consiglio direttivo della IARC per lamentarsi della qualità del lavoro dell’agenzia.
Il problema è che questi “stati partecipanti” contribuiscono per circa il 70 per cento al bilancio dell’istituto.
Secondo la IARC, vengono contattati almeno Canada, Paesi Bassi e Australia. Nessuno dei rappresentanti di questi paesi ha voluto rispondere a Le Monde.
Nella saga del glifosato appaiono anche alcuni personaggi che sembrano usciti da un romanzo di John Le Carré.
Nel giugno del 2016 un uomo che si presenta come giornalista, ma che non è iscritto ad alcun albo professionale, partecipa alla conferenza organizzata dalla IARC a Lione per il suo cinquantesimo anniversario. Contattando scienziati e funzionari internazionali, parla con molte persone della IARC dei suoi finanziamenti, del suo programma di monografie.
“Mi ha fatto pensare a quelle persone ambigue che s’incontrano negli ambienti delle organizzazioni umanitarie. Non si sa chi sono, ma si capisce che cercano di ottenere informazioni”, ha raccontato una delegata della conferenza che ha preferito mantenere l’anonimato.
Alla fine di ottobre del 2016 l’uomo si fa rivedere, questa volta alla conferenza annuale organizzata dall’Istituto Ramazzini, un famoso e rispettato istituto di ricerca indipendente sul cancro con sede a Bologna.
Perché al Ramazzini?
Forse a causa di un annuncio fatto qualche mese prima dall’istituto italiano su uno studio sul potere cancerogeno del glifosato.
Il presunto giornalista si chiama Christopher Watts e fa domande sull’autonomia dell’istituto e sulle sue fonti di inanziamento.
Dal momento che usa una e-mail che termina con “@economist.com”, i suoi interlocutori non mettono in dubbio il suo legame con il prestigioso settimanale britannico The Economist.
Agli scienziati che gli chiedono spiegazioni dice di lavorare per l’Economist Intelligence Unit, una società di ricerca e analisi del gruppo Economist.
L’Economist Intelligence Unit ha confermato che Watts ha realizzato diversi rapporti per l’azienda, ma ha sottolineato di non “sapere a che titolo assisteva” alle due conferenze: “In quel periodo lavorava su un articolo per l’Economist che alla fine non è stato pubblicato”.
La redazione del settimanale, però, sostiene di non avere “alcun giornalista con questo nome”.
L’unica cosa chiara è il nome di un’azienda creata da Watts alla fine del 2014, la Corporate Intelligence Advisory Company. Watts, che secondo alcuni documenti amministrativi risiede in Albania, non ha voluto rispondere alle domande di Le Monde.
In pochi mesi almeno cinque persone si presentano come giornalisti, ricercatori indipendenti o assistenti di studi legali per avvicinare gli scienziati della IARC e i ricercatori che collaborano ai suoi lavori.
Tutti cercano informazioni molto precise sulle procedure e sui finanziamenti dell’istituto.
Uno di loro, Miguel Santos-Neves, che lavora per la Ergo, una società di spionaggio economico con sede a New York, è stato incriminato dalla giustizia statunitense per aver usato un’identità falsa.
Come ha raccontato il New York Times nel luglio del 2016, Santos-Neves indagava per conto di Uber su una persona in causa con l’azienda di trasporto privato e aveva interrogato i suoi colleghi di lavoro con falsi pretesti.
La Ergo non ha risposto alle domande di Le Monde.
Come Watts, anche due organizzazioni dalla dubbia reputazione cominciano a interessarsi non solo alla IARC, ma anche all’Istituto Ramazzini.
L’Energy and Environmental Legal Institute (E&E Legal) si presenta come un’organizzazione no profit che ha tra le sue missioni quella di “chiedere spiegazioni a chi aspira a una regolamentazione governativa eccessiva e distruttiva, fondata su decisioni politiche dalle intenzioni subdole, sulla scienza spazzatura e sull’isteria”.
La Free Market Environmental Law Clinic, invece, “cerca di fornire un contrappeso al cavilloso movimento ambientalista, che promuove negli Stati Uniti un regime regolamentare economicamente distruttivo”.
Secondo alcuni elementi a disposizione di Le Monde, queste organizzazioni hanno presentato almeno 17 richieste di documenti ai NIH e alla Environmental Protection Agency (EPA), l’agenzia del governo statunitense per la tutela dell’ambiente.
Impegnate in un’aggressiva guerriglia giudiziaria e burocratica, chiedono la corrispondenza di diversi funzionari statunitensi in cui siano “contenuti i termini IARC, glifosato, Guyton” (Kathryn Guyton è la scienziata della IARC responsabile della Monografia n.112).
Inoltre chiedono tutti i dettagli sulle borse di studio, le sovvenzioni e le relazioni, finanziarie o meno, tra questi organismi statunitensi, la IARC, alcuni scienziati e l’Istituto Ramazzini.
Le due organizzazioni sono dirette da David Schnare, uno scettico del cambiamento climatico noto per aver fatto forti pressioni su diversi climatologi.
Nel novembre del 2016 Schnare lascia temporaneamente la E&E Legal per unirsi allo staff di Donald Trump.
Tra i dirigenti dell’organizzazione c’è anche Steve Milloy, un famoso esperto di marketing legato all’industria del tabacco.
Alle domande sulle motivazioni di questa associazione e sulle sue fonti di finanziamento, il presidente della E&E Legal ha risposto per email: “Salve, non siamo interessati”.
La notizia di queste richieste di documenti viene ripresa da alcuni mezzi d’informazione.
Per esempio da The Hill, un sito molto seguito dai protagonisti della vita parlamentare a Washington.
Il sito è curato da una squadra di giornalisti che, come ha documentato l’organizzazione non profit Us Right to Know (USRTK), ha legami consolidati con l’industria agrochimica e con istituzioni conservatici come lo Heartland Institute o il George C. Marshall Institute, entrambi impegnati nel negare i cambiamenti climatici.
Nei loro articoli compaiono gli stessi argomenti e talvolta le stesse espressioni: si critica la “scienza approssimativa” di una IARC indebolita da conflitti d’interesse e “molto criticata”, anche se non dice mai da chi.
Gli avvocati coinvolti nei processi in corso negli Stati Uniti hanno rivelato che la Monsanto ha usato mezzi anche più discreti.
Rispondendo sotto giuramento alle domande dei difensori di persone malate che attribuiscono il loro tumore al Roundup, alcuni responsabili dell’azienda hanno parlato di un programma segreto chiamato “Let nothing go” (Non lasciar passare niente), che aveva l’obiettivo di rispondere a tutte le critiche.
I verbali di queste audizioni sono stati secretati, ma alcuni appunti trasmessi dagli studi legali coinvolti nelle inchieste permettono di avere qualche informazione.
Secondo queste note, la Monsanto avrebbe fatto ricorso ad aziende che “usano delle persone in apparenza senza legami con la multinazionale per lasciare commenti sugli articoli online e sui post di Facebook favorevoli alla Monsanto, ai suoi prodotti chimici e agli OGM”.
Nei mesi successivi la coalizione contro la IARC diventa ancora più forte.
Alla fine di gennaio del 2017, alcuni giorni dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, l’American Chemistry Council apre un nuovo fronte sui social network, lanciando una “campagna per l’accuratezza della ricerca nella sanità pubblica”.
L’obiettivo è ottenere una “riforma” del programma delle monografie della IARC.
Su un sito creato appositamente e su Twitter, la potente lobby della chimica non va tanto per il sottile: “Un pezzo di bacon o di plutonio? Per la IARC è la stessa cosa”.
Il testo è accompagnato da un fotomontaggio che mostra due cilindri verdi fosforescenti accanto a delle uova fritte con il bacon.
In quel periodo, nell’ottobre del 2015, la IARC aveva definito gli insaccati “cancerogeni” e la carne rossa “probabilmente cancerogena”, proprio come il glifosato.
Forse, grazie ai legami con i collaboratori più stretti di Trump, le industrie chimiche e agrochimiche pensano di essere onnipotenti.
Del resto Nancy Beck, la direttrice dell’American Chemistry Council, è la responsabile dei servizi per la regolamentazione dei prodotti chimici e dei pesticidi dell’Epa, l’autorità statunitense che dovrebbe riesaminare il dossier sul glifosato.
Andrew Liveris, amministratore delegato della Dow Chemical, è stato nominato da Trump in persona alla direzione della Manufacturing jobs initiative, un gruppo di esperti che consiglia il presidente sull’occupazione nel settore manifatturiero.
Alla fine di marzo il deputato repubblicano Lamar Smith, presidente della commissione della camera dei rappresentanti statunitense sulla scienza, lo spazio e la tecnologia, rivolge un’interrogazione al ministro della sanità, Tom Price, sui legami finanziari tra il National institute of environmental health sciences (Niehs) e il Ramazzini.
Il suo obiettivo è “sincerarsi che i beneficiari delle sovvenzioni rispondano ai più alti standard d’integrità scientifica”.
La richiesta del parlamentare è bastata a due giornalisti vicini all’industria, Julie Kelly e Jef Stier, per trasformare l’iniziativa in “un’inchiesta del congresso” su “un’oscura organizzazione”, il Ramazzini.
Subito dopo l’interrogazione, Kelly e Stiefer pubblicano sulla National Review un articolo che attacca Linda Birnbaum, la direttrice del Niehs, accusandola di promuovere un programma “chemiofobico”.
Invece Christopher Portier, ex vicedirettore del Niehs, che ha seguito i lavori della IARC come “specialista invitato”, viene definito un “noto militante anti-glifosato”.
Secondo l’articolo sia Birnbaum sia Portier “fanno parte del Ramazzini”.
Per Kelly e Stier questo sarebbe “un ulteriore esempio del modo in cui la scienza è stata politicizzata”.
L’informazione viene anche ripresa da Breitbart News, il sito di estrema destra fondato da Steve Bannon, il consigliere strategico di Trump.
Definire il Ramazzini “un’oscura organizzazione” o una “sorta di Rotary club per scienziati militanti” è quanto meno ignoranza, se non una menzogna.
Fondato nel 1982 da Irving Selikof e Cesare Maltoni, due grandi medici della sanità pubblica, il Collegium Ramazzini è un’accademia di 180 scienziati specializzati nella sanità ambientale e professionale.
Linda Birnbaum e Christopher Portier ne fanno parte, così come il direttore del programma delle monografie della IARC, Kurt Straif, e altri quattro esperti del gruppo di lavoro della Monografia n. 112, ognuno nel suo settore di competenza.
Sono tutti scienziati di alto livello.
Nel maggio del 2016 il Ramazzini ha avviato uno studio di tossicologia a lungo termine sul glifosato.
Questo ha ovviamente attirato molte critiche sull’istituto, noto per la sua competenza in materia di tumori.
La responsabile delle ricerche del Ramazzini, Fiorella Belpoggi, è una delle poche specialiste ad aver accettato di parlare con Le Monde.
“Non siamo molti”, ha detto. “Abbiamo pochi soldi, ma siamo bravi scienziati e non abbiamo paura”.
Molto probabilmente gli attacchi al Ramazzini e alla IARC continueranno anche in futuro, perché altri prodotti chimici figurano nella lista delle “priorità” della IARC, come alcuni pesticidi, il bisfenolo A e l’aspartame.
Il Niehs è uno dei principali finanziatori della ricerca sulla tossicità del bisfenolo A, mentre lo studio che per primo ha parlato delle proprietà cancerogene dell’aspartame è stato realizzato diversi anni fa proprio dal Ramazzini.
“Prima di queste polemiche non me n’ero resa conto”, osserva Belpoggi, “ma se dovessimo sbarazzarci della IARC, del Niehs e del Ramazzini, rinunceremmo a tre simboli dell’indipendenza della scienza”.
Intanto, a cominciare dal 20 marzo 2015, la rabbia della Monsanto ha attraversato discretamente l’oceano Atlantico.
Quel giorno una lettera, una vera e propria dichiarazione di guerra, arriva a Ginevra, in Svizzera, presso l’Organizzazione mondiale della Sanità, da cui dipende la IARC.
L’intestazione della lettera mostra il celebre ramo verde all’interno di un rettangolo arancione, il logo della Monsanto.
“Ci sembra di capire che la IARC abbia deliberatamente scelto d’ignorare decine di studi e di valutazioni regolamentari, disponibili pubblicamente, secondo cui il glifosato non comporta rischi per la salute umana”, scrive Philip Miller, il vicepresidente della Monsanto incaricato delle questioni legali.
Nella lettera il manager chiede un “appuntamento urgente” per discutere delle “misure da prendere immediatamente per rettificare questa ricerca e queste conclusioni molto discutibili”.
Miller intende inoltre chiarire i criteri di selezione degli esperti e analizzare i “documenti contabili in cui figurano i finanziamenti destinati alla classificazione del glifosato da parte della IARC e i donatori”.
A quanto pare i ruoli si sono rovesciati: ormai è la IARC che deve giustificarsi di fronte alla Monsanto. Nell’estate del 2015 la CropLife International prosegue questa politica intimidatoria, in cui le ingerenze si mescolano alle minacce velate.
Per la IARC non è il primo momento difficile.
Non è la prima volta che deve affrontare critiche e attacchi. Anche se non hanno alcun effetto sulle normative che regolano l’industria, le sue valutazioni minacciano interessi commerciali a volte enormi.
Fino a quel momento il precedente più importante riguardava i pericoli del fumo passivo, valutati dalla IARC alla fine degli anni novanta.
Ma anche all’epoca dei grandi scontri con i giganti del tabacco, gli scambi erano sempre rimasti corretti. “Lavoro alla IARC da quindici anni e non ho mai visto niente di simile a quello che è successo negli ultimi due”, dice Kurt Straif, il responsabile delle monografie dell’agenzia.
(Continua)

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To:
Sent: Monday, October 23, 2017 12:43 PM
Subject: NEWSLETTER MEDICINA DEMOCRATICA


GRAVISSIME LE DICHIARAZIONI DI GALLERA
Medicina Democratica e “37e2”, la trasmissione di Radio Popolare sulla salute, reagiscono alle dichiarazioni dell’assessore Gallera.
Gravissime le dichiarazioni di Gallera: non dice la verità e cerca di intimidire i medici.
Abbiamo dato mandato ai nostri avvocati di valutare gli estremi per una denuncia.
Quanto affermato dall’assessore alla sanità, Giulio Gallera, è grave e non corrisponde alla verità.
La vicenda, riportata oggi da un quotidiano milanese, è questa: un medico affigge una nota nel suo studio nel quale invita i suoi pazienti a rifiutare la proposta della Regione Lombardia di affidare la cura delle loro patologie croniche ad un “gestore” anziché al medico di famiglia. Tra qualche settimana infatti la Regione invierà a tutti i malati cronici una lettera con tale proposta e i cittadini coinvolti dovranno scegliere se restare in cura preso il loro medico anche per le patologie croniche oppure no.
Il medico in questione ha semplicemente anticipato i contenuti che noi stessi invieremo a tutti i medici di famiglia lombardi suggerendo loro di informare i loro pazienti dei rischi che correranno se scegliessero di affidarsi ad un gestore.
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VIDEO E DOCUMENTI DAL FORUM INTERNAZIONALE PER IL DIRITTO ALLA SALUTE E L’ACCESSO ALLE CURE
Pubblichiamo il documento finale del Forum internazionale per il diritto alla salute e l’accesso alle cure tenutosi quest’oggi a Milano.
Nei prossimi giorni saranno pubblicati tutti i video degli interventi.
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RIVISTA MEDICINA DEMOCRATICA NUMERI 231-232
Medicina Democratica Onlus mette a disposizione i numeri 231-232 della rivista.
Ricordiamo che la nostra associazione, per le diverse azioni e iniziative che realizza, si basa sul solo lavoro totalmente gratuito reso dai propri volontari e simpatizzanti.
La copertura dei costi vivi delle iniziative (fra cui la produzione della rivista) sono possibili solo attraverso le quote di iscrizione (adesione) alla associazione Medicina Democratica Onlus, a contributi volontari e alla quota del 5 per mille.
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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N. 289 DEL 07/11/17
Le “Frequently Asked Questions” di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights! – N.23
Mobbing: in arrivo fino a 3 anni di carcere e 20.000 euro di multa
Rischio elettrico: lavori sotto tensione e lavori non elettrici
Metodologia per la valutazione e gestione del rischio stress lavoro-correlato
Imparare dagli errori: i parapetti e le cadute dall’alto
I controlli degli impianti elettrici: l’articolo 86 del D.Lgs. 81/08
Alternanza scuola-lavoro: sorveglianza, compiti e responsabilità
Leggi tutto al link:
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Sent: Wednesday, November 01, 2017 7:53 PM
Subject: REPORT MORTI SUL LAVORO DAL 1 GENNAIO AL 31 OTTOBRE 2017


Dall’inizio dell’anno sono morti 566 “Nessuno”. Sono i lavoratori morti per infortuni sul lavoro dimenticati e che spariscono in parte da ogni statistica.
Domani, giorno dei nostri morti, ricordiamoci di dire una preghiera per quelli dimenticati: dei tanti “Nessuno”. Che Papa Francesco apra il cuore e il cervello dei nostri politici e Amministratori che mai si occupano dei caduti sul lavoro sul lavoro: chi non è credente si ricordi con un pensiero di queste vittime dell’indifferenza. In questi dieci anni di monitoraggio dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro i morti sul lavoro non sono calati, ma sono addirittura aumentati.
Dall’inizio dell’anno sono morti sui luoghi di lavoro 566 lavoratori: con i morti sulle strade e in itinere con il mezzo di trasporto, si superano i 1.150 morti complessivi. Gli agricoltori schiacciati dal trattore sono come tutti gli anni il 20% di tutti i morti sui luoghi di lavoro. L’agricoltura, come tutti gli anni, supera abbondantemente il 30% di tutti i morti sul lavoro. Oltre il 25% di tutti i morti sui luoghi di lavoro hanno più di 60 anni. Gli edili superano il 20% di tutti i morti sul lavoro. La maggioranza di queste vittime cadono dall’alto; dai tetti e dalle impalcature. Nelle aziende dove è presente il sindacato le morti sono quasi inesistenti: le poche vittime nelle fabbriche che superano i 15 dipendenti sono per la stragrande maggioranza lavoratori che lavorano in aziende appaltatrici nell’azienda stessa: spesso manutentori degli impianti. La Legge Fornero ha fatto aumentare le morti sul lavoro tra gli ultra sessantenni. Gli stranieri morti per infortunio, sono oltre il 10% dall’inizio dell’anno, è così tutti gli anni. Il 30% dei morti sul lavoro spariscono ogni anno dalle statistiche. Tra l’altro e in ogni caso i morti sui luoghi di lavoro monitorati dall’Osservatorio sono sempre molti di più di quelli monitorati dell’INAIL.
REPORT MORTI SUL LAVORO DAL 1 GENNAIO AL 31 OTTOBRE 2017
Morti nelle Regioni e Province italiane nel 2017 per ordine decrescente a oggi sono esclusi dalle province i morti sulle autostrade e all’estero.
I morti segnalati nelle Regioni sono solo quelli sui luoghi di lavoro. Con le morti sulle strade e in itinere gli infortuni mortali In questo momento sono stati superati, con i morti col mezzo di trasporto oltre 1.150 lavoratori complessivi.
LOMBARDIA 56: Milano 10, Bergamo 8, Brescia 9, Como 1, Cremona 1, Lecco 5, Lodi 2, Mantova 3, Monza Brianza 4, Pavia 6, Sondrio 5, Varese 2.
VENETO 52: Venezia 5, Belluno 2, Padova 5, Rovigo 7, Treviso 11, Verona 12, Vicenza 10.
CAMPANIA 42: Napoli 15, Avellino 6, Benevento 3, Caserta 8, Salerno 10.
EMILIA ROMAGNA 40: Bologna 3, Ferrara 6, Forlì Cesena 4, Modena 5, Parma 6, Ravenna 8, Reggio Emilia 5, Piacenza 3.
ABRUZZO 38: L’Aquila 9, Chieti 9, Pescara 12, Teramo 8.
SICILIA 35: Palermo 5, Agrigento 8, Caltanissetta 1, Catania 4, Enna 2, Messina 1, Ragusa 5, Siracusa 1, Trapani 8.
PIEMONTE 32: Torino 9, Alessandria 2, Asti 3, Biella 2, Cuneo 11, Novara 1, Verbano Cusio Ossola 1, Vercelli 4.
TOSCANA 29: Firenze 4, Grosseto 6, Livorno 3, Lucca 2, Massa Carrara 1, Pisa 6, Pistoia 3, Siena 1, Prato 3.
LAZIO 29: Roma 8, Viterbo 8, Frosinone 5, Latina 8.
PUGLIA 26: Bari 4, Barletta Adria Terni 1, Brindisi 5, Foggia 6, Lecce 7, Taranto 1.
CALABRIA 23: Catanzaro 2, Cosenza 9, Crotone 2, Reggio Calabria 5, Vibo Valentia 5.
MARCHE 13: Ancona 2, Macerata 1, Fermo 1, Pesaro Urbino 6, Ascoli Piceno 3.
UMBRIA 14: Perugia 11, Terni 3.
LIGURIA 13: Genova 4, Imperia 2, La Spezia 2, Savona 5.
SARDEGNA 13: Cagliari 4, Oristano 3, Sassari 6, Sulcis Inglesiente 1.
TRENTINO ALTO ADIGE 10: Trento 3, Bolzano 7.
FRIULI VENEZIA GIULIA 9: Trieste 2, Gorizia 1, Udine 6.
MOLISE 7: Campobasso 4, Isernia 3.
BASILICATA 3: Potenza 1, Matera 2.
VALLE D’AOSTA 1: Aosta 1.
I morti sulle autostrade e all’estero non sono a carico delle province
REPORT MORTI SUL LAVORO NELL’INTERO 2016
Nel 2016 sono morti 641 lavoratori sui luoghi di lavoro e oltre 1.400 se si considerano i morti sulle strade e in itinere: stima minima per l’impossibilità di conteggiare i morti sulle strade delle partite IVA individuali e dei morti in nero e di altre innumerevoli posizioni lavorative, ricordando che solo una parte degli oltre 6 milioni di partite IVA individuali sono assicurate all’INAIL. L’unico parametro valido per confrontare i dati dell’INAIL e di chi li utilizza per fare analisi, e dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro sono i morti per infortuni INAIL senza mezzo di trasporto, e confrontare quanti ne registra in più l’Osservatorio. Si ha così il numero reale delle morti per infortuni sui luoghi di lavoro in Italia e non solo degli assicurati INAIL.
Se uno guarda superficialmente i dati dei morti sul lavoro si entra in uno stato confusionale. Sono reali quelli dell’Osservatorio o quelli dell’INAIL? A prima vista sembrano di più quelli dell’INAIL, ma occorre ricordare che quelle diffuse dall’INAIL sono denunce e non riconoscimento delle morti che questo istituto dello Stato analizzerà in secondo. Dopo diversi mesi dell’anno successive l’INAIL diffonde il numero di morti per infortuni riconosciuti come tali, sono mediamente il 30% in meno ogni anno. Resuscitano? No, è che tante di queste morti sono in itinere o di non assicurati all’INAIL, o in nero, oppure di non loro pertinenza. Oppure di agricoltori schiacciati dal trattore che sono ben 128 dall’inizio dell’anno e 526 da quando abbiamo come Ministro delle Politiche Agricole Martina. E questa la vera emergenza di cui nessuno si occupa. Un morto su 5 sui LUOGHI DI LAVORO se si sommano tutte le categorie, è provocata dal trattore. Comunque se si guardano i dati complessivi comparati, quelli diffusi dall’INAIL, sono ovviamente molto meno delle morti di questo Osservatorio che monitora tutti i morti sui luoghi di lavoro da ben dieci anni, indipendentemente dal lavoro svolto o dall’assicurazione di riferimento. Se si confrontano con quelli dell’INAIL occorre sempre ricordare che nelle denunce pervenute all’INAIL ci sono anche i morti sulle strade e in itinere che sono ogni anno dal 50 al 55% di tutte le morti sul lavoro.
Se si vuole fare una comparazione vera occorre confrontare i morti senza mezzi di trasporto dell’INAIL con quelli sui LUOGHI DI LAVORO dell’Osservatorio.
L’anno scorso in Europa sono stati 10.000 i lavoratori morti mentre andavano o tornavano dal lavoro (indagine europea). Tantissime le donne sovraccaricate sul posto di lavoro, oltre che dal carico famigliare e dai lavori domestici. Quando in itinere sono alla guida di un’automobile hanno spesso incidenti anche mortali. Molti infortuni poi non vengono riconosciuti come tali a causa della normativa specifica dell’itinere. E quando andate a vedere ogni anno le denunce per infortuni pervenute all’INAIL vi accorgete che poi successivamente non vengono riconosciute come morti sul lavoro mediamente il 30/40% delle denunce per infortuni mortali. Occorre ricordare che anche quest’anno, come i precedenti, che un lavoratore su cinque muore schiacciato dal trattore che guida. Ma con questa casta parlamentare, nessuno escluso, parlare della vita di chi lavora e come parlare di niente. Le percentuali delle morti nelle varie categorie sono sempre quelle tutti gli anni. L’agricoltura ha sempre più del 30% delle morti sul totale, segue l’edilizia che supera ogni anno il 20%. Poi l’industria e l’autotrasporto che si contendono sempre il terzo e quarto posto in questa triste classifica. Ma queste due categorie sono sempre sotto il 10%, nonostante milioni di addetti e questo, per fortuna, abbiamo ancora sindacati che esercitano controlli sulla Sicurezza. Gli stranieri morti per infortuni sui luoghi di lavoro sono in questo momento il 10% sul totale. E’ spaventoso pensare che i nostri giovani non trovano lavoro e si è innalzata l’età per andare in pensione di molti anni anche a chi svolge lavori pericolosi. Anche quest’anno il 31% dei morti sui luoghi di lavoro ha dai 61 anni in su.
LE MORTI VERDI PROVOCATE DAL TRATTORE
Strage continua, sono già 128 dall’inizio dell’anno gli agricoltori morti schiacciati dal trattore. A questi occorre aggiungere tanti altri che sono morti perché trasportati a bordo (anche bambini) o per le strade a causa di incidenti provocati da questo mezzo. Da quando nel 2014 si insediò il Governo Renzi, poi Gentiloni abbiamo come ministro delle Politiche Agricole Martina, sono morti in modo così atroce ben 526 guidatori di questo mezzo mortale. Anche quest’anno oltre il 20% dei morti per infortuni su di tutte le categorie sono provocate da questo mezzo. ASSURDO che la politica non se ne occupi. ASSURDO tra l’altro che il Parlamento pochi mesi fa ha rinviata per l’ennesima volta la legge europea che obbliga chi giuda questo sterminatore di agricoltori a sottoporsi a un esame che ne verifichi l’idoneità alla guida. Una legge del 2002. Occorrerebbe (ma lo scriviamo da tanti anni senza nessun risultato) che chi ci governa faccia una campagna informativa sulla pericolosità del mezzo. E chi di dovere metta a disposizione forti incentivi per mettere in sicurezza i vecchi trattori.
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Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro

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To:
Sent: Saturday, November 04, 2017 4:35 PM
Subject: COMUNICATO STAMPA ANNIVERSARIO TRAGEDIA EURECO


Buongiorno.
A seguire comunicato stampa del Comitato in ricordo delle Vittime del terribile incendio dell’Eureco di Paderno Dugnano nel settimo Anniversario della Tragedia.
4 novembre 2010 ore 15,30 in una fabbrica di stoccaggio rifiuti pericolosi, l’Eureco di Paderno Dugnano, scoppia un terribile incendio, 4 lavoratori perdono la vita e altri 4 rimangono feriti. Incendio causato dalla totale inosservanza di misure di sicurezza inoltre l’azienda miscelava in modo fraudolento rifiuti pericolosi.
Il titolare, Giovanni Merlino, è stato condannato a 5 anni di reclusione, una pena davvero irrisoria mentre le famiglie delle vittime e i lavoratori superstiti versano a tutt’oggi in condizioni disagevoli, infatti solo due lavoratori (che erano assunti direttamente dall’azienda) sono stati risarciti, mentre gli altri lavoratori che erano in forza a una cooperativa, sono ancora in attesa di una sentenza del Giudice in una controversa diatriba legale che coinvolge l’Eureco e l’assicurazione Carige, la quale non vuole risarcire i dipendenti indiretti dell’azienda che sono a tutt’oggi senza lavoro e quindi senza reddito.
Nel frattempo Merlino vende la fabbrica e l’Eureco diventa “Nuova Tecnologia e Ambiente” la quale ottiene da parte della città Metropolitana milanese, tutte le autorizzazioni per le stesse attività di smaltimento di rifiuti pericolosi.
Il nostro Comitato insieme ad associazioni, cittadini e alcune forze politiche, ha messo in campo svariate iniziative contro l’apertura di un nuovo sito con la medesima attività nell’area ex Eureco, una scelta che oltre a essere irrispettosa nei confronti delle vittime è irresponsabile, vista l’ubicazione dell’area prospiciente al canale Villoresi e alla superstrada Milano Meda.
Proprio un anno fa l’Amministrazione Comunale Padernese con l’apporto prezioso dell’Associazione Medicina Democratica che ha fornito un aiuto tecnico importante, ha fatto ricorso al TAR contro le autorizzazioni di Città Metropolitana.
Nel mese di agosto la sentenza del TAR dichiara la sospensione delle autorizzazioni, di conseguenza il nuovo impianto di fatto, non potrà iniziare l’attività di smaltimento rifiuti.
Sono trascorsi 7 anni da quel tragico giorno, e noi non dimentichiamo Harun Zeqiri, Leonard Shehu, Salvatore Catalano, e Sergio Scapolan, sono vittime di un processo produttivo malato, ignorante e centrato esclusivamente sul massimo profitto.
Il nostro impegno continua in difesa del diritto alla sicurezza nei luoghi di lavoro, un diritto sempre più messo in pericolo da politiche scellerate liberiste, che tolgono diritti ai lavoratori e che poi nei tribunali assolvono dirigenti e imprenditori responsabili delle morti sul lavoro, e di lavoro, di migliaia di lavoratori nonostante le prove schiaccianti.
Il nostro impegno continuerà anche nel seguire la vicenda della nuova società di smaltimento rifiuti e per quanto possibile continueremo a seguite la situazione degli ex lavoratori.

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To:
Sent: Monday, November 06, 2017 9:41 PM
Subject: SOLIDARIETA’ CON GLI OPERAI ILVA DI CORNIGLIANO: NO AI LICENZIAMENTI PER I PROFITTI!


L’assemblea degli operai dell’ILVA di Cornigliano ha deciso nella mattina di oggi 6 novembre lo sciopero a oltranza e l’occupazione della fabbrica, giudicando insufficienti le garanzie del governo Gentiloni-Renzi rispetto al piano di 4.000 tagli, di cui 600 a Genova, presentato dal monopolio dell’acciaio AmInvestCo.
Un piano che cancella l’accordo di programma e prevede che tutti gli operai devono passare dal licenziamento per una riassunzione con salari più bassi e senza le tutele degli accordi precedenti, grazie all’applicazione del Jobs Act antioperaio.
Questo piano è un aspetto della guerra globale che il capitale muove contro il lavoro per aumentare lo sfruttamento e la precarietà.
Ci vogliono rovinare, portare alla fame e alla disperazione. Bene hanno fatto gli operai ILVA di Cornigliano a dare una risposta di lotta dura per dimostrare che non si deve accettare il moderno schiavismo.
Dopo una giornata di forte mobilitazione, che ha visto prima un corteo interno alla fabbrica, poi un blocco stradale, i lavoratori hanno allestito una tenda davanti all’ingresso della portineria, che resterà per tutta la durata dell’occupazione della fabbrica. Si prevedono altre manifestazioni.
Gli operai ILVA con la loro lotta rappresentano gli interessi di tutti i lavoratori per l’occupazione, il blocco dei licenziamenti, migliori condizioni di vita e di lavoro. Perciò meritano il sostegno attivo di tutti i lavoratori e delle organizzazioni della classe operaia.
La decisione presa dagli operai di Cornigliano è un esempio da seguire in tutte le fabbriche ILVA e in tutte le altre vertenze contro i licenziamenti di massa. Altro che la smobilitazione della lotta chiesta dal ministro confindustriale Calenda e dai suoi tirapiedi sindacali!
Rivendichiamo lo sciopero generale per dire NO ai licenziamenti per i profitti! Nessun posto di lavoro deve essere perso, nessuna fabbrica deve essere chiusa! Lavoro regolare e stabile per tutti, no al Jobs Act e al precariato, riduzione generalizzata dell’orario di lavoro!
Basta sacrifici per salvare i profitti dei capitalisti! Abbiamo la forza per imporre i nostri interessi: usiamola! Avanti con il fronte unico di lotta del proletariato!
Con gli scioperi, le occupazioni e tutti i mezzi disponibili i lavoratori esprimeranno la loro volontà di non cedere ai ricatti e ai soprusi dei padroni; queste esperienze faranno maturare nella classe operaia la consapevolezza che essa deve recuperare interamente la propria autonomia politica ricostruendo il proprio partito di classe, il Partito comunista che la guidi alla vittoria contro il capitalismo, per il socialismo.
6 novembre 2017
Piattaforma Comunista per il Partito Comunista del Proletariato d’Italia

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To:
Sent: Tuesday, November 07, 2017 6:01 PM
Subject: LO STATO COME DATORE DI LAVORO
        

Di fronte al fallimento conclamato delle misure di austerità e precarizzazione del lavoro nel fronteggiare la crisi economica, occorre una decisiva inversione di rotta. A partire da un radicale ripensamento del ruolo che lo Stato può esercitare nella creazione di posti di lavoro.
Il combinato di misure di consolidamento fiscale e precarizzazione del lavoro, secondo la Commissione europea e i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni, dovrebbe garantire la ripresa della crescita economica attraverso l’aumento delle esportazioni. Il consolidamento fiscale viene perseguito con l’obiettivo dichiarato di ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, mentre la precarizzazione del lavoro viene attuata con l’obiettivo dichiarato di accrescere l’occupazione. Le due misure – ci si aspetta – dovrebbero inoltre migliorare il saldo delle partite correnti, mediante maggiore competitività delle esportazioni italiane.
Si ipotizza, cioè, che la moderazione salariale, derivante da minore spesa pubblica e maggiore precarietà del lavoro, riducendo i costi di produzione, ponga le imprese italiane nella condizione di essere più competitive (ovvero di poter vendere a prezzi più bassi) nei mercati internazionali. Anche le misure di defiscalizzazione rientrano in questa logica, dal momento che ci si attende che minori tasse sui profitti implichino minori costi per le imprese e, dunque, maggiore competitività nei mercati internazionali.
Si tratta di un’impostazione che si è rivelata del tutto fallimentare e che, a meno di non pensare che dia i suoi risultati nel lunghissimo periodo, andrebbe completamente ribaltata. Le basi teoriche sulle quali poggiano queste politiche sono estremamente fragili, per i seguenti motivi.
1) Le politiche di austerità, soprattutto se attuate in fasi recessive, determinano un aumento, non una riduzione, del rapporto debito pubblico/PIL, che è infatti costantemente aumentato (dal 120% del 2010 al 133% del 2016). Ciò a ragione del fatto che la riduzione della spesa pubblica riduce il tasso di crescita, riducendo il denominatore di quel rapporto più di quanto ne riduca il numeratore. Questo effetto è tanto maggiore quanto maggiore è il valore del moltiplicatore fiscale. Stando alla quantificazione degli effetti moltiplicativi del Fondo Monetario Internazionale, il consolidamento fiscale è prima ancora che un errore di politica economica un errore propriamente un errore tecnico, basato su una stima sbagliata degli effetti moltiplicativi di variazioni della spesa pubblica.
2) Le politiche di precarizzazione del lavoro non accrescono l’occupazione, anzi tendono a generare aumenti del tasso di disoccupazione. Ciò fondamentalmente per due ragioni. In primo luogo, la precarizzazione del lavoro accrescere l’incertezza dei lavoratori in ordine al rinnovo del contratto e, dunque, incentiva risparmi precauzionali deprimendo consumi e domanda interna. In secondo luogo, la precarizzazione del lavoro, in quanto consente alle imprese di recuperare competitività attraverso misure di moderazione salariale, disincentiva le innovazioni, dunque il tasso di crescita della produttività del lavoro e, per conseguenza, dell’occupazione.
3) La detassazione degli utili d’impresa non ha effetti significativi sugli investimenti, dal momento che questi dipendono fondamentalmente dalle aspettative imprenditoriali, le quali, a loro volta, sono fortemente condizionate dalle aspettative di crescita (e dunque, da ciò che ci si attende di poter vendere). Manovre fiscali restrittive, comprimendo i mercati di sbocco interni (quelli rilevanti per la gran parte delle imprese italiane), possono semmai peggiorare le aspettative e, dunque, generare riduzione degli investimenti. Peraltro, la detassazione degli utili d’impresa – in una condizione nella quale occorre generare avanzi primari – implica aumenti di tassazione sui redditi dei lavoratori, ovvero sui redditi di quei soggetti che esprimono la più alta propensione al consumo. Anche per questa ragione, detassare le imprese significa ridurne i mercati di sbocco, almeno quelli interni, con conseguente riduzione dei profitti e aumento delle insolvenze.
4) La moderazione salariale non accresce le esportazioni. L’ultimo Rapporto ISTAT certifica che il saldo delle partite correnti italiano è migliorato solo perché si sono ridotte le importazioni, a seguito della caduta della domanda interna, e che l’economia italiana è, ad oggi, una delle meno internazionalizzate fra le economie europee. Si registra anche che nonostante un seppur leggero aumento dei margini di profitto delle nostre imprese a partire dal 2015, verosimilmente imputabile alle misure di detassazione degli utili, gli investimenti privati continuano a essere in costante riduzione.
Si tratta, peraltro, di politiche attuate ormai da quasi un decennio, sempre con risultati fallimentari. Il fondamentale errore degli ultimi Governi sta appunto nell’aver usato le (poche) risorse disponibili nel peggiore dei modi possibili: decontribuzioni alle imprese e trasferimenti monetari alle famiglie. Misure che non impattano né sugli investimenti privati né sui consumi. Ma che, verosimilmente, e in una logica di brevissimo periodo, accrescono il consenso, salvo poi tornare al punto di partenza ma con meno risorse.
Occorrerebbe, per contro, una radicale correzione di rotta, a partire da un radicale ripensamento del ruolo che lo Stato può esercitare nella creazione di posti di lavoro. Un numero rilevante e crescente di studi mostra come lo Stato possa svolgere la funzione di datore di lavoro di ultima istanza (Employer of Last Resort: ELR) senza generare significativi effetti collaterali, in particolare senza attivare pressioni inflazionistiche – peraltro, in una fase di deflazione, semmai desiderabili.
Ovviamente, affinché questa proposta possa avere senso occorre che, sul piano politico, i lavoratori acquisiscano un potere contrattuale sufficiente da spingere il Governo all’attuazione di una politica per il pieno impiego, e il suo mantenimento, finanziata attraverso un consistente aumento dell’imposizione fiscale sui redditi più alti. In altri termini, la proposta è realizzabile a condizione di non assumere la congettura di Kalecki, ovvero che:
“Il mantenimento del pieno impiego causerebbe cambiamenti sociali e politici che darebbero un nuovo impulso all’opposizione degli uomini d’affari. Certamente, in un regime di permanente pieno impiego, il licenziamento cesserebbe di giocare il suo ruolo come strumento di disciplina [disciplinary measure]. La posizione sociale del capo sarebbe minata e la fiducia in sé stessa e la coscienza di classe della classe operaia aumenterebbero. Scioperi per ottenere incrementi salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro creerebbero tensioni politiche. E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego di quanto sono in media in una condizione di laisser-faire; e anche l’incremento dei salari risultante da un più forte potere contrattuale dei lavoratori è più probabile che incrementi i prezzi anziché ridurre i profitti, e danneggi così solo gli interessi dei rentier. Ma la disciplina nelle fabbriche e la stabilità politica sono più apprezzate dagli uomini d’affari dei profitti. Il loro istinto di classe gli dice che un durevole pieno impiego non è sano dal loro punto di vista e che la disoccupazione è una parte integrante di un normale sistema capitalista”.
Giacché, se la questione del pieno impiego si pone in questi termini, non vi è spazio (in un’economia capitalistica) per misure che vadano in quella direzione.
Va innanzitutto ricordato che, contrariamente alla vulgata mediatica, l’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa. L’ultima rilevazione OCSE ci informa che, mentre nel nostro Paese la pubblica amministrazione assorbe circa 3.400 lavoratori, in Francia e nel Regno Unito, Paesi con una popolazione e un PIL pro-capite di entità simile alla nostra, se ne contano rispettivamente 6.200 e 5800. Negli Stati Uniti (Paese tradizionalmente guardato come una vera economia di mercato) il numero di dipendenti pubblici è di circa il 25% superiore al nostro. Si può aggiungere che, in Italia, l’occupazione nel settore pubblico riguarda prevalentemente individui con elevata scolarizzazione.
Si può anche rilevare che una condizione di piena occupazione favorisce la crescita della produttività del lavoro. Ciò a ragione del fatto che le imprese non sono messe nella condizione di competere comprimendo i salari e sono, per contro, “forzate” a competere innovando. In tal senso, lo schema ELR potrebbe essere anche (e forse più utilmente) pensato per generare crescita economica anche dal lato dell’offerta, non solo quindi come programma finalizzato al pieno impiego. A ciò si può aggiungere che, seguendo la linea teorica dei proponenti lo schema ELR, la spesa pubblica è complementare alla spesa privata per investimenti, dal momento che l’aumento della spesa pubblica accresce i mercati di sbocco e rende conveniente l’attuazione di nuovi flussi di investimenti privati.
Conseguentemente, uno schema ELR potrebbe agire positivamente sul tasso di crescita della produttività del lavoro, sia per l’aumento degli investimenti pubblici che farebbe seguito a un aumento della spesa pubblica, sia a seguito del contenimento di fenomeni di obsolescenza intellettuale che si determinerebbero nel caso alternativo di disoccupazione, a maggior ragione se di lungo periodo. Un ulteriore vantaggio derivante dall’attuazione di uno schema ELR conseguirebbe dal fatto che, in condizioni di piena occupazione, sarebbe estremamente difficile reclutare lavoratori nell’economia sommersa o, ancor più, nell’economia criminale. Questo argomento è particolarmente rilevante nel caso italiano, e ancor più meridionale, dal momento che la presenza del lavoro nero e dell’attività criminale è molto più diffusa rispetto agli altri Paesi dell’eurozona.
In più, come mostrato in particolare da Massimo Florio, lo schema ELR potrebbe utilmente ribaltare la linea di policy seguita in Italia (con la massima intensità fra i Paesi dell’Eurozona) finalizzata ad accentuare le privatizzazioni. Le privatizzazioni, come mostra un’inequivocabile evidenza empirica, generano effetti redistributivi soprattutto a ragione dell’aumento delle tariffe (e della conseguente caduta dei salari reali) e dell’eccezionale aumento degli stipendi dei manager nel passaggio dalla proprietà pubblica alla proprietà privata. Generano anche minore crescita dal momento che, in moltissimi casi, Italia non esclusa, le imprese privatizzate sono imprese orientate alla speculazione finanziaria che, come da più parti documentato, è un rilevante freno agli investimenti reali.
Le inefficienze del settore pubblico, come gli sprechi nel settore privato, sono ovunque. La retorica del dipendente pubblico fannullone resta tale, fa danni al Paese, impedisce un dibattito aperto su come l’intervento pubblico in economia può contribuire alla crescita economica e all’aumento dell’occupazione, soprattutto giovanile e soprattutto di alta qualità. Nel confronto internazionale, l’Italia è uno dei paesi caratterizzati dai più bassi livelli di assenza per malattia, ma con minore incidenza nel settore pubblico. La bassa efficienza del settore pubblico italiano non sembra essere quindi dovuta alla scarsa motivazione al lavoro dei suoi dipendenti, ma piuttosto alla bassissima dotazione di capitale che ne caratterizza i processi di produzione di beni e servizi.
di Guglielmo Forges Davanzati

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