INDICE
- Morire
d’amianto, legalmente
- Milano:
quattro morti sul lavoro in un solo incidente sono un’enormità
- Lavoro:
aggravamento di malattia professionale
- Obbligo di aggiornamento per l’uso di
alcune attrezzature di lavoro
- Infortuni per il mancato utilizzo delle
scarpe di sicurezza
- Gli incidenti che avvengono nelle
autofficine
Marco Spezia
ingegnere e tecnico della salute e della
sicurezza sul lavoro
Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your
Rights”
Medicina
Democratica - Movimento di lotta per la salute onlus
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MORIRE
D’AMIANTO, LEGALMENTE
Da Contropiano
11/02/18
di alexik65
Roberto Suozzi
intervista Laura Mara di Medicina Democratica
Sappiamo, da
moltissimo tempo che l’amianto è una sostanza che può provocare il cancro negli
esseri umani, tumore ai polmoni e mesotelioma e il mesotelioma peritoneale,
rappresenta circa il 20-30% dei mesoteliomi.
Questo è un
tumore che origina dal mesotelio, cioè dalle cellule parietali del peritoneo,
membrana sierosa che tappezza le pareti della cavità addominale e pelvica.
Le donne
possono essere colpite da tumore dell’ovaio dovuto ad amianto anche stando in
casa, scuotendo gli abiti da lavoro prima di lavarli, inalano così le
pericolose fibrille di amianto.
In uno studio,
pubblicato su “Occupational and Enviromental Medicine”, ricercatori britannici
hanno evidenziato che l’amianto può aumentare ictus, crisi cardiache e infarti.
Va affermato
con forza che la battaglia contro l’amianto riguarda la salute degli operai,
dei lavoratori, delle donne, ma anche del territorio e dell’ambiente. Non
possiamo sapere, sia per i mesoteliomi che per altre forme tumorali, quando la
cellula del nostro organismo dalla fase benigna diventa maligna.
Va anche detto
che le fibre di amianto, derivato dalle vecchie tubazioni in cemento-amianto
(che si stanno disgregando) potrebbero altamente inquinare l’acqua potabile, le
condutture dell’acqua; le tubature in amianto vengono riconosciute come un
grande rischio per la nostra salute.
Tumori del
tratto gastrointestinale (esofago, stomaco, colon-retto) vennero già associati
all’amianto negli anni ‘50 e attualmente le fibre dell’amianto e l’acqua
potabile sono oggetto di attenti studi anche per quanto riguarda i tumori della
laringe.
L’osservazione,
che proviene da numerosi lavori scientifici è che chi beve acqua contaminata,
dalle fibre di amianto, è esposto al rischio di tumori dell’apparato
gastro-intestinale.
Nella
risoluzione del Parlamento Europeo del 2013, sulle minacce per la salute sul
luogo di lavoro legate all’amianto, si dice testualmente:
“[...] anche
diversi tipi di tumori causati non soltanto dall’inalazione di fibre
trasportate nell’aria, ma anche dall’ingestione di acqua contenente tali fibre,
proveniente da tubature in amianto, sono stati riconosciuti come un rischio per
la salute e possono insorgere dopo alcuni decenni, e in alcuni casi addirittura
dopo oltre”.
Vi sono oggi,
in alcuni procedimenti giudiziari che trattano le patologie e le morti causate
dall’amianto, delle sentenze che lasciano il cittadino veramente basito e
provocano amaro dolore, aggiunto a quello della perdita di un loro caro.
In una parola
la fiducia nella giustizia è messa fortemente in discussione.
La nostra
Costituzione, per quanto riguarda la tutela della salute è chiara e, l’articolo
32, afferma che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli
indigenti”.
Il che indica
l’importanza del miglioramento della qualità della vita che, ovviamente, si
deve estendere a tutti quegli elementi, o sostanze nocive, ambientali, o
causate da terzi, che “possono ostacolarne il reale esercizio”.
Questo articolo
deve coinvolgere, direi obbligatoriamente, non solamente i cittadini, i medici,
ma anche l’intera classe giuridica, magistratura compresa.
Il Senatore
Felice Casson, durante la sua introduzione al Convegno tenutosi al Senato della
Repubblica il 13 dicembre del 2017 dal titolo “Fumus mali iuris”, organizzato
dal Coordinamento Nazionale Amianto e Associazione Italiana Esposti Amianto
Onlus, ha anche parlato di questo.
Il senatore
Casson si è soffermato su quanto difficile sia la “[...] trattazione delle
questioni di amianto dal punto di vista civilistico, amministrativo e penale.
Noi abbiamo visto delle sentenze di Cassazione che ci mettono un po’ in
difficoltà [...]”.
Durante questo
Convegno è intervenuta l’avvocatessa Laura Mara che ha una grandissima
esperienza processuale sul tema di amianto e ci ha concesso una importante
intervista.
Sappiamo che la
respirazione delle fibre di amianto, o asbesto, può determinare gravi malattie
che si manifestano dopo molto tempo.
L’amianto,
responsabile di quella infiammazione ai polmoni chiamata asbestosi, è stato
classificato sostanza che può provocare il cancro negli esseri umani, tumore ai
polmoni e mesotelioma; e diversi studi hanno anche suggerito l’associazione tra
esposizione ad amianto e tumori gastrointestinali e colon rettali.
Sembra poi
esserci un elevato rischio di cancro anche per trachea, laringe, reni, esofago
e cistifellea.
Le fibre
dell’amianto, molto sottili, possono penetrare attraverso le vie respiratorie,
non solamente nei polmoni, e raggiungere l’alveolo polmonare e formare, col
tempo, degli essudati della pleura inguaribili.
Sono morti
annunciate, che avverranno anche a distanza di anni.
Il mesotelio è
simile a una finissima pellicola, un sottile tessuto, che ricopre la parte
interna del torace (pleura), dello spazio attorno al cuore (pericardio) e
dell’addome (peritoneo).
Quando un
tumore nasce dalle cellule del mesotelio prende il nome di mesotelioma, e non
sempre è maligno, ma è in progressivo aumento; quando lo è, è uno dei più
pericolosi che si conosca poiché la comparsa della sintomatologia si può avere
dopo lungo tempo (anche quarantacinque-cinquanta anni).
Il mesotelioma
può coinvolgere i polmoni, il peritoneo, il fegato, la cistifellea, la milza,
l’intestino e la tunica vaginale del testicolo.
Non esiste la
cosiddetta dose-soglia (soglia di rischio) per l’amianto, può bastare una sola
fibra per ammalarsi; ma il rischio aumenta con il tempo di esposizione e con la
quantità inalata, ciò vale soprattutto per i lavoratori a diretto, o indiretto,
contatto con la sostanza.
Roberto Suozzi
INTERVISTA A
LAURA MARA
BUONGIORNO
AVVOCATESSA, GRAZIE PER AVERCI CONCESSO QUESTA INTERVISTA. PER VENIRE SUBITO AL
PUNTO, NOI SIAMO CONSAPEVOLI DI QUANTO AFFERMAVA IL SENATORE FELICE CASSON (IN
RIFERIMENTO A UNA SENTENZA IN CORTE DI APPELLO A VENEZIA): “LA COSTITUZIONE
DOVREBBE IMPORRE UN COMPORTAMENTO DIVERSO, COSTITUZIONALMENTE CORRETTO”. ORA IN
MANIERA CRUDA E’ GIUSTO PARLARE, NEL CASO DI MORTE DI AMIANTO, DI “OMICIDI
COLPOSI”? E POSSIAMO PARLARE, SULLA BASE DI ALCUNE RECENTI SENTENZE NEI
PROCESSI DI AMIANTO, DI SENTENZE “NON COSTITUZIONALMENTE ORIENTATE”?
Gentile
Professore, buongiorno a Lei.
La sua domanda
coglie nel segno. Non solo è corretto, ma è doveroso, dal punto di vista
giuridico e sociale, inquadrare gli eventi mortali, causati dall’esposizione ad
amianto sui luoghi di lavoro, come omicidi colposi: non a caso nei capi di
imputazione formulati dai Pubblici Ministeri all’interno dei diversi processi
celebrati in Italia ritroviamo proprio le contestazioni ex articolo 589 del
Codice Penale, con l’aggravante di cui al secondo comma per aver commesso il
fatto con violazione della normativa (speciale e generica) per la prevenzione
degli infortuni/malattie professionali, che prevede un inasprimento della pena
della reclusione da due a sette anni.
Purtroppo le
ultime sentenze di merito milanesi, confermate recentemente dalla Corte Suprema
di Cassazione, hanno accolto una “tesi scientifica” che, da un lato, confonde
il piano della causalità con quello propriamente biomedico, legato al processo
multistadiale di oncogenesi del tumore, e, dall’altro, impone all’Accusa
Pubblica e Privata di fornire una vera e propria prova impossibile (prova
diabolica) in punto di causalità individuale.
Il tutto senza
considerare l’assesto conforme della comunità scientifica internazionale in
punto di teoria dose-risposta per il mesotelioma pleurico (si veda Consensus di
Helsinky 1997; Monografie della IARC; Linee Guida 2010 della European
Respiratory Society of ThoracicSurgeons for the manegement of
pleuralmesothelioma; Documento ufficiale del 1999 della Federazione francese
dei Centri di Lotta contro il Cancro; OSHA Federal Register del 1986 e da
ultimo, III Consensus di Bari del 2015).
Se così
numerosi consessi (anche governativi) nazionali e internazionali si sono
espressi a livello ufficiale nei termini sopra descritti, è logico inferire
(altra via non esiste) che tali enunciati rappresentino, all’esito di
un’analisi critica condotta ai massimi livelli di competenza ed imparzialità,
la sintesi del sapere scientifico più diffuso ed accreditato in materia.
In questo
senso, possiamo parlare di recenti sentenze non costituzionalmente orientate:
si richiede cioè di provare l’inizio e la fine del periodo di induzione
(iniziazione + promozione) per essere certi che, in quel periodo temporale, vi
sia stato proprio quel determinato imputato a gestire l’azienda.
Si richiede
cioè una prova che non può essere fornita, perché non attiene al piano della
causalità individuale, in senso stretto, ma al processo biologico di insorgenza
e trasformazione della patologia asbesto-correlata, e segnatamente del
mesotelioma pleurico.
Processo che,
come per tutte le altre formazioni tumorali, non può essere registrato con
strumenti fenomenici.
Se si
accogliesse una simile interpretazione, sorgerebbero serie questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 589 del Codice penale in rapporto
all’articolo 3 della nostra Costituzione, in quanto vorrebbe dire che il reato
di omicidio colposo per violazione delle normativa sulla sicurezza sul lavoro
non coprirebbe le patologie asbesto correlate, e più in generale, non
coprirebbe più le malattie neoplastiche professionali (che necessitano di un
lungo periodo di tempo prima della loro comparsa e la cui cancerogenesi non è
registrabile con dati fenomenici), creando in tal modo una falla nel sistema
del diritto penale.
Vorrebbe cioè
dire che l’articolo 589 del Codice Penale si applicherebbe solo ai casi di
infortunio sul lavoro (che è reato istantaneo) e non anche alle malattie
professionali neoplastiche (che costituiscono reati-evento a consumazione lenta
e prolungata nel tempo, nei quali gli steps di mutazione cellulare non sono MAI
verificabili nel momento in cui si producono all’interno dell’organismo umano).
Il che, come
facilmente intuibile, violerebbe il principio di uguaglianza sancito dalla
nostra Costituzione che non consente una tutela giudiziaria differente a
seconda del momento di consumazione dell’evento rispetto alla condotta posta in
essere dall’agente.
INTRAVVEDO OGGI
LA POSSIBILITÀ DI NUOVO ORIENTAMENTO, CHE VALUTO PERICOLOSO, DI UNA PARTE
FORTUNATAMENTE ESIGUA DELLA GIUSTIZIA. SPESSO I CONSULENTI DEGLI IMPUTATI, NEI
PROCESSI DI AMIANTO, HANNO OPERATO IN MANIERA IMPROPRIA, ELABORANDO DELLE
POSIZIONI (LA TEORIA DELLA “CAUSALITÀ INDIVIDUALE” O ADDIRITTURA “COLLETTIVA”)
CHE IN REALTA’ NON HANNO NULLA DI SCIENTIFICO. QUAL E’ IL SUO PENSIERO IN
MERITO?
Esattamente. Le
difese degli imputati, tramite i loro consulenti, hanno costruito nel tempo un
castello di scorrette e finanche inesistenti teorie scientifiche che si sono
spinte oltre la logica umana, oltre la comprensione del giurista e del privato
cittadino.
In altri
termini, si tenta, in maniera erronea, di calcolare una mancata anticipazione
della latenza nei singoli soggetti (persone offese) senza tenere conto del
fattore dose di esposizione e delle mansioni effettivamente espletate dai
lavoratori in vita, confondendo i dati sulla latenza media (che attengono a
studi di coorte) con quelli relativi alla latenza individuale di ogni persona
che, in quanto tali, sono soggetti a diverse variabili.
Mi scusi se
insisto sul tema, ma quello che più mi ha fatto indignare è la storia della
“causalità”. Ci tengo a sottolineare che mio padre, ferroviere, morì nel 1990
per mesotelioma provocato dall’esposizione all’amianto e mio zio Donato
emigrato in Australia, morì nel 2005 per la stessa causa, lavorando alle
massicciate delle ferrovie. Come lei ha detto al convegno:
“Un dato è
certo: le difese degli imputati, tramite i loro consulenti, hanno costruito nel
tempo un castello di scorrette e finanche inesistenti teorie scientifiche che
si sono spinte oltre la logica umana, oltre la comprensione del giurista e del
privato cittadino. Faccio riferimento al tema della causalità individuale nei
processi penali che, secondo alcuni recenti orientamenti, anche della
Cassazione, deve essere accertata con strumenti in realtà inesistenti nella
realtà fenomenica-scientifica-giuridica”.
DAL PUNTO DI
VISTA STRETTAMENTE GIURIDICO, QUANTO PESA QUESTA “CAUSALITA’ INDIVIDUALE” NEI
PROCESSI PENALI? COME PUO’ ESSERE ACCETTATA NEGLI ATTI PROCESSUALI UNA TESI
PRESENTATA DA “TECNICI” DI PARTE CHE NON SVOLGONO NEANCHE LA PROFESSIONE
MEDICA? CHE COSA E’ QUESTA “CAUSALITÀ INDIVIDUALE”?
Il problema sta
a monte e purtroppo molti di questi consulenti tecnici svolgono la professione
medica ai più alti livelli, anche universitari. In sostanza oggi la
magistratura, accedendo a questa interpretazione scientifica non corretta,
esige che venga data la prova (con che strumenti non è dato capirlo) del
momento esatto in cui la cellula da benigna inizia a progredire verso la
malignità, nonché la successiva prova della fine di questo (lunghissimo)
periodo multistadiale per poter imputare la responsabilità penale proprio a
quel dirigente che, in quel preciso momento (coincidente con la mutazione
cellulare della vittima), gestiva concretamente la società.
Purtroppo, come
noto, non esiste un cronometro per i tumori che possa fermare l’istante in cui
la cellula inizia a proliferare verso la malignità! Questo è il limite della
scienza medica applicabile a qualsivoglia malattia tumorale.
Non per questo
è legittimo dedurre che tale (logica) incertezza biomedica si possa tradurre in
incertezza sul nesso di causa: mai la Cassazione ha sostenuto che nei processi
per patologie tumorali (la cui evoluzione interna all’organismo umano non è
evidentemente registrabile con nessuno strumento), che formavano oggetto di
imputazioni per omicidi colposi, vi fosse stata la violazione della regola di
diritto della condanna oltre ogni ragionevole dubbio.
Ragionando in
altro modo, lo si ripete, si arriverebbe alla conseguenza, evidentemente non
accettabile, di non poter più celebrare processi per omicidi colposi consistiti
in malattie professionali neoplastiche incurabili ed infauste, frutto di
comportamenti (soggettivamente e oggettivamente) colposi posti in essere dai
diversi datori di lavoro, che, nel tempo, si sono succeduti nelle diverse
posizioni di garanzia all’interno di una determinata realtà industriale.
Appare pertanto
condivisibile l’orientamento di legittimità secondo il quale è impossibile la
conoscenza di tutti gli antecedenti sinergicamente inseriti nella catena
causale e di tutte le leggi pertinenti (...) poiché il Giudice non può
conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo
effetto, né procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di
eventi (vedi Sentenza della Cassazione Sezioni Unite n. 30328/2002) e dunque
potrà ritenersi provata l’esistenza di un nesso causale tra condotta umana,
commissiva e anche omissiva, e un evento quando sia ragionevolmente da escludere
l’intervento di un diverso ed alternativo nesso causale.
La mia
impressione è che si stia facendo in modo di realizzare una “rete di protezione
giuridica” per le imprese, per facilitare la loro assoluzione nelle cause per
malattie professionali, impedendo anche il riconoscimento economico del danno.
FORSE LE MIE
SONO SEMPLICI ILLAZIONI, MA NON SAREBBE IL CASO DI COSTRUIRE DELLE CLASS
ACTION, SOPRATTUTTO PER QUANTO RIGUARDA LE GRANDI IMPRESE? IN FONDO, COME LEI
HA RICORDATO NEL SUO INTERVENTO NEL CONVEGNO: “[...] PIÙ LA PERSONA RIMANEVA
ESPOSTA PIÙ SI AMMALAVA DOPO [...], PIÙ SEI ESPOSTO ALL’AMIANTO E PIÙ TI FA
BENE PERCHÉ TI AMMALI DOPO”. QUAL È IL SUO PENSIERO IN MERITO
Molte delle
ultime sentenze assolutorie intervenute su questo specifico tema hanno, lo
ripeto, confuso il piano della causalità individuale (nesso di causa sulla
singola persona offesa del processo) con quello della causalità generale (nesso
di causa verificabile su una determinata coorte di soggetti studiata dagli
epidemiologi che hanno poi elaborato una vera e propria legge scientifica di
copertura), addivenendo anche a una indebita commistione fra piano biomedico e
piano causale.
L’esempio
classico riportato in queste pronunce è proprio quello da lei ricordato: in
maniera non corretta si prende in esame solo l’inizio dell’attività della
singola persona offesa e il momento dell’insorgenza della patologia per provare
il contrario di quello che afferma la comunità scientifica, ovvero che a
maggiore esposizione corrisponderebbe una latenza più lunga.
Questi calcoli
e queste verifiche non sono attendibili perché non considerano il fattore dose
(concentrazione di fibre di amianto) e la mansione effettivamente espletata dal
lavoratore. Potremo quindi avere una persona esposta, per un tempo breve, ad
una concentrazione elevatissima di fibre di amianto che si ammala in un tempo
minore (latenza più corta) rispetto ad un soggetto che pur essendo stato
esposto per un periodo più lungo, è stato sottoposto ad una concentrazione di
asbesto inferiore, proprio perché svolgeva mansioni differenti dalla prima.
E’ quindi
chiaro che il fattore dose gioca un ruolo altrettanto importante, così come il
tempo. Ma se nel calcolo non si tiene in considerazione la concentrazione di
fibre/polveri di amianto cui il lavoratore è stato esposto (dose) si avranno
dei risultati inficiati ab origine, in quanto non ha alcun senso, perché non
esprime una regola scientificamente validata, parlare solo del tempo in
funzione dell’esordio della malattia.
L’idea di una
Class Action è certamente percorribile, ma in sede civile e comunque non
sposterebbe l’asse del problema della responsabilità penale dei singoli
imputati che è e resta una responsabilità personale.
Credo a questo
punto che l’unico passo percorribile alla luce di queste sentenze possa essere
il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione dei diritti
inviolabili dell’Uomo e della Donna, quali quelli alla vita ed alla salute
(articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo), nonché per violazione
della regola dell’equo processo (articolo 6 della Convenzione citata), secondo
la quale non può essere richiesta a una sola parte, nel rispetto del principio
del contraddittorio, una prova impossibile da fornire in quanto inesistente sul
piano scientifico, biologico e giuridico.
CONVENGO CON
LEI AVVOCATESSA.
UNA CLASS
ACTION E’ SICURAMENTE IMPORTANTE, E’ CERTAMENTE PERCORRIBILE, MA NON
INCIDEREBBE E NON SPOSTA IL PUNTO FOCALE, COME LEI HA AFFERMATO, DELLA
RESPONSABILITA’ PENALE DI OGNI IMPUTATO, CHE PER L’APPUNTO E’ DI OGNUNO DI
LORO, E’ PERSONALE.
Sono
perfettamente convinto che vada fatto un ricorso alla Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo, la European Convention in Human Right.
Tengo a
precisare che questa Corte Internazionale, alla quale aderiscono i membri del
Consiglio d’Europa, fu istituita nel 1959 non è affatto una istituzione che fa
parte dell’Unione Europea.
La Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo ha sede in Francia, a Strasburgo, esattamente nel
Palazzo dei Diritti dell’Uomo. L’Unione Europea la Corte di Giustizia (CGUE) ha
sede nel Lussemburgo, esattamente nel Palais de la Cour de Justice a
Lussemburgo.
La ringrazio
molto.
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MILANO: QUATTRO
MORTI SUL LAVORO IN UN SOLO INCIDENTE SONO UN’ENORMITA’
Da Lavoro e
Salute
01/01/18
Superata in un
solo giorno la media nazionale, record europeo, di tre assassinii al giorno sul
lavoro. Dopo questi, altri 13 morti.
E’ il risultato
di un infortunio avvenuto a Milano in una fabbrica (la Lamina) del quartiere di
Greco, della periferia Nord. Al di là delle cause che lo hanno determinato di
cui se ne stanno occupando gli inquirenti, si tratta di un ulteriore oggettivo
crimine che si aggiunge ai numerosi che abbiamo conosciuto in questi ultimi
tempi.
Pensiamo ai 7
morti della ThyssenKrupp di Torino, ai 4 della Eureco di Paderno Dugnano e, in
questo caso è giusto ricordare coloro che sono morti sul lavoro in cisterne e
altri angusti ambienti soffocati da gas venefici: in primis 13 marzo 1987 13
operai morti sulla Elisabetta Montanari nel porto di Ravenna a seguire 3 marzo
2008 Molfetta 5 morti; 11 giugno 2008 6 vittime a Mineo (Catania); 26 maggio
2009 3 morti alla raffineria Sarroch in Sardegna; 15 giugno 2009 due operai
morti caduti in una vasca di acque nere a Riva Ligure; 12 gennaio 2010 due
operai morti tra Sale e Tortona (Alessandria); 11 settembre 2010 3 operai morti
in un silos di un’azienda di Afragola (Caserta), 8 aprile 2014 due operai padre
e figlio muoiono Molfetta; 24 luglio 2014, altri due morti in un impianto di
compostaggio ad Aprilia (latina); 22 settembre 2014 quattro morti in provincia
di Rovigo per esalazioni di anidride solforosa; 9 settembre 2015 altri due
morti in Raffineria questa volta in Sicilia a Priolo, 29 novembre 2016 3 operai
lasciano la vita nel porto di Messina, all’interno di una cisterna.
Chiediamoci il
perché e perché queste stragi si ripetono; non solo ma constatiamo che quando
l’ucciso è uno solo non vi è alcun clamore (anche se sono in media 3 al
giorno).
Non
dimentichiamo le migliaia di vittime dovute a malattie professionali che
avvengono ad anni di distanza da esposizioni a sostanze tossiche e cancerogene,
come l’amianto.
Succede, nella
gran parte dei casi che tutti costoro restano senza giustizia e non meno senza
risarcimenti: il 17 gennaio ad esempio la Corte di Cassazione ha mandato
assolti gli imputati della Pirelli di Milano, ieri il Tribunale di Padova ha
assolto perché il fatto non sussiste gli imputati della fonderia Valbruna.
Per i reati
connessi all’amianto l’assoluzione di questi tempi è diventata una regola: pur
sapendo che i morti sono dovuti alla sua esposizione; pur sapendo che le leggi
non erano applicate, pur sapendo che non esistevano le più elementari misure di
sicurezza, si è finito per ritenere che l’uso dell’amianto era un fatto
accettato e condiviso sul piano sociale e politico. Un giudice ha detto che non
possiamo prendercela con i responsabili delle imprese che l’hanno utilizzato e di
certo non è compito del giudice condannare il sistema.
E’ in corso il
grande processo contro ILVA di Taranto. Un fatto che è diventato politico: si
deve accettare che per salvaguardare l’occupazione si può mettere a repentaglio
la salute?
In questo caso
non solo quella dei lavoratori, ma anche quella dei cittadini di un intero
territorio.
Abbiamo visto
che il Presidente di Regione Puglia e il Sindaco di Taranto hanno promosso un
ricorso al TAR per ricordare le loro competenze e per chiedere che la nuova
proprietà che subentra attui tutte le misure necessarie a far cessare
l’inquinamento su Taranto.
Tutto ciò è
positivamente da sottolineare.
Il lavoro non
può essere messo in contrasto con la salute e, oggi, se vogliamo, dobbiamo dire
prima la salute e poi l’occupazione.
Ci informano i
COBAS di Taranto che come noi sono parte civile nel processo ILVA che in questi
giorni di udienze dopo le tentennanti testimonianze di alcuni “fiduciari”, che
hanno anche ritrattato quello già dichiarato alla Guardia di Finanza anni fa, è
entrata nella grigia aula della Corte d’Assise, una ventata di protesta. A
dimostrazione che gli operai dell’ILVA, pur spesso da soli, abbandonati e
ostacolati dai sindacati confederali, hanno sempre cercato di lottare per la salute,
la sicurezza, l’ambiente.
Nonostante le
pesanti “zeppe” degli avvocati di Riva e complici al processo ILVA, si comincia
a sentire una vera denuncia. Non è un caso che questa denuncia/verità delle
aperte e continue gravi violazioni sulla sicurezza si sentano dalla
testimonianza di un operaio ILVA, Rito, che, come ha detto in aula, dopo la
morte del lavoratore Zaccaria per il crollo della gru, ha detto “basta” e ha
portato in ogni occasione la sua protesta, la rivendicazione della sicurezza,
della difesa della salute degli operai come dei cittadini, contestando
apertamente capi e capetti che da un lato cercavano miseramente di sminuire le
responsabilità dell’ILVA (“si muore a tutte le parti…”, “chi l’ha detto che i
morti, gli ammalati di tumore dipendano dall’ILVA…”, e squallori del genere);
dall’altro con minacce o “promesse” cercavano di far stare zitto l’operaio.
GLI INFORTUNI,
LE MALATTIE PROFESSIONALI, LA MANCANZA DI GIUSTIZIA DEVONO SEMPRE ESSERCI?
Dobbiamo fare
in modo che non sia così. E non è solo un problema di controlli, che peraltro
esiste se solo pensiamo alla riduzione della spesa sanitaria e sociale che ha
ridotto il personale
tecnico nelle
strutture a esso dedicato. E’ lo stesso rapporto di lavoro che deve essere
cambiato. Occorre dire basta alla precarietà del lavoro, ai salari che non
garantiscano situazioni di vita dignitose.
Non bastano,
pur essenziali, ed oggi molto carenti, le strutture e gli interventi preventivi
ci vuole un impegno generale degli stessi lavoratori, di conoscenza, di
controllo e di verifica, come stabilisce l’articolo 9 della Legge 300/70
“Statuto dei lavoratori”.
SENZA
PARTECIPAZIONE NON C’E’ PREVENZIONE!
Per Medicina
Democratica
Fulvio Aurora,
Responsabile delle vertenze giudiziarie
Per
Associazione Italiana Esposti Amianto
Maura Crudeli,
Presidente
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LAVORO:
AGGRAVAMENTO DI MALATTIA PROFESSIONALE
Da Studio
Cataldi
19/02/18
di Marco Sicolo
Guida legale
con riferimenti normativi e indicazioni utili sull’aggravamento di malattia
professionale, come quelli sugli effetti della domanda, i termini per la
richiesta di verifica dell’aggravamento, l’aggravamento dovuto al protrarsi
dell’esposizione al rischio.
La malattia
professionale è una patologia contratta nell’esercizio e a causa dell’attività
lavorativa.
Mentre la causa
degli infortuni sul lavoro è per lo più istantanea e con effetto immediato,
nella malattia professionale la causa è solitamente prolungata nel tempo e
attiene all’esposizione del lavoratore ai rischi legati alle mansioni da lui
svolte e all’ambiente in cui opera.
La principale
normativa di riferimento in materia è contenuta nel D.P.R. 1124/65 “Testo Unico
sull’Assicurazione per gli infortuni sul lavoro e malattie professionali”, poi
parzialmente modificato dal D.Lgs. 38/00.
IL NESSO TRA
PATOLOGIA E ATTIVITA’ LAVORATIVA
Al fine di
organizzare in modo lineare ed esaustivo la disciplina della materia, il
legislatore ha predisposto delle tabelle in cui si individuano varie categorie
di malattie. Qualora il lavoratore dimostri il manifestarsi di una di esse,
opera la presunzione legale che l’insorgere della stessa sia dovuto
all’esercizio dell’attività lavorativa da lui svolta.
In tali casi, pertanto,
la malattia è qualificata come professionale e il diritto alle prestazioni
indennitarie sorge automaticamente.
Diversamente,
se il lavoratore lamenta l’insorgere di una malattia che non rientri tra quelle
elencate in tabella, sarà suo onere quello di dimostrare la sussistenza del
nesso eziologico tra patologia e attività lavorativa, ai fini del
riconoscimento delle prestazioni indennitarie.
L’AGGRAVAMENTO
DELLA PATOLOGIA: L’ARTICOLO 137 DEL D.P.R. 1124/65
L’entità della
malattia può variare nel tempo, in miglioramento o in peggioramento. Per tale
motivo, è in facoltà del lavoratore richiedere l’aggiornamento delle
prestazioni dovute, in conseguenza dell’aggravamento delle sue condizioni di
salute derivato dalla medesima malattia professionale.
Sebbene il
testo dell’articolo 137 del D.P.R. 1124/65 faccia riferimento all’attitudine al
lavoro, come parametro per valutare le condizioni del richiedente, l’articolo
13 del D.Lgs. n. 38/00 ha introdotto il concetto di danno biologico come
riferimento per la quantificazione dell’indennizzo. Adesso, pertanto, occorre
riferirsi al concetto di menomazione dell’integrità psicofisica e non più a
quello di capacità di produzione del reddito.
Al fine del
riconoscimento dell’aggravamento, l’interessato deve inoltrare apposita domanda
all’Ente previdenziale (INAIL), per ottenere una nuova valutazione sull’entità
della patologia e la conseguente revisione delle prestazioni dovute. La
richiesta dev’essere corredata da un certificato medico attestante
l’aggravamento.
EFFETTI DELLA
DOMANDA E PROVVEDIMENTI DELL’ENTE
In conseguenza
della richiesta, l’INAIL può disporre le opportune visite mediche sulla persona
del lavoratore. Se questi rifiuta di sottoporvisi, l’ente ha facoltà di
sospendere il pagamento della rendita.
Il provvedimento
di accoglimento o rigetto va adottato entro il termine di 90 giorni dal
ricevimento della domanda. In caso di rigetto, il lavoratore può inoltrare
reclamo ai sensi dell’articolo 104 del D.P.R. 1124/65 e, successivamente, adire
l’autorità giudiziaria.
I TERMINI PER
LA RICHIESTA DI VERIFICA DELL’AGGRAVAMENTO
La richiesta di
verifica dell’aggravamento può essere inoltrata una volta trascorsi 6 mesi
dalla scadenza del periodo di inabilità temporanea assoluta oppure, se la
patologia non ha comportato l’assenza dal lavoro, trascorso un anno
dall’insorgere della stessa.
E’ possibile
presentare successivamente ulteriori domande di revisione, a intervalli non
inferiori di un anno l’una dall’altra. In base all’articolo 137 del D.P.R.
1124/65, l’ultima domanda di aggiornamento può essere presentata entro 15 anni
dalla decorrenza della rendita.
AGGRAVAMENTO
CONNESSO AL PROTRARSI DELL’ESPOSIZIONE AL RISCHIO: I CHIARIMENTI DELL’INAIL
Sebbene
l’articolo 137 del D.P.R. 1124/65 faccia riferimento al solo caso in cui il
lavoratore sia titolare di rendita, una lettura organica del quadro normativo,
comprensiva del D.Lgs. 38/00, consente di affermare che la disciplina
dell’aggravamento è applicabile anche a quei lavoratori a cui, in origine, la
malattia è stata riconosciuta ma non indennizzata, o indennizzata solo in
capitale, in virtù del basso grado di menomazione.
E’ quanto
chiarito, peraltro, dall’INAIL con la circolare n. 32/15: tale provvedimento,
giunto dopo il tortuoso percorso interpretativo degli ultimi anni, sancisce che
l’aggravamento denunciato oltre il termine di 15 anni va considerato come
denuncia di nuova malattia, a condizione che il peggioramento sia riconducibile
al protrarsi dell’esposizione del lavoratore allo stesso rischio morbigeno,
anche in azienda diversa da quella in cui si è inizialmente manifestata la
malattia.
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OBBLIGO DI AGGIORNAMENTO PER L’USO DI
ALCUNE ATTREZZATURE DI LAVORO
Da: PuntoSicuro
14/02/18
di Gerardo Porreca
E’ in scadenza il 12 marzo 2018 il termine
entro il quale devono aggiornarsi alcuni operatori abilitati alla conduzione di
particolari attrezzature di lavoro. Vediamo quali sono.
Scade il 12 marzo 2018 il termine ultimo
per l’adempimento dell’obbligo di aggiornamento per alcuni dei soggetti
abilitati alla conduzione di particolari attrezzature di lavoro di cui
all’articolo 73, comma 5 del D.Lgs. 81/08 e le cui modalità sono state definite
dall’Accordo raggiunto nell’ambito della Conferenza permanente per i rapporti
tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano nella
seduta del 22/02/12.
Con tale Accordo, entrato in vigore il
12/03/13, sono state individuate e riportate nella sezione A) dell’Allegato A
le attrezzature per la conduzione delle quali è necessario possedere una
specifica abilitazione. Esse sono le:
le piattaforme di lavoro mobili elevabili
(PLE);
le gru a torre;
le gru mobili;
le gru per autocarro;
i carrelli elevatori semoventi con conducente
a bordo (a braccio telescopico, industriali semoventi, sollevatori/elevatori
semoventi telescopici rotativi);
i trattori agricoli o forestali;
le macchine movimento terra (escavatori
idraulici, a fune, pale caricatrici frontali, terne, autoribaltabile a
cingoli);
le pompe per calcestruzzo.
Lo stesso Accordo Stato Regioni del
22/02/12, al punto 6, ha anche stabilito che l’abilitazione deve essere
rinnovata entro i 5 anni dalla data di rilascio dell’attestato previa verifica
della partecipazione a un corso di aggiornamento avente una durata minima di 4
ore delle quali almeno 3 ore relative agli argomenti dei moduli pratici di cui
agli allegati III e seguenti. Con esso inoltre è stata riconosciuta, al punto
9.1, una formazione pregressa alla sua entrata in vigore e più precisamente
sono stati riconosciuti validi i corsi già effettuati entro tale data purché
possedessero però, per ciascuna tipologia di attrezzatura, i seguenti
requisiti:
corsi di formazione della durata
complessiva non inferiore a quella prevista dagli allegati, composti di modulo
teorico, modulo pratico e verifica finale dell’apprendimento;
corsi, composti di modulo teorico, modulo
pratico e verifica finale dell’apprendimento, di durata complessiva inferiore a
quella prevista dagli allegati a condizione che gli stessi siano integrati
tramite il modulo di aggiornamento di cui al punto 6, entro 24 mesi dalla data
di entrata in vigore del presente accordo;
corsi di qualsiasi durata non completati
da verifica finale di apprendimento a condizione che entro 24 mesi dalla data
di entrata in vigore del presente accordo siano integrati tramite il modulo di
aggiornamento di cui al punto 6 e verifica finale dell’apprendimento.
Con riferimento poi alla data di
decorrenza dei 5 anni era stato stabilito, al punto 9.2 dell’Accordo, che gli
attestati di abilitazione conseguenti ai corsi avevano validità di 5 anni a
decorrere rispettivamente dalla data di attestazione di superamento della
verifica finale di apprendimento.
Quest’ultimo punto però è stato successivamente
modificato dall’Accordo Stato Regioni del 07/07/16 sulla formazione degli
RSPP/ASPP, che come è noto ha provveduto anche a modificare altre disposizioni
riguardanti la formazione in generale in materia di salute e sicurezza sul
lavoro, ed è stato in parte riscritto, prevedendo che gli attestati di
abilitazione avessero validità di 5 anni a decorrere dalla data di entrata in
vigore dell’Accordo.
Pertanto è stata sostanzialmente
modificata la data di decorrenza dei cinque anni, intendendola non più a far
data dal completamento del corso e della verifica di apprendimento, ma entro il
12/03/18.
L’Accordo del 22 febbraio 2012 della
Conferenza Permanente per i Rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province
Autonome di Trento e di Bolzano, concernente l’individuazione delle
attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione
degli operatori, nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione,
i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi e i requisiti minimi di validità
della formazione è scaricabile all’indirizzo:
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INFORTUNI PER IL MANCATO UTILIZZO DELLE
SCARPE DI SICUREZZA
Da: PuntoSicuro
01/02/18
di Tiziano Menduto
Esempi di infortuni in cui è stata
rilevata l’assenza di dispositivi di protezione dei piedi in relazione a cadute
in piano o a cadute di gravi dall’alto. Gli infortuni, i fattori causali e i
criteri di scelta del Dispositivi di Protezione Individuale (DPI).
Abbiamo visto in precedenti puntate della
rubrica “Imparare dagli errori”, e in numerosi articoli in materia di DPI,
quanto sia importante nei luoghi di lavoro proteggere i piedi attraverso idonee
scarpe di sicurezza.
E se sono molti i rischi (fisici, chimici,
biologici, elettrici, termici, ecc.) a cui possono essere soggetti i piedi, il
rischio più usuale per questa parte del corpo è correlato alle conseguenze
delle cadute (ad esempio cadute in piano o cadute di materiali).
Analizziamo oggi proprio alcune tipologie
di eventi infortunistici da caduta in cui si evidenzia una mancata fornitura o
un mancato utilizzo delle scarpe di sicurezza.
Le dinamiche degli infortuni presentati
sono tratte dalle schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei
casi di infortunio collegato al sistema di sorveglianza degli infortuni mortali
e gravi.
Il primo caso riguarda un infortunio
avvenuto in un punto vendita.
Una addetta di mercato (cassiera), entra
nel corridoio che porta allo spogliatoio, in quanto deve prendere servizio nel
punto vendita ove è impiegata. Improvvisamente, nel percorrere il corridoio
scivola in terra a causa del pavimento bagnato, urtando violentemente il viso
in terra e battendo il piede destro contro il pavimento.
Il pavimento era bagnato per cause ignote.
Immediatamente viene soccorsa dai colleghi che le prestano le prime cure prima
del trasporto al vicino ospedale ove viene riscontrata una contusione cranica
non commotiva con ferita lacerocontusa labiale superiore e frattura del V
metatarso del piede destro.
Al momento dell’infortunio la cassiera
indossava scarpe con la parte posteriore aperta (sul tallone) come ciabatta.
L’azienda inoltre dispone di ditta esterna per l’effettuazione delle pulizie e
dei lavaggi, con precisi compiti e procedure di lavoro che prevedono anche
l’utilizzo di cartellonistica per evidenziare le zone bagnate con pericolo di
caduta.
Scarsa importanza è data agli accessori
d’abbigliamento. Le dipendenti devono infatti indossare la divisa, ma viene
lasciata la libertà di indossare scarpe proprie (nell’intento di far utilizzare
ai dipendenti calzature di adeguato confort, specie se in presenza di
particolari problemi anatomici).
Non sono state contemplate fonti di
rischio derivanti dall’utilizzo di calzature proprie, anche perché la natura
dell’attività non lasciava presupporre problematiche in tal senso.
Questi i fattori causali dell’incidente
rilevati dalla scheda:
scarpe di proprietà dell’infortunato;
assenza di segnaletica.
Il secondo caso riguarda un infortunio con
caduta di materiale sul piede.
Un lavoratore viene investito alla punta
del piede destro dalla caduta di un bancale in legno che sta posizionando su una
pila dove sono stoccati altri bancali riportando la frattura della falange
ungueale del primo dito del piede destro.
Il lavoratore non indossa le scarpe
antinfortunistica in quanto non fornitegli dal datore di lavoro contrariamente
a quanto previsto dal Documento di Valutazione dei Rischi.
Questi i fattori causali dell’incidente
rilevati dalla scheda:
caduta di un bancale in legno che
l’infortunato stava posizionando;
scarpe antinfortunistiche non fornite.
Il terzo caso riguarda un infortunio
avvenuto in una fase di movimentazione manuale.
Un lavoratore è impegnato a movimentare
insieme a un collega un pacco di piastrelle di marmo.
Durante questa operazione al collega
scivola dalle mani il pacco che cadendo colpisce al piede destro l’infortunato
che non indossava scarpe antinfortunistiche.
L’infortunato ha riportato una frattura al
piede destro.
Questi i fattori causali rilevati:
al collega scivolava di mano il pacco di
piastrelle;
mancato utilizzo di scarpe
antinfortunistiche.
Ci soffermiamo su alcune indicazioni
contenute nel documento “Prime indicazioni operative per l’applicazione del
D.Lgs. 81/08 Titolo III Capo II Uso dei dispositivi di protezione individuale”
prodotto dall’Azienda Sanitaria Locale Roma H (ASL Roma 6).
In tale documento si ricordano le
indicazioni normative, con riferimento all’Allegato VIII del D.Lgs. 81/20, che
segnalano che per la protezione dei piedi nelle lavorazioni in cui esistono
specifici pericoli di ustioni, di causticazione, di punture o di schiacciamento,
i lavoratori devono essere provvisti di calzature resistenti e adatte alla
particolare natura del rischio. Tali calzature devono potersi sfilare
rapidamente.
Il documento riporta anche alcune delle
caratteristiche che devono avere le scarpe di sicurezza.
In particolare devono essere:
comode, leggere e tali da consentire la
traspirazione;
in gomma se richieste buone
caratteristiche dielettriche;
con puntale di acciaio e solette
antiperforazione se rischio da schiacciamento o perforazione;
alte ai malleoli e imbottite se vi è
rischio di urti o contusioni;
a rapido sfilamento in caso di infortunio
o intrappolamento;
con suole antisdrucciolevole se si ha
accesso su suoli instabili.
In conclusione forniamo alcune
informazioni sui criteri di scelta dei DPI per i piedi con riferimento ai
contenuti del progetto multimediale “Impresa Sicura”, un progetto elaborato da
EBER, EBAM, Regione Marche, Regione Emilia-Romagna e INAIL.
Nel documento “ImpresaSicura_DPI”,
correlato al progetto, si segnala che prima di scegliere il modello più adatto
all’utilizzatore, tra calzature basse o alla caviglia, stivali al polpaccio o
al ginocchio o alla coscia, è indispensabile conoscere i rischi legati
all’ambiente di lavoro, le condizioni ambientali e la mansione di colui che le
deve indossare. Ed è necessario operare una scelta fra le tre differenti
categorie di calzature antinfortunistiche (S, P, O), in base ai rischi
meccanici, e poi, se necessario, in base ai requisiti supplementari.
Quando, ad esempio, è presente il rischio
di caduta di gravi e di schiacciamento delle dita (imprese edili, industrie
metallurgiche, lavori agricoli, demolizioni di fabbricati, ecc.) a seconda
dell’entità del rischio saranno necessarie calzature di sicurezza o di
protezione con puntali (SB, da S1 a S5, PB, da P1 a P5).
Quando è presente il rischio di
perforazioni della suola da parte di oggetti appuntiti (ad esempio
ristrutturazione di rustici, lavori stradali, lavori su impalcatura,
demolizioni, cantieri edili in generale ed aree di deposito) è necessario come
requisito aggiuntivo la resistenza alla perforazione (P).
Non bisogna, infine, dimenticare che la
scelta di calzature inadatte può comportare problemi e rischi aggiuntivi per
l’operatore: peso eccessivo della calzatura, suola troppo rigida, cattiva
traspirazione, sensibilizzazione, scorretta posizione del piede sul piano di
calpestio o scelta inadatta rispetto al suolo su cui si deve camminare, fanno
sì che l’operatore rinunci all’utilizzo di questi DPI, esponendosi così al
rischio.
Il sito web di INFOR.MO., di cui
nell’articolo sono state presentate le schede numero 6041, 3922 e 1861, è
consultabile all’indirizzo:
Il documento “Prime indicazioni operative
per l’applicazione del D.Lgs. 81/08 Titolo III Capo II Uso dei dispositivi di
protezione individuale” prodotto dall’Azienda Sanitaria Locale Roma H (ASL Roma
6) è scaricabile all’indirizzo:
Il documento “ImpresaSicura_DPI” di EBER,
EBAM, Regione Marche, Regione Emilia Romagna e INAIL è scaricabile
all’indirizzo:
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Da: PuntoSicuro
01/02/18
di Tiziano Menduto
Esempi di infortuni avvenuti in
autofficine per la riparazione di veicoli a motore. Infortuni con un ponte
sollevatore e a causa di un’esplosione. La dinamica degli infortuni, i fattori
causali e le indicazioni generali di prevenzione.
Dopo esserci soffermati nella rubrica
“Imparare dagli errori”, dedicata al racconto e all’analisi degli infortuni
professionali, sui rischi correlati al settore agroalimentare, iniziamo oggi
con un breve viaggio attraverso gli infortuni che possono avvenire
nell’attività di riparazione e manutenzione dei veicoli.
Sono infatti diversi i pericoli a cui sono
soggetti i lavoratori di autofficine, carrozzerie, officine di verniciatura o
per pneumatici. E in questi luoghi di lavoro non mancano gli eventi
infortunistici, a volte anche gravi e mortali, e le possibilità di contrarre
malattie professionali in relazione, ad esempio, all’uso di particolari
impianti e attrezzature o all’impiego di sostanze pericolose e infiammabili.
Esaminiamo oggi, in particolare, alcuni
infortuni che sono avvenuti nelle autofficine e che sono stati registrati dal
sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi attraverso le schede di
INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio.
Il primo caso riguarda un infortunio
avvenuto nell’utilizzo del ponte sollevatore in un’autofficina.
Il giorno dell’infortunio un lavoratore al
fine di controllare la cinghia e la puleggia del ponte di sollevamento delle
auto, in quanto fa rumore, sale sul braccio del ponte in corrispondenza della
colonna sulla cui sommità risulta installato il motore elettrico e la puleggia
con la relativa cinghia di trasmissione del moto.
La cinghia risulta installata alla quota
di 2,5 m dal pavimento e per raggiungere tale quota il lavoratore, una volta
salito sul braccio del ponte, aziona il pulsante di salita. A questo punto
l’operatore, dopo aver rimosso il carter di protezione, ed essendosi accertato
dello stato di usura della cinghia, decide di scendere per poter prendere una
chiave che gli consenta di smontare la cinghia stessa.
Per poter azionare autonomamente il
pulsante di discesa (posto sulla colonna a quota inferiore rispetto alla sua
posizione) da sopra il braccio del ponte, in cui si trova in piedi, si piega su
se stesso e mentre con la mano destra aziona il pulsante improvvisamente perde
l’equilibrio e d’istinto cerca appiglio con la mano sinistra sulla sommità
della colonna. La puleggia e la cinghia sono in movimento (per la fase di
discesa in atto) e non è stato riposizionato il carter. Il lavoratore inserisce
involontariamente la mano tra la cinghia e la puleggia. L’infortunato riporta
un’amputazione alla mano sinistra.
Il fattore causale dell’infortunio, come
riportato dalla scheda, è relativo al fatto che il lavoratore dopo aver rimosso
il carter di protezione, azionava il pulsante di discesa del ponte dove era
salito e perdeva l’equilibrio.
Il secondo caso riguarda un infortunio
mortale dovuto ad un’esplosione.
Un meccanico lavora da solo all’interno
della propria autofficina ed è intento a riparare una pompa di benzina del
motore di un autoveicolo facendosi luce con lampada di ispezione collegata
all’impianto elettrico quando, a causa di probabile danneggiamento del cavo di
alimentazione, si sprigiona una scintilla che innesca la benzina fuoriuscita
dalla pompa ed immediatamente dopo lo scoppio della stessa pompa.
Le fiamme investono il lavoratore che
resta ustionato al 60% della superficie corporea e in particolare al volto,
alle mani e alle braccia con ustioni di 2° e 3° grado.
Lesioni che nei giorni successivi
all’incidente lo portano alla morte.
Questi i fattori causali dell’incidente
rilevati dalla scheda:
cavo della lampada danneggiato;
incendio della benzina e successivo
scoppio della pompa.
Per trovare alcune indicazioni generali di
prevenzione nel settore della riparazione dei veicoli possiamo fare riferimento
ad un documento, dal titolo “Sicurezza e tutela della salute nel settore dei
veicoli”, prodotto in Svizzera dalla Commissione Federale di Coordinamento per la
Sicurezza sul Lavoro (CFSL).
Dal documento riprendiamo alcune
indicazioni sui problemi correlati a impianti e apparecchi.
Gli impianti e gli apparecchi che devono
essere:
conformi alle regole della tecnica
riconosciute;
concepiti in modo da non nuocere a nessuno
se utilizzati correttamente e rispettando le dovute precauzioni: le
installazioni che presentano carenze dal punto di vista della sicurezza devono
essere adeguate o, se necessario, sostituite;
sottoposti ad adeguata manutenzione
periodica da personale specializzato e qualificato secondo le indicazioni del
fabbricante: ogni intervento manutentivo deve essere documentato;
utilizzate da personale addestrato e
formato regolarmente.
Raccogliamo anche le misure di prevenzione
proposte per i diversi tipi di attrezzature e impianti:
impianti di autolavaggio: regolamentare
gli accessi, schermare i punti di schiacciamento, riscaldare il pavimento,
posare un rivestimento antiscivolo;
banco prova freni: coprire, segnalare,
schermare i rulli; evitare i lavori di registrazione sui veicoli con le ruote
in movimento;
gru/apparecchi di sollevamento: eseguire
la manutenzione e manovrare la gru secondo le indicazioni del costruttore,
verificare il dispositivo di sicurezza del gancio; tener conto della portata;
controllare regolarmente gli accessori di imbracatura (cinghie, funi, catene);
ponti sollevatori per veicoli: ispezionare
gli accessori di presa del carico, il dispositivo di arresto del braccio
portante e il dispositivo anticaduta;
cric: usare cavalletti di sostegno,
rispettare la portata indicata; sbloccare il freno a mano durante le operazioni
di sollevamento e discesa;
ruota: appoggiare la ruota per evitare il
ribaltamento del carico (ruota);
carrelli elevatori: utilizzo solo da
personale qualificato; utilizzare solo i carrelli dotati di dispositivo di
ritenuta;
stazione caricabatterie: garantire una
buona ventilazione (naturale o artificiale); utilizzare caricabatterie
elettronici; segnaletica di avvertimento, protezione degli occhi (usare
occhiali antiacido, mettere a disposizione docce oculari); tra i rischi
segnalati è presente il pericolo di esplosione (gas tonante) e la causticazione
dovuta al contatto con acidi;
impianto di aria compressa, compressore:
usare raccordi di sicurezza e pistole ad aria di sicurezza oppure
limitare/ridurre la pressione ad un massimo di 3,5 bar; impedire l’inserimento
delle mani negli organi di trasmissione; si segnala il rischio di lesioni
provocate dal getto di aria compressa e dalla proiezione di frammenti e il
rischio di schiacciamento e presa (avviamento automatico, trasmissioni non
schermate);
macchina per il montaggio dei pneumatici:
osservare le prescrizioni del costruttore, formare il personale, impostare la
valvola limitatrice di pressione su 3,5 bar, usare un tubo flessibile lungo
minimo 1 m tra l’impugnatura dell’apparecchio di gonfiaggio e il nipplo
spinato, durante l’operazione di gonfiaggio togliere le mani dalla valvola,
gonfiare i pneumatici con problemi nella gabbia di sicurezza, usare un
sollevatore; sono diversi i rischi segnalati: schiacciamento di parti del corpo
nella macchina monta gomme; scoppio di pneumatici durante il gonfiaggio; essere
colpiti da parti del cerchione; lesioni alla schiena;
macchina equilibratrice: in relazione al
rischio dei pneumatici in rotazione e dell’intossicazione da piombo, si
suggerisce di montare una copertura di protezione, rispettare le indicazioni
del costruttore, formare il personale, indossare i guanti di protezione;
ruote multipezzo e ruote speciali: far
smontare le ruote o i cerchioni solo da personale istruito secondo le
indicazioni della ditta costruttrice del veicolo e del cerchione;
apparecchi per la pulitura di pezzi
(pulitrice per piccoli pezzi): adottare cuffia di protezione, luogo ventilato;
allontanare ogni fonte di innesco (molatrici, impianti di saldatura, ecc.);
utilizzare esclusivamente liquidi con punto di infiammabilità inferiore a 30°
C;
pulitrice ad alta pressione: verificare
periodicamente i tubi flessibili dell’alta pressione e i dispositivi di
azionamento; indossare i Dispositivi di Protezione Individuale (guanti e
visiere);
impianti di saldatura a gas e di
brasatura: assicurare le bombole di gas contro il ribaltamento, verificare i
rubinetti e i tubi flessibili; rimuovere la crosta (scoria) che si è formata
sopra la saldatura; saldare le parti sporche (ad esempio tubo di scappamento)
solo con la maschera di protezione delle vie respiratorie; disporre sistema di
aspirazione alla fonte dei fumi di saldatura; proteggere gli occhi;
elettrosaldatura e saldatura in gas
protettivo: proteggere gli occhi e la pelle dai raggi UV; non saldare in spazi
ristretti (recipienti); adottare sistema di aspirazione alla fonte dei fumi di
saldatura; verificare lo stato dei cavi;
pressarifiuti: osservare le indicazioni
riportate nel manuale d’uso;
utensili a mano: utilizzare un utensile
idoneo in perfette condizioni;
utensili elettrici a mano e lampade di
lavoro: usare gli interruttori salvavita;
trapani portatili e a colonna: indossare
gli occhiali di protezione; fissare i pezzi in lavorazione; non usare i guanti
in prossimità di elementi in rotazione;
mola portatile e fissa: utilizzare
occhiali a mascherina; regolare correttamente il riparo e la base di appoggio;
indossare i protettori auricolari; indossare una maschera con filtro
antiparticolato;
utensili pneumatici: indossare adeguati
occhiali di protezione; collegare gli apparecchi solo con raccordi di
sicurezza; indossare i protettori auricolari; utilizzare schermi fonoisolanti;
scale a pioli e scale mobili: controllare
i piedini antiscivolo; verificarne periodicamente lo stato; sostituire le scale
difettose; usare scale e ausili di salita adeguati.
Gli eventuali riferimenti legislativi
contenuti nel documento del CFSL riguardano la realtà svizzera, i suggerimenti
indicati sono comunque utili per tutti i lavoratori.
Il sito web di INFOR.MO., di cui
nell’articolo sono state presentate le schede numero 635 e 5354, è consultabile
all’indirizzo:
Il documento “Sicurezza e tutela della
salute nel settore dei veicoli”, prodotto in Svizzera dalla Commissione
Federale di Coordinamento per la Sicurezza sul Lavoro (CFSL) è scaricabile
all’indirizzo:
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