se
ne parla all' incontro nazionale a Taranto 13 marzo ore 16 sala
Provincia - via Anfiteatro con l'obiettivo anche di ricostruire e
rilanciare la Rete nazionale per la sicurezza e salute sui posti di
lavoro e territorio - attiva e protagonista all'epoca della strage e
del processo ThyssenKrupp a Torino e a livello nazionale - info
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stralci
da
Leggi,
norme e ricorsi che hanno permesso ai manager responsabili dei morti
alla Thyssenkrupp di uscire di galera.
“[N]on
è socialmente pericoloso e, in carcere, ha mantenuto un
comportamento corretto”
con questa motivazione dei giudici del tribunale di sorveglianza di
Torino, che hanno accolto l’istanza di assegnazione ai servizi
sociali presentata dai suoi avvocati, Cosimo Cafueri, ex responsabile
della sicurezza dello stabilimento ThyssenKrupp di Torino, condannato
a 6 anni e 8 mesi per omicidio colposo plurimo, a seguito del rogo
che nel dicembre 2007 uccise sette operai, è libero dal dicembre
2018.
Con le stesse motivazioni, questa volta del tribunale di Terni,
è libero, già da qualche mese, anche l’ex manager Marco Pucci,
condannato per lo stesso reato a 6 anni e 10 mesi (comunque aveva già
ottenuto, dal giugno 2017, un permesso per svolgere attività di
consulenza presso un’azienda locale). E a breve con le stesse
istanze saranno liberati anche l’altro manager, Daniele Moroni,
condannato a 7 anni e 6 mesi e l’ex direttore dello stabilimento,
Raffaele Salerno, condannato a 8 anni e 6 mesi. L’ex amministratore
delegato di Thyssekrupp, Harald Espenhahn, condannato a 9 anni e 8
mesi e l’altro manager, Gerald Priegnitz, condannato a 6 anni e 10
mesi non sono stati mai arrestati perché cittadini tedeschi. La pena
la dovrebbero scontare in Germania dove però, per il reato
contestato, la pena massima è di 5 anni. E, qualora, la Germania
dovesse applicare la sentenza anche per loro le porte del carcere
resteranno chiuse per poco.
Quindi,
a quasi 12 anni dall’uccisione dei 7 operai della Thyssenkrupp,
dopo quasi nove anni per arrivare ad una sentenza definitiva di
condanna e dopo poco più di due anni di galera tutti i responsabili
di quelle morti sono o saranno liberi a breve perché “non
socialmente pericolosi”!
Il
rogo della Thyssenkrupp aveva aperto, per un attimo, uno squarcio
sulle condizioni intollerabili in cui sono costretti a lavorare gli
operai in fabbrica. Perciò la rabbia e lo sdegno per l’accaduto
dovevano essere immediatamente neutralizzati. Il processo di primo
grado ha avuto questa funzione.
Il
processo di primo grado si apre nel 2009 e si conclude nel 2011 con
condanne esemplari. L’amministratore delegato viene condannato ad
una pena di 16 anni e 6 mesi di reclusione per il delitto di omicidio
volontario e gli altri imputati a pene comprese tra 13 anni e 6 mesi
di reclusione e 10 anni e 10 mesi di reclusione, per i delitti di
omicidio colposo, incendio colposo con l’aggravante della
previsione dell’evento e della omissione dolosa (volontaria) di
cautele contro gli infortuni sul lavoro. “Questa è una sentenza
epocale, non era mai successo che per una vicenda di morti sul lavoro
venisse riconosciuto il dolo eventuale [la volontarietà dell’azione
pur sapendo delle conseguenze della stessa. Ndr.]” dichiara il PM
Guariniello,
L’illusione
di una giustizia per gli operai morti per mano della magistratura
dura lo stretto necessario affinché tutto torni alla normalità. La
Thyssenkrupp naturalmente ricorre in appello e la Corte d’Assise di
Appello di Torino, nel 2013 emette una nuova sentenza che ribalta la
sentenza di primo grado e ristabilisce l’ordine delle cose per i
condannati. Elimina il dolo [la volontarietà] dell’azione degli
imputati e riduce i reati alla fattispecie colposa. Si parla di
delitto colposo ogni volta che l’evento (nel nostro caso la morte)
non è voluto ma si è verificato “a causa di negligenza o
imprudenza o imperizia, ovvero per l’inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline”. Le pene naturalmente vengono
notevolmente ridotte. Nel 2014 la Cassazione conferma la sentenza
d’appello ma chiede di rivedere le pene. Solo nel maggio del 2016
la Cassazione conferma definitivamente le pene (oramai quasi
dimezzate rispetto alle richieste iniziali del PM Guariniello). A
questo punto inizia il lavoro degli avvocati che, in considerazione
del profilo dei loro clienti (manager pieni di soldi), hanno gioco
facile nel fare richiesta di misure alternative di detenzione e
ottenerle come abbiamo visto sopra.
Insomma,
per la legge morire in fabbrica è una fatalità, come essere
investito da un’auto. Il padrone, i manager non vogliono la mia
morte: infatti è proprio l’assenza dell’intenzionalità che
distingue l’omicidio colposo dall’omicidio volontario! Ogni
giorno, in Italia, muoiono in media 4 operai, una strage. Una strage
che nonostante le condanne, le denunce, continua anno dopo anno. Si
muore per mancanza di sicurezza, per la fatica ed i ritmi infernali,
per le sostanze pericolose e velenose utilizzate. Chi stabilisce e
chi costringe a lavorare in quelle condizioni gli operai? Con quali
finalità? Alla Thyssen, come in tutte le aziende, amministratore
delegato, manager, direttori, responsabile alla sicurezza, persone
che hanno studiato, fatto carriera, professionalmente preparate ed
affermate, si riunivano nei loro uffici ben arredati, decidevano,
elaboravano, numeri alla mano, strategie, metodi, azioni per
massimizzare i profitti del padrone che li pagava profumatamente. I
soldi devono fruttare profitti e non vanno sprecati (eccetto che per
i loro stipendi naturalmente), gli operai è naturale che devono
essere spremuti. Non è certo colpa loro se il mercato richiede che
si produca a certi prezzi e che gli operai debbano essere trattati
così. Così come non aveva senso spendere soldi nei sistemi di
sicurezza di un impianto che a breve andava trasferito e su cui, tra
l’altro, gli enti di controllo (compiacenti e conniventi) non
avevano mai verificato anomalie, anche se questo metteva a rischio la
vita degli operai che ci lavoravano. Cosa c’è di più naturale per
questi uomini che ragionare così ed agire di conseguenza. Non è
questione di volontà ma sono le leggi del mercato – ci diranno -,
ed intanto decidono di condannare a morte sette operai.
L’omicidio
di un operaio non viene giudicato come tale ma come fatalità che non
dipende dalla loro volontà di arricchirsi. La sentenza Thyssen, ci
dimostra ancora una volta che, anche di fronte ad un omicidio, la
tutela dell’interesse del padrone a ottenere i propri profitti non
può essere messa in discussione. Chi detiene il potere economico e
politico non può essere considerato “socialmente pericoloso”.
Sarebbe la rivoluzione sociale.
P.S.
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