sabato 17 ottobre 2015

17 ottobre - Riceviamo e pubblichiamo: Il contratto dei chimici è corporativo e fascistta

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un commento di cremaschi e la nostra linea per i contratti
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La resa lampo di Cgil-Cisl-Uil sui contratti 
Viene in mente il primo accordo alla Chrysler tra Marchionne e il sindacato dell'auto, quello firmato in un giorno e poi bocciato dai lavoratori. In ventiquattr'ore di incontri la Federchimica e i sindacati chimici di CGILCISLUIL hanno firmato il rinnovo del contratto nazionale di lavoro. L'accordo è avvenuto mentre il presidente della Confindustria rendeva noti cinque punti pregiudiziali degli industriali per la "riforma" dei contratti. È difficile credere che l'industriale chimico Squinzi ignorasse ciò che avveniva al tavolo della sua categoria. Ed infatti se si confrontano i cinque punti con il testo dell'accordo si vede che essi ci sono dentro proprio tutti. La Confindustria chiede l'impegno dei sindacati a garantire l'applicazione del Jobsact, ci sono stati accordi aziendali che lo mettevano in discussione, e a estendere la contrattazione aziendale senza però farla diventare territoriale. Il testo firmato risponde pienamente a queste due condizioni. Il secondo livello di contrattazione sarà solo aziendale, verrà sottoposto al controllo delle strutture nazionali e dovrà "garantire il rispetto dei termini e delle procedure delle norme di legge". In questo modo si risponde anche al terzo dei punti confindustriali, la centralità del contratto nazionale. Questa rivendicazione parrebbe contraddittoria con lo sviluppo della contrattazione aziendale, di cui gli industriali hanno fatto una bandiera. Ma non è così. Ciò che si fa in azienda deve servire a migliorare produttività e competitività del lavoro, deve rendere variabili, anche verso il basso, i salari e aumentare l'orario di lavoro, soprattutto senza pagare troppo gli straordinari. La contrattazione aziendale che viene esaltata dai banchieri e dalla Troika dell'austerità non è la libertà di contrattazione ma il suo esatto contrario. Ci vuole un controllo rigido dall'alto su di essa, che eviti il conflitto di lavoro ed esalti la complicità sindacale. Del resto ci sono già accordi interconfederali e leggi che danno alle imprese il diritto a derogare in azienda alle regole dei contratti nazionali. In soldoni la contrattazione aziendale deve servire a peggiorare salario e condizioni di lavoro e questo deve avvenire sotto il controllo centralizzato del contratto nazionale. Che diventa così una sorta di istituzione poliziesca, che ha il compito di presiedere allo smantellamento di ciò che resta dei diritti.
Per questo la Confindustria afferma che il rinnovo dei contratti nazionali debba avvenire anche senza aumenti salariali. Il contratto dei chimici realizza questo suo obiettivo. Come recita il quarto punto, le imprese chiedono che gli eventuali aumenti dei contratti possano essere eliminati se i prezzi aumentano meno del previsto. Una sorta di scala mobile alla rovescia che è stata rigorosamente realizzata nel contratto chimico. Gli industriali pretendevano la restituzione di 79 euro di aumenti dei contratti passati, perché l'inflazione era stata sopravvaluta. Sono stati generosi, si sono accontentati di scontare 15 euro dal rinnovo contrattuale, assorbendo negli aumenti l'ultima tranche del contratto precedente. Così, contrariamente a quanto annunciato da CGILCISLUIL, nelle buste paga dei lavoratori chimici dovrebbero entrare, a partire dal 2017, 85 e non 100 euro lordi scaglionati. Scrivo dovrebbero perché in realtà nemmeno gli 85 euro sono sicuri. Infatti il nuovo accordo prevede che nel giugno di ogni anno aziende e sindacati si incontrino per verificare come è andata davvero l'inflazione. Se fosse minore del previsto, dovrebbe essere tagliato il salario corrispondente dagli aumenti previsti per l'anno successivo. Immagino che gli sfacciati dirigenti dei sindacati chimici spieghino che questa clausola può giocare anche a favore dei lavoratori, nel caso di aumento repentino dei prezzi. Peccato che tutte le previsioni economiche escludano questa prospettiva, mentre ritengono probabile quella opposta. Se questa clausola avesse comportato la possibilità di una crescita dei salari superiore a quanto concordato, gli industriali non l'avrebbero mai proposta. Ma non si tratta solo di misere e aleatorie quantità salariali in un settore che sta facendo rilevanti profitti. Con questo accordo viene cancellato il concetto stesso di aumento retributivo nel contratto nazionale. I soldi dei contratti nazionali possono solo essere quelli di una scala mobile povera e aleatoria. Per questo si cancellano anche gli scatti di anzianità nel Tfr e un po' alla volta tutte le voci retributive nazionali. Il salario fisso nazionale deve essere sostituito da quello flessibile aziendale, se i profitti vanno bene forse lo prendi, se vanno male sicuramente no. Salta così la funzione di eguaglianza sociale dei contratti, quella che ha fatto crescere per decenni le paghe, i diritti e la dignità del lavoro. I contratti nazionali diventano la cornice burocratica ed autoritaria dove aziende e sindacati amministrano il corporativismo aziendale. Il peggio del modello sindacale americano e di quello tedesco mescolati assieme. Il quinto punto è un po' la ciliegina sulla torta. La Confindustria reclama più welfare aziendale e i sindacati confederali non sono certo insensibili a questo grido di dolore. Così il contratto si conclude con il rilancio dei fondi pensione, di quelli sanitari, degli organismi bilaterali e di tutto quello che serve alle burocrazie padronali e sindacali per giustificarsi reciprocamente. Ci sono infine piccole angherie che però servono a far capire ai lavoratori l'aria che tira. L'accordo definisce ulteriori irrigidimenti delle già stringenti procedure per mettersi in malattia e l'aumento dei giorni di sospensione e delle ore di multa in caso di infrazioni. Il nuovo contratto dei chimici è la controriforma della contrattazione chiesta dagli industriali. E siccome quel contratto è sempre il più alto nell'industria, c'è solo da rabbrividire pensando a cosa si prepara per metalmeccanici e tessili. Se dovessimo definire con una battuta questo accordo, sarebbe semplice affermare che questo è il Jobsact contrattualizzato. I proclami di CGIL e UIL contro il governo e la Confindustria, la CISL non ha nemmeno alzato la voce, hanno avuto la stessa efficacia di quelli della sinistra PD contro Renzi. Che ha ben giocato il ruolo del poliziotto cattivo minacciando la legge, mentre Squinzi faceva quello buono offrendo il contratto che serviva ad entrambi. La complicità e lo stato di inettitudine confusionale, la paura che governano i gruppi dirigenti di CGILCISLUIL hanno fatto il resto. Così quelli che una volta erano i sindacati più forti d'Europa hanno battuto il record di velocità nella resa, con una vertenza durata appena 24 ore. Per un mondo del lavoro che subisce una terribile regressione nelle proprie condizioni i grandi sindacati confederali oggi sono parte del problema e non delle soluzioni.
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la battaglia politica dei contratti
I padroni, forti del governo Renzi, il governo più padronale del dopoguerra, si sentono sufficientemente forti per un'ulteriore offensiva antioperaia, antisindacale. Per questo i toni del presidente della Confindustria, Squinzi, negli ultimi tempi sono sempre più simili a quelli di Marchionne. In materia di rinnovi dei contratti si vuole dare un colpo finale al contratto nazionale. Da un lato dietro l'affermazione di rito “il contratto collettivo nazionale di lavoro mantiene la sua centralità e la sua funzione”, si procede invece con una sua sostanziale cancellazione, rimandando le materie della trattativa su salario, condizioni di lavoro, mansioni alla cosiddetta “contrattazione aziendale” che è stata da sempre la fregatura per imporre, azienda per azienda e poi in generale, taglio dei salari, più sfruttamento, con allungamento orario di lavoro, ecc. Sugli aumenti salariali si vuole sostanzialmente cancellare ogni riferimento all'inflazione programmata e lasciare in campo solo il legame tra salario e produttività, dove però la stessa produttività è ormai intesa come mercato. Ma questo sarebbe ancora nell'ordine delle cose, queste richieste padronali non sono nuove e sono una costante negli ultimi decenni, prima della crisi, durante la crisi, con il sostegno di tutti i governi che si sono succeduti. Il salto di qualità della richieste della Confindustria è contenuto nella prima regola delle linee guida che la Confindustria ha appena diffuso alle categorie impegnate nella prossima tornata contrattuale: “Non si deve assolutamente rinunciare ad applicare le novità del jobs act”. Questo pone la Confindustria tutta sulle linee contenute sostenute da Marchionne per il gruppo Fiat, oggi Fca che era stato uno dei motivi dell'uscita della Fiat dalla Confindustria. E' il punto che sancisce il legame ferreo tra padroni e governo Renzi che si pone a diktat nel rinnovo dei contratti nazionali e inserisce i nuovi contratti nella cornice dell'assetto neocorporativo di stampo moderno fascista. Mettere a premessa dei contratti il jobs act, vuol dire mettere a premessa la libertà di licenziamento, la flessibilità e precarietà selvaggia e l'azzeramento dei diritti dei lavoratori nel loro complesso, sia pure sotto la veste “valido per i nuovi assunti”. Se non si comprende questo è evidente che non si coglie il nodo politico che è al centro del rinnovo contrattuale, che non è tanto le piattaforme, su cui si assiste al solito gioco delle parti. Gioco delle parti, tanto per cominciare, che non esiste nella maggiorparte delle categorie che rinnovano i contratti. I chimici, ad esempio, hanno presentato pressocchè sempre piattaforme unitarie e hanno firmato accordi spesso senza scioperi, sempre non rispondenti alle esigenze dei lavoratori e peggiorativi nelle normative sulle condizioni di lavoro, secondo una linea collaborazionista neocorporativa che è storica di questi sindacati di categoria dal finire degli anni '70 in poi. Quindi prendiamo in considerazione i metalmeccanici che sono il cuore, come sempre, del rinnovo dei contratti nazionali. Qui il gioco delle parti vede Fim e Uilm che hanno già presentato la loro piattaforma, i cui dettagli analizzeremo in seguito, e la Fiom che ne presenta un'altra tutta di bandiera, ben sapendo che non conterà nulla ai tavoli della trattativa reale e serve solo al gruppo dirigente per animare il falso movimento che non ha portato alcun risultato agli operai, almeno nelle ultime tre tornate contrattuali. Ma il punto vero su cui occorre battersi perchè ci sia comprensione tra gli operai, è che le piattaforme non contano davvero nulla. Lo scontro sui contratti è uno scontro sindacale nella forma, tutto politico nella sostanza.
La classe operaia e i lavoratori hanno necessità di contestare la gabbia neocorporativa padroni e governo, trasformando la vicenda contrattuale in guerra di classe, il che significa agire dentro le fabbriche e le assemblee operaie, fuori e contro tutte le direzioni sindacali, imponendo rivendicazioni salariali, tutele del lavoro e delle condizioni di lavoro sulla base di nuove forme di lotta che non riconoscano nessuna legittimità alle normative vigenti e alla ritualità che sono solo una camicia di forza per imporre la cancellazione del contratto nazionale e non la sua ripresa, le norme della subordinazione assoluta agli interessi dei padroni e la riduzione della classe operaia a senza diritti e in regime di schiavismo. L'opposizione interna alla Fiom, il “Sindacato è un'altra cosa”, dice in generale cose molto giuste nella critica all'orientamento maggioritario della Cgil e alle conciliazioni di Landini; ma la sua presenza in fabbrica resta vincolata a un modo di fare la lotta e costruire l'organizzazione sindacale di classe che oggi è inadeguato a contrastare il sindacalismo collaborativo e ad offrire un'alternativa di percorso. Il sindacalismo di base nella sua espressione maggioritaria ha un peso in singole aziende ma non può averlo nella dimensione della battaglia nazionale, dove rimangono le vecchie logiche burocratiche, autoreferenziale, buona per qualche tessera ma inadeguata nell'animare l'effettivo conflitto di classe. Anche i gruppi di operai e lavoratori che si muovono fuori da questi contesti non riescono oggi ad avere né progettualità né stile di lavoro che possa riorganizzare dal basso i lavoratori. Lo Slai cobas di Pomigliano ed Arese riduce tutta la sua attività ormai a vertenze legali esemplari che certamente non possono far rinascere la forza dei cobas in seno alle fabbriche attuali. Gruppi di operai attivi come quelli della Marcegaglia e quelli recentemente riunitisi nell'ambito e intorno al Si.Cobas su spinta del Comitato dei cassintegrati con una proposta di rete, sono pieni di lodevoli intenzioni ma hanno scelto principalmente la via o dell'azione “eclatante”, utile in alcune circostanze, ma francamente inutile e anche controproducente per una riorganizzazione effettiva nelle fabbriche e posti di lavoro, improponibile per la massa degli operai. Anche nella riunione della rete (Si.Cobas) la prospettiva è la piattaforma alternativa, che è, come dire, cominciare dalla fine. Come dimostra invece in maniera eloquente tutta l'esperienza di lotta degli immigrati della logistica, c'è prima la ribellione, la lotta dura, la conquista sul campo dei lavoratori, che poi naturalmente può cementarsi in una piattaforma da contratto nazionale. In questo panorama non ci sono oggi vie facile o scorciatoie se non quella di usare la battaglia contrattuale per tradurre nei fatti, generalizzando focolai ed esperienze avanzate secondo la linea indispensabile della guerra di classe. Questo è difficile ma è possibile.
proletari comunisti-PCm Italia
15 ottobre 2015

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