NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
L’ESERCITO EUROPEO
DI RISERVA
Da
Asimmetrie
Agenor
Riporto
a seguire un interessante articolo sulle tematiche del lavoro e dello stato sociale
(e non solo).
A
una prima lettura l’articolo può sembrare estraneo alle tematiche trattate di
solito nella mia newsletter, ma a ben guardare esso permette di capire le
dinamiche che stanno alla base dell’attuale sistema di sfruttamento della forza
lavoro e di conseguenza alla base della voluta mancata tutela della salute e
della sicurezza dei lavoratori, che fa parte anch’esso del “disegno strategico
di fondo” di cui parla l’articolo.
Marco
Spezia
*
* * * *
Le
grandi strategie sono sempre composte da una sequenza di piccole iniziative e
il quadro finale diventa visibile solo quando tutti i singoli pezzi del puzzle
sono stati inseriti al posto giusto. La divisione in singole iniziative
permette di focalizzare le discussioni su aspetti minori, senza sottoporre la
grande strategia al vaglio dell’opinione pubblica o del dibattito parlamentare.
Le grandi strategie sovranazionali, poi, hanno anche il vantaggio di limitare
il dibattito oltre che alle singole misure anche a specifiche questioni locali,
interne ai singoli paesi. Il disegno strategico di fondo non può essere
contestato perché non è reso esplicito, non è sottoposto a dibattito e supera i
confini delle competenze nazionali. Esso rimane quindi perfettamente al riparo
dal processo democratico.
Uno
di questi grandi disegni strategici che si sta realizzando in questi anni è la
trasformazione dello stato sociale e del mercato del lavoro in Europa. Il
cambio di paradigma fu dichiarato vent’anni fa dall’OCSE: passare
dall’attivismo dello stato in economia per promuovere la piena “occupazione”
alle politiche liberiste e mercantiliste per promuovere la piena
“occupabilità”.
Destra
e sinistra in tutti i paesi si sono egualmente spese senza grandi distinzioni,
in Italia come in Europa, per applicare il nuovo paradigma. Come tutte le
grandi strategie, anche questa è composta da una sequenza di misure specifiche
e ha un preciso modello di riferimento.
Il
primo punto è il contenimento dei salari. E’ fondamentale che livello dei
salari sia basso per mantenere competitivo il sistema produttivo. L’esigenza di
essere più competitivi e di tirare un po’ tutti la cinghia in tempi di crisi
sono le giustificazioni tipiche per far accettare questo contenimento. Come ben
sappiamo questa esigenza diventa più pressante quando non si dispone del
meccanismo del tasso di cambio. In altre parole, col cambio fisso il salario
deve diventare flessibile. Nella zona euro abbiamo deciso di sostituire il
tasso di cambio come meccanismo di aggiustamento degli squilibri esterni con il
licenziamento e l’abbassamento dei salari. La riduzione dei salari nel settore
pubblico si può fare per decreto (per ridurre il salario in termini reali,
basta anche congelarlo in termini nominali, come spesso avviene), nel settore
privato si ricorre alla decentralizzazione della contrattazione collettiva a
livello di singola azienda. In quel modo il potere negoziale del singolo
lavoratore è drasticamente ridotto. L’abbassamento dei salari, in generale, è
facilitato dalla maggiore possibilità di licenziamento e dalla maggiore concorrenza
per ottenere un posto di lavoro.
Subito
dopo viene la ben nota questione della flessibilità, ovviamente flessibilità in
uscita, come si chiama in linguaggio tecnico la possibilità di licenziare più
facilmente. Si tratta di ridurre tutto il sistema di protezioni giuridiche che
rendono difficile licenziare un lavoratore. Come si fa a rendere questo
accettabile? Prima si colpisce una categoria, e dopo si scatena la classica
guerra fra poveri: settore pubblico contro privato, giovani contro anziani,
donne contro uomini, nord contro sud o est contro ovest, a seconda del paese.
La giustificazione che accompagna questa misura è tipicamente quella di
un’istanza di giustizia, modernità, e maggiore efficienza in tempi di crisi.
In
Italia ce ne è voluto, ma alla fine dopo tanti tentativi l’Articolo 18 è stato
abbattuto. Il Jobs Act ha sostanzialmente (anche se non formalmente) fatto
sparire il concetto di contratto a tempo indeterminato, in quanto questo tipo
di contratto ha perso tutte le tutele che lo rendevano effettivamente tale.
Avendo così drasticamente penalizzato una parte dei lavoratori, nel settore
privato, è stato poi facile convincerli che la colpa è di quegli altri, quelli
del pubblico che sono più tutelati. Quindi anche loro adesso chiedono a gran
voce di eliminare i “privilegi” del settore pubblico. Così pian piano si realizza
la flessibilità in uscita per tutti. A titolo di esempio, nel paese modello per
le recenti riforme del lavoro, la
Spagna, ormai il 28% dei nuovi contratti ha una durata inferiore
a 7 giorni: assunzione il lunedì mattina, licenziamento il venerdì sera, e poi
si ricomincia il lunedì successivo.
Il
terzo cardine è la mobilità della forza lavoro. Una volta licenziati, i
disoccupati-potenziali-lavoratori sono comunque una risorsa utilizzabile
altrove, quindi è utile facilitarne lo spostamento verso le zone in cui ce n’è
più bisogno. Perché questo avvenga è necessario che ci sia un perfetto
coordinamento dei servizi pubblici per l’impiego, non a caso una delle priorità
stabilite in quasi tutti i paesi. I servizi pubblici per l’impiego, da centri
di raccordo della domanda e dell’offerta a livello locale, devono diventare
nodi di un’unica grande rete trans-europea che permetta il ricollocamento rapido
di manodopera inutilizzata in un paese verso quello in cui ce n’è maggiormente
bisogno. Anche qui la giustificazione è semplice: maggiore integrazione europea
e maggiori opportunità di lavoro per chi non ce l’ha più.
Il
quarto punto, anch’esso cruciale, è il mantenimento o la formazione di
competenze adeguate a rendere “occupabile” il
disoccupato-potenziale-lavoratore. Nessuno vuole un lavoratore che dopo anni
d’inattività non è più capace di utilizzare i nuovi macchinari o sistemi
informatici, perché rimasto tecnologicamente indietro. Bisogna quindi formarlo,
ovviamente non finanziandogli una continuazione degli studi, che potrebbe
permettergli un salto qualitativo sul mercato del lavoro, ma cercando invece di
mantenerne aggiornate le competenze tecniche e professionali tali da renderlo
utilizzabile immediatamente: saper usare l’ultimo macchinario o la tecnologia
più recente introdotta in azienda. Ovviamente, questo tipo di misura si può ben
presentare come sostegno ai disoccupati per facilitare l’apprendimento di
competenze utili nel mercato del lavoro. In questo modo ci si assicura che
tutta la popolazione in età lavorativa sia costantemente formata, addestrata
anche nei periodi in cui è disoccupata, e sempre disponibile per le esigenze
della produzione.
Questa
costruzione però non sta in piedi se le persone rimangono disoccupate per
lunghi periodi, o se i contratti sono talmente brevi e i periodi di lavoro
troppo scarsi per garantire un minimo livello di sussistenza. Ecco che quindi
entra in gioco il pezzo fondamentale del puzzle: il reddito minimo. Esso deve
essere veramente “minimo”, nel senso di non creare un disincentivo ad accettare
qualunque offerta di lavoro, anche la meno appetibile. Esso deve poi essere “condizionato”,
cioè immediatamente revocabile nel caso di rifiuto dell’offerta ricevuta o di
mancata frequentazione del corso di aggiornamento. E poi il disoccupato deve
ovviamente sempre essere reperibile dal centro per l’impiego, pena il
decadimento dal reddito minimo.
Non
c’è bisogno di grandi acrobazie per “vendere” il reddito minimo come una grande
conquista sociale. Ciò che veramente lo caratterizza come strumento di un
quadro ben più reazionario, invece, è l’insieme di condizionalità a esso
legate. Sarebbe tutt’altra cosa remunerare il lavoro nella giusta misura, in
linea con la sua produttività, e garantire anche un salario minimo dignitoso a
tutti. Come sarebbe tutt’altra cosa istituire un sistema pubblico di “impiego
di ultima istanza”. Ma tutto questo ridarebbe al lavoratore un’autonomia, una
dignità e una forza contrattuale che lo renderebbe molto meno ricattabile. La
differenza fra salario minimo e reddito minimo sembra poco più di una questione
semantica, e invece è la differenza fra dignità e dipendenza, fra libertà e
schiavitù.
Il
suggello su questo nuovo modello di stato sociale è poi la sempiterna riforma
delle pensioni, che ritorna a intervalli regolari. Il motivo di questa sua ricorrenza
è la volontà di passare progressivamente a una privatizzazione del sistema
pensionistico, riducendo sempre più quelle pubbliche finché il cittadino non ha
più scelta. Nel nuovo modello di stato sociale il costo di supportare il
lavoratore vale la pena finché questi è in età lavorativa e può essere utile,
dopodiché diventa solo un peso. Per questo motivo si preferisce tagliare sulle
pensioni per spendere un po’ di più in formazione professionale e nella
sussistenza del disoccupato. Chi può permetterselo, accumulerà in età
lavorativa una ricchezza finanziaria che gli possa permettere di mantenersi
anche dopo; chi non ce la fa, una volta smesso di lavorare emigrerà dove la
vita costa meno o finirà in povertà. Così si riducono i costi per il settore
pubblico, cosa ormai richiesta anche da chi avrebbe interesse a non farlo.
Queste
sono le singole iniziative, che prese singolarmente sono anche accettabili e
giustificabili agli occhi dell’opinione pubblica, come progressi verso una
società più giusta ed efficiente. Mettendole tutte insieme e facendo attenzione
ai dettagli con cui queste misure vengono poi applicate, però, si può vedere
come esse concorrano a formare un quadro diverso. Tutta la popolazione in età
lavorativa deve essere sempre a disposizione del sistema produttivo,
utilizzabile e scartabile secondo il bisogno, formata in quelle competenze
direttamente richieste dalla produzione e mantenuta al livello di sussistenza
nei periodi in cui non è occupata, ma ricattabile e sottoposta alla concorrenza
per il posto di lavoro, cioè con scarso potere contrattuale nel momento in cui
viene assunta. Il modello di riferimento è quello tedesco, completato un
decennio fa dalle riforme Hartz, dal nome dell’ex-manager Volkswagen, Peter
Hartz, consigliere del governo Schröder.
Non
si può capire quello che sta succedendo in Europa senza conoscere le riforme
Hartz e in particolare il pacchetto Hartz IV. E non si possono capire le
riforme Hartz senza conoscere i cardini del pensiero ordoliberistatedesco. Esso
si differenzia dal cosiddetto neo-liberismo di matrice anglosassone, e ne
diventa una versione molto più estrema, in quanto considera come compito
esplicito dello stato quello di assicurare il quadro politico necessario per il
libero dominio del capitale sul lavoro. In pratica l’ordoliberismo è un
liberismo truccato, in cui la tensione fra i due fattori di produzione è ancora
più squilibrata perché lo stato interviene esplicitamente per risolverla in favore
del capitale a scapito del lavoro.
La
cosiddetta economia sociale di mercato di matrice tedesca è il modello
economico che stiamo applicando in Europa, prevalentemente nella zona euro,
dove il margine di manovra dei governi nazionali è molto più limitato. Il
quadro strategico complessivo che sta venendo fuori è la trasposizione del
modello sociale tedesco nel resto d’Europa, cioè la scientifica costruzione di
un esercito industriale di riserva su scala europea.
COME TUTELARE GLI
OPERAI ILVA?
Da
Peacelink
20
gennaio 2016
Fulvia
Gravame
Appunti
sugli strumenti utilizzabili per tutelare gli operai e gli abitanti di Taranto.
Come
tutelare gli operai ILVA?
Dopo
aver perso tre anni e mezzo facendo finta di salvare la nave (l’ILVA), direi
che è il caso di cominciare a predisporre il piano di salvataggio dei marinai e
non della nave.
Sono
passati tre anni e mezzo da quel 26 luglio 2012 che portò al sequestro
dell’impianti dell’area a caldo dell’ILVA e del protocollo d’intesa per le
bonifiche, in realtà per una serie di interventi in parte già previsti per
Taranto, quali i lavori del porto.
Il
clima in città è segnato dalla paura degli operai, degli abitanti e dal
nervosismo dei politici.
I
ritardi nel piano governativo di “ambientalizzazione”, i rinvii delle scadenze
previste dal Riesame 2012, la grave situazione debitoria dell’ILVA che produce
dai cinquanta ai sessanta milioni di euro di debiti al mese, il rinnovo della
“solidarietà” a più di 3.000 operai a rotazione, i tanti morti per incidenti
nello stabilimento, l’avvio di due procedure europee contro l’Italia sono alla
base di questa paura e di questo nervosismo. Sempre di più gli operai si
convincono che le scelte del 2012 non stanno portando i frutti promessi e cioè
non stanno dando garanzia di salvare l’ILVA e il loro posto di lavoro; le
prospettive per il futuro diventano sempre più nere, senza che le istituzioni
abbiano finora dato prova di essere in grado di costruire un’alternativa valida
per 11.000 dipendenti e sostenibile per una città di 200.000 circa abitanti.
Bisognerebbe
spiegare a tutti che, giustamente hanno paura di perdere lo stipendio, che
l’Unione Europea non vieta di aiutare i lavoratori, ma solo di aiutare le
imprese. Di questo abbiamo parlato nella conferenza stampa di Peacelink con
Antonia Battaglia e Alessandro Marescotti che si è tenuta il 18 gennaio scorso.
E’
molto grave che gli operai siano tenuti nell’ignoranza di quello che si
potrebbe fare per loro con diverse tipologie di finanziamenti e che non viene
programmato dalle istituzioni.
La Commissione europea
apprezzerebbe interventi a favore degli operai e potrebbe autorizzare anche la
“no tax area” o altri interventi straordinari come le bonifiche, se
adeguatamente motivati in base all’articolo 107 del Trattato di Funzionamento
dell’Unione Europea (TFUE) che vieta gli aiuti alle imprese, ma non ai
lavoratori e alle zone economicamente più fragili.
Infatti
l’articolo 107 del TFUE recita: “Salvo deroghe contemplate dai trattati, sono
incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi
tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse
statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune
produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.
Sono
sicura che non sarebbe una passeggiata preparare l’apposito dossier, sia per la
complessità dell’intervento da realizzare a Taranto, sia perché le risorse
europee interessano anche ad altri Paesi Membri della Unione, ma (dopo aver
perso tre anni e mezzo) penso che sia proprio arrivato il momento di avviare
tutto quello che può servire a salvare i marinai e non la nave. La battuta è di
Cataldo Ranieri del Comitato lavoratori e cittadini liberi e pensanti.
La
domanda potrebbe essere perché non lo si è fatto finora, ma io preferisco
chiedere a chi di dovere di farlo e subito, considerato che l’ILVA sembra non
avere le risorse per continuare a produrre e/o per attuare le prescrizioni AIA.
Tra
l’altro lo strumento più conosciuto e comprensibile perché già utilizzato più
volte nelle crisi industriali di grandi gruppi (Natuzzi ad esempio), è di
competenza della Regione che ha a disposizione il Fondo sociale europeo ed in
particolare i fondi per la formazione continua, quelli per i dipendenti delle imprese
private.
La
formazione continua (in inglese “continuing vocational training”) è volta a
migliorare il livello di qualificazione e di sviluppo professionale delle
persone che lavorano, assicurando alle imprese e agli operatori economici sia
pubblici che privati, capacità competitiva e dunque adattabilità ai cambiamenti
tecnologici e organizzativi.
Le
disposizioni legislative che predispongono interventi nazionali per la
formazione continua sono l’articolo 9 della Legge 236/93 e l’articolo 6 della Legge
53/00. Tali norme prevedono la ripartizione annuale delle risorse erariali a
favore delle Regioni che, a loro volta, emanano avvisi pubblici destinati a
imprese e lavoratori per il finanziamento di piani formativi aziendali,
settoriali e individuali e voucher formativi (aziendali e individuali).
Inoltre,
per la formazione dei propri dipendenti, le imprese possono scegliere di aderire
a uno dei Fondi paritetici interprofessionali nazionali per la formazione
continua, organismi di natura associativa costituiti attraverso accordi
interconfederali, stipulati tra le organizzazioni sindacali dei datori di
lavoro e dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
L’offerta
formativa si realizza attraverso la proposta a catalogo di percorsi interaziendali
di aggiornamento del personale occupato; corsi interaziendali di
alfabetizzazione, qualificazione, riqualificazione e specializzazione, volti
all’acquisizione o allo sviluppo di nuove competenze professionali richieste in
ambito lavorativo o per l’arricchimento del proprio patrimonio culturale;
percorsi aziendali di riqualificazione e aggiornamento del personale occupato.
I
corsi sono destinati a diverse categorie di persone, tra le quali:
-
soggetti
occupati;
-
soggetti
in CIG e mobilità, inoccupati, inattivi e disoccupati per i quali la formazione
è propedeutica all’occupazione;
-
lavoratori
con contratti di apprendistato e a progetto.
Sono
argomenti proposti ripetutamente dal 2012 in poi ed inseriti nel programma amministrative
2012 di “Tarantorespira” che aveva Angelo Bonelli come candidato sindaco e di
cui sono coportavoce Vittoria Orlando Giovanni Carbotti.
Analizzai
questo problema nel maggio 2012, anche in un seminario di Peacelink in cui
presentai i fondi strutturali utilizzabili.
Da
allora però si contano sulle punta delle dite le interviste dei responsabili
delle politiche del lavoro a livello di Governo e Regione. Sono stati al
contrario molto frequenti le dichiarazioni del Ministero dello Sviluppo
Economico (MISE), mentre (a mio modesto avviso) sarebbe stato opportuno avviare
delle analisi su come tutelare i dipendenti diretti dell’ILVA, attraverso forme
di prepensionamento e percorsi di riqualificazione. I responsabili delle
politiche del lavoro a livello regionale e nazionale hanno taciuto finora!
Prepensionamenti,
CIG, solidarietà, CCNL ecc, strumenti delle politiche del lavoro, sono di
competenza del Ministero del lavoro e dell’apposito Assessorato regionale. Inutile
protestare con il sindaco di Taranto com’è stato fatto negli ultimi anni. Si
deve andare a Bari o a Roma. La prima indicazione che i sindacati dovrebbero
dare agli operai è qual è l’interlocutore giusto con il quale prendersela. Gli
strumenti della lotta sindacale quali scioperi, blocchi del ponte e delle
statali e presidi non si devono utilizzare ancora una volta ai danni di chi
vive in città.
LA GESTIONE DELLA SICUREZZA PER I LAVORATORI CHE SVOLGONO PIU’ MANSIONI
Da
Articolo 19
Citta
Metropolitana
Leopoldo
Magelli
Come
affrontare il problema della valutazione del rischio e della formazione per i
lavoratori che svolgono più mansioni?
Questo
problema ci è stato posto diverse volte da vari RLS, in quanto la situazione in
questione è tutt’altro che rara e le soluzioni attivate dalle aziende sono tra
loro dissimili. Abbiamo sempre rinviato la risposta a questi quesiti e forse,
casualmente, abbiamo fatto bene perché pochi mesi fa, nel giugno del 2015 è
stato sottoposto alla Commissione per gli Interpelli proprio questo stesso
problema che è di frequentissimo riscontro nel mondo del lavoro, cioè come
vanno valutati i rischi e impostata la formazione per quei lavoratori che
vedono ricomprese nella loro figura e attività professionale diverse mansioni.
Il
problema è stato posto dall’ANCE (Associazione Nazionale Costruttori Edili) e
la risposta della Commissione per gli Interpelli (n. 4/2015) è datata 24 giugno
2015.
Il
problema posto era letteralmente il seguente:
“conoscere
il parere...in merito alla formazione prevista dall’articolo 37 del D.Lgs.
81/08, nonché alla valutazione dei rischi specifici delle mansioni, nel caso in
cui un lavoratore in possesso di formazione per lo svolgimento di una
determinata attività venga adibito allo svolgimento di particolari mansioni,
che tradizionalmente, e anche in base alla classificazione ISTAT-ISFOL,
costituiscono compiti o attività specifiche ricompresi nell’attività principale
per la quale è stata erogata la formazione stessa”.
Il
quesito, come si può vedere, è un po’ criptico, tant’è vero che l’ANCE propone
un esempio per meglio chiarire il senso della domanda :
“A
titolo esemplificativo, è questo il caso in cui un lavoratore dei settori delle
costruzioni stradali venga adibito alla rifinitura del manto stradale, o alla
gestione del traffico veicolare durante le operazioni di rifacimento di una
corsia stradale, pur non essendo in possesso di una formazione specifica ad hoc
per tali singoli compiti, bensì avendo ricevuto una formazione specifica per
asfaltista, figura professionale le cui mansioni comprendono, nella
classificazione ISTAT-ISFOL, anche quella suddetta di rifinitura del manto o le
operazioni connesse alla realizzazione di opere stradali in senso lato”.
Se
avessimo risposto come Servizio Informativo per Rappresentanti
della Sicurezza, avremmo liquidato
così il problema: indipendentemente dagli aspetti formali o classificativi, la
valutazione deve riguardare tutti i rischi cui il lavoratore è esposto nella
sua attività, e la formazione modellarsi di conseguenza sui rischi valutati.
Quindi,
nel caso specifico, se il lavoratore in questione rifinisce il manto stradale e
gestisce il traffico veicolare, i rischi connessi a queste due fasi di lavoro
(io le chiamerei così, non certo “mansioni”) devono essere puntualmente
valutati e devono avere il dovuto spazio nei percorsi formativi (in particolare
la gestione del traffico, che espone a rischio non solo il lavoratore addetto,
ma anche i suoi colleghi e gli utenti della strada).
Vediamo
allora come ha risposto la
Commissione per gli Interpelli.
Constatiamo
con piacere che la sua risposta è perfettamente coerente con la nostra ipotesi.
Infatti la Commissione,
nella premessa alla sua risposta, precisa che:
“la
valutazione redatta dal datore di lavoro deve riguardare tutti i rischi per la
sicurezza e la salute dei lavoratori... Nel documento redatto a conclusione
della valutazione devono essere individuate le mansioni che eventualmente
espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una riconosciuta
capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e addestramento...
La formazione non può mai essere sostitutiva dell’addestramento... I contenuti
e la durata della formazione in base all’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre
2011 costituiscono un percorso minimo e, tuttavia, sufficiente rispetto al dato
normativo, salvo che esso non debba essere integrato tenendo conto di quanto
emerso dalla valutazione dei rischi o nei casi previsti dalla legge (si pensi
all’introduzione di nuove procedure di lavoro o nuove attrezzature)”.
Come
si può notare, se pur con parole in parte diverse, la Commissione esprime
una valutazione del tutto sovrapponibile alla nostra (cosa del resto
inevitabile, visto che si deve garantire piena coerenza nell’applicazione della
normativa).
La Commissione poi conclude
fornendo una serie di indicazioni puntuali:
-
il
DVR (Documento di Valutazione dei Rischi) deve contenere la puntuale individuazione
di tutti i rischi concretamente connessi al lavoro da svolgere e non può riferirsi
astrattamente alla mansione attribuita al lavoratore;
-
l’adeguatezza
della formazione per ciascun lavoratore è correlata alla valutazione dei rischi
e deve essere periodicamente ripetuta in relazione all’evoluzione o
all’insorgenza di nuovi rischi;
-
fatto
salvo l’obbligo di frequenza a corsi specifici o aggiuntivi (ove previsto da
norme specifiche), se un lavoratore in possesso di formazione per lo
svolgimento di una determinata attività venga adibito allo svolgimento di
singole particolari mansioni, ricomprese nell’attività principale per la quale
è stata erogata la formazione, la stessa può essere riconosciuta valida solo se
all’interno del percorso formativo i rischi specifici, relativi a quelle
particolari mansioni (ad esempio nel caso citato la gestione del traffico
veicolare), sono stati adeguatamente trattati;
-
infine,
se i compiti affidati a un lavoratore lo espongono a rischi diversi e ulteriori
rispetto a quelli già oggetto di valutazione e formazione, si rendono
necessarie, sia una nuova valutazione, che una corretta formazione integrativa.
Come
si può vedere, le indicazioni fornite dalla Commissione sono molto chiare ed esplicite
e non lasciano campo alcuno a riduttive interpretazioni di comodo.
L’ABROGAZIONE DEL
REGISTRO INFORTUNI: UNA SEMPLIFICAZIONE FATTA SENZA TESTA
Da
Diario Prevenzione
20
gennaio 2016
Gino
Rubini
LA
SEMPLIFICAZIONE RICHIEDE INTELLIGENZA. L’ABROGAZIONE DEL REGISTRO INFORTUNI,
UNA SEMPLIFICAZIONE FATTA SENZA TESTA
Dal
23 dicembre 2015 il Registro degli infortuni è stato abrogato con il D.Lgs.
151/15. Esultano una parte dei consulenti poco avveduti e una parte della
piccola imprenditoria più pasticciona.
L’abrogazione
è avvenuta in assenza del SINP (Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione) che non è
stato istituito. La scelta dell’abrogazione in assenza del SINP, avvenuta in
forma affrettata per esigenze propagandistiche del governo, avrebbe messo in
difficoltà gli Enti di vigilanza, in particolare INAIL e ASL.
INAIL
si è perciò affrettata a mettere una pecetta a questa dissennata scelta del legislatore
con l’istituzione del “cruscotto telematico” che non è stato progettato per agevolare
la valutazione e gestione dei rischi a livello aziendale. Il cosidetto
cruscotto INAIL è un database che raccoglie le notifiche degli infortuni per
via telematica e registra gli eventi ai fini assicurativi, non serve a
sviluppare le conoscenze utili per la prevenzione.
Con
questo provvedimento la tracciabilità aziendale degli eventi, la verifica
tramite i RLS sulla descrizione e la registrazione delle modalità
dell’accadimento non sono più disponibili per la consultazione ai RLS.
Le
aziende più serie, non quelle a gestione dilettantesca, continueranno a
“tracciare” gli infortuni, le modalità e le cause di accadimento e a trarre da
questi dati le indicazioni per migliorare la propria gestione della sicurezza.
Le
aziende più serie hanno protocolli e metodologie di rilevazione e memorizzazione
dei dati relativi anche ai “near miss”, ai mancati incidenti e su questa base
programmano le correzioni e i miglioramenti della organizzazione del lavoro e
degli strumenti e ambienti di lavoro.
Le
aziende che adottano volontariamente, di propria scelta, queste pratiche
positive sono grandi, ma sono, purtroppo, una minoranza dell’universo delle
aziende italiane. Per la maggioranza delle piccole imprese il messaggio che
viene dall’abrogazione è il seguente: “finalmente ci siamo liberati da questo adempimento
burocratico, del problema degli infortuni ce ne occuperemo se ce ne
saranno...”.
L’atto
del Governo sarebbe stato positivo e utile se, in consonanza con l’abrogazione
del Registro cartaceo avesse incaricato INAIL di predisporre una piattaforma
più evoluta rispetto all’improvvisato “cruscotto”, con programmi di software
gestionali adatti a monitorare il fenomeno e a elaborare “profili aziendali di
rischio”, usando i dati provenienti dalle notifiche.
La
“semplificazione” sarebbe stata per davvero un passo avanti nella
modernizzazione della gestione dei dati per porre sotto governo il fenomeno
infortunistico.
La
fregola propagandistica, l’amabile indifferenza di questo Governo verso la
condizione di chi vive del proprio lavoro ha portato invece, anche in questo
caso, ad una scelta che fa arretrare i diritti dei lavoratori ad essere
tutelati.
Si
può ancora rimediare?
Si,
se verrà affidato ad INAIL il compito di predisporre un sistema esperto con il
quale i dati delle notifiche vengono elaborati e restituiti, in automatico alle
aziende, che debbono renderli disponibili anche ai RLS. In questo senso avremmo
una vera innovazione che semplifica il lavoro delle aziende senza deprivare
della conoscenza dei dati i RLS e i lavoratori interessati.
IDENTIFICAZIONE DEI
LAVORI RIPETITIVI E VALUTAZIONE RAPIDA DEL RISCHIO
Da:
PuntoSicuro
15
gennaio 2016
Tiziano
Menduto
Un
Decreto regionale riporta le linee guida per la prevenzione delle patologie
muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti
superiori.
Focus
su identificazione dei lavori ripetitivi e “quick assessment” (valutazione
rapida del rischio).
Presentiamo
un Decreto della Regione Lombardia, il Decreto n. 7661 del 23 settembre 2015
che non solo riporta specifiche linee guida regionali per la prevenzione delle
patologie muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli
arti superiori, ma definisce anche un percorso per la prevenzione e l’emersione
di queste patologie.
Il
Decreto riporta in un apposita tabella il percorso operativo delineato dalle
linee guida, un percorso che prevede un approccio di preliminare valutazione
dell’eventuale rischio articolato in tre passaggi:
-
identificazione
dei compiti ripetitivi secondo criteri univoci;
-
valutazione
rapida del rischio;
-
stima
analitica del rischio.
Le
linee guida indicano che il primo passaggio rappresenta lo snodo (la chiave di
decisione) per definire la necessità o meno di procedere ai passaggi
successivi, di fatto di valutazione vera e propria.
Mentre
il complesso dei tre passaggi si configura come procedura di valutazione del
rischio connesso a movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori nel
contesto della più generale valutazione dei rischi lavorativi prevista dal
D.Lgs. 81/08.
E
i primi due passaggi vengono definiti dal documento regionale in coerenza con
il Technical Report (TR) ISO 12295 “Ergonomics - Application document for
International Standards on manual handling (ISO 11228-1, ISO 11228-2 and ISO
11228-3) and evaluation of static working postures (ISO 11226)”.
Uno
dei punti su cui si soffermano le linee guida riguarda l’identificazione dei
compiti ripetitivi attraverso la chiave di ingresso (“key-enter”) del TR ISO
12295.
Infatti
l’uso di apposite “key-enters” è finalizzato a verificare l’esistenza di un
pericolo (problema) lavorativo (nella fattispecie da sovraccarico biomeccanico
per gli arti superiori) e l’eventuale necessità di una ulteriore analisi e
valutazione.
Di
fatto, attraverso le “key-enters”, si definisce il campo di applicazione delle
quattro parti delle norme ISO specificamente trattate.
Se
nella tabella 5.1 del documento è riportato l’elenco delle “key-enters” del TR
ISO 12295, riprendiamo la key-enter per i lavori manuali ripetitivi, in
applicazione della norma ISO 1128-3: vi sono uno o più compiti ripetitivi degli
arti superiori con durata totale di 1 ora o più nel turno?
Ricordiamo
che la definizione di compito ripetitivo è: “compito caratterizzato da cicli
lavorativi ripetuti”, oppure “compito durante il quale si ripetono le stesse
azioni lavorative per oltre il 50% del tempo”.
E
tale formulazione sta a significare che laddove siano presenti uno o più
compiti ripetitivi la cui durata complessiva nel turno superi 1 ora, è
necessario procedere ad una specifica valutazione del rischio.
Si
segnala che accertare la presenza di un lavoro ripetitivo serve unicamente a
stabilire che lo stesso debba essere oggetto di valutazione, il cui esito può
confermare/negare l’esistenza di un rischio e se, invece, il lavoro ripetitivo
non è presente non è richiesta alcuna attività di valutazione. Ed è evidente
che la stessa logica si applica agli altri aspetti trattati dal TR ISO 12295
(sollevamento e trasporto di carichi; traino e spinta; posture statiche di
lavoro).
Veniamo
alla valutazione rapida (il “quick assessment”).
Questa
tipologia di valutazione consiste in una verifica rapida della presenza di
potenziali condizioni di rischio per apparato muscolo-scheletrico degli arti
superiori, attraverso semplici domande di tipo quali/quantitativo.
In
pratica il “quick assessment” è indirizzato a identificare, in modo
semplificato, tre possibili condizioni o esiti (outputs):
-
accettabile
(verde): non sono richieste ulteriori azioni;
-
necessità
di una analisi più dettagliata (giallo): è necessario procedere ad una stima o
valutazione precisa attraverso strumenti più dettagliati di analisi (suggeriti
nella fattispecie dagli standard della serie);
-
critica
(rosso): è urgente procedere ad una riprogettazione del posto o del processo.
Nel
caso si verifichi l’esistenza di condizioni rispettivamente di accettabilità e
di criticità non è sempre necessario procedere a una stima più circostanziata
del livello di esposizione (terzo livello), specie nel caso di condizioni
critiche. Ogni sforzo andrà meglio indirizzato alla riduzione del rischio
chiaramente emerso, piuttosto che a inutili, e, a volte, assai complessi
approfondimenti della valutazione. Qualora, invece, come accade in gran parte
dei casi, nessuna di queste due condizioni “estreme” emerga chiaramente, è
necessario procedere alla valutazione, semplificata o anche dettagliata, del
rischio con i tradizionali metodi di valutazione.
Con
riferimento alle indicazioni del TR ISO 12295, dei compiti ripetitivi e della
norma ISO 11228-3, è riportata una tabella con l’elenco delle condizioni che
devono essere tutte contemporaneamente presenti per valutare come accettabile
(verde) un compito manuale ripetitivo.
Si
ricorda, a questo proposito, che il riferimento ad una valutazione rapida di
accettabilità è desunto dal testo della norma ISO 11228-3 e dalla norma EN
1005-5. E laddove un compito ripetitivo venisse valutato come accettabile
tramite la procedura di “quick assessment”, ciò equivarrebbe ad averlo valutato
come accettabile attraverso i metodi di dettaglio indicati dagli standard di
riferimento.
Riportiamo
brevemente l’elenco delle condizioni per cui il compito esaminato è in area
verde (accettabile) e non è necessario continuare la valutazione del rischio:
-
entrambi
gli arti superiori lavorano per meno del 50% del tempo totale di lavoro
ripetitivo (uno o più compiti);
-
entrambi
i gomiti sono mantenuti al di sotto del livello delle spalle per il 90% del
tempo totale di lavoro ripetitivo (uno o più compiti);
-
una
forza moderata è attivata dall’operatore per non più di 1 ora durante il tempo
totale di lavoro ripetitivo (uno o più compiti);
-
i
picchi di forza sono assenti;
-
vi
è presenza di pause (inclusa la pausa pasto) che durano almeno 8 minuti almeno
ogni 2 ore;
-
i
compiti ripetitivi sono eseguiti per meno di 8 ore al giorno.
Una
ulteriore tabella riporta invece l’elenco delle situazioni che, anche
singolarmente, portano a identificare una condizione critica. E quando una
condizione di lavoro manuale ripetitivo risulta critica, anche per una sola
situazioni elencata nella tabella l’indicazione è di orientarsi decisamente per
un rapido e sostanziale intervento di miglioramento (riduzione del rischio)
senza necessariamente approfondire la valutazione analitica; questa, peraltro,
potrà essere operata successivamente, a verifica della potenziale validità
degli interventi attuati.
Concludiamo
riportando qualche breve riferimento alla identificazione di lavori problematici
ai fini della successiva valutazione del rischio.
In
questa parte delle linee guida si segnala infatti che la procedura, tratta dal
TR ISO 12295, delle chiavi di ingresso e della valutazione rapida, è
raccomandata, in particolar modo nelle Piccole o Medie Imprese e nei settori
dell’edilizia e dell’agricoltura.
Tuttavia
in alternativa, si può ricorrere alla tecnica dell’identificazione dei “lavori
problematici”, che prevede di procedere alla stima e valutazione del rischio e
dell’esposizione.
Con
riferimento ad una ulteriore tabella sono definiti problematici quei lavori in
cui si verificano le seguenti condizioni:
-
il
lavoratore ha un’esposizione pressoché quotidiana ad uno o più dei segnalatori
di possibile esposizione riportati nella tabella;
-
vi
sono segnalazioni di casi, uno o più anche tenendo conto della numerosità dei
lavoratori coinvolti, di franche patologie muscoloscheletriche o neurovascolari
degli arti superiori correlate al lavoro.
Si
ricorda che i segnalatori della tabella sono stati individuati perché
consentono di discriminare i contesti di lavoro in cui può risultare, e non
necessariamente vi è, una più significativa esposizione ai fattori di rischio
per le patologie degli arti superiori. Laddove sia individuata, per un gruppo
di lavoratori (posto, linea, reparto, ecc.), la presenza di uno o più
segnalatori, sarà necessario procedere ad un’analisi dell’esposizione più
articolata secondo i metodi e i criteri descritti nei paragrafi seguenti. In
caso contrario (segnalatori negativi) non è necessario procedere a una dettagliata
valutazione dell’esposizione. La valutazione dell’esposizione è comunque
raccomandata quando i segnalatori di possibile rischio sono negativi e sono
presenti segnalazioni da parte del medico competente delle patologie di cui
alla tabella.
Riportiamo
infine i segnalatori:
-
ripetitività:
lavori con compiti ciclici che comportino l’esecuzione dello stesso movimento
(o breve insieme di movimenti) degli arti superiori ogni pochi secondi oppure
la ripetizione di un ciclo di movimenti per più di 2 volte al minuto per almeno
2 ore complessive nel turno lavorativo;
-
uso
di forza: lavori con uso ripetuto (almeno 1 volta ogni 5 minuti) della forza
delle mani per almeno 2 ore complessive nel turno lavorativo;
-
posture
incongrue: lavori che comportino il raggiungimento o il mantenimento di
posizioni estreme della spalla o del polso per periodi di 1 ora continuativa o
di 2 ore complessive nel turno di lavoro;
-
impatti
ripetuti: lavori che comportano l’uso della mano come un attrezzo (ad esempio
usare la mano come un martello) per più di 10 volte all’ora per almeno 2 ore
complessive sul turno di lavoro.
Il
Decreto n. 7661 del 23 settembre 2015 della Regione Lombardia che fa
riferimento alle “Linee Guida Regionali per la prevenzione delle patologie
muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti
superiori” è scaricabile all’indirizzo:
Il
documento “Linee Guida Regionali per la prevenzione delle patologie muscolo scheletriche
connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori” è scaricabile
all’indirizzo:
LA RESPONSABILITA’ PER IL MANCATO CONTROLLO DI UN MACCHINARIO
Da:
PuntoSicuro
Gerardo
Porreca
Le
disposizioni della Direttiva Macchine, pur indicando le prescrizioni di
sicurezza necessarie per ottenere certificato di conformità e marcatura CE, non
escludono il dovere di garanzia di coloro che consentono l’utilizzo di un
macchinario.
Si
è espressa la Corte
di Cassazione in questa Sentenza sull’obbligo da parte del datore di lavoro di
assicurarsi della regolarità di un macchina messa a disposizione dei propri
lavoratori dipendenti anche se la stessa è in possesso della documentazione attestante
la sua conformità alle Direttive europee e della marcatura di conformità CE con
le quali il costruttore ha assicurato la sua rispondenza ai Requisiti
Essenziali di Sicurezza (RES) previsti sia dalle normative tecniche che dalle
disposizioni di legge antinfortunistiche.
La Corte di Appello aveva
parzialmente riformata la sentenza emessa dal Giudice dell’Udienza Preliminare
presso il Tribunale rideterminando la pena inflitta al rappresentante legale di
un’impresa in mesi cinque e giorni dieci di reclusione a seguito della rilevata
prescrizione dei reati ascritti ai due capi di imputazione, confermando invece
nel resto la sentenza di primo grado. Il Gidice dell’Udienza Preliminare,
all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato il rappresentante legale,
quale datore di lavoro, colpevole del reato di cui all’articolo 589 del Codice
Penale per avere cagionato la morte di un lavoratore per negligenza, imprudenza
e inosservanza di legge perché aveva impiegato il predetto lavoratore, operaio
agricolo qualificato super, a operazioni che hanno comportato l’utilizzo di una
macchina “pellettizzatrice” adibita all’accatastamento su bancali di legno di
sacchi di pellets per riscaldamento.
La
macchina era stata modificata con l’apertura di una via d’accesso agli organi
in movimento, in origine protetti da una barriera, e tale apertura non era
stata munita di un dispositivo che impedisse l’avvio della macchina in caso di
accesso del lavoratore, il quale era stato così schiacciato dalla parte mobile
superiore di una pressa mentre stava riposizionando un bancale mal collocato
dal dispositivo automatico della macchina bloccatasi per tale evento e
rimessasi in movimento a seguito dell’operazione effettuata dal lavoratore. Il
giudice di primo grado aveva dichiarato l’imputata colpevole, altresì, della
contravvenzione di cui agli articoli 72 e 389 lettera c) del D.P.R. 547/55 per
avere omesso di dotare la portiera che consentiva di superare la schermatura di
protezione degli organi in movimento della macchina di un dispositivo che
all’apertura ne bloccasse il movimento e della contravvenzione di cui agli
articoli 35, comma 1, e 89 lettera a) del D.Lgs. 626/94 per avere messo a
disposizione dei lavoratori dipendenti un impianto costituito dalla “linea di
produzione dei bancali di pellets” non idoneo ai fini della sicurezza, ed ha
assolta invece l’imputato dalla contravvenzione di cui agli articoli 41 e 389
lettera c) del D.P.R. 547/55 per avere omesso di munire la macchina di idonea
protezione degli organi pericolosi.
Il
Tribunale, accertato sulla base della consulenza tecnica del Pubblico
Ministero, che l’infortunio si era verificato a causa della vanificazione delle
misure di sicurezza delle quali era dotata la macchina, affermava che, ancorché
non potesse ritenersi dimostrato che l’imputato ne avesse disposto direttamente
la modifica, lo stesso dovesse esserne al corrente e che comunque fosse venuta
meno all’obbligo di vigilanza.
La Corte di Appello, su
impugnazione dell’imputato, ha confermato in punto di responsabilità la
sentenza di primo grado, richiamandone sinteticamente la motivazione. La Corte territoriale ha
evidenziato che la condotta della vittima non potesse considerarsi anomala ed
imprevedibile, essendo il lavoratore intervenuto per consentire la ripresa del
funzionamento della macchina e avendo utilizzato un accesso realizzato sulla
struttura di protezione. Con riguardo all’elemento soggettivo, la Corte di Appello ha considerato
che nella grata metallica alta circa due metri che isolava la macchina dal
resto del capannone era stata realizzata una porta con due maniglie e profili
in acciaio e, ritenendo trattarsi di un lavoro di una certa complessità che ha
richiesto, oltre che capacità tecniche, anche qualche ora di lavoro, ha quindi
desunto da tale considerazione che l’ignoranza di tale modifica da parte
dell’imputato fosse colpevole, essendo tra l’altro la stessa avvenuta con
modalità pubbliche e almeno quarantotto ore prima dell’infortunio così come
riferito da un collega del lavoratore deceduto.
Avverso
la Sentenza
della Corte di Appello l’imputato ha ricorso in Cassazione censurando la
sentenza impugnata e chiedendone l’annullamento. L’imputato ha preliminarmente
contestata la individuazione del momento in cui è stata fatta la modifica alla
macchina avvenuta, a suo parere, nella mattina stessa dell’infortunio e non 48
ore prima, evidenziando così il brevissimo lasso di tempo intercorso tra la
modifica stessa e l’infortunio, elemento questo rilevante per escludere la sua
colpevolezza per esserne all’oscuro a fronte della contestazione di aver messo
a disposizione del lavoratore un macchinario inidoneo.
Con
riferimento a quest’ultima motivazione del ricorso la Corte di Cassazione ha posto
in rilievo che i giudici di merito hanno ritenuto accertato, anche sulla base
della prova logica, che la modifica della macchina alla quale era adibito il
lavoratore infortunato fosse conosciuta o conoscibile dall’imputato e che,
contrariamente a quanto indicato nel ricorso, le sentenze di merito sono
risultate conformi nel ritenere che la modifica apportata al macchinario
abbisognasse di “una certa lavorazione” e che richiedesse “oltre che capacità
tecniche, anche qualche ora di lavoro” per cui è risultato che correttamente
gli stessi avessero ritenuto, così come descritto nel capo d’imputazione, che
il datore di lavoro avesse messo a disposizione dei lavoratori una macchina
che, sebbene inizialmente munita di idonea protezione, era stata modificata con
l’apertura di una via d’accesso agli organi in movimento, omettendo tuttavia di
dotarla di un dispositivo che all’apertura ne bloccasse il funzionamento e che
quindi avesse messo a disposizione dei lavoratori un impianto non idoneo ai
fini della sicurezza.
Per
un corretto inquadramento del caso concreto esaminato dai Giudici di merito, la Sezione IV ha
evidenziato che occorre prendere le mosse dalla normativa introdotta con il
D.P.R. 459/96, la cosiddetta “Direttiva Macchine”, la quale ha disciplinato i
presidi antinfortunistici concernenti le macchine e i componenti di sicurezza
immessi sul mercato ed ha recepito la Direttiva Macchine
europea 89/392/CE nata con l’obiettivo di armonizzare le disposizioni normative
degli Stati membri. La
Direttiva Macchine europea nella originaria versione è stata,
successivamente, modificata e integrata con altre Direttive che sono state
recepite nell’ordinamento italiano mediante il D.Lgs. 17/10.
Dal
raccordo delle Direttive europee con il sistema prevenzionistico già in vigore
in Italia, ha sottolineato la
Suprema Corte, si è desunta un’anticipazione della tutela
antinfortunistica al momento della costruzione, vendita, noleggio e concessione
in uso delle macchine coinvolgendo nella responsabilità per la mancata
rispondenza delle stesse alle normative di sicurezza tutti gli operatori ai
quali siano imputabili dette attività. “Si è, in sostanza, introdotto”, ha
proseguito la Sezione IV,
“un minimum tecnologico obbligato comune che da un lato, ha esteso ad altri
operatori l’obbligo di controllo della regolarità della macchina o del pezzo
prima che gli stessi vengano messi a disposizione del lavoratore; d’altro
canto, si è attribuito tale obbligo a soggetti individuati come costruttori in
senso giuridico del macchinario quando, ad esempio, pur risultando il
macchinario composto di pezzi prodotti da altre ditte, l’obbligo di controllare
la regolarità del macchinario nel suo complesso al fine di ottenere la
certificazione necessaria per immetterlo sul mercato spettasse ad una impresa
in particolare, in ipotesi incaricata di assemblare tutte le componenti”.
La Corte Suprema ha avuto quindi
modo di precisare che “le disposizioni che hanno dato attuazione alle Direttive
macchine dell’Unione Europea, pur indicando le prescrizioni di sicurezza necessarie
per ottenere il certificato di conformità e il marchio CE richiesti per
immettere il prodotto nel mercato, non escludono ulteriori profili in cui si
possa sostanziare il complessivo dovere di garanzia di coloro che pongono in
uso il macchinario nei confronti dei lavoratori, che sono i diretti
utilizzatori delle macchine stesse, non potendo costituire motivo di esonero
della responsabilità del costruttore quello di aver ottenuto la certificazione
e di aver rispettato le prescrizioni a tal fine necessarie”. La Suprema Corte ha
tenuto, infatti, a ricordare che, a norma dell’articolo 3, comma 1 del D. Lgs.
626/94, le misure generali che il datore di lavoro deve adottare per la
protezione della salute e per la sicurezza dei lavoratori sono, tra le altre,
la valutazione dei rischi, l’eliminazione dei rischi in relazione alle
conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, la riduzione dei rischi alla
fonte, la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è o è meno
pericoloso, l’uso di segnali di avvertimento o di sicurezza, la regolare
manutenzione di ambienti, attrezzature, macchine e impianti, con particolare
riguardo ai dispositivi di sicurezza in conformità alla indicazione dei
fabbricanti.
Nel
caso in esame, ha quindi proseguito la Sezione IV, era stata apportata alla macchina, in
epoca antecedente l’infortunio, una modifica che aveva vanificato le misure di
sicurezza delle quali la macchina stessa era inizialmente dotata per cui
correttamente i giudici di merito hanno ritenuto esigibile dal datore di lavoro
il rispetto dell’obbligo di controllare che la macchina messa a disposizione
dei lavoratori fosse sicura. Il datore di lavoro, che aveva demandato al padre
il potere di fatto di impartire direttive ai lavoratori, è stato ritenuto
essere in grado di conoscere la non conformità della macchina alla regola
dettata dall’articolo 72 del D.P.R. 547/55 a motivo delle circostanze
riscontrate nel caso concreto (complessità della modifica, previo accordo circa
la modifica tra il lavoratore ed il padre dell’imputato, posizione in luogo ben
visibile della nuova porta di accesso alla macchina e tempo trascorso tra la
modifica e l’infortunio).
La Corte di Cassazione ha
quindi in conclusione rigettato il ricorso avendo ritenuto che correttamente i
giudici di merito avevano fatto rientrare il caso in esame nella norma
incriminatrice per non avere il datore di lavoro proceduto all’eliminazione di
un rischio, prevedibile ed evitabile in quanto connesso ad una modifica
eseguita sul macchinario.
La Sentenza n. 43425 del 28
ottobre 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile
all’indirizzo:
LE AZIENDE DEVONO
RIFARE LA VALUTAZIONE
DEL RISCHIO CHIMICO?
Da:
PuntoSicuro
19
gennaio 2016
Tiziano
Menduto
In
relazione alla scadenza del primo giugno 2015 e ai nuovi criteri di
classificazione molte miscele possono essere diventate pericolose. Cosa devono
fare le aziende? Ne parliamo con Ludovica Malaguti Aliberti del Centro
Nazionale delle Sostanze chimiche.
In
questi mesi si è parlato molto sul nostro giornale della scadenza del primo
giugno 2015. Da questa data entra pienamente in vigore il Regolamento CLP
(Regolamento CE n. 1272/2008) relativo alla classificazione, etichettatura ed
imballaggio di sostanze e miscele. Ed è ora obbligatorio seguire il Regolamento
CLP non solo per la classificazione delle sostanze (era già obbligatorio dal
primo dicembre 2010), ma anche per la classificazione delle miscele.
Ma
la scadenza del primo giugno e le novità sulla classificazione delle miscele
possono avere anche altre ripercussioni sulle aziende italiane? Sono valide le
valutazioni del rischio chimico fatte con riferimento alle precedenti
classificazioni?
Per
rispondere a queste domande e per fare luce su alcune delle più importanti
novità in materia chimica, abbiamo intervistato, durante la manifestazione
Ambiente Lavoro, che si è tenuta a Bologna nel mese di ottobre, la dottoressa
Ludovica Malaguti Aliberti del Centro Nazionale delle Sostanze chimiche
(Istituto Superiore di Sanità Roma).
La
dottoressa Ludovica Malaguti Aliberti era relatrice a Bologna in due diversi
convegni organizzati da INAIL e Regione Emilia Romagna: il 15 ottobre al
convegno “REACH 2015 L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di
lavoro” e il 16 ottobre al convegno “REACH Sanità L’applicazione dei
Regolamenti Europei delle Sostanze Chimiche in ambito sanitario”.
Chiaramente
la prima domanda che le abbiamo posto è relativa alla scadenza del primo giugno
e alle sue conseguenze.
Come
cambiano i criteri di classificazione di sostanze e miscele? Come può variare
la pericolosità di una miscela? E ci sarà un regime di proroga per i prodotti
immessi sul mercato prima della scadenza?
E
se, come ci segnala la rappresentante dell’Istituto Superiore di Sanità, le
miscele che con le Direttive precedenti non erano classificate come pericolose,
possono ora diventare pericolose, come devono regolarsi le aziende che hanno a
che fare con queste miscele?
Con
la scadenza del primo giugno un’azienda deve anche cambiare la propria valutazione
del rischio chimico?
Entro
quando un’azienda dovrebbe aggiornare la propria valutazione? Quali sono le
tempistiche?
Una
domanda non potevamo poi non farla sulla percezione che il Centro Nazionale
delle Sostanze chimiche dell’Istituto Superiore di Sanità ha della percezione e
conoscenza nelle aziende dei regolamenti europei in materia di sostanze
chimiche.
Nelle
aziende c’è la consapevolezza delle conseguenze della piena entrata in vigore
del Regolamento CLP?
Infine
ci soffermiamo sulle conseguenze della scadenza sulle scheda dati di sicurezza.
Cosa
cambia nell’elaborazione delle schede dati di sicurezza?
Che
supporto possono dare le schede al datore di lavoro?
E
come deve utilizzare il datore di lavoro gli scenari di rischio?
Come
sempre diamo ai nostri lettori la possibilità di ascoltare integralmente
l’intervista e/o di leggerne una parziale trascrizione.
Soffermiamoci
sul convegno “L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di lavoro”
e sulla nuova scadenza del primo giugno 2015. E’ una scadenza importante? E con
quali conseguenze?
LUDOVICA
MALAGUTI ALIBERTI
Certamente
è una scadenza importante, perché si tratta dell’entrata in vigore piena del
Regolamento CLP, che, come acronimo, sta per classificazione, etichettatura e
imballaggio di sostanze e miscele pericolose.
Nel
2010 il Regolamento è entrato in vigore per le sole sostanze, per cui già nel
2010 c’era la possibilità di conoscere i nuovi pittogrammi, indicazioni di
pericolo, consigli di prudenza.
Con
la nuova scadenza non avremo più in circolazione etichette con pittogrammi, con
indicazioni di pericolo e consigli di prudenza secondo le vecchie Direttiva sui
prodotti e le miscele pericolose. Questo significa che non avremo più i
pittogrammi arancioni con quadrati, ma avremo i rombi con il fondo bianco e con
il segnale di pericolo che fondamentalmente ricalca quelli precedenti, salvo
che per i cancerogeni, mutageni, reprotossici, sensibilizzanti che riportano la
figura dell’ “uomo esploso”.
Ma
le novità non si riducono a questo.
Sono
modificati anche i criteri di classificazione.
I
criteri di classificazione di sostanze e miscele diventano più ristrettivi e
sono una garanzia in più per la salute umana e anche per l’ambiente. Perché
questi regolamenti si applicano alla salute umana e all’ambiente. Diversamente
dalla normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro dove
l’ambiente non è tenuto in conto.
E
dunque le miscele che con le Direttive precedenti non erano classificate come
pericolose, possono ora diventare pericolose, ai sensi dei criteri più
ristrettivi.
Questa
entrata in vigore non è però così netta. Come nel 2010 noi andiamo incontro ad
un regime di proroga per ciò che è già immesso sul mercato. Ci sarà anche in
questo caso un regime di proroga di due anni per i produttori, fabbricanti e
importatori per arrivare nel 2017 con un assoluto cambio di passo: tutto ciò
che sarà etichettato, classificato, lo sarà con il regolamento CLP. Quindi di
fatto oggi possiamo avere prodotti (ad esempio la varechina o altre sostanze
reattive nel mondo dell’industria e nei luoghi di lavoro) che marciano con
etichette diverse ma con la stessa miscela.
Entriamo
nello specifico degli obblighi delle aziende. Con questa novità del primo
giugno un’azienda deve anche cambiare la propria valutazione del rischio
chimico?
LUDOVICA
MALAGUTI ALIBERTI
Sicuramente
per gli ambienti di lavoro, il datore di lavoro che ha nella propria valutazione
dei rischi l’applicazione del Titolo IX del D.Lgs. 81/08, quindi sia il Capo I
che il Capo II, dovrà rivedere la valutazione perché potrebbe essere che si
trovi con miscele che hanno cambiato classificazione e che quindi possono
diventare pericolose.
Quindi
la valutazione dei rischi va sicuramente aggiornata. O quanto meno ripresa in
mano e analizzata per vedere se c’è bisogno di aggiornamenti...
In
teoria dunque già dai primi giorni di giugno un’azienda dovrebbero avere già aggiornato
la loro valutazione.
LUDOVICA
MALAGUTI ALIBERTI
Lo
sta facendo, io credo. Anche perché il rischio chimico nelle aziende è
solitamente analizzato con degli algoritmi. Questo significa che gli algoritmi
hanno avuto necessità di essere aggiornati. E’ stato lungo il processo di
aggiornamento degli algoritmi, ed è un processo lungo quello di aggiornare. E’
chiaro che in teoria dal 2 giugno le valutazioni dovrebbero essere aggiornate.
Però credo che, ed è il messaggio da dare, l’importante è che ci sia
consapevolezza di questo cambio.
Perché
mentre da un lato la grande industria, soprattutto l’industria chimica, ne è al
corrente, perché ha altri obblighi rispetto ai Regolamenti, la micro, piccola e
media impresa hanno delle difficoltà non solo a saper come fare, ma anche solo
a sapere che c’è bisogno di questo cambio.
Concludiamo
questa intervista cercando di capire se la scadenza del primo giugno 2015 ha conseguenze anche
sull’elaborazione delle schede dati di sicurezza. Che supporto possono dare al
datore di lavoro? Come deve utilizzare il datore di lavoro gli scenari di
rischio?
LUDOVICA
MALAGUTI ALIBERTI
Le
schede dati di sicurezza sono normate dal Regolamento REACH e riviste poi dal
Regolamento n. 453/2010. Però visto che sarà necessario aggiornare la
classificazione delle miscele anche nelle schede dati di sicurezza, sicuramente
dal primo giugno noi andremo ad utilizzare l’Allegato II del Regolamento n.
453/2010.
Le
schede dati di sicurezza sono uno strumento formidabile di supporto per il
datore di lavoro perché gli forniscono tutta le informazioni sulla gestione e
sul corretto utilizzo delle miscele. Anche perché per quelle che sono messe sul
mercato in quantità superiore alle 10 tonnellate, c’è l’obbligo di inserire
nella scheda un “Chemical Safety Report” che comprende gli scenari di
esposizione studiati, con le relative “Risk Management Measures”.
E
quindi il datore di lavoro dovrà verificare che la sua lavorazione, la sua
tipologia di esposizione, rientri in quegli scenari. Laddove ciò non succeda,
dovrà, risalendo nella catena di approvvigionamento, chiedere di far verificare
il proprio uso con un uso sicuro.
Tutto
questo è un meccanismo assai complesso, molto più difficile di quanto possa
apparire raccontandolo, perché coinvolge professionalità estremamente
specifiche sia nel fare gli scenari, sia nel verificare che la propria attività
rientri in quegli scenari.
Il
datore di lavoro può poi avere un ulteriore supporto perché per le miscele che
non sono classificate come pericolose, ma che contengono delle sostanze
pericolose fino allo 0,1%, si può richiedere la scheda dati di sicurezza.
Noi
in realtà diciamo ai datori di lavoro di richiederle sempre. Perché su questo è
il D.Lgs. 81/08 che comanda, rispetto all’invito che fa il Regolamento Reach.
E
ricordo anche che quello che si trova negli scenari non è la valutazione dei
rischi secondo il D.Lgs. 81/08, ma è quello che il fabbricante scrive. Il
datore di lavoro deve far proprio lo scenario, lo deve adattare alla propria
attività in funzione dell’esposizione. Il datore deve porsi in modo attivo
anche nei confronti delle schede dati di sicurezza.
Il
video dell’intervista completa alla dottoressa Ludovica Malaguti Aliberti è
consultabile all’indirizzo:
Il
Regolamento (UE) della Commissione Europea n. 453/10 del 20 maggio 2010
“Recante modifica del regolamento (CE) n. 1907/06 del Parlamento europeo e del
Consiglio concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la
restrizione delle sostanze chimiche (REACH)” è scaricabile all’indirizzo:
Il
Regolamento (CE) del Parlamento e del Consiglio Europeo n. 1272/08 del 16 dicembre
2008 “Relativo alla classificazione, all’etichettatura e all’imballaggio delle
sostanze e delle miscele che modifica e abroga le direttive 67/548/CEE e
99/45/CE e che reca modifica al regolamento CE n. 1907/06 è scaricabile
all’indirizzo”:
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