“A Rigopiano ci hanno lasciato soli neanche fossero morte 29 bestie”
Viaggio tra
le rovine dell’hotel travolto dalla valanga: tutto è rimasto come allora. Le
lacrime, il dolore e le liti nel paese dove vittime e indagati sono vicini di
casa
Foto
scattata oggi a un anno dalla valanga nel comune di Farindola dove persero la
vita 29 persone
Pubblicato
il 12/01/2018
NICCOLÒ ZANCAN
INVIATO A FARINDOLA (PESCARA)
Un uomo con i pantaloni da soldato arriva ogni mattina
davanti alle macerie. Cammina lungo la zona rossa, risalendo due curve fra gli
alberi sradicati. Guarda passare i piccoli camion che iniziano le operazioni di
sgombero: una lunga fila di sedie, travi, tegole, un vaso di cemento, un pezzo
di ringhiera ricurvo. «La valigia di Marinella è ancora lì in mezzo», dice
quell’uomo a bassa voce.
Da quando hanno aperto la strada che porta al cancello
dell’Hotel Rigopiano, non passa giorno senza che lui venga a pregare qui
davanti. Il suo nome è Nicola Colangeli, ha 71 anni, è un padre.
«La sera del 17 gennaio, un anno fa, nevicava
tantissimo», dice adesso. «Erano già caduti più di settanta centimetri.
Pulivano le strade con il vomero, che sollevava grandi cumuli ai bordi della
carreggiata. Ma i cumuli crollavano sotto il peso della neve che continuava a
cadere. Quel giorno, c’erano state tre scosse di terremoto. Il proprietario
dell’albergo era molto preoccupato. Gli era già capitato nel 2015 di restare
bloccato con i clienti. Aveva avvertito la Provincia e la Regione. Gli avevano
detto di stare tranquillo: garantivano la massima sicurezza. Sarebbero venuti a
sgomberare. Alle nove di mattina del 18 gennaio, erano già tutti pronti a
partire: le auto erano incolonnate.
Aspettavano la turbina, l’unico mezzo in grado di
aprire un varco nella neve. Aspettavano e aspettavano. Aspettavano ancora. Mi
hanno raccontato che mia figlia stava facendo una camomilla dietro al bancone
del bar, per un cliente che si sentiva poco bene. Anche se lei lavorava alla
Spa, fin dal primo giorno. Era entusiasta del lavoro. Aveva preso sette diplomi
e… Marinella quel giorno aveva scritto a sua sorella. Era appena crollato un
supermercato a Penne. Aveva commentato: “Per fortuna era chiuso”. Poi, sullo
schermo del telefono era comparso il messaggio: “Sta scrivendo…”. Ma non
arrivavano mai le sue parole. Io non riuscivo a mettermi in contatto con lei.
Ero angosciato. I telefoni funzionavano malissimo. Allora sono andato da
Massimiliano Giancaterino, il fratello di uno dei dipendenti dell’hotel, e lui
mi ha detto di provare a scrivere dal suo cellulare. “Noi stiamo bene”, le ho
scritto. “E tu?”. Non ho mai avuto il coraggio di chiedere a Massimiliano se ha
ricevuto la risposta…».
Il signor Colangeli cerca di trattenere le lacrime. «È
un dolore troppo grande», dice per scusarsi. «Si potevano salvare tutti. È
troppo dura per me. Alle 3 di notte mi sveglio e ho finito di dormire. Penso
sempre a quanto può aver sofferto Marinella. L’ultima che hanno ritrovato è
stata proprio mia figlia».
Poche altre tragedie italiane, come la valanga che si
è abbattuta alle 16,48 del 18 gennaio 2017 sull’Hotel Rigopiano, hanno il
potere di svelare la concatenazione indecifrabile di scelte e casualità, di
errori e manchevolezze, di fortuna e accidenti che finiscono per causare una
sciagura e determinare i destini individuali sulla scena. È passato un anno.
Gli undici sopravvissuti cercano di andare avanti. I coniugi Parete, Giampiero
e Adriana, stanno per dare alle stampe con Mondadori un libro dal titolo «Il
peso della neve». La frase scelta per il lancio è questa: “Mamma, perché non
vengono a prenderci?”. “Non lo so”. “Ma ci avevano trovati…”. “Non lo so”.
“Dici che non ci hanno sentito?”. “Ma sì che ci hanno sentito. Magari adesso
sono un po’ stanchi…”. Una squadra di sceneggiatori è al lavoro sulla
preparazione della fiction opzionata a tempo di record dal produttore Pietro
Valsecchi. Ecco perché Gianluca Tanda, presidente del comitato dei parenti
delle vittime dell’Hotel Rigopiano, dice: «Siamo rimasti stupiti. Giampiero
Parete non ci ha mai detto del libro. Magari annuncerà che i soldi ricavati
andranno in qualche opera di bene. Ce lo auguriamo. Noi condanniamo
categoricamente tutti i tentativi di speculare sul marchio della nostra
tragedia. Ci sentiamo soli, e siamo profondamente amareggiati».
Restano 29 morti, 23 indagati. Tre orfani. E tutte le
domande di un anno fa. Solo con più rabbia, adesso. Il 18 gennaio a Farindola e
Penne verrà celebrata una messa di commemorazione, poi ci sarà una
manifestazione organizzata dai parenti delle vittime. «Lo Stato ci ha
abbandonato», dice Nicola Colangeli. «Siamo distrutti. Moralmente e
fisicamente. Nessuno ci aiuta. Troviamo tutte le porte chiuse. Mia moglie ha
fatto domanda per la pensione anticipata di un anno. Gli è stata respinta,
anche se ha l’invalidità all’90 per cento e non ce la fa più ad andare avanti
con le gocce dei tranquillanti. In che mondo viviamo? Il Presidente della
Repubblica non è mai venuto qui. Se fossero morte 29 bestie, 29 lupi, sarebbero
arrivati da tutte le parti. Ma qui sono morte 29 persone, di cui 11 sul lavoro,
e addirittura l’Inail non ci riconosce niente. Nemmeno il funerale abbiamo
ripreso. Dopo questa maledetta valanga».
Nel Comune di Farindola, 1.400 abitanti, il più vicino
all’hotel, convivono indagati e parenti della vittime. In alcuni casi portano
lo stesso cognome. Anche il signor Colangeli abita lì: «È indagato il mio
medico curante. È indagato il sindaco, che conosco bene. È indagato il tecnico
comunale, un mio parente. Ma io non sono arrabbiato con loro. Io ce l’ho con la
Provincia. Loro hanno la colpa maggiore. Quando vedo un cantoniere, io provo
rabbia. Perché erano loro i responsabili della viabilità».
Le indagini non sono ancora chiuse. La procura di
Pescara ipotizza reati che vanno dall’omicidio alle lesioni colpose plurime,
dal falso all’abuso edilizio. L’albergo è stato costruito e ampliato dove non
doveva essere: esattamente al fondo di un canalone. Il sindaco di Farindola non
ha chiuso la strada. Nessuno l’ha liberata. L’ex prefetto Provolo avrebbe
tardato ad attivare il centro di coordinamento dei soccorsi. I carabinieri lo
accusano anche di «evidenti contraddizioni nella ricostruzione dei fatti». E
poi, tutto il resto è quello che si scopre ancora una volta in mezzo al
disastro. Le sottovalutazioni e le battute al telefono, un’ora prima della
valanga, fra il dipendente dell’Anas Carmine Ricca e il responsabile del
settore viabilità della provincia Paolo D’Incecco: «E insomma, mica deve
arrivare a Rigopiano? Perché se dobbiamo liberare la Spa, al limite ci andiamo
a fare pure il bagno». L’unica turbina in grado di liberare la strada era rotta
in un garage di Pescara, e l’altra era al lavoro per accontentare qualcuno.
«Siamo andati a pulire la strada del presidente che era incustodita» dice il
geometra d’Incecco in quelle ore. Anche il governatore D’Alfonso chiama:
«Vorrei un passaggio della turbina di nuovo a Lettomanoppello. E poi, se
possibile, anziché salire per Passolanciano, c’è un piccolo tratto che
ostruisce sopra a Pretoro. Vedi di poterlo fare».
Davanti alle rovine adesso si fermano i curiosi.
Arriva un signore intimorito, si chiama Pomponio Acentino, portava le lenzuola
pulite all’hotel: «Sono venuto a vedere con i miei occhi perché dalla
televisione non riconoscevo l’albergo. L’ingresso era qui sopra, infatti.
Prima».
Le operazioni di sgombero sono appena incominciate.
Oggi a Rigopiano ci sono 14 gradi. Fra le macerie, una bottiglia intatta di
prosecco. Un coltello da cucina. Dell’olio. «Portano via anche i ricordi di mia
figlia» dice quel signore con i pantaloni da soldato. Quel padre. Prima di
inginocchiarsi. E rimettersi a pregare.
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