Schiavi dell'imprenditore e
della moglie: «L'aguzzina era proprio lei»
di Marina
Lucchin
PADOVA - «Ci
trattava come animali. Ci lanciava le cassette di cipolle
addosso e ci diceva che ci stava bene dover lavorare al freddo. Chi non faceva
quello che volevano loro, veniva cacciato, anche solo per dare un esempio agli
altri».
È una delle tante testimonianze degli schiavi stranieri che lavoravano nell'azienda agricola Tresoldi di Albignasego. L'aguzzino, secondo i racconti dei 21 braccianti ascoltati dai carabinieri, era la moglie del titolare Walter Tresoldi, Fanica Hodorogea, che aveva il compito di controllare il lavoro svolto dai dipendenti nel capannone di via Maroncelli 1 ad Albignasego.
È una delle tante testimonianze degli schiavi stranieri che lavoravano nell'azienda agricola Tresoldi di Albignasego. L'aguzzino, secondo i racconti dei 21 braccianti ascoltati dai carabinieri, era la moglie del titolare Walter Tresoldi, Fanica Hodorogea, che aveva il compito di controllare il lavoro svolto dai dipendenti nel capannone di via Maroncelli 1 ad Albignasego.
Spintoni, urla, imprecazioni, violenze: nelle oltre 130 pagine dell'ordinanza emessa dal Gip è descritto il drammatico calvario dei lavoratori, tutti di bassa estrazione sociale e scolarità, cui erano stati promessi una casa, un lavoro sicuro nei campi e il rilascio del permesso di soggiorno in Italia. Per arrivare qui, alcuni di loro hanno venduto i pochi beni posseduti e si sono anche rivolti agli usurai pur di raccogliere il denaro loro richiesto dall'intermediario dei Tresoldi prima della partenza dal Bangladesh: «Ho pagato un milione di rupie (10mila euro) all'intermediario mentre ero ancora in Bangladesh. I compensi ai lavoratori in nero, circa 1.000 euro al mese, venivano elargiti dal Tresoldi, secondo un sistema collaudato, mediante accrediti gonfiati ad hoc sulle carte prepagate/ricaricabili dei pochi lavoratori in regola...»...
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