venerdì 24 novembre 2017

24 novembre - Fare un Mausoleo della Thyssen per ricordare la Strage di 10 anni fa, caro Bocuzzi non renderà Giustizia agli Operai ASSASSINATI. L'UNICA GIUSTIZIA E' PROLETARIA



Bocuzzi sulla Thyssen: “Fare di quella fabbrica un monumento è un dovere della città”
Salvato da un carrello che fece da barriera alle fiamme che invadevano tutto non ha ancora trovato la pace: «Trasformarla in mausoleo sarebbe un atto dovuto»
Un’immagine dentro la Thyssen abbandonata, dieci anni dopo il rogo

Pubblicato il 23/11/2017
Ultima modifica il 23/11/2017 alle ore 10:51
lodovico poletto
torino 


Guardi le fotografie di 10 anni fa e salta fuori lui, con quella sua faccia macchiata di nero, e la giacca della tuta blu, mezza aperta sul petto. Un’istantanea un po’ sfocata, scattata nei corridoi dell’ospedale il mattino dopo l’esplosione nella fabbrica. Era un ragazzone di 34 anni Antonio Boccuzzi, quando vide morire la sua «famiglia». La «mia famiglia» dice proprio così, adesso, dieci anni dopo la tragedia della Thyssen.
Dov’era operaio e sindacalista della Uilm. E passava, dentro quei capannoni adesso saccheggiati e diventati rudere, più tempo di quanto ne potesse trascorrere a casa: «Ma in una acciaieria è così: finisci per avere gli amici soltanto lì, parlare di tutto con loro, vivere in simbiosi con loro». Dieci anni dopo Boccuzzi ha smesso la tuta blu da lavoro, ma rimane quel ragazzone che aveva la famiglia in fabbrica. E quasi si commuove quando parla di quella notte. Quando dice: «Sì, quella fabbrica deve diventare un monumento. Io la proposta de La Stampa la appoggio in pieno. Lo dico fin dal primo giorno: dopo quel che è accaduto, trasformarla in mausoleo sarebbe un atto dovuto». E va oltre quando ti spiega che qualunque altra trasformazione sarebbe «un errore enorme». «Sarebbe come se la città voltare pagina e far finta di niente». Ma nessuno può fare finta di niente ripensando a quei sette operai morti con la pelle accartocciata, le infezioni, le difficoltà anche soltanto nel respirare. Antonio Boccuzzi, il miracolato, salvato da un carrello che fece da barriera alle fiamme che invadevano tutto, oggi è un uomo diverso.Ma non ha ancora trovato la pace. E tantomeno la forza di tornare là dentro, in quella che lui chiama «la fabbrica morta». Perchè lui l’ha vissuta quando ancora 500 uomini la rendevano una cosa viva. Sudando ai laminatoi, inanellando doppi turni pur di guadagnare un po’ di più, avere qualche soldo extra per i comprare una maglia o pagare il dentista ai figli.  Ma non entrare non vuol dire dimenticare, anzi. Vuol dire soffrire di più: «Anche per quello schiaffo che ci ha dato la giustizia tedesca». «Giustizia negata» per le famiglie dei porti perchè i manager germanici sono ancora - e lo saranno per sempre - liberi. In fondo per chi vive lassù la vicenda è finita con qualche soldo alle famiglie delle vittime e poco altro. «Ma non è giusto che i veri responsabili di quella galera che è il dolore di madri, di figli e sorelle non paghino mai».


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