mercoledì 27 gennaio 2016

26 gennaio - SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! NEWSLETTER N. 242 DEL 25/01/16



NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI
(a cura di Marco Spezia - sp-mail@libero.it)

INDICE

L’ESERCITO EUROPEO DI RISERVA
1
COME TUTELARE GLI OPERAI ILVA?
4
LA GESTIONE DELLA SICUREZZA PER I LAVORATORI CHE SVOLGONO PIU’ MANSIONI
6
L’ABROGAZIONE DEL REGISTRO INFORTUNI: UNA SEMPLIFICAZIONE FATTA SENZA TESTA
8
IDENTIFICAZIONE DEI LAVORI RIPETITIVI E VALUTAZIONE RAPIDA DEL RISCHIO
9
LA RESPONSABILITA’ PER IL MANCATO CONTROLLO DI UN MACCHINARIO
12
LE AZIENDE DEVONO RIFARE LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO CHIMICO?
15


L’ESERCITO EUROPEO DI RISERVA

Da Asimmetrie
Agenor

Riporto a seguire un interessante articolo sulle tematiche del lavoro e dello stato sociale (e non solo).
A una prima lettura l’articolo può sembrare estraneo alle tematiche trattate di solito nella mia newsletter, ma a ben guardare esso permette di capire le dinamiche che stanno alla base dell’attuale sistema di sfruttamento della forza lavoro e di conseguenza alla base della voluta mancata tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, che fa parte anch’esso del “disegno strategico di fondo” di cui parla l’articolo.
Marco Spezia

* * * * *

Le grandi strategie sono sempre composte da una sequenza di piccole iniziative e il quadro finale diventa visibile solo quando tutti i singoli pezzi del puzzle sono stati inseriti al posto giusto. La divisione in singole iniziative permette di focalizzare le discussioni su aspetti minori, senza sottoporre la grande strategia al vaglio dell’opinione pubblica o del dibattito parlamentare. Le grandi strategie sovranazionali, poi, hanno anche il vantaggio di limitare il dibattito oltre che alle singole misure anche a specifiche questioni locali, interne ai singoli paesi. Il disegno strategico di fondo non può essere contestato perché non è reso esplicito, non è sottoposto a dibattito e supera i confini delle competenze nazionali. Esso rimane quindi perfettamente al riparo dal processo democratico.

Uno di questi grandi disegni strategici che si sta realizzando in questi anni è la trasformazione dello stato sociale e del mercato del lavoro in Europa. Il cambio di paradigma fu dichiarato vent’anni fa dall’OCSE: passare dall’attivismo dello stato in economia per promuovere la piena “occupazione” alle politiche liberiste e mercantiliste per promuovere la piena “occupabilità”.
Destra e sinistra in tutti i paesi si sono egualmente spese senza grandi distinzioni, in Italia come in Europa, per applicare il nuovo paradigma. Come tutte le grandi strategie, anche questa è composta da una sequenza di misure specifiche e ha un preciso modello di riferimento.

Il primo punto è il contenimento dei salari. E’ fondamentale che livello dei salari sia basso per mantenere competitivo il sistema produttivo. L’esigenza di essere più competitivi e di tirare un po’ tutti la cinghia in tempi di crisi sono le giustificazioni tipiche per far accettare questo contenimento. Come ben sappiamo questa esigenza diventa più pressante quando non si dispone del meccanismo del tasso di cambio. In altre parole, col cambio fisso il salario deve diventare flessibile. Nella zona euro abbiamo deciso di sostituire il tasso di cambio come meccanismo di aggiustamento degli squilibri esterni con il licenziamento e l’abbassamento dei salari. La riduzione dei salari nel settore pubblico si può fare per decreto (per ridurre il salario in termini reali, basta anche congelarlo in termini nominali, come spesso avviene), nel settore privato si ricorre alla decentralizzazione della contrattazione collettiva a livello di singola azienda. In quel modo il potere negoziale del singolo lavoratore è drasticamente ridotto. L’abbassamento dei salari, in generale, è facilitato dalla maggiore possibilità di licenziamento e dalla maggiore concorrenza per ottenere un posto di lavoro.

Subito dopo viene la ben nota questione della flessibilità, ovviamente flessibilità in uscita, come si chiama in linguaggio tecnico la possibilità di licenziare più facilmente. Si tratta di ridurre tutto il sistema di protezioni giuridiche che rendono difficile licenziare un lavoratore. Come si fa a rendere questo accettabile? Prima si colpisce una categoria, e dopo si scatena la classica guerra fra poveri: settore pubblico contro privato, giovani contro anziani, donne contro uomini, nord contro sud o est contro ovest, a seconda del paese. La giustificazione che accompagna questa misura è tipicamente quella di un’istanza di giustizia, modernità, e maggiore efficienza in tempi di crisi.

In Italia ce ne è voluto, ma alla fine dopo tanti tentativi l’Articolo 18 è stato abbattuto. Il Jobs Act ha sostanzialmente (anche se non formalmente) fatto sparire il concetto di contratto a tempo indeterminato, in quanto questo tipo di contratto ha perso tutte le tutele che lo rendevano effettivamente tale. Avendo così drasticamente penalizzato una parte dei lavoratori, nel settore privato, è stato poi facile convincerli che la colpa è di quegli altri, quelli del pubblico che sono più tutelati. Quindi anche loro adesso chiedono a gran voce di eliminare i “privilegi” del settore pubblico. Così pian piano si realizza la flessibilità in uscita per tutti. A titolo di esempio, nel paese modello per le recenti riforme del lavoro, la Spagna, ormai il 28% dei nuovi contratti ha una durata inferiore a 7 giorni: assunzione il lunedì mattina, licenziamento il venerdì sera, e poi si ricomincia il lunedì successivo.

Il terzo cardine è la mobilità della forza lavoro. Una volta licenziati, i disoccupati-potenziali-lavoratori sono comunque una risorsa utilizzabile altrove, quindi è utile facilitarne lo spostamento verso le zone in cui ce n’è più bisogno. Perché questo avvenga è necessario che ci sia un perfetto coordinamento dei servizi pubblici per l’impiego, non a caso una delle priorità stabilite in quasi tutti i paesi. I servizi pubblici per l’impiego, da centri di raccordo della domanda e dell’offerta a livello locale, devono diventare nodi di un’unica grande rete trans-europea che permetta il ricollocamento rapido di manodopera inutilizzata in un paese verso quello in cui ce n’è maggiormente bisogno. Anche qui la giustificazione è semplice: maggiore integrazione europea e maggiori opportunità di lavoro per chi non ce l’ha più.

Il quarto punto, anch’esso cruciale, è il mantenimento o la formazione di competenze adeguate a rendere “occupabile” il disoccupato-potenziale-lavoratore. Nessuno vuole un lavoratore che dopo anni d’inattività non è più capace di utilizzare i nuovi macchinari o sistemi informatici, perché rimasto tecnologicamente indietro. Bisogna quindi formarlo, ovviamente non finanziandogli una continuazione degli studi, che potrebbe permettergli un salto qualitativo sul mercato del lavoro, ma cercando invece di mantenerne aggiornate le competenze tecniche e professionali tali da renderlo utilizzabile immediatamente: saper usare l’ultimo macchinario o la tecnologia più recente introdotta in azienda. Ovviamente, questo tipo di misura si può ben presentare come sostegno ai disoccupati per facilitare l’apprendimento di competenze utili nel mercato del lavoro. In questo modo ci si assicura che tutta la popolazione in età lavorativa sia costantemente formata, addestrata anche nei periodi in cui è disoccupata, e sempre disponibile per le esigenze della produzione.

Questa costruzione però non sta in piedi se le persone rimangono disoccupate per lunghi periodi, o se i contratti sono talmente brevi e i periodi di lavoro troppo scarsi per garantire un minimo livello di sussistenza. Ecco che quindi entra in gioco il pezzo fondamentale del puzzle: il reddito minimo. Esso deve essere veramente “minimo”, nel senso di non creare un disincentivo ad accettare qualunque offerta di lavoro, anche la meno appetibile. Esso deve poi essere “condizionato”, cioè immediatamente revocabile nel caso di rifiuto dell’offerta ricevuta o di mancata frequentazione del corso di aggiornamento. E poi il disoccupato deve ovviamente sempre essere reperibile dal centro per l’impiego, pena il decadimento dal reddito minimo.

Non c’è bisogno di grandi acrobazie per “vendere” il reddito minimo come una grande conquista sociale. Ciò che veramente lo caratterizza come strumento di un quadro ben più reazionario, invece, è l’insieme di condizionalità a esso legate. Sarebbe tutt’altra cosa remunerare il lavoro nella giusta misura, in linea con la sua produttività, e garantire anche un salario minimo dignitoso a tutti. Come sarebbe tutt’altra cosa istituire un sistema pubblico di “impiego di ultima istanza”. Ma tutto questo ridarebbe al lavoratore un’autonomia, una dignità e una forza contrattuale che lo renderebbe molto meno ricattabile. La differenza fra salario minimo e reddito minimo sembra poco più di una questione semantica, e invece è la differenza fra dignità e dipendenza, fra libertà e schiavitù.

Il suggello su questo nuovo modello di stato sociale è poi la sempiterna riforma delle pensioni, che ritorna a intervalli regolari. Il motivo di questa sua ricorrenza è la volontà di passare progressivamente a una privatizzazione del sistema pensionistico, riducendo sempre più quelle pubbliche finché il cittadino non ha più scelta. Nel nuovo modello di stato sociale il costo di supportare il lavoratore vale la pena finché questi è in età lavorativa e può essere utile, dopodiché diventa solo un peso. Per questo motivo si preferisce tagliare sulle pensioni per spendere un po’ di più in formazione professionale e nella sussistenza del disoccupato. Chi può permetterselo, accumulerà in età lavorativa una ricchezza finanziaria che gli possa permettere di mantenersi anche dopo; chi non ce la fa, una volta smesso di lavorare emigrerà dove la vita costa meno o finirà in povertà. Così si riducono i costi per il settore pubblico, cosa ormai richiesta anche da chi avrebbe interesse a non farlo.

Queste sono le singole iniziative, che prese singolarmente sono anche accettabili e giustificabili agli occhi dell’opinione pubblica, come progressi verso una società più giusta ed efficiente. Mettendole tutte insieme e facendo attenzione ai dettagli con cui queste misure vengono poi applicate, però, si può vedere come esse concorrano a formare un quadro diverso. Tutta la popolazione in età lavorativa deve essere sempre a disposizione del sistema produttivo, utilizzabile e scartabile secondo il bisogno, formata in quelle competenze direttamente richieste dalla produzione e mantenuta al livello di sussistenza nei periodi in cui non è occupata, ma ricattabile e sottoposta alla concorrenza per il posto di lavoro, cioè con scarso potere contrattuale nel momento in cui viene assunta. Il modello di riferimento è quello tedesco, completato un decennio fa dalle riforme Hartz, dal nome dell’ex-manager Volkswagen, Peter Hartz, consigliere del governo Schröder.

Non si può capire quello che sta succedendo in Europa senza conoscere le riforme Hartz e in particolare il pacchetto Hartz IV. E non si possono capire le riforme Hartz senza conoscere i cardini del pensiero ordoliberistatedesco. Esso si differenzia dal cosiddetto neo-liberismo di matrice anglosassone, e ne diventa una versione molto più estrema, in quanto considera come compito esplicito dello stato quello di assicurare il quadro politico necessario per il libero dominio del capitale sul lavoro. In pratica l’ordoliberismo è un liberismo truccato, in cui la tensione fra i due fattori di produzione è ancora più squilibrata perché lo stato interviene esplicitamente per risolverla in favore del capitale a scapito del lavoro.

La cosiddetta economia sociale di mercato di matrice tedesca è il modello economico che stiamo applicando in Europa, prevalentemente nella zona euro, dove il margine di manovra dei governi nazionali è molto più limitato. Il quadro strategico complessivo che sta venendo fuori è la trasposizione del modello sociale tedesco nel resto d’Europa, cioè la scientifica costruzione di un esercito industriale di riserva su scala europea.



COME TUTELARE GLI OPERAI ILVA?

Da Peacelink
20 gennaio 2016
Fulvia Gravame

Appunti sugli strumenti utilizzabili per tutelare gli operai e gli abitanti di Taranto.
Come tutelare gli operai ILVA?
Dopo aver perso tre anni e mezzo facendo finta di salvare la nave (l’ILVA), direi che è il caso di cominciare a predisporre il piano di salvataggio dei marinai e non della nave.

Sono passati tre anni e mezzo da quel 26 luglio 2012 che portò al sequestro dell’impianti dell’area a caldo dell’ILVA e del protocollo d’intesa per le bonifiche, in realtà per una serie di interventi in parte già previsti per Taranto, quali i lavori del porto.
Il clima in città è segnato dalla paura degli operai, degli abitanti e dal nervosismo dei politici.

I ritardi nel piano governativo di “ambientalizzazione”, i rinvii delle scadenze previste dal Riesame 2012, la grave situazione debitoria dell’ILVA che produce dai cinquanta ai sessanta milioni di euro di debiti al mese, il rinnovo della “solidarietà” a più di 3.000 operai a rotazione, i tanti morti per incidenti nello stabilimento, l’avvio di due procedure europee contro l’Italia sono alla base di questa paura e di questo nervosismo. Sempre di più gli operai si convincono che le scelte del 2012 non stanno portando i frutti promessi e cioè non stanno dando garanzia di salvare l’ILVA e il loro posto di lavoro; le prospettive per il futuro diventano sempre più nere, senza che le istituzioni abbiano finora dato prova di essere in grado di costruire un’alternativa valida per 11.000 dipendenti e sostenibile per una città di 200.000 circa abitanti.

Bisognerebbe spiegare a tutti che, giustamente hanno paura di perdere lo stipendio, che l’Unione Europea non vieta di aiutare i lavoratori, ma solo di aiutare le imprese. Di questo abbiamo parlato nella conferenza stampa di Peacelink con Antonia Battaglia e Alessandro Marescotti che si è tenuta il 18 gennaio scorso.
E’ molto grave che gli operai siano tenuti nell’ignoranza di quello che si potrebbe fare per loro con diverse tipologie di finanziamenti e che non viene programmato dalle istituzioni.

La Commissione europea apprezzerebbe interventi a favore degli operai e potrebbe autorizzare anche la “no tax area” o altri interventi straordinari come le bonifiche, se adeguatamente motivati in base all’articolo 107 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) che vieta gli aiuti alle imprese, ma non ai lavoratori e alle zone economicamente più fragili.
Infatti l’articolo 107 del TFUE recita: “Salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.

Sono sicura che non sarebbe una passeggiata preparare l’apposito dossier, sia per la complessità dell’intervento da realizzare a Taranto, sia perché le risorse europee interessano anche ad altri Paesi Membri della Unione, ma (dopo aver perso tre anni e mezzo) penso che sia proprio arrivato il momento di avviare tutto quello che può servire a salvare i marinai e non la nave. La battuta è di Cataldo Ranieri del Comitato lavoratori e cittadini liberi e pensanti.

La domanda potrebbe essere perché non lo si è fatto finora, ma io preferisco chiedere a chi di dovere di farlo e subito, considerato che l’ILVA sembra non avere le risorse per continuare a produrre e/o per attuare le prescrizioni AIA.

Tra l’altro lo strumento più conosciuto e comprensibile perché già utilizzato più volte nelle crisi industriali di grandi gruppi (Natuzzi ad esempio), è di competenza della Regione che ha a disposizione il Fondo sociale europeo ed in particolare i fondi per la formazione continua, quelli per i dipendenti delle imprese private.

La formazione continua (in inglese “continuing vocational training”) è volta a migliorare il livello di qualificazione e di sviluppo professionale delle persone che lavorano, assicurando alle imprese e agli operatori economici sia pubblici che privati, capacità competitiva e dunque adattabilità ai cambiamenti tecnologici e organizzativi.

Le disposizioni legislative che predispongono interventi nazionali per la formazione continua sono l’articolo 9 della Legge 236/93 e l’articolo 6 della Legge 53/00. Tali norme prevedono la ripartizione annuale delle risorse erariali a favore delle Regioni che, a loro volta, emanano avvisi pubblici destinati a imprese e lavoratori per il finanziamento di piani formativi aziendali, settoriali e individuali e voucher formativi (aziendali e individuali).
Inoltre, per la formazione dei propri dipendenti, le imprese possono scegliere di aderire a uno dei Fondi paritetici interprofessionali nazionali per la formazione continua, organismi di natura associativa costituiti attraverso accordi interconfederali, stipulati tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale.

L’offerta formativa si realizza attraverso la proposta a catalogo di percorsi interaziendali di aggiornamento del personale occupato; corsi interaziendali di alfabetizzazione, qualificazione, riqualificazione e specializzazione, volti all’acquisizione o allo sviluppo di nuove competenze professionali richieste in ambito lavorativo o per l’arricchimento del proprio patrimonio culturale; percorsi aziendali di riqualificazione e aggiornamento del personale occupato.
I corsi sono destinati a diverse categorie di persone, tra le quali:
-         soggetti occupati;
-         soggetti in CIG e mobilità, inoccupati, inattivi e disoccupati per i quali la formazione è propedeutica all’occupazione;
-         lavoratori con contratti di apprendistato e a progetto.

Sono argomenti proposti ripetutamente dal 2012 in poi ed inseriti nel programma amministrative 2012 di “Tarantorespira” che aveva Angelo Bonelli come candidato sindaco e di cui sono coportavoce Vittoria Orlando Giovanni Carbotti.
Analizzai questo problema nel maggio 2012, anche in un seminario di Peacelink in cui presentai i fondi strutturali utilizzabili.

Da allora però si contano sulle punta delle dite le interviste dei responsabili delle politiche del lavoro a livello di Governo e Regione. Sono stati al contrario molto frequenti le dichiarazioni del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), mentre (a mio modesto avviso) sarebbe stato opportuno avviare delle analisi su come tutelare i dipendenti diretti dell’ILVA, attraverso forme di prepensionamento e percorsi di riqualificazione. I responsabili delle politiche del lavoro a livello regionale e nazionale hanno taciuto finora!

Prepensionamenti, CIG, solidarietà, CCNL ecc, strumenti delle politiche del lavoro, sono di competenza del Ministero del lavoro e dell’apposito Assessorato regionale. Inutile protestare con il sindaco di Taranto com’è stato fatto negli ultimi anni. Si deve andare a Bari o a Roma. La prima indicazione che i sindacati dovrebbero dare agli operai è qual è l’interlocutore giusto con il quale prendersela. Gli strumenti della lotta sindacale quali scioperi, blocchi del ponte e delle statali e presidi non si devono utilizzare ancora una volta ai danni di chi vive in città.



LA GESTIONE DELLA SICUREZZA PER I LAVORATORI CHE SVOLGONO PIU’ MANSIONI

Da Articolo 19
Citta Metropolitana
Leopoldo Magelli

Come affrontare il problema della valutazione del rischio e della formazione per i lavoratori che svolgono più mansioni?

Questo problema ci è stato posto diverse volte da vari RLS, in quanto la situazione in questione è tutt’altro che rara e le soluzioni attivate dalle aziende sono tra loro dissimili. Abbiamo sempre rinviato la risposta a questi quesiti e forse, casualmente, abbiamo fatto bene perché pochi mesi fa, nel giugno del 2015 è stato sottoposto alla Commissione per gli Interpelli proprio questo stesso problema che è di frequentissimo riscontro nel mondo del lavoro, cioè come vanno valutati i rischi e impostata la formazione per quei lavoratori che vedono ricomprese nella loro figura e attività professionale diverse mansioni.
Il problema è stato posto dall’ANCE (Associazione Nazionale Costruttori Edili) e la risposta della Commissione per gli Interpelli (n. 4/2015) è datata 24 giugno 2015.
Il problema posto era letteralmente il seguente:
“conoscere il parere...in merito alla formazione prevista dall’articolo 37 del D.Lgs. 81/08, nonché alla valutazione dei rischi specifici delle mansioni, nel caso in cui un lavoratore in possesso di formazione per lo svolgimento di una determinata attività venga adibito allo svolgimento di particolari mansioni, che tradizionalmente, e anche in base alla classificazione ISTAT-ISFOL, costituiscono compiti o attività specifiche ricompresi nell’attività principale per la quale è stata erogata la formazione stessa”.

Il quesito, come si può vedere, è un po’ criptico, tant’è vero che l’ANCE propone un esempio per meglio chiarire il senso della domanda :
“A titolo esemplificativo, è questo il caso in cui un lavoratore dei settori delle costruzioni stradali venga adibito alla rifinitura del manto stradale, o alla gestione del traffico veicolare durante le operazioni di rifacimento di una corsia stradale, pur non essendo in possesso di una formazione specifica ad hoc per tali singoli compiti, bensì avendo ricevuto una formazione specifica per asfaltista, figura professionale le cui mansioni comprendono, nella classificazione ISTAT-ISFOL, anche quella suddetta di rifinitura del manto o le operazioni connesse alla realizzazione di opere stradali in senso lato”.

Se avessimo risposto come Servizio Informativo per Rappresentanti della Sicurezza, avremmo liquidato così il problema: indipendentemente dagli aspetti formali o classificativi, la valutazione deve riguardare tutti i rischi cui il lavoratore è esposto nella sua attività, e la formazione modellarsi di conseguenza sui rischi valutati.
Quindi, nel caso specifico, se il lavoratore in questione rifinisce il manto stradale e gestisce il traffico veicolare, i rischi connessi a queste due fasi di lavoro (io le chiamerei così, non certo “mansioni”) devono essere puntualmente valutati e devono avere il dovuto spazio nei percorsi formativi (in particolare la gestione del traffico, che espone a rischio non solo il lavoratore addetto, ma anche i suoi colleghi e gli utenti della strada).

Vediamo allora come ha risposto la Commissione per gli Interpelli.
Constatiamo con piacere che la sua risposta è perfettamente coerente con la nostra ipotesi. Infatti la Commissione, nella premessa alla sua risposta, precisa che:
“la valutazione redatta dal datore di lavoro deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori... Nel documento redatto a conclusione della valutazione devono essere individuate le mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e addestramento... La formazione non può mai essere sostitutiva dell’addestramento... I contenuti e la durata della formazione in base all’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 costituiscono un percorso minimo e, tuttavia, sufficiente rispetto al dato normativo, salvo che esso non debba essere integrato tenendo conto di quanto emerso dalla valutazione dei rischi o nei casi previsti dalla legge (si pensi all’introduzione di nuove procedure di lavoro o nuove attrezzature)”.

Come si può notare, se pur con parole in parte diverse, la Commissione esprime una valutazione del tutto sovrapponibile alla nostra (cosa del resto inevitabile, visto che si deve garantire piena coerenza nell’applicazione della normativa).
La Commissione poi conclude fornendo una serie di indicazioni puntuali:
-         il DVR (Documento di Valutazione dei Rischi) deve contenere la puntuale individuazione di tutti i rischi concretamente connessi al lavoro da svolgere e non può riferirsi astrattamente alla mansione attribuita al lavoratore;
-         l’adeguatezza della formazione per ciascun lavoratore è correlata alla valutazione dei rischi e deve essere periodicamente ripetuta in relazione all’evoluzione o all’insorgenza di nuovi rischi;
-         fatto salvo l’obbligo di frequenza a corsi specifici o aggiuntivi (ove previsto da norme specifiche), se un lavoratore in possesso di formazione per lo svolgimento di una determinata attività venga adibito allo svolgimento di singole particolari mansioni, ricomprese nell’attività principale per la quale è stata erogata la formazione, la stessa può essere riconosciuta valida solo se all’interno del percorso formativo i rischi specifici, relativi a quelle particolari mansioni (ad esempio nel caso citato la gestione del traffico veicolare), sono stati adeguatamente trattati;
-         infine, se i compiti affidati a un lavoratore lo espongono a rischi diversi e ulteriori rispetto a quelli già oggetto di valutazione e formazione, si rendono necessarie, sia una nuova valutazione, che una corretta formazione integrativa.

Come si può vedere, le indicazioni fornite dalla Commissione sono molto chiare ed esplicite e non lasciano campo alcuno a riduttive interpretazioni di comodo.



L’ABROGAZIONE DEL REGISTRO INFORTUNI: UNA SEMPLIFICAZIONE FATTA SENZA TESTA

Da Diario Prevenzione
20 gennaio 2016
Gino Rubini

LA SEMPLIFICAZIONE RICHIEDE INTELLIGENZA. L’ABROGAZIONE DEL REGISTRO INFORTUNI, UNA SEMPLIFICAZIONE FATTA SENZA TESTA

Dal 23 dicembre 2015 il Registro degli infortuni è stato abrogato con il D.Lgs. 151/15. Esultano una parte dei consulenti poco avveduti e una parte della piccola imprenditoria più pasticciona.

L’abrogazione è avvenuta in assenza del SINP (Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione) che non è stato istituito. La scelta dell’abrogazione in assenza del SINP, avvenuta in forma affrettata per esigenze propagandistiche del governo, avrebbe messo in difficoltà gli Enti di vigilanza, in particolare INAIL e ASL.
INAIL si è perciò affrettata a mettere una pecetta a questa dissennata scelta del legislatore con l’istituzione del “cruscotto telematico” che non è stato progettato per agevolare la valutazione e gestione dei rischi a livello aziendale. Il cosidetto cruscotto INAIL è un database che raccoglie le notifiche degli infortuni per via telematica e registra gli eventi ai fini assicurativi, non serve a sviluppare le conoscenze utili per la prevenzione.
Con questo provvedimento la tracciabilità aziendale degli eventi, la verifica tramite i RLS sulla descrizione e la registrazione delle modalità dell’accadimento non sono più disponibili per la consultazione ai RLS.

Le aziende più serie, non quelle a gestione dilettantesca, continueranno a “tracciare” gli infortuni, le modalità e le cause di accadimento e a trarre da questi dati le indicazioni per migliorare la propria gestione della sicurezza.
Le aziende più serie hanno protocolli e metodologie di rilevazione e memorizzazione dei dati relativi anche ai “near miss”, ai mancati incidenti e su questa base programmano le correzioni e i miglioramenti della organizzazione del lavoro e degli strumenti e ambienti di lavoro.
Le aziende che adottano volontariamente, di propria scelta, queste pratiche positive sono grandi, ma sono, purtroppo, una minoranza dell’universo delle aziende italiane. Per la maggioranza delle piccole imprese il messaggio che viene dall’abrogazione è il seguente: “finalmente ci siamo liberati da questo adempimento burocratico, del problema degli infortuni ce ne occuperemo se ce ne saranno...”.

L’atto del Governo sarebbe stato positivo e utile se, in consonanza con l’abrogazione del Registro cartaceo avesse incaricato INAIL di predisporre una piattaforma più evoluta rispetto all’improvvisato “cruscotto”, con programmi di software gestionali adatti a monitorare il fenomeno e a elaborare “profili aziendali di rischio”, usando i dati provenienti dalle notifiche.
La “semplificazione” sarebbe stata per davvero un passo avanti nella modernizzazione della gestione dei dati per porre sotto governo il fenomeno infortunistico.
La fregola propagandistica, l’amabile indifferenza di questo Governo verso la condizione di chi vive del proprio lavoro ha portato invece, anche in questo caso, ad una scelta che fa arretrare i diritti dei lavoratori ad essere tutelati.

Si può ancora rimediare?
Si, se verrà affidato ad INAIL il compito di predisporre un sistema esperto con il quale i dati delle notifiche vengono elaborati e restituiti, in automatico alle aziende, che debbono renderli disponibili anche ai RLS. In questo senso avremmo una vera innovazione che semplifica il lavoro delle aziende senza deprivare della conoscenza dei dati i RLS e i lavoratori interessati.



IDENTIFICAZIONE DEI LAVORI RIPETITIVI E VALUTAZIONE RAPIDA DEL RISCHIO

Da: PuntoSicuro
15 gennaio 2016
Tiziano Menduto

Un Decreto regionale riporta le linee guida per la prevenzione delle patologie muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori.
Focus su identificazione dei lavori ripetitivi e “quick assessment” (valutazione rapida del rischio).

Presentiamo un Decreto della Regione Lombardia, il Decreto n. 7661 del 23 settembre 2015 che non solo riporta specifiche linee guida regionali per la prevenzione delle patologie muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori, ma definisce anche un percorso per la prevenzione e l’emersione di queste patologie.

Il Decreto riporta in un apposita tabella il percorso operativo delineato dalle linee guida, un percorso che prevede un approccio di preliminare valutazione dell’eventuale rischio articolato in tre passaggi:
-         identificazione dei compiti ripetitivi secondo criteri univoci;
-         valutazione rapida del rischio;
-         stima analitica del rischio.

Le linee guida indicano che il primo passaggio rappresenta lo snodo (la chiave di decisione) per definire la necessità o meno di procedere ai passaggi successivi, di fatto di valutazione vera e propria.
Mentre il complesso dei tre passaggi si configura come procedura di valutazione del rischio connesso a movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori nel contesto della più generale valutazione dei rischi lavorativi prevista dal D.Lgs. 81/08.
E i primi due passaggi vengono definiti dal documento regionale in coerenza con il Technical Report (TR) ISO 12295 “Ergonomics - Application document for International Standards on manual handling (ISO 11228-1, ISO 11228-2 and ISO 11228-3) and evaluation of static working postures (ISO 11226)”.

Uno dei punti su cui si soffermano le linee guida riguarda l’identificazione dei compiti ripetitivi attraverso la chiave di ingresso (“key-enter”) del TR ISO 12295.
Infatti l’uso di apposite “key-enters” è finalizzato a verificare l’esistenza di un pericolo (problema) lavorativo (nella fattispecie da sovraccarico biomeccanico per gli arti superiori) e l’eventuale necessità di una ulteriore analisi e valutazione.
Di fatto, attraverso le “key-enters”, si definisce il campo di applicazione delle quattro parti delle norme ISO specificamente trattate.

Se nella tabella 5.1 del documento è riportato l’elenco delle “key-enters” del TR ISO 12295, riprendiamo la key-enter per i lavori manuali ripetitivi, in applicazione della norma ISO 1128-3: vi sono uno o più compiti ripetitivi degli arti superiori con durata totale di 1 ora o più nel turno?

Ricordiamo che la definizione di compito ripetitivo è: “compito caratterizzato da cicli lavorativi ripetuti”, oppure “compito durante il quale si ripetono le stesse azioni lavorative per oltre il 50% del tempo”.
E tale formulazione sta a significare che laddove siano presenti uno o più compiti ripetitivi la cui durata complessiva nel turno superi 1 ora, è necessario procedere ad una specifica valutazione del rischio.
Si segnala che accertare la presenza di un lavoro ripetitivo serve unicamente a stabilire che lo stesso debba essere oggetto di valutazione, il cui esito può confermare/negare l’esistenza di un rischio e se, invece, il lavoro ripetitivo non è presente non è richiesta alcuna attività di valutazione. Ed è evidente che la stessa logica si applica agli altri aspetti trattati dal TR ISO 12295 (sollevamento e trasporto di carichi; traino e spinta; posture statiche di lavoro).

Veniamo alla valutazione rapida (il “quick assessment”).
Questa tipologia di valutazione consiste in una verifica rapida della presenza di potenziali condizioni di rischio per apparato muscolo-scheletrico degli arti superiori, attraverso semplici domande di tipo quali/quantitativo.
In pratica il “quick assessment” è indirizzato a identificare, in modo semplificato, tre possibili condizioni o esiti (outputs):
-         accettabile (verde): non sono richieste ulteriori azioni;
-         necessità di una analisi più dettagliata (giallo): è necessario procedere ad una stima o valutazione precisa attraverso strumenti più dettagliati di analisi (suggeriti nella fattispecie dagli standard della serie);
-         critica (rosso): è urgente procedere ad una riprogettazione del posto o del processo.

Nel caso si verifichi l’esistenza di condizioni rispettivamente di accettabilità e di criticità non è sempre necessario procedere a una stima più circostanziata del livello di esposizione (terzo livello), specie nel caso di condizioni critiche. Ogni sforzo andrà meglio indirizzato alla riduzione del rischio chiaramente emerso, piuttosto che a inutili, e, a volte, assai complessi approfondimenti della valutazione. Qualora, invece, come accade in gran parte dei casi, nessuna di queste due condizioni “estreme” emerga chiaramente, è necessario procedere alla valutazione, semplificata o anche dettagliata, del rischio con i tradizionali metodi di valutazione.

Con riferimento alle indicazioni del TR ISO 12295, dei compiti ripetitivi e della norma ISO 11228-3, è riportata una tabella con l’elenco delle condizioni che devono essere tutte contemporaneamente presenti per valutare come accettabile (verde) un compito manuale ripetitivo.
Si ricorda, a questo proposito, che il riferimento ad una valutazione rapida di accettabilità è desunto dal testo della norma ISO 11228-3 e dalla norma EN 1005-5. E laddove un compito ripetitivo venisse valutato come accettabile tramite la procedura di “quick assessment”, ciò equivarrebbe ad averlo valutato come accettabile attraverso i metodi di dettaglio indicati dagli standard di riferimento.

Riportiamo brevemente l’elenco delle condizioni per cui il compito esaminato è in area verde (accettabile) e non è necessario continuare la valutazione del rischio:
-         entrambi gli arti superiori lavorano per meno del 50% del tempo totale di lavoro ripetitivo (uno o più compiti);
-         entrambi i gomiti sono mantenuti al di sotto del livello delle spalle per il 90% del tempo totale di lavoro ripetitivo (uno o più compiti);
-         una forza moderata è attivata dall’operatore per non più di 1 ora durante il tempo totale di lavoro ripetitivo (uno o più compiti);
-         i picchi di forza sono assenti;
-         vi è presenza di pause (inclusa la pausa pasto) che durano almeno 8 minuti almeno ogni 2 ore;
-         i compiti ripetitivi sono eseguiti per meno di 8 ore al giorno.

Una ulteriore tabella riporta invece l’elenco delle situazioni che, anche singolarmente, portano a identificare una condizione critica. E quando una condizione di lavoro manuale ripetitivo risulta critica, anche per una sola situazioni elencata nella tabella l’indicazione è di orientarsi decisamente per un rapido e sostanziale intervento di miglioramento (riduzione del rischio) senza necessariamente approfondire la valutazione analitica; questa, peraltro, potrà essere operata successivamente, a verifica della potenziale validità degli interventi attuati.

Concludiamo riportando qualche breve riferimento alla identificazione di lavori problematici ai fini della successiva valutazione del rischio.

In questa parte delle linee guida si segnala infatti che la procedura, tratta dal TR ISO 12295, delle chiavi di ingresso e della valutazione rapida, è raccomandata, in particolar modo nelle Piccole o Medie Imprese e nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura.

Tuttavia in alternativa, si può ricorrere alla tecnica dell’identificazione dei “lavori problematici”, che prevede di procedere alla stima e valutazione del rischio e dell’esposizione.
Con riferimento ad una ulteriore tabella sono definiti problematici quei lavori in cui si verificano le seguenti condizioni:
-         il lavoratore ha un’esposizione pressoché quotidiana ad uno o più dei segnalatori di possibile esposizione riportati nella tabella;
-         vi sono segnalazioni di casi, uno o più anche tenendo conto della numerosità dei lavoratori coinvolti, di franche patologie muscoloscheletriche o neurovascolari degli arti superiori correlate al lavoro.

Si ricorda che i segnalatori della tabella sono stati individuati perché consentono di discriminare i contesti di lavoro in cui può risultare, e non necessariamente vi è, una più significativa esposizione ai fattori di rischio per le patologie degli arti superiori. Laddove sia individuata, per un gruppo di lavoratori (posto, linea, reparto, ecc.), la presenza di uno o più segnalatori, sarà necessario procedere ad un’analisi dell’esposizione più articolata secondo i metodi e i criteri descritti nei paragrafi seguenti. In caso contrario (segnalatori negativi) non è necessario procedere a una dettagliata valutazione dell’esposizione. La valutazione dell’esposizione è comunque raccomandata quando i segnalatori di possibile rischio sono negativi e sono presenti segnalazioni da parte del medico competente delle patologie di cui alla tabella.

Riportiamo infine i segnalatori:
-         ripetitività: lavori con compiti ciclici che comportino l’esecuzione dello stesso movimento (o breve insieme di movimenti) degli arti superiori ogni pochi secondi oppure la ripetizione di un ciclo di movimenti per più di 2 volte al minuto per almeno 2 ore complessive nel turno lavorativo;
-         uso di forza: lavori con uso ripetuto (almeno 1 volta ogni 5 minuti) della forza delle mani per almeno 2 ore complessive nel turno lavorativo;
-         posture incongrue: lavori che comportino il raggiungimento o il mantenimento di posizioni estreme della spalla o del polso per periodi di 1 ora continuativa o di 2 ore complessive nel turno di lavoro;
-         impatti ripetuti: lavori che comportano l’uso della mano come un attrezzo (ad esempio usare la mano come un martello) per più di 10 volte all’ora per almeno 2 ore complessive sul turno di lavoro.

Il Decreto n. 7661 del 23 settembre 2015 della Regione Lombardia che fa riferimento alle “Linee Guida Regionali per la prevenzione delle patologie muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori” è scaricabile all’indirizzo:

Il documento “Linee Guida Regionali per la prevenzione delle patologie muscolo scheletriche connesse con movimenti e sforzi ripetuti degli arti superiori” è scaricabile all’indirizzo:



LA RESPONSABILITA’ PER IL MANCATO CONTROLLO DI UN MACCHINARIO

Da: PuntoSicuro
Gerardo Porreca

Le disposizioni della Direttiva Macchine, pur indicando le prescrizioni di sicurezza necessarie per ottenere certificato di conformità e marcatura CE, non escludono il dovere di garanzia di coloro che consentono l’utilizzo di un macchinario.
Si è espressa la Corte di Cassazione in questa Sentenza sull’obbligo da parte del datore di lavoro di assicurarsi della regolarità di un macchina messa a disposizione dei propri lavoratori dipendenti anche se la stessa è in possesso della documentazione attestante la sua conformità alle Direttive europee e della marcatura di conformità CE con le quali il costruttore ha assicurato la sua rispondenza ai Requisiti Essenziali di Sicurezza (RES) previsti sia dalle normative tecniche che dalle disposizioni di legge antinfortunistiche.

La Corte di Appello aveva parzialmente riformata la sentenza emessa dal Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale rideterminando la pena inflitta al rappresentante legale di un’impresa in mesi cinque e giorni dieci di reclusione a seguito della rilevata prescrizione dei reati ascritti ai due capi di imputazione, confermando invece nel resto la sentenza di primo grado. Il Gidice dell’Udienza Preliminare, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato il rappresentante legale, quale datore di lavoro, colpevole del reato di cui all’articolo 589 del Codice Penale per avere cagionato la morte di un lavoratore per negligenza, imprudenza e inosservanza di legge perché aveva impiegato il predetto lavoratore, operaio agricolo qualificato super, a operazioni che hanno comportato l’utilizzo di una macchina “pellettizzatrice” adibita all’accatastamento su bancali di legno di sacchi di pellets per riscaldamento.

La macchina era stata modificata con l’apertura di una via d’accesso agli organi in movimento, in origine protetti da una barriera, e tale apertura non era stata munita di un dispositivo che impedisse l’avvio della macchina in caso di accesso del lavoratore, il quale era stato così schiacciato dalla parte mobile superiore di una pressa mentre stava riposizionando un bancale mal collocato dal dispositivo automatico della macchina bloccatasi per tale evento e rimessasi in movimento a seguito dell’operazione effettuata dal lavoratore. Il giudice di primo grado aveva dichiarato l’imputata colpevole, altresì, della contravvenzione di cui agli articoli 72 e 389 lettera c) del D.P.R. 547/55 per avere omesso di dotare la portiera che consentiva di superare la schermatura di protezione degli organi in movimento della macchina di un dispositivo che all’apertura ne bloccasse il movimento e della contravvenzione di cui agli articoli 35, comma 1, e 89 lettera a) del D.Lgs. 626/94 per avere messo a disposizione dei lavoratori dipendenti un impianto costituito dalla “linea di produzione dei bancali di pellets” non idoneo ai fini della sicurezza, ed ha assolta invece l’imputato dalla contravvenzione di cui agli articoli 41 e 389 lettera c) del D.P.R. 547/55 per avere omesso di munire la macchina di idonea protezione degli organi pericolosi.

Il Tribunale, accertato sulla base della consulenza tecnica del Pubblico Ministero, che l’infortunio si era verificato a causa della vanificazione delle misure di sicurezza delle quali era dotata la macchina, affermava che, ancorché non potesse ritenersi dimostrato che l’imputato ne avesse disposto direttamente la modifica, lo stesso dovesse esserne al corrente e che comunque fosse venuta meno all’obbligo di vigilanza.

La Corte di Appello, su impugnazione dell’imputato, ha confermato in punto di responsabilità la sentenza di primo grado, richiamandone sinteticamente la motivazione. La Corte territoriale ha evidenziato che la condotta della vittima non potesse considerarsi anomala ed imprevedibile, essendo il lavoratore intervenuto per consentire la ripresa del funzionamento della macchina e avendo utilizzato un accesso realizzato sulla struttura di protezione. Con riguardo all’elemento soggettivo, la Corte di Appello ha considerato che nella grata metallica alta circa due metri che isolava la macchina dal resto del capannone era stata realizzata una porta con due maniglie e profili in acciaio e, ritenendo trattarsi di un lavoro di una certa complessità che ha richiesto, oltre che capacità tecniche, anche qualche ora di lavoro, ha quindi desunto da tale considerazione che l’ignoranza di tale modifica da parte dell’imputato fosse colpevole, essendo tra l’altro la stessa avvenuta con modalità pubbliche e almeno quarantotto ore prima dell’infortunio così come riferito da un collega del lavoratore deceduto.

Avverso la Sentenza della Corte di Appello l’imputato ha ricorso in Cassazione censurando la sentenza impugnata e chiedendone l’annullamento. L’imputato ha preliminarmente contestata la individuazione del momento in cui è stata fatta la modifica alla macchina avvenuta, a suo parere, nella mattina stessa dell’infortunio e non 48 ore prima, evidenziando così il brevissimo lasso di tempo intercorso tra la modifica stessa e l’infortunio, elemento questo rilevante per escludere la sua colpevolezza per esserne all’oscuro a fronte della contestazione di aver messo a disposizione del lavoratore un macchinario inidoneo.

Con riferimento a quest’ultima motivazione del ricorso la Corte di Cassazione ha posto in rilievo che i giudici di merito hanno ritenuto accertato, anche sulla base della prova logica, che la modifica della macchina alla quale era adibito il lavoratore infortunato fosse conosciuta o conoscibile dall’imputato e che, contrariamente a quanto indicato nel ricorso, le sentenze di merito sono risultate conformi nel ritenere che la modifica apportata al macchinario abbisognasse di “una certa lavorazione” e che richiedesse “oltre che capacità tecniche, anche qualche ora di lavoro” per cui è risultato che correttamente gli stessi avessero ritenuto, così come descritto nel capo d’imputazione, che il datore di lavoro avesse messo a disposizione dei lavoratori una macchina che, sebbene inizialmente munita di idonea protezione, era stata modificata con l’apertura di una via d’accesso agli organi in movimento, omettendo tuttavia di dotarla di un dispositivo che all’apertura ne bloccasse il funzionamento e che quindi avesse messo a disposizione dei lavoratori un impianto non idoneo ai fini della sicurezza.

Per un corretto inquadramento del caso concreto esaminato dai Giudici di merito, la Sezione IV ha evidenziato che occorre prendere le mosse dalla normativa introdotta con il D.P.R. 459/96, la cosiddetta “Direttiva Macchine”, la quale ha disciplinato i presidi antinfortunistici concernenti le macchine e i componenti di sicurezza immessi sul mercato ed ha recepito la Direttiva Macchine europea 89/392/CE nata con l’obiettivo di armonizzare le disposizioni normative degli Stati membri. La Direttiva Macchine europea nella originaria versione è stata, successivamente, modificata e integrata con altre Direttive che sono state recepite nell’ordinamento italiano mediante il D.Lgs. 17/10.

Dal raccordo delle Direttive europee con il sistema prevenzionistico già in vigore in Italia, ha sottolineato la Suprema Corte, si è desunta un’anticipazione della tutela antinfortunistica al momento della costruzione, vendita, noleggio e concessione in uso delle macchine coinvolgendo nella responsabilità per la mancata rispondenza delle stesse alle normative di sicurezza tutti gli operatori ai quali siano imputabili dette attività. “Si è, in sostanza, introdotto”, ha proseguito la Sezione IV, “un minimum tecnologico obbligato comune che da un lato, ha esteso ad altri operatori l’obbligo di controllo della regolarità della macchina o del pezzo prima che gli stessi vengano messi a disposizione del lavoratore; d’altro canto, si è attribuito tale obbligo a soggetti individuati come costruttori in senso giuridico del macchinario quando, ad esempio, pur risultando il macchinario composto di pezzi prodotti da altre ditte, l’obbligo di controllare la regolarità del macchinario nel suo complesso al fine di ottenere la certificazione necessaria per immetterlo sul mercato spettasse ad una impresa in particolare, in ipotesi incaricata di assemblare tutte le componenti”.

La Corte Suprema ha avuto quindi modo di precisare che “le disposizioni che hanno dato attuazione alle Direttive macchine dell’Unione Europea, pur indicando le prescrizioni di sicurezza necessarie per ottenere il certificato di conformità e il marchio CE richiesti per immettere il prodotto nel mercato, non escludono ulteriori profili in cui si possa sostanziare il complessivo dovere di garanzia di coloro che pongono in uso il macchinario nei confronti dei lavoratori, che sono i diretti utilizzatori delle macchine stesse, non potendo costituire motivo di esonero della responsabilità del costruttore quello di aver ottenuto la certificazione e di aver rispettato le prescrizioni a tal fine necessarie”. La Suprema Corte ha tenuto, infatti, a ricordare che, a norma dell’articolo 3, comma 1 del D. Lgs. 626/94, le misure generali che il datore di lavoro deve adottare per la protezione della salute e per la sicurezza dei lavoratori sono, tra le altre, la valutazione dei rischi, l’eliminazione dei rischi in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, la riduzione dei rischi alla fonte, la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è o è meno pericoloso, l’uso di segnali di avvertimento o di sicurezza, la regolare manutenzione di ambienti, attrezzature, macchine e impianti, con particolare riguardo ai dispositivi di sicurezza in conformità alla indicazione dei fabbricanti.

Nel caso in esame, ha quindi proseguito la Sezione IV, era stata apportata alla macchina, in epoca antecedente l’infortunio, una modifica che aveva vanificato le misure di sicurezza delle quali la macchina stessa era inizialmente dotata per cui correttamente i giudici di merito hanno ritenuto esigibile dal datore di lavoro il rispetto dell’obbligo di controllare che la macchina messa a disposizione dei lavoratori fosse sicura. Il datore di lavoro, che aveva demandato al padre il potere di fatto di impartire direttive ai lavoratori, è stato ritenuto essere in grado di conoscere la non conformità della macchina alla regola dettata dall’articolo 72 del D.P.R. 547/55 a motivo delle circostanze riscontrate nel caso concreto (complessità della modifica, previo accordo circa la modifica tra il lavoratore ed il padre dell’imputato, posizione in luogo ben visibile della nuova porta di accesso alla macchina e tempo trascorso tra la modifica e l’infortunio).

La Corte di Cassazione ha quindi in conclusione rigettato il ricorso avendo ritenuto che correttamente i giudici di merito avevano fatto rientrare il caso in esame nella norma incriminatrice per non avere il datore di lavoro proceduto all’eliminazione di un rischio, prevedibile ed evitabile in quanto connesso ad una modifica eseguita sul macchinario.

La Sentenza n. 43425 del 28 ottobre 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:



LE AZIENDE DEVONO RIFARE LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO CHIMICO?

Da: PuntoSicuro
19 gennaio 2016
Tiziano Menduto

In relazione alla scadenza del primo giugno 2015 e ai nuovi criteri di classificazione molte miscele possono essere diventate pericolose. Cosa devono fare le aziende? Ne parliamo con Ludovica Malaguti Aliberti del Centro Nazionale delle Sostanze chimiche.
In questi mesi si è parlato molto sul nostro giornale della scadenza del primo giugno 2015. Da questa data entra pienamente in vigore il Regolamento CLP (Regolamento CE n. 1272/2008) relativo alla classificazione, etichettatura ed imballaggio di sostanze e miscele. Ed è ora obbligatorio seguire il Regolamento CLP non solo per la classificazione delle sostanze (era già obbligatorio dal primo dicembre 2010), ma anche per la classificazione delle miscele.

Ma la scadenza del primo giugno e le novità sulla classificazione delle miscele possono avere anche altre ripercussioni sulle aziende italiane? Sono valide le valutazioni del rischio chimico fatte con riferimento alle precedenti classificazioni?

Per rispondere a queste domande e per fare luce su alcune delle più importanti novità in materia chimica, abbiamo intervistato, durante la manifestazione Ambiente Lavoro, che si è tenuta a Bologna nel mese di ottobre, la dottoressa Ludovica Malaguti Aliberti del Centro Nazionale delle Sostanze chimiche (Istituto Superiore di Sanità Roma).
La dottoressa Ludovica Malaguti Aliberti era relatrice a Bologna in due diversi convegni organizzati da INAIL e Regione Emilia Romagna: il 15 ottobre al convegno “REACH 2015 L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di lavoro” e il 16 ottobre al convegno “REACH Sanità L’applicazione dei Regolamenti Europei delle Sostanze Chimiche in ambito sanitario”.

Chiaramente la prima domanda che le abbiamo posto è relativa alla scadenza del primo giugno e alle sue conseguenze.
Come cambiano i criteri di classificazione di sostanze e miscele? Come può variare la pericolosità di una miscela? E ci sarà un regime di proroga per i prodotti immessi sul mercato prima della scadenza?
E se, come ci segnala la rappresentante dell’Istituto Superiore di Sanità, le miscele che con le Direttive precedenti non erano classificate come pericolose, possono ora diventare pericolose, come devono regolarsi le aziende che hanno a che fare con queste miscele?
Con la scadenza del primo giugno un’azienda deve anche cambiare la propria valutazione del rischio chimico?
Entro quando un’azienda dovrebbe aggiornare la propria valutazione? Quali sono le tempistiche?

Una domanda non potevamo poi non farla sulla percezione che il Centro Nazionale delle Sostanze chimiche dell’Istituto Superiore di Sanità ha della percezione e conoscenza nelle aziende dei regolamenti europei in materia di sostanze chimiche.

Nelle aziende c’è la consapevolezza delle conseguenze della piena entrata in vigore del Regolamento CLP?
Infine ci soffermiamo sulle conseguenze della scadenza sulle scheda dati di sicurezza.
Cosa cambia nell’elaborazione delle schede dati di sicurezza?
Che supporto possono dare le schede al datore di lavoro?
E come deve utilizzare il datore di lavoro gli scenari di rischio?

Come sempre diamo ai nostri lettori la possibilità di ascoltare integralmente l’intervista e/o di leggerne una parziale trascrizione.

Soffermiamoci sul convegno “L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di lavoro” e sulla nuova scadenza del primo giugno 2015. E’ una scadenza importante? E con quali conseguenze?
LUDOVICA MALAGUTI ALIBERTI
Certamente è una scadenza importante, perché si tratta dell’entrata in vigore piena del Regolamento CLP, che, come acronimo, sta per classificazione, etichettatura e imballaggio di sostanze e miscele pericolose.
Nel 2010 il Regolamento è entrato in vigore per le sole sostanze, per cui già nel 2010 c’era la possibilità di conoscere i nuovi pittogrammi, indicazioni di pericolo, consigli di prudenza.
Con la nuova scadenza non avremo più in circolazione etichette con pittogrammi, con indicazioni di pericolo e consigli di prudenza secondo le vecchie Direttiva sui prodotti e le miscele pericolose. Questo significa che non avremo più i pittogrammi arancioni con quadrati, ma avremo i rombi con il fondo bianco e con il segnale di pericolo che fondamentalmente ricalca quelli precedenti, salvo che per i cancerogeni, mutageni, reprotossici, sensibilizzanti che riportano la figura dell’ “uomo esploso”.
Ma le novità non si riducono a questo.
Sono modificati anche i criteri di classificazione.
I criteri di classificazione di sostanze e miscele diventano più ristrettivi e sono una garanzia in più per la salute umana e anche per l’ambiente. Perché questi regolamenti si applicano alla salute umana e all’ambiente. Diversamente dalla normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro dove l’ambiente non è tenuto in conto.
E dunque le miscele che con le Direttive precedenti non erano classificate come pericolose, possono ora diventare pericolose, ai sensi dei criteri più ristrettivi.
Questa entrata in vigore non è però così netta. Come nel 2010 noi andiamo incontro ad un regime di proroga per ciò che è già immesso sul mercato. Ci sarà anche in questo caso un regime di proroga di due anni per i produttori, fabbricanti e importatori per arrivare nel 2017 con un assoluto cambio di passo: tutto ciò che sarà etichettato, classificato, lo sarà con il regolamento CLP. Quindi di fatto oggi possiamo avere prodotti (ad esempio la varechina o altre sostanze reattive nel mondo dell’industria e nei luoghi di lavoro) che marciano con etichette diverse ma con la stessa miscela.

Entriamo nello specifico degli obblighi delle aziende. Con questa novità del primo giugno un’azienda deve anche cambiare la propria valutazione del rischio chimico?
LUDOVICA MALAGUTI ALIBERTI
Sicuramente per gli ambienti di lavoro, il datore di lavoro che ha nella propria valutazione dei rischi l’applicazione del Titolo IX del D.Lgs. 81/08, quindi sia il Capo I che il Capo II, dovrà rivedere la valutazione perché potrebbe essere che si trovi con miscele che hanno cambiato classificazione e che quindi possono diventare pericolose.
Quindi la valutazione dei rischi va sicuramente aggiornata. O quanto meno ripresa in mano e analizzata per vedere se c’è bisogno di aggiornamenti...

In teoria dunque già dai primi giorni di giugno un’azienda dovrebbero avere già aggiornato la loro valutazione.
LUDOVICA MALAGUTI ALIBERTI
Lo sta facendo, io credo. Anche perché il rischio chimico nelle aziende è solitamente analizzato con degli algoritmi. Questo significa che gli algoritmi hanno avuto necessità di essere aggiornati. E’ stato lungo il processo di aggiornamento degli algoritmi, ed è un processo lungo quello di aggiornare. E’ chiaro che in teoria dal 2 giugno le valutazioni dovrebbero essere aggiornate. Però credo che, ed è il messaggio da dare, l’importante è che ci sia consapevolezza di questo cambio.
Perché mentre da un lato la grande industria, soprattutto l’industria chimica, ne è al corrente, perché ha altri obblighi rispetto ai Regolamenti, la micro, piccola e media impresa hanno delle difficoltà non solo a saper come fare, ma anche solo a sapere che c’è bisogno di questo cambio.

Concludiamo questa intervista cercando di capire se la scadenza del primo giugno 2015 ha conseguenze anche sull’elaborazione delle schede dati di sicurezza. Che supporto possono dare al datore di lavoro? Come deve utilizzare il datore di lavoro gli scenari di rischio?
LUDOVICA MALAGUTI ALIBERTI
Le schede dati di sicurezza sono normate dal Regolamento REACH e riviste poi dal Regolamento n. 453/2010. Però visto che sarà necessario aggiornare la classificazione delle miscele anche nelle schede dati di sicurezza, sicuramente dal primo giugno noi andremo ad utilizzare l’Allegato II del Regolamento n. 453/2010.
Le schede dati di sicurezza sono uno strumento formidabile di supporto per il datore di lavoro perché gli forniscono tutta le informazioni sulla gestione e sul corretto utilizzo delle miscele. Anche perché per quelle che sono messe sul mercato in quantità superiore alle 10 tonnellate, c’è l’obbligo di inserire nella scheda un “Chemical Safety Report” che comprende gli scenari di esposizione studiati, con le relative “Risk Management Measures”.
E quindi il datore di lavoro dovrà verificare che la sua lavorazione, la sua tipologia di esposizione, rientri in quegli scenari. Laddove ciò non succeda, dovrà, risalendo nella catena di approvvigionamento, chiedere di far verificare il proprio uso con un uso sicuro.
Tutto questo è un meccanismo assai complesso, molto più difficile di quanto possa apparire raccontandolo, perché coinvolge professionalità estremamente specifiche sia nel fare gli scenari, sia nel verificare che la propria attività rientri in quegli scenari.
Il datore di lavoro può poi avere un ulteriore supporto perché per le miscele che non sono classificate come pericolose, ma che contengono delle sostanze pericolose fino allo 0,1%, si può richiedere la scheda dati di sicurezza.
Noi in realtà diciamo ai datori di lavoro di richiederle sempre. Perché su questo è il D.Lgs. 81/08 che comanda, rispetto all’invito che fa il Regolamento Reach.
E ricordo anche che quello che si trova negli scenari non è la valutazione dei rischi secondo il D.Lgs. 81/08, ma è quello che il fabbricante scrive. Il datore di lavoro deve far proprio lo scenario, lo deve adattare alla propria attività in funzione dell’esposizione. Il datore deve porsi in modo attivo anche nei confronti delle schede dati di sicurezza.

Il video dell’intervista completa alla dottoressa Ludovica Malaguti Aliberti è consultabile all’indirizzo:

Il Regolamento (UE) della Commissione Europea n. 453/10 del 20 maggio 2010 “Recante modifica del regolamento (CE) n. 1907/06 del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH)” è scaricabile all’indirizzo:

Il Regolamento (CE) del Parlamento e del Consiglio Europeo n. 1272/08 del 16 dicembre 2008 “Relativo alla classificazione, all’etichettatura e all’imballaggio delle sostanze e delle miscele che modifica e abroga le direttive 67/548/CEE e 99/45/CE e che reca modifica al regolamento CE n. 1907/06 è scaricabile all’indirizzo”:


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