NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
LE “FREQUENTLY
ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.8
Nella
mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro,
spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a
svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di
ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella
mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di
Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.
In qualche caso invece le richieste che mi
pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche
risposte a domande su temi molto specifici e limitati.
Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso
diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked
Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia
newsletter.
Ovviamente,
per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i
lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto
il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.
************
DOMANDA
Buongiorno,
una domanda:
ieri sono andata a prendere il registro degli infortuni da gennaio a ora
(tantissimi) che servono per la relazione di fine anno e mi è stato detto che
non possono darmi la copia ma li devo trascrivere.
E’ possibile
questo?
Ci vogliono
dieci ore a trascrivere tutto.
Mi fai
sapere?
Grazie.
RISPOSTA
Ciao
Adriana,
sollevi
un problema spinoso, che è stato oggetto da tempo di dibattito senza arrivare
ancora a una risoluzione legislativamente definitiva.
Partiamo
dal D.Lgs.81/08 che afferma all’articolo 18, comma 1, lettera o) (obblighi
sanzionabili a carico del datore di lavoro e dei dirigenti):
“Il datore di lavoro [...], e i dirigenti [...] devono consegnare tempestivamente al
rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su richiesta di questi e per
l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’articolo 17,
comma 1, lettera a) [documento di valutazione dei rischi], anche su
supporto informatico come previsto dall’articolo 53, comma 5, nonché consentire al medesimo rappresentante
di accedere ai dati di cui alla lettera r); il documento è consultato esclusivamente in azienda”.
La lettera r) a cui fa riferimento la lettera o)
afferma poi che:
“Il datore di lavoro [...], e i dirigenti [...] devono comunicare in via telematica all’INAIL [...] i dati e le informazioni relativi agli
infortuni sul lavoro che comportino l’assenza dal lavoro di almeno un giorno,
escluso quello dell’evento e, a fini assicurativi, quelli relativi agli
infortuni sul lavoro che comportino un’assenza dal lavoro superiore a tre
giorni [...]”.
L’articolo
50, comma 1, lettera e) del medesimo Decreto (attribuzioni dei RLS) afferma poi
che:
“Fatto salvo quanto stabilito in sede di
contrattazione collettiva, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza
riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione
dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle
sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla
organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie
professionali”.
Quindi,
secondo il Decreto, è evidente che il RLS debba ricevere la documentazione
aziendale relativa a salute e sicurezza, tra cui il registro infortuni.
Il
problema si pone sulle modalità di consegna, in quanto il citato articolo 18,
comma 1, lettera o), relativamente al documento di valutazione dei rischi, ma
la cui “ratio” si può estendere al resto della documentazione da consegnare al
RLS, afferma che “il documento è consultato esclusivamente in azienda”.
Cosa
significhi nella pratica ciò non è stato ancora specificato, in modo univoco in
sede legislativa.
Non è
stato quindi ancora specificato se consegna e la consultazione prevede solo la
mera disponibilità dei documenti in azienda senza però che essi possano essere
fotocopiati o portati fuori della azienda, oppure se sussiste quest’ultima
possibilità.
La Commissione
interpelli (Interpello
in materia di sicurezza n.52 del 19 dicembre 2008) alla specifica domanda
riguardante la “possibilità di consegna al rappresentante dei lavoratori
per la sicurezza del documento di valutazione dei rischi unicamente su supporto
informatico” ha
dato la seguente risposta:
“Non essendo
prevista alcuna formalità per la consegna del documento, l’adempimento
all’obbligo di legge è comunque garantito mediante consegna dello stesso su
supporto informatico, anche se utilizzabile solo su terminale video messo a
disposizione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza giacché tale
modalità, consentendo la disponibilità del documento in qualsiasi momento ed in
qualsiasi area all’interno dei locali aziendali, non pregiudica lo svolgimento
effettivo delle funzioni del RLS”.
Che sinceramente non chiarisce molto la questione,
anche se afferma la necessità della “disponibilità
del documento in qualsiasi momento ed in qualsiasi area all’interno dei locali
aziendali”.
Più chiarificatrice (e decisamente più orientata a una
garanzia reale delle attribuzioni del RLS) è la Sentenza del 29 gennaio 2010 della
Sezione Lavoro del Tribunale Ordinario di Milano che a tale proposito ha
affermato che:
“Ad ogni modo, poiché il ruolo del RLS
all’interno dell’azienda è posto a presidio e controllo della salvaguardia di
intessi di primaria importanza, quali sono quelli relativi alla salute dei
lavoratori ne deriva che il datore di lavoro dovrà consentire al RLS la
consultazione del DVR per tutto il tempo che sarà necessario, tenuto conto
della eventuale complessità del documento stesso. Non è dunque controvertibile
il fatto che il datore di lavoro abbia l’obbligo di consegna del DVR al RLS;
ciò che è cambiato è la possibilità alternativa per il RLS di richiedere in
quale forma preferisca consultare il documento stesso”.
Al
di là dell’affermazione di cui sopra, tale Sentenza ha valore particolarmente
significativo poiché conferma il decreto ingiuntivo con cui il RLS aziendale
aveva chiesto di poter consultare il DVR al di fuori della azienda e quindi,
eventualmente di fotocopiarlo.
In
conclusione, io mi rifarei a quest’ultima Sentenza (che però non sono sicuro che
sia passata in giudicato), chiedendo alla tua azienda di poter consultare il
Registro infortuni anche al di fuori dell’azienda oppure di fotocopiarlo.
Attenzione
però che grazie al Governo Renzi, a seguito dei Decreti attuativi del Jobs Act
decade l’obbligo di tenuta del Registro infortuni, in quanto uno di tali
Decreti ha modificato l’articolo 53, comma 6 del D.Lgs.81/08 (tenuta delle
documentazione) abrogando il periodo relativo alla tenuta del Registro
infortuni.
Va osservato che
l’abolizione del registro infortuni non esime il datore di lavoro e i dirigenti
delle aziende di dotarsi di uno strumento di monitoraggio del fenomeno
infortunistico, in quanto rimangono invariati l’articolo 18, comma 1, lettera
r) (comunicazione in via telematica all’INAIL delle informazioni sugli
infortuni che comportano l’assenza di almeno un giorno escluso quello
dell’infortunio) e 35, comma 2, lettera b) (esame nell’ambito della riunione
annuale del fenomeno infortunistico) del D.Lgs.81/08.
A
tua disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco
************
DOMANDA
Ciao,
nel mio
ufficio (Poste) hanno fatto dei lavori edili per nuovi servizi, riducendo lo
spazio per noi portalettere.
A me pare
che esista uno spazio previsto, ma non ne sono sicuro.
Forse varia
da lavoro a lavoro...
RISPOSTA
Ciao,
le
dimensioni minime degli ambienti di lavoro a livello generale sono definite dal
D.Lgs.81/08 (Decreto).
Il
loro rispetto costituisce un obbligo sanzionabile a carico del datore di
lavoro.
L’articolo
64, comma 1, lettera a) del Decreto impone infatti che:
“Il datore di lavoro provvede affinché i
luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di cui all’articolo 63, commi 1, 2
e 3”.
In
particolare l’articolo 63, comma 1 impone poi che
“I luoghi di lavoro devono essere conformi ai
requisiti indicati nell’allegato IV”.
Il mancato
adempimento dei contenuti dell’allegato IV del Decreto e, di conseguenza,
dell’articolo 64, comma 1 è sanzionato per datore di lavoro e dirigenti
dall’articolo 68, comma 1, lettera b) del Decreto con
l’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.000 a 4.800 euro.
In
merito agli spazi minimi degli ambienti di lavoro il punto 1.2 dell’allegato IV
del Decreto, che riporto per intero, stabilisce che:
“1.2. ALTEZZA,
CUBATURA E SUPERFICIE
1.2.1. I
limiti minimi per altezza, cubatura e superficie dei locali chiusi destinati o
da destinarsi al lavoro nelle aziende industriali che occupano più di cinque
lavoratori, ed in ogni caso in quelle che eseguono le lavorazioni che
comportano la sorveglianza sanitaria, sono i seguenti:
1.2.1.1.
altezza netta non inferiore a 3
metri;
1.2.1.2.
cubatura non inferiore a 10
metri cubi per lavoratore;
1.2.1.3.
ogni lavoratore occupato in ciascun ambiente deve disporre di una superficie di
almeno 2 metri
quadri.
1.2.2. I
valori relativi alla cubatura e alla superficie si intendono lordi cioè senza
deduzione dei mobili, macchine ed impianti fissi.
1.2.3.
L’altezza netta dei locali è misurata dal pavimento all’altezza media della
copertura dei soffitti o delle volte.
1.2.4.
Quando necessità tecniche aziendali lo richiedono, l’organo di vigilanza
competente per territorio può consentire altezze minime inferiori a quelle
sopra indicate e prescrivere che siano adottati adeguati mezzi di ventilazione
dell’ambiente. L’osservanza dei limiti stabiliti dal presente articolo circa
l’altezza, la cubatura e la superficie dei locali chiusi di lavoro è estesa
anche alle aziende industriali che occupano meno di cinque lavoratori quando le
lavorazioni che in esse si svolgono siano ritenute, a giudizio dell’organo di
vigilanza, pregiudizievoli alla salute dei lavoratori occupati.
1.2.5.
Per i locali destinati o da destinarsi a uffici, indipendentemente dal tipo di
azienda, e per quelli delle aziende commerciali, i limiti di altezza sono
quelli individuati dalla normativa urbanistica vigente.
1.2.6.
Lo spazio destinato al lavoratore nel posto di lavoro deve essere tale da
consentire il normale movimento della persona in relazione al lavoro da
compiere”.
Il punto 1.2.1 specifica che tali limiti sono validi “per aziende industriali che occupano più di
cinque lavoratori, ed in ogni caso in quelle che eseguono le lavorazioni che
comportano la sorveglianza sanitaria”. Pertanto visto che le Poste non sono
aziende industriali, essi si applicano solo nel caso in cui siate sottoposti a
sorveglianza sanitaria, anche in merito all’utilizzo dei videoterminali.
Negli altri casi (aziende non industriali e senza
sorveglianza sanitaria, si applicano le prescrizioni impartite dai regolamenti
urbanistici locali (punto 1.2.5).
In ogni caso gli spazi di lavoro devono essere tali da
consentire piena libertà di movimento ai lavoratori (punto 1.2.6).
Immagino che i lavori di ristrutturazione siano stati
svolti a seguito di progetto realizzato da professionista e che sia stata
richiesta autorizzazione a costruire al Comune competente.
Pertanto ritengo che i limiti imposti dai regolamenti
edilizi siano stati rispettati.
Provate però a fare una verifica in tal senso.
A disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco
************
DOMANDA
Salve,
nella nostra
azienda si sta valutando la possibilità di introdurre il lavoro notturno per la
gestione della centrale termica (attualmente affidata in appalto).
Le volevo
chiedere se per cortesia mi può far sapere quali sono gli enti competenti che
si occupano delle normative vigenti per la conduzione del lavoro notturno, in
modo da poterli interpellare e avere delucidazioni in merito.
Grazie.
Saluti.
Saluti.
RISPOSTA
Ciao,
per
tutto quanto attiene alla normativa di sicurezza sul lavoro (cioè le norme
contenute all’interno del D.Lgs.81/08 “Testo Unico” sulla sicurezza)
l’organismo pubblico di controllo è il settore Prevenzione Salute e Sicurezza
sui Luoghi di Lavoro della ASL competente per territorio, i cui ispettori sono
Ufficiali di Polizia Giudiziaria.
Per
quanto invece attiene al rispetto della normativa sull’orario di lavoro (il
D.Lgs.66/03) il controllo spetta all’Ispettorato del Lavoro competente per
territorio, i cui ispettori sono pure Ufficiali di Polizia Giudiziaria.
Poiché
le modifiche organizzative che intende adottare la tua azienda impattano su
entrambi gli aspetti, io farei ricorso a entrambi gli Enti.
Tieni
presente che, trattandosi di modifiche organizzative che toccano pesantemente
gli aspetti di salute e sicurezza dei lavoratori, la tua azienda è obbligata a
modificare il documento di valutazione dei rischi, analizzando cosa comporta la
modifica relativamente ai rischi per la salute e la sicurezza e definendo
misure di prevenzione e protezione per eliminare o ridurre l’aumento del rischio.
Il
riferimento normativo è l’articolo 29, comma 3 del D.Lgs.81/08 che stabilisce
che:
“La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel
rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in
occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del
lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in
relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della
protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della
sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. A seguito di tale
rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate. Nelle
ipotesi di cui ai periodi che precedono il documento di valutazione dei rischi
deve essere rielaborato, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, nel
termine di trenta giorni dalle rispettive causali. Anche in caso di
rielaborazione della valutazione dei rischi, il datore di lavoro deve comunque
dare immediata evidenza, attraverso idonea documentazione, dell’aggiornamento
delle misure di prevenzione e immediata comunicazione al rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza. A tale documentazione accede, su richiesta, il
rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.
Ovviamente
nella modifica del documento di valutazione dei rischi deve essere coinvolto,
come specificato esplicitamente nel dettato normativo di cui sopra anche il
Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza.
A
disposizione per ulteriori chiarimenti.
Un
caro saluto.
Marco
************
DOMANDA
Ciao Marco,
ho visto sulla tua Newsletter
l’articolo “Visite mediche a seguito di assenza lunga malattia” e avrei bisogno
di un chiarimento su tale aspetto.
Mia moglie è stata in malattia più
di 60 giorni per una frattura al polso sinistro per una caduta accidentale in
un giorno festivo.
Mia moglie rientra lunedì prossimo,
per cui volevo avere una dritta sulla procedura.
Non vorrei che il lunedì, non
essendoci il medico competente in azienda, la rimandino a casa senza essere
retribuita e con proprie ferie.
Grazie, ciao.
RISPOSTA
Ciao,
la visita medica a seguito di lunga assenza dal lavoro
per motivi di salute è regolamentata dall’articolo 41, comma 2, lettera e-ter), che stabilisce che:
“La sorveglianza
sanitaria comprende [...] visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per
motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine
di verificare l’idoneità alla mansione”.
La “ratio” del disposto legislativo è quella di
stabilire se un lavoratore a seguito di una lunga assenza per motivi di salute
(a seguito di malattia o di infortunio) sia ancora idoneo fisicamente a
svolgere il lavoro specifico della sua mansione.
E’ compito del medico competente stabilire se la lunga
assenza dal lavoro e la patologia che l’ha causata possano avere annullato o
ridotto la idoneità del lavoratore a svolgere i compiti lavorativi propri della
sua mansione, a fronte dei rischi specifici della mansione stessa.
Mi spiego con due esempi.
Se un videoterminalista (che svolge la sua mansione in
un ambiente climaticamente adeguato, cioè con adeguato impianto di
riscaldamento) manca per più di 60 giorni per una polmonite, il medico
competente non potrà che, una volta acquisiti i referti medici relativi alla
malattia, confermare l’idoneità del lavoratore alla sua mansione specifica che
non comporta (a seguite della adeguata climatizzazione degli ambienti di
lavoro) rischi di natura climatica fredda.
Se, al contrario, un addetto al magazzino (che svolge
la sua mansione con ripetuti sollevamenti di carichi pesanti) manca per più di
60 giorni per un’ ernia discale, il medico competente dovrà, una volta
acquisiti i referti medici relativi alla malattia, verificare se lo stato di
salute del lavoratore sia già in grado di riprendere un’attività lavorativa
potenzialmente a rischio per la colonna vertebrale interessata dalla patologia,
esprimendo, in alternativa un giudizio di non idoneità totale, oppure di
idoneità totale, oppure ancora di idoneità con prescrizione (non sollevare più
di...kg).
Pertanto non ci sono regole assolute, ma solo relative
alla patologia subita e alla mansione svolta.
E questo lo può stabilire solo il medico competente.
A disposizione per ulteriori chiarimenti.
Un caro saluto.
Marco
************
NOTA
Nel
testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i
seguenti acronimi e termini:
ASL
= Azienda Sanitaria Locale
CCNL
= Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
DPI
= Dispositivi di Protezione Individuali
DVR
= Documento di Valutazione dei Rischi
DUVRI
= Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori
in appalto
RSPP
= Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
RLS
= Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza
D.Lgs.81/08
o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e
integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)
AUMENTO DELL’ETA’
PENSIONABILE: UNA QUESTIONE DI VITA O DI MORTE
Da
La Città Futura
8
Gennaio 2016
di
Carmine Tomeo
Sotto
il governo guidato dal segretario del PD, Matteo Renzi aumenta ancora l’età
pensionabile.
Si
dirà che questo è l’effetto della riforma Fornero. Ma quella riforma era nata
con il cosiddetto governo tecnico di Mario Monti, sostenuto anche dal PD. E
soprattutto, PD e alleati di centrodestra quella riforma non si sono mai
sognati di modificarla. D’altronde, l’attuale Presidente del Consiglio è quello
che nel 2013, poche settimane prima di assumere l’incarico di segretario del PD
e a pochi mesi dall’inizio del suo mandato, senza titubanze affermava che “è
naturale in un Paese che vive 20 anni in più rispetto al passato che si lavori
qualche anno in più”.
Il
risultato? In Italia aumentano i morti come fossimo in guerra. Il bilancio
demografico dell’ISTAT mostra un aumento del numero di decessi nel 2015 di
68.000 unità in più rispetto al 2014, che trova ordini di grandezza
comparabili, appunto, solo con gli anni di guerra.
Detto,
fatto.
Da
quest’anno si dovrà lavorare 4 mesi in più prima di poter andare in pensione.
In questo modo, gli uomini, siano essi dipendenti o lavoratori autonomi,
potranno andare in pensione all’età di 66 anni e 7 mesi, le donne, a 65 anni e
7 mesi per le lavoratrici del settore privato e a 66 anni e un mese per le
lavoratrici autonome.
Provate
a immaginare un uomo quasi settantenne su un ponteggio a mettere su mattoni o a
spostare sacchi di cemento; oppure una donna ultrasessantenne costretta otto
ore in piedi, assumere posizioni anche scomode per assemblare pezzi in serie
ripetendo freneticamente la stessa operazione centinaia di volte al giorno.
Provate
ad immaginare un’infermiera a 65 anni sollevare di peso e accudire pazienti
anche più pesanti di lei; oppure un autotrasportatore di 66 anni costretto a
lunghi ed estenuanti viaggi per consegnare merci qua e là lungo la Penisola e
oltre.
Nel
libro-intervista “La lotta di classe, dopo la lotta di classe”, Luciano Gallino
spiegava che “La fatica non uccide sul colpo, ma peggiora la vita e l’accorcia”.
Il
sociologo torinese affermava, dati alla mano, che la fatica da lavoro spiega un
accorciamento della speranza di vita: “L’esistenza di forti disuguaglianze
nella speranza di vita a danno delle persone che arrivano alla pensione da
carriere di lavoro subordinato con basso reddito e modesta posizione sociale è
ampiamente documentata nella letteratura internazionale”.
Si
arriva quindi a “una inaccettabile redistribuzione di risorse a scapito delle
persone che arrivano alla pensione da carriere di lavoro subordinato con basso
reddito e modesta posizione sociale, risorse che vengono riversate sui gruppi
sociali più avvantaggiati”, affermava Gallino.
E
questo è un chiaro “indicatore di classe”.
Ecco,
vista così, non è poi così naturale, come afferma Renzi, andare in pensione più
tardi, mentre è palese l’attacco padronale contro quelle classi sociali più
deboli fatte di persone che per il lavoro che svolgono vedono accorciata la
loro speranza di vita; e che sono costrette a condizioni di vita, durante gli anni
della pensione, sempre più drammatiche.
Dopo
anni vissuti a lavorare subendo carichi e ritmi di lavoro sempre più intensi, i
pensionati si ritrovano con schiene affaticate, braccia doloranti, malattie
professionali. E con una pensione che troppo spesso non permette l’accesso alle
cure mediche.
L’ultimo
rapporto INPS (2014) mostra che quasi 5 milioni e mezzo di pensionati per
vecchiaia percepisce mediamente poco più di 700 euro al mese. Soldi che spesso
non sono sufficienti nemmeno per una vita dignitosa, specie con i tagli alla
spesa sociale che sistematicamente e con cinismo vengono portati avanti da
governi filo padronali.
Il
risultato? Come detto, in Italia aumentano i morti come fossimo in guerra.
E’
presto per spiegare compiutamente il fenomeno, ma Gian Carlo Blangiardo,
docente di demografia presso l’Università di Milano Bicocca, lancia un allarme.
Secondo il professor Blangiardo, la rilevazione dell’ISTAT deve essere
consegnata “alla riflessione sia del mondo scientifico, sia di quello della politica,
della pubblica amministrazione e del welfare”. Siamo infatti di fronte ad “un
evento straordinario che richiama alla memoria l’aumento della mortalità nei Paesi
dell’Est Europa nel passaggio dal comunismo all’economia di mercato: un déjà vu
che non vorremmo certo rivivere”.
Quell’economia
di mercato la cui logica trova applicazione nei provvedimenti di governi
nazionali come quello italiano che applicano servilmente i memorandum della
troika. Provvedimenti che si traducono in tagli anche a settori essenziali come
la sanità pubblica. Una politica, ricorda ancora Blangiardo, che “può avere
effetti molto pesanti sul già fragile sistema demografico”.
Un
altro dato dovrebbe fare riflettere chi, come Renzi, sostiene che è naturale
aumentare l’età pensionabile: i morti sul lavoro.
Fino
a tutto il mese di ottobre del 2015, sono stati denunciati 185 infortuni con
esito mortale di lavoratori tra i 55 e i 64 anni e 79 di lavoratori di oltre 65
anni di età. Questo dato, in rapporto agli occupati delle stesse classi di età,
si traduce con la macabra statistica di 7 morti ogni 100.000 lavoratori nella
fascia di età tra i 55 ed i 64 anni e di 21 morti sul lavoro ogni 100.000
lavoratori che, compiuti 65 anni, anziché godersi una meritata pensione, la
mattina si alzano per andare al lavoro.
La
statistica fredda e spietata mostra che i lavoratori con più di 64 anni di età
sono vittime di infortuni mortali con una frequenza maggiore di 5 volte
rispetto a chi ha non più di 54 anni e addirittura 23 volte rispetto a lavoratori
che hanno un’età compresa tra i 25 ed i 34 anni.
E
siamo di fronte a cifre che sono confermate anno dopo anno e che sarebbero
anche peggiori se non ci fermassimo a leggere i dati ufficiali dell’INAIL,
visto che questi riguardano solo i lavoratori assicurati a quell’ente. Ma ciò
dimostra il fatto che costringere al lavoro persone in età avanzata significa
esporre cinicamente i lavoratori al serio rischio di abbandonare il posto di lavoro
stesi dentro una bara.
E’
in un quadro così macabro che il governo guidato dal segretario del PD permette
ancora l’innalzamento dell’età pensionabile.
C’è
di che riflettere.
Soprattutto,
c’è da incazzarsi e da cominciare ad organizzare una seria di risposta
all’attacco di classe del padronato e dei governi suoi amici. E’ proprio il
caso di dire che è una questione di vita o di morte.
LA GESTIONE DELLA
SICUREZZA NEGLI APPALTI
Da
FILCAMS CGIL Lombardia
Nella
FILCAMS è un tema spesso sottovalutato dagli stessi lavoratori e delegati e di
conseguenza anche dai funzionari, troppo impegnati nell’affrontare la
quotidianità fatta di riduzioni di ore, mancati pagamenti continui cambi di
datori di lavoro.
Per
questo abbiamo tenuto il 9 dicembre 2015 a Milano un momento di studio e
approfondimento sul tema insieme alla dottoressa Tiziana Vai dell’ASL città di
Milano.
Vogliamo
qui focalizzare l’attenzione di tutti su un tema su cui varrebbe la pena di
intervenire.
Il
D.Lgs.81/08 affronta il tema degli appalti nell’articolo 26, articolo poco
letto e ancor meno utilizzato da RSA, RLS e funzionari sindacali.
Ora
senza voler elencare tutti quelli che sono gli obblighi del committente in
materia di sicurezza, vorremmo che i RLS degli appalti, ma anche i funzionari
che seguono il settore iniziassero a esigere dal committente quanto previsto
dal comma 3 del citato articolo 26 del D.Lgs.81/08:
“Il
datore di lavoro committente promuove la cooperazione e il coordinamento di cui
al comma 2, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi
le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo
i rischi da interferenze ovvero individuando, limitatamente ai settori di
attività a basso rischio d’infortuni e malattie professionali di cui
all’articolo 29, comma 6-ter, con riferimento sia all’attività del datore di
lavoro committente sia alle attività dell’impresa appaltatrice e dei lavoratori
autonomi, un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza
professionali, adeguate e specifiche in relazione all’incarico conferito,
nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell’ambiente di
lavoro, per sovrintendere a tali cooperazione e coordinamento. In caso di redazione
del documento esso è allegato al contratto di appalto o di opera e deve essere
adeguato in funzione dell’evoluzione dei lavori, servizi e forniture. A tali
dati accedono il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e gli organismi
locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più
rappresentative a livello nazionale [...]”.
A
seguire trovate un modulo di richiesta di tali dati.
Vi
ricordiamoo ulteriori obblighi che riguardano le aziende che si sono dotate di
un “modello organizzativo di gestione idoneo ad avere attività esimente della
responsabilità amministrativa” (ai sensi del D.Lgs.231/01).
L’applicazione
del modello di organizzazione e gestione di cui all’articolo 30 del D.Lgs.81/08
prevede tra l’altro l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi:
-
alle
attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle
istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori (lettera f);
-
alla
acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie per legge (lettera
g);
-
alle
periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure
adottate lettera h).
Le
slides dell’intervento tenuto dalla dottoressa Tiziana Vai dell’ASL città di
Milano, sono visionabili all’indirizzo:
*
* * * *
MODULO
RELATIVO ALLA RICHIESTA DI INFORMAZIONI PER LAVORAZIONI AFFIDATE IN APPALTO
Al Datore
di Lavoro dell’azienda appaltante
Al
Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione dell’azienda appaltante
OGGETTO: RICHIESTA DOCUMENTAZIONE DI CUI COMMI 3 E 5
DELL’ARTICOLO 26, COMMA 3 DEL D.LGS 81/08
Con la
presente la scrivente Organizzazione Sindacale / lo scrivente Rappresentante
dei Lavoratori per la Sicurezza dell’azienda ________________ (appaltata)
richiede ai sensi della normativa in oggetto di ricevere copia del Documento
Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza (DUVRI ex articolo 26, comma 3
del D.Lgs.81/08) da voi predisposto, in quanto committente, dell’appalto
___________ per lavorazioni da eseguire negli ambienti di lavoro della Vostra
azienda e affidato alla azienda ________________ (appaltata).
Si
richiede altresì di conoscere i dati relativi a “i costi delle misure
adottate per eliminare o, ove ciò non sia possibile, ridurre al minimo i rischi
in materia di salute e sicurezza sul lavoro derivanti dalle interferenze delle lavorazioni” così come
previsto dal comma 5 dello stesso articolo 26.
In attesa di un vostro sollecito riscontro, vi inviamo i nostri distinti
saluti.
Luogo
e data
SCEGLIERE I DISPOSITIVI DI
PROTEZIONE DEI PIEDI PIU’ IDONEI
Da:
PuntoSicuro
29 dicembre
2015
di Tiziano
Menduto
Informazioni
sui dispositivi di protezione dei piedi e sulle calzature antinfortunistiche. I
requisiti e le caratteristiche dei DPI, la classificazione, le protezioni
particolari per attività specifiche e i fattori da valutare per la scelta.
In molte
attività lavorative i piedi devono essere protetti da idonei Dispositivi di
Protezione Individuali (DPI) in relazione a diverse tipologie di rischio.
Ad esempio rischi
meccanici (schiacciamento, scivolamento, urti, tagli, ecc.), rischi chimici e
biologici (dello sversamento di prodotti chimici, contatto con materiali
biologici, ecc.), rischi fisici (umidità, acqua, temperatura, cariche
elettrostatiche, ecc.).
Per parlare
di calzature antinfortunistiche, di scarpe di sicurezza, ci soffermiamo oggi
sul contenuto del progetto multimediale Impresa Sicura (un progetto elaborato
da Ente Bilaterale Emilia Romagna, Ente Bilaterale Marche, Regione Emilia
Romagna, Regione Marche e INAIL) che è stato validato dalla Commissione
Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come “Buona prassi” nella
seduta del 27 novembre 2013.
Il documento
“Impresa Sicura DPI”, correlato al progetto, presenta anche la struttura
interna ed esterna delle calzature di sicurezza e ricorda che per evitare la
contaminazione delle scarpe o degli stivali da materiale chimico o biologico, è
possibile anche l’utilizzo di sovrascarpe/sovrastivali monouso, antiscivolo e
antistatici, generalmente dotati di elastico o di lacci da legare sopra la tuta
alla caviglia o al polpaccio.
In commercio
si trovano anche sovrascarpe/sovrastivali di protezione contro altri rischi
quali il calore, il freddo. Inoltre quando è necessario proteggere i polpacci
si utilizzano stivali, ma anche ghette. Le ghette, a differenza degli stivali,
sono un accessorio costituito solo dal gambale che ha il vantaggio di poter
essere indossato e tolto senza coinvolgere la calzatura e quindi può essere
utilizzato solo quando serve.
I requisiti
richiesti per le calzature antinfortunistiche sono relativi alla sicurezza,
alla salute, al comfort e all’estetica.
Queste sono
alcune possibili caratteristiche relative alla salute e sicurezza:
-
tomaia
resistente allo strappo e alla flessione;
-
fodere
resistenti allo strappo e all’abrasione;
-
suola
resistente all’abrasione, alle flessioni, all’idrolisi, agli idrocarburi;
-
resistenza
al distacco della tomaia/suola;
-
resistenza
alla corrosione dei puntali metallici;
-
protezione
da rischio di scivolamento;
-
resistenza
del battistrada agli oli minerali;
-
protezione
delle dita del piede con puntale in acciaio resistente all’impatto fino a 200
Joule.
Le calzature
antinfortunistiche si differenziano poi in relazione alle esigenze specifiche
di utilizzo e alle caratteristiche corrispondenti richieste.
E dunque la
scelta del corretto dispositivo di protezione dei piedi dipende dalla mansione
del lavoratore, dalle caratteristiche delle stesse e dai rischi presenti nei
luoghi di utilizzo.
Sono infatti
disponibili calzature di materiale diverso e con caratteristiche diverse,
quindi il termine generico “calzature antinfortunistiche” non è indicativo
della esclusività del dispositivo di protezione.
In
particolare si suddividono in due classi principali, in base al materiale del
corpo della calzatura:
-
Tipo I:
calzature di cuoio o altri materiali, escluse le calzature interamente in gomma
o in polimero;
-
Tipo II:
calzature interamente in gomma o in polimero.
Le classi I
e II si possono poi distinguere in 3 categorie (di sicurezza, di protezione, da
lavoro, cui corrispondono le sigle S, P, O derivanti dalle definizioni in
inglese) in base alle caratteristiche di protezione, definite da norme tecniche
separate: la differenza fra i tre tipi è data, in sostanza, dal diverso grado
di protezione del puntale (assente in quelle da lavoro e in grado invece di
assorbire la caduta di un peso di 20
kg da un’altezza di 1 metro, in quelle di
sicurezza).
Inoltre,
poiché gli scivolamenti e le cadute sono tra le maggiori cause di infortunio
sul lavoro tutte le calzature antinfortunistiche (classe I o II) devono essere
resistenti allo scivolamento.
Veniamo ai
requisiti di protezione aggiuntivi alle dotazioni di base minime, requisiti che
possono essere necessari per proteggere da alcuni rischi specifici.
Ad esempio,
rispetto al rischio elettrico, si devono indossare calzature conduttive o
almeno antistatiche: quelle conduttive (sigla C, classi I o II), sono
necessarie quando occorre ridurre al minimo le cariche elettrostatiche potenziali
causa di scintille (ad esempio nella manipolazione di esplosivi) e invece, al
contrario, sono da evitare accuratamente se non è stato completamente eliminato
il rischio di scosse elettriche prodotte ad esempio da elementi sotto tensione.
Le calzature
isolanti (sigla I, pittogramma con doppio triangolo) sono solo di classe II,
cioè interamente di gomma (cioè interamente vulcanizzate) o di materiale
polimerico (cioè interamente formate) e sono necessarie quando si ha rischio di
scosse elettriche (ad esempio nelle installazioni elettriche, nei lavori
elettrochimici, se ci sono apparecchi elettrici danneggiati con elementi sotto
tensione).
Riguardo
invece ai rischi termici, si possono avere calzature che isolano il piede dal
calore (HI), da usare quando si prevede presenza di forte calore (ad esempio se
si deve calpestare una superficie calda, come nei lavori di bitumazione
stradale o nella siderurgia), oppure, al contrario, calzature (CI) che isolano
dal freddo (ad esempio per lavori all’esterno a basse temperature o industria
alimentare con conservazione a freddo).
Esistono poi
anche protezioni particolari per attività specifiche, come nel caso delle
calzature resistenti:
-
al calore e
spruzzi di metallo fuso, come può avvenire in fonderia o in saldatura, per cui
è richiesto l’uso di specifica calzatura atta a proteggere contro i rischi
termici;
-
al taglio da
motosega a mano (sega a catena), sempre necessarie in tutte le attività che
comportano il maneggiare una sega a catena (ad esempio lavori boschivi, costruzioni,
industria del legno, ecc.); sono marcate con un pittogramma supplementare
rappresentante una sega a catena e un livello di protezione (riferito alla
velocità utilizzata nella prova);
-
agli
incendi: le calzature resistenti ai rischi per la lotta agli incendi
(protezione dal fuoco F) hanno una classificazione complessa ma, in estrema
sintesi, sono marcate con un pittogramma apposito e un simbolo (HLN) che indica
il livello di protezione relativo all’isolamento dal caldo.
Riguardo
infine ai criteri generali di scelta, il documento segnala che prima di
scegliere il modello più adatto all’utilizzatore, tra calzature basse o alla
caviglia, stivali al polpaccio o al ginocchio o alla coscia, è indispensabile
conoscere i rischi legati all’ambiente di lavoro, le condizioni ambientali e la
mansione di colui che le deve indossare.
Ed è
necessario operare una scelta fra le tre differenti categorie di calzature
antinfortunistiche (S, P, O), in base ai rischi meccanici, e poi, se
necessario, in base ai requisiti supplementari.
Quando, ad
esempio, è presente il rischio di caduta di gravi e di schiacciamento delle
dita (imprese edili, industrie metallurgiche, lavori agricoli, demolizioni di
fabbricati, ecc.) a seconda dell’entità del rischio saranno necessarie calzature
di sicurezza o di protezione con puntali (da S1 a S5 e da P1 a P5).
Quando è
presente il rischio di perforazioni della suola da parte di oggetti appuntiti
(ad esempio ristrutturazione di rustici, lavori stradali, lavori su
impalcatura, demolizioni, cantieri edili in generale ed aree di deposito) è
necessario come requisito aggiuntivo la resistenza alla perforazione (P).
Senza
dimenticare che la scelta di calzature inadatte può comportare problemi e
rischi aggiuntivi per l’operatore: peso eccessivo della calzatura, suola troppo
rigida, cattiva traspirazione, sensibilizzazione, scorretta posizione del piede
sul piano di calpestio o scelta inadatta rispetto al suolo su cui si deve
camminare, fanno sì che l’operatore rinunci all’ utilizzo di questi DPI, esponendosi
così al rischio.
L’accesso
via internet al sito “Impresa Sicura” è gratuito e avviene, tramite
registrazione, all’indirizzo:
LE CONSEGUENZE DELLA NORMATIVA SULLE
MALATTIE PROFESSIONALI
Da:
PuntoSicuro
29 dicembre
2015
di Tiziano
Menduto
Alcuni
interventi riflettono sulle conseguenze in questi ultimi venti anni della
normativa in materia di salute e sicurezza sugli infortuni lavorativi e sulle
malattie professionali. La situazione attuale, i mutamenti e i suggerimenti per
il futuro.
La normativa
in materia di salute e sicurezza sul lavoro (a partire dal D.Lgs.626/94 e con
riferimento alle leggi successive come il D.Lgs.494/96, il D.Lgs.81/08 e le
correlate leggi di modifica) ha portato importanti modifiche e cambiamenti.
Benché non
sia facile verificarne i risultati, un convegno che si è tenuto il 27 ottobre 2015 a Milano, promosso da
diverse associazioni, ha cercato di valutarli e di comprendere come poter
meglio calibrare le future strategie e obiettivi di prevenzione.
Stiamo
parlando del convegno dal titolo “A 20 anni dalla 626/94: quali risultati
possiamo valutare?” che si è dunque soffermato a ragionare sui risultati in
termini di salute e sicurezza nel lavoro conseguiti in conseguenza delle
trasformazioni normative degli ultimi venti anni.
Trasformazioni
che hanno comportato profonde modifiche nell’assetto istituzionale, nel sistema
e nelle responsabilità delle imprese e più in generale nelle modalità e
nell’assetto della prevenzione dei rischi lavorativi.
A presentare
il convegno e queste modifiche è stato un intervento introduttivo a cura di
Claudio Calabresi (Società Nazionale Operatori della Prevenzione).
L’intervento
ha ricordato che l’andamento degli infortuni negli ultimi anni ha evidenziato
un progressivo decremento, non senza criticità, certamente legato anche alle
modifiche produttive e negli ultimi anni alla crisi e alla contrazione del
lavoro (e c’è da aspettarsi, con l’attenuarsi della crisi, un arresto del
decremento e forse un nuovo aumento, di cui sembra ci siano già i segnali).
Riguardo
invece alle malattie professionali, si indica che tali malattie sono
complessivamente aumentate negli ultimi 7-8 anni, sostanzialmente per il
“decollo” delle patologie osteo-artro-muscolo-tendinee (70%), ma è probabile
che in qualche tempo si ritorni ad una diminuzione.
Il relatore
ricorda che stiamo assistendo a diverse elementi che potranno indurre nel
prossimo futuro a modifiche delle conseguenze del lavoro sulla salute: le
profonde modifiche produttive e dei rapporti di lavoro, con il procedere della
terziarizzazione e il progressivo rilevante decremento delle attività
manifatturiere, la flessibilità imponente con il frequente cambio di attività e
mansioni di un gran numero di lavoratori, la precarizzazione, il non-lavoro, la
disoccupazione alternata a lavori instabili, questi anni di crisi.
Mutamenti
possono avvenire anche nella distribuzione e tipologia degli infortuni sia,
forse soprattutto, nelle patologie professionali, con una diminuzione dei
quadri “classici”.
Aumenteranno,
infatti, le patologie psico-fisiche “multifattoriali” di non semplice interpretazione
causale, sempre più di confine tra lavoro e vita. Occorre quindi “attrezzarsi”
sempre di più per saper “leggere” (e far fronte a) questa probabile futura
evoluzione.
Non ci si
deve fermare poi agli infortuni e alle malattie professionali.
Ci sono
infatti altri effetti (meno “classificati”) sulla qualità della vita, sulle
variazioni biologiche, psico-fisiche nelle varie fasce di lavoratori, sulle
patologie che apparentemente non sono tipicamente di origine lavorativa o
vengono definite multifattoriali, sulla durata (o attesa) della vita.
Riguardo
alla popolazione lavorativa di cui occuparsi, il relatore indica che la
popolazione assicurata “stimata” presso l’INAIL è attualmente pari a circa 17
milioni di addetti, ma gli occupati stimati dall’ISTAT sono attualmente tra i
22 ed i 23 milioni e ci sono poi almeno circa 3 milioni di occupati (forse
anche più) che non lavorano in regola.
In
definitiva i lavoratori tutelati assicurativamente dall’INAIL, nei quali si
“contano” i danni da lavoro, sono circa il 70% dei lavoratori effettivamente
attivi nel Paese.
Claudio
Calabresi, che si sofferma anche sulla presenza di disomogeneità, di
diseguaglianze, in tema di diritti dei lavoratori, indica che occorre
potenziare e accelerare la costruzione di un valido, organico e completo
Sistema informativo, e aumentare la disponibilità e fruibilità delle informazioni
per le varie categorie di soggetti interessati e coinvolti.
Per
approfondire il tema delle conseguenze delle normative in materia di salute e
sicurezza sulle malattie professionali, ci soffermiamo brevemente anche
sull’intervento “Gli effetti dei cambiamenti normativi sulle malattie da
lavoro”, a cura di Alberto Baldasseroni (Centro Regionale Infortuni e Malattie
Professionali della Regione Toscana).
La relazione
si sofferma ampiamente sulla storia del riconoscimento delle malattie
professionali in Italia, a partire dall’Assicurazione obbligatoria contro le
Malattie Professionali (Regio Decreto n.928 del 13 Maggio 1929), entrata in
vigore il 1° gennaio del 1934, ma per l’indennizzabilità delle malattie dal 1°
luglio del 1934.
Sono poi
riportate indicazioni sull’andamento dei riconoscimenti con indennizzo delle 5
più frequenti malattie professionali (ipoacusia; dermatite da contatto e altri
eczemi; affezione dei dischi intervertebrali; malattie dei tendini e affezioni
delle sinoviali, tendini e borse; affezioni dei muscoli, legamenti, aponeurosi
e tessuti molli). Indicazioni che mostrano ad esempio, come evidenziato già da
Claudio Calabresi, l’aumento delle patologie osteo-artro-muscolo-tendinee e la
diminuzione delle ipoacusie nel periodo tra il 1994 e il 2012.
Il relatore
affronta poi il tema delle nuove patologie e indica anche che gli studi
epidemiologici documentano in maniera robusta che lo stress causa incrementi
nella patologia dei lavoratori esposti. Tuttavia i sistemi di monitoraggio
delle malattie professionali attualmente esistenti nel nostro paese non sono in
grado di cogliere questo fenomeno, dato che sono basati sull’accertamento individuale
del rischio e del nesso tra esposizione e malattia.
E in assenza
di sistemi di sorveglianza epidemiologica orientata a seguire (follow-up) il
destino di salute di coorti di lavoratori esposti a noxae patogene, quali per
esempio lo stress, è difficile che anche nel prossimo futuro si possa disporre
di stime accurate dei danni dovuti a questo fattore di rischio.
Riportiamo
infine le conclusioni della relazione.
Per avere
un’idea più vicina alla realtà del carico di danni dovuto alle malattie
professionali è importante uscire dalla “gabbia” del nesso individuale di
causalità e dedicare risorse anche a stimare il “burden of disease” (carico di
malattia) attribuibile al lavoro per decidere priorità e esigenze di salute.
Ricordiamo che con disease burden si può intendere l’impatto di un problema di
salute e il Global Burden of Disease è un sistema di misurazione della salute
che consente di generare stime sul peso di singoli fattori o gruppi di fattori
che sono in grado di orientare politiche e programmi.
In attesa di
disporre di tali stime è comunque doveroso far buon uso degli strumenti basati
sul computo dei casi di malattie per le quali sia stata individuata una causa
lavorativa e che sono ormai disponibili per la programmazione e la valutazione
del lavoro di prevenzione.
Il documento
“Intervento di Claudio Calabresi” è scaricabile all’indirizzo:
Il documento
“Gli effetti dei cambiamenti normativi sulle malattie da lavoro” è scaricabile
all’indirizzo:
I RISCHI ORGANIZZATIVI E
PSICOSOCIALI NELLE STRUTTURE OSPEDALIERE
Da:
PuntoSicuro
30 dicembre
2015
di Tiziano
Menduto
Per una
valutazione efficace dei rischi negli ambienti ospedalieri bisogna tener conto
anche degli aspetti psicologici e organizzativi. Focus sullo stress psichico
tra gli operatori e sulle conseguenze sulla salute del lavoro notturno.
In questi
mesi, presentando i rischi degli operatori sanitari (attraverso quanto
riportato dal Servizio di Prevenzione e Protezione dell’ Azienda Sanitaria
Locale Alba-Bra), ci siamo soffermati sui rischi chimici e biologici, sui
rischi correlati alla movimentazione manuale dei carichi e dei pazienti e agli
agenti fisici e sui rischi infortunistici.
Tuttavia
negli ambienti sanitari per poter valutare efficacemente i rischi e tutelare
adeguatamente la salute e sicurezza dei lavoratori, non bisogna dimenticare
anche la rilevanza dei rischi psicosociali e dei rischi organizzativi.
A questo
proposito il Servizio di Prevenzione e Protezione dell’ Azienda Sanitaria
Locale Alba-Bra, ricorda che in ambiente ospedaliero sono frequentemente
segnalate situazioni di stress psichico tra il personale. Le cause possono
essere legate sostanzialmente a fattori di tipo individuale, organizzativo,
sociale o culturale.
Ad esempio
si fa riferimento al coinvolgimento emotivo richiesto talvolta dal paziente,
l’impatto quotidiano con la sofferenza, il dolore o la morte, possono generare
nel personale sanitario e in particolare in quell’infermieristico sensazioni di
fallimento e distacco personale.
Inoltre si
segnala che le condizioni dell’ambiente di lavoro prevedono molte volte un
sovraccarico di lavoro, mancanza di pianificazione, svalutazione della
professionalità, burocratizzazione eccessiva. Elementi che possono essere
motivo di perdita d’interesse alla professione e alla responsabilità nel
proprio lavoro.
Una adeguata
prevenzione in ambito stress lavoro correlato dovrebbe, ad esempio, prevedere
una riduzione dei sovraccarichi di lavoro, il coinvolgimento dei lavoratori
nell’organizzazione, la formazione costante del personale e il suo sostegno
psicologico finalizzato a sostenere angosce e ansie legate alla sofferenza,
alle malattie e alla morte.
Riguardo ai
rischi organizzativi, il Servizio di Prevenzione e Protezione si sofferma in
particolare sul lavoro notturno, con riferimento anche a quanto contenuto nel
Decreto Legislativo n. 532 del 26 novembre 1999, recante “Disposizioni in
materia di lavoro notturno”.
Il D.Lgs.
532/1999 definisce:
-
lavoro
notturno: l’attività svolta nel corso di un periodo di almeno sette ore
consecutive comprendenti l’intervallo fra la mezzanotte e le cinque del
mattino;
-
lavoratore
notturno: qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga, in via
non eccezionale, almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero; qualsiasi
lavoratore che svolga, in via non eccezionale, durante il periodo notturno almeno
una parte del suo orario di lavoro normale secondo le norme definite dal
contratto collettivo nazionale di lavoro; in difetto di disciplina collettiva è
considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga lavoro notturno
per un minimo di 80 giorni lavorativi all’anno.
Riguardo
alle conseguenze sui lavoratori si sottolinea che l’alterazione delle
condizioni di salute dei turnisti dipende oltre che dall’alterazione dei ritmi
biologici (sfera biologica) anche dalle interferenze sulle abitudini alimentari
e di sonno dei soggetti esposti (sfera lavorativa) e dalle eventuali
interferenze sulla vita di relazione (sfera relazionale).
Il sonno è
sicuramente il primo elemento a subire modifiche dal lavoro a turni. Una
riduzione delle ore di sonno si determina già nel corso del turno mattutino in
relazione all’alzata precoce. Inoltre nel turno notturno la riduzione del sonno
è più vistosa in presenza di situazioni familiari ed abitative sfavorevoli, che
limitano la possibilità di recupero successivo.
E comunque
con il lavoro a turni ad alterarsi non è solo la quantità di sonno ma anche la
sua qualità a causa della perturbazione delle fasi del sonno che riducono i
periodi di sonno profondo e di sonno REM: ciò determina un minor effetto
ristoratore del sonno che si accentua quando si dorme di giorno. E con l’età si
assiste ad un’accentuazione delle alterazioni quantitative e qualitative del
sonno. Si pensa che i lavoratori turnisti abbiano un più precoce invecchiamento
funzionale rispetto a quelli non in turno anche a causa di tale fattore.
Veniamo ai
problemi alimentari.
Questi
problemi sono legati alla anomala sequenza dei pasti e all’interferenza sui
pasti operata dal sonno:
-
i turnisti
(anche se si alimentano normalmente) per effetto del turno spostano la
sincronizzazione socio-ambientale dei pasti;
-
il turno
mattutino di solito interferisce con l’orario del pranzo e induce uno
spostamento del pasto di due o tre ore;
-
allo stesso
modo il turno pomeridiano ha un effetto sulla cena;
-
durante il
turno di notte, anche se gli orari dei pasti si mantengono, si modifica la
qualità dei cibi consumati (prevalentemente freddi e preconfezionati) e aumenta
l’incremento di bevande stimolanti (caffè e tè) e di tabacco.
E dunque nei
turnisti può registrarsi un incremento delle malattie dell’apparato digerente
(gastroduodenite, ulcera peptica, colonpatie funzionali).
La relazione
ricorda poi che un altro problema rilevante nel lavoro a turni è l’incidenza
dei disturbi psichici (disturbi comportamentali, sindromi ansiose e depressive)
e neurologici (fatica cronica, insonnia). I lavoratori a turni, pertanto,
spesso assumono psicofarmaci e ricorrono al ricovero in luoghi di cura con
maggior frequenza della restante popolazione attiva.
Vengono poi
brevemente presentati alcuni risultati di studi sulla salute dei turnisti.
Ad esempio
con riferimento a:
-
aumento del
rischio per le malattie cardiovascolari (indagini effettuate nei paesi
scandinavi): i problemi cardiaci (angina, infarto) sono da due a tre volte più
frequenti nei lavoratori con turni solo di mattina; tale rischio è indipendente
dall’età e dal consumo di tabacco;
-
aumento del
colesterolo e dei trigliceridi: a prescindere dall’uso o dall’abuso di tabacco
e dall’anzianità anagrafica si è riscontrato un maggiore incremento del LDL e
una riduzione del HDL durante il lavoro notturno; le alterazioni dell’assetto
lipidico appaiono indipendenti dall’obesità e dalle abitudini alimentari;
-
irregolarità
mestruali, un minor numero di gravidanze, un incremento d’incidenza di minacce
d’aborto e di aborti spontanei sono state osservate nelle lavoratrici a turno
rispetto alle donne che lavorano soltanto la mattina.
Riprendiamo
infine le conclusioni del sul lavoro notturno.
Occorre infatti valutare sotto una nuova
ottica le implicazioni che il lavoro a turni determina sulla vita e sulla
salute dei lavoratori.
I lavoratori
turnisti, se non già soggetti a controllo periodico obbligatorio da parte di un
Medico Competente, dovrebbero esser periodicamente sottoposti a visita
sanitaria allo scopo di evidenziare il più precocemente possibile i segni ed i
sintomi di alterazione.
E sarebbe
poi importante non solo avere specifiche indagini epidemiologiche
sull’incidenza di tale rischio in ambito sanitario, ma anche avviare
un’indagine che approfondisca le implicazioni di tale organizzazione del lavoro
sui diversi aspetti della vita relazionale e lavorativa dei turnisti e sulle
ricadute che si determinano sulla loro salute.
Il documento
“Principali rischi in ambiente ospedaliero”, spazio online a cura del Servizio
di Prevenzione e Protezione dell’Azienda Sanitaria Locale Alba-Bra è
scaricabile all’indirizzo:
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