Bocuzzi sulla Thyssen: “Fare di quella fabbrica un
monumento è un dovere della città”
Salvato da
un carrello che fece da barriera alle fiamme che invadevano tutto non ha ancora
trovato la pace: «Trasformarla in mausoleo sarebbe un atto dovuto»
Un’immagine
dentro la Thyssen abbandonata, dieci anni dopo il rogo
Pubblicato il 23/11/2017
Ultima modifica il 23/11/2017 alle ore 10:51
lodovico
poletto
torino
Guardi le fotografie di 10 anni fa e salta fuori lui,
con quella sua faccia macchiata di nero, e la giacca della tuta blu, mezza
aperta sul petto. Un’istantanea un po’ sfocata, scattata nei corridoi
dell’ospedale il mattino dopo l’esplosione nella fabbrica. Era un ragazzone di
34 anni Antonio Boccuzzi, quando vide morire la sua «famiglia». La «mia
famiglia» dice proprio così, adesso, dieci anni dopo la tragedia della Thyssen.
Dov’era operaio e sindacalista della Uilm. E passava, dentro quei capannoni
adesso saccheggiati e diventati rudere, più tempo di quanto ne potesse
trascorrere a casa: «Ma in una acciaieria è così: finisci per avere gli amici
soltanto lì, parlare di tutto con loro, vivere in simbiosi con
loro». Dieci anni dopo Boccuzzi ha smesso la tuta blu da lavoro, ma rimane
quel ragazzone che aveva la famiglia in fabbrica. E quasi si commuove quando
parla di quella notte. Quando dice: «Sì, quella fabbrica deve diventare un
monumento. Io la proposta de La Stampa la appoggio in pieno. Lo dico fin dal
primo giorno: dopo quel che è accaduto, trasformarla in mausoleo sarebbe un
atto dovuto». E va oltre quando ti spiega che qualunque altra trasformazione
sarebbe «un errore enorme». «Sarebbe come se la città voltare pagina e far
finta di niente». Ma nessuno può fare finta di niente ripensando a quei sette
operai morti con la pelle accartocciata, le infezioni, le difficoltà anche
soltanto nel respirare. Antonio Boccuzzi, il miracolato, salvato da un
carrello che fece da barriera alle fiamme che invadevano tutto, oggi è un uomo
diverso.Ma non ha ancora trovato la pace. E tantomeno la forza di tornare là
dentro, in quella che lui chiama «la fabbrica morta». Perchè lui l’ha vissuta
quando ancora 500 uomini la rendevano una cosa viva. Sudando ai laminatoi,
inanellando doppi turni pur di guadagnare un po’ di più, avere qualche soldo
extra per i comprare una maglia o pagare il dentista ai figli. Ma non
entrare non vuol dire dimenticare, anzi. Vuol dire soffrire di più: «Anche per
quello schiaffo che ci ha dato la giustizia tedesca». «Giustizia negata» per le
famiglie dei porti perchè i manager germanici sono ancora - e lo saranno per
sempre - liberi. In fondo per chi vive lassù la vicenda è finita con qualche
soldo alle famiglie delle vittime e poco altro. «Ma non è giusto che i veri
responsabili di quella galera che è il dolore di madri, di figli e sorelle non
paghino mai».
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