sabato 8 agosto 2015

8 agosto - Sicurezza sul Lavoro: il nuovo numero di Know Your Rights



SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS!

NEWSLETTER N. 223 DEL 07/08/15


NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI
(a cura di Marco Spezia - sp-mail@libero.it)

INDICE


LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.4
1
IL SILENZIO DELLA POLVERE: UNA STORIA MERIDIONALE DI AMIANTO
5
QUESITI E PARERI: SUL RICORSO PER GIUDIZIO DI NON IDONEITA’ ALLA MANSIONE
7
IMPARARE DAGLI ERRORI: QUANDO UNA MACCHINA MOVIMENTO TERRA SI RIBALTA
8
SICUREZZA E SALUTE NELLE MICRO E PICCOLE IMPRESE
10
LA RESPONSABILITA’ DEL LAVORATORE PER INFORTUNIO A UN ALTRO LAVORATORE
13
VISITE MEDICHE PREVENTIVE: PER QUANTO TEMPO VALGONO?
15



LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.4

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.
In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.
Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.
Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

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DOMANDA
Ciao Marco.
Sono un’insegnante di scuola primaria e ho urgente bisogno di sapere se esistono studi attendibili su eventuali effetti nocivi dell’esposizione al WI FI. Nella scuola in cui lavoro si sta vagliando la possibilità di installare la connessione wireless per tutte le classi; se fosse stata provata una loro nocività vorrei quindi sottoporre i dati al collegio dei docenti affinché il progetto venga accantonato, per il bene degli oltre trecento bambini e di tutti i lavoratori della scuola.
Prima della fine del mese il collegio dovrà esprimersi in merito, spero vivamente che tu possa venirmi in aiuto.
Grazie dell’attenzione.

RISPOSTA
In Italia è presente specifica legislazione che impone limitazioni all’emissione di campi elettromagnetici (come nel caso del wireless) ad alta frequenza, sia per la protezione dei lavoratori, che per quella dei cittadini.
La prima è il D.Lgs.81/08 (salute per i lavoratori), che recepisce la Direttiva Europea 2004/40/CE e altre e che pone i limiti per l’intensità di campo elettrico ad alta frequenza generato dalle apparecchiature wireless.
Il Decreto non impone richieste di autorizzazione da parte del datore di lavoro, ma solo una valutazione del rischio specifica da eseguire all’atto (ma non prima) della installazione della sorgente di campo elettromagnetico.
La seconda è la Legge 36 del 2001, accompagnata dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 08/07/03 (salute dei cittadini) che deriva dal Regolamento Europeo 99/519/CE e che pone anch’essa dei limiti per l’intensità di campo elettrico ad alta frequenza.
Anche in questo caso non sono prevista pratiche autorizzative per gli impianti di alta frequenza.
Per quanto riguarda il rischio di emissioni di campi elettromagnetici o radio frequenza, ti posso dire che la norma CENELEC EN 50499 specifica che le attrezzature marcate CE valutate secondo norme tecniche armonizzate (i cui estremi sono cioè pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale della Unione Europea), tra cui:
-         stazioni radio base e stazioni terminali fisse per sistemi di telecomunicazione senza fili (di cui alla norma EN 50385)
-         apparecchiature fisse per trasmissione radio (110 MHz - 40 GHz) destinate a reti di telecomunicazione senza fili (di cui alla norma EN 50401)
possono essere definite “giustificabili” cioè non richiedono ulteriori approfondimenti strumentali di valutazione del rischio in quanto si possono reputare per loro natura che non comportino rischi per la salute, provocando emissioni elettromagnetiche inferiori ai livelli di riferimento per la popolazione di cui alla Raccomandazione 99/519/CE.
Per tale tipo di sorgenti di radiofrequenze pertanto, non è necessaria alcuna valutazione strumentale, in quanto la loro potenza e il loro spettro di emissione, secondo norme tecniche, sono tali da non superare i limiti di cui alla Raccomandazione 99/519/CE (e anche i limiti di cui alla Direttiva 2004/40/CE).
Per esperienza mia personale, ho avuto l’occasione di misurare, con apparecchiatura dedicata, campi elettromagnetici ad alta frequenza in presenza di apparati wireless di aziende anche estese (e quindi con necessità di potenze di emissione in gioco importanti), ma ho sempre rilevato valori ampiamente al di sotto dei limiti sopra richiamati.
Che poi tali limiti siano veramente cautelativi per la popolazione e per i lavoratori è questione sulla quale qualcuno nutre dei dubbi e per questo lascio la parola ai medici del lavoro.
Ti consiglio quindi di richiedere i dati dell’apparecchiatura che intendono installare (soprattutto potenza di emissione, campo di frequenza, certificazione e marcatura CE) e soprattutto pretendere una IMMEDIATA (articolo 29, comma 3 del D.Lgs.81/08, come recentemente modificato dalla Legge 161/14) valutazione del rischio da campi elettromagnetici all’atto dell’installazione del sistema.
A tale valutazione del rischio, la cui piena responsabilità è del datore di lavoro (dirigente scolastico) deve obbligatoriamente collaborare e dire la sua anche il medico competente (articolo 25, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08).
Metto in evidenza che tale valutazione deve essere redatta (con criteri validati scientificamente) “da personale qualificato nell’ambito del servizio di prevenzione e protezione in possesso di specifiche conoscenze in materia” (articolo 181, comma 2 del D.Lgs.81/08) e non da un qualunque consulente.
Tale valutazione deve essere messa a disposizione del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (articolo 18, comma 1, lettera o) del D.Lgs.81/08) e i suoi risultati devono essere comunicati a tutti i lavoratori (articolo 36, comma 2, lettera a) e articolo 37, comma 1, lettera b) del D.Lgs.81/08).
A disposizione per ulteriori chiarimenti, un caro saluto.
Marco

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DOMANDA
Ciao Marco
sono un RSU in un centro commerciale.
Volevo chiederti una cosa: hai presente le slitte elettriche con pedana e guida autista a bordo? Da qualche tempo la direzione sostiene che vadano guidate in retromarcia ovvero costringendo il lavoratore ad essere sulla pedana rivolto in direzione logica, ma appeso al timone e a guidare torcendo il tronco per guardare alle spalle considerando quello il senso di marcia. Oltre alla postura incongrua vi è una forte limitazione al campo visivo.
Che fare? Aspettiamo il primo infortunio GRAVE o chiamiamo ASL?
Grazie infinitamente.

RISPOSTA
Ciao,
sinceramente io ho visto viaggiare le slitte, sia con le forche in avanti, che con le forche all’indietro.
La cosa migliore è consultare il manuale delle istruzioni della slitta, che deve essere fornito assieme alla slitta alla tua azienda (Direttiva Macchine Decreto Legislativo n.17 del 2010) e da questa messa a disposizione dei lavoratori (testo Unico per la sicurezza D.Lgs.81/08).
Il manuale deve contenere un capitolo “Uso consentito e uso proibito” (o con nome simile) in cui potrai verificare se la slitta può effettivamente essere usata in entrambi i lati, quali rischi aggiuntivi ciò comporta e che cautele occorre adottare.
Quello che sicuramente deve fare la tua azienda è verificare attraverso la valutazione del rischio (sempre secondo il Testo Unico) se l’uso al contrario della slitta può incrementare i fattori di rischio (quelli che tu segnali: postura e scarsa visibilità) anche in funzione del magazzino all’interno del quale viene utilizzata (dimensioni delle vie di transito, vicinanza tra gli scaffali, presenza di specchi agli incroci, numero di slitte in contemporanea, presenza di personale a piedi, ecc.).
Inoltre questo tipo di attrezzatura comporta una formazione specifica per gli utilizzatori (secondo l’Accordo Stato Regioni del 22/02/12) della durata minima, nel tuo caso, di 12 ore. In genere questi corsi vengono tenuti da tecnici specializzati delle ditte fornitrici le slitte e quindi esperti di tutto quello che le riguarda. Che cosa vi è stato detto al corso a tale proposito?
Intanto consulta il manuale e fammi sapere.
Saluti.
Marco

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DOMANDA
Gentile Marco,
un quesito.
Abbiamo rieletto i nuovi RLS a marzo.
Se uno dei vecchi ha consumato le 40 ore, il nuovo che lo sostituisce fruisce sempre di 40 ore?
In sostanza le 40 ore sono personali e sono complessive della figura?

RISPOSTA
Ciao,
dipende dal CCNL applicato.
Dal Contratto Collettivo Nazionale Quadro per il Pubblico Impiego riguardante i RLS del 10/07/96 (l’ultimo che mi risulti che affronti questa tematica) risulta quanto segue.
Per quanto riguarda le amministrazioni con meno di 15 dipendenti all’articolo II tale CCNQ prevede:
Al rappresentante spettano, per l’espletamento degli adempimenti previsti dall’articolo 19 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 [oggi articolo 50 del D.Lgs.81/08], appositi permessi retribuiti pari a 12 ore annue nelle amministrazioni o unità lavorative che occupano fino a 6 dipendenti nonché pari a 30 ore annue nelle amministrazioni o unità lavorative che occupano da 7 a 15 dipendenti. Per l’espletamento degli adempimenti previsti dall’articolo 19 citato, lettere b), c), d), g), i) ed l) non viene utilizzato il predetto monte ore e l’attività è considerata tempo di lavoro”.
Per quanto riguarda le amministrazioni con più di 15 dipendenti all’articolo IV tale CCNQ prevede:
Nelle amministrazioni o unità lavorative che occupano più di 15 dipendenti, per l’espletamento dei compiti previsti dall’articolo 19 del decreto legislativo n. 626/94 [oggi articolo 50 del D.Lgs.81/08], i rappresentanti per la sicurezza, oltre ai permessi già previsti per le rappresentanze sindacali, utilizzano appositi permessi retribuiti orari pari a 40 ore annue per ogni rappresentante. Per l’espletamento degli adempimenti previsti dai punti b), c), d), g), i) ed l) dell’art. 19 citato, non viene utilizzato il predetto monte ore e l’attività è considerata tempo di lavoro”.
In entrambi i casi gli articoli riportano l’indicazione “al rappresentante”, da cui si dovrebbe concludere che tali permessi sono personali, per singolo RLS, e non relativi alla figura.
Pertanto, anche se il precedente RLS ha esaurito le proprie ore di permesso, al nuovo rappresentante spettano le 40 ore (o meno per amministrazioni con meno di 15 dipendenti) dal giorno in cui è stato eletto o designato e per il successivo anno solare.
Metto in evidenza che, a seguito di quanto sopra enunciato dal CCNQ, le attività di cui ai punti b), c), d), g), i) ed l) dell’articolo 19 del D.Lgs.626/94 citato (e ai corrispondenti punti dell’articolo 50 del D.Lgs.81/08) non vanno computate nelle 40 ore (o meno) essendo considerate tempo di lavoro.
Tali attività sono le seguenti:
-         consultazione preventiva e tempestiva su valutazione dei rischi, individuazione, programmazione, realizzazione e verifica della prevenzione nell’azienda (lettera b);
-         consultazione sulla designazione degli addetti al servizio di prevenzione, all’attività di prevenzione incendi, al pronto soccorso, alla evacuazione dei lavoratori (lettera c);
-         consultazione in merito all’organizzazione della formazione dei lavoratori (lettera d);
-         erogazione della formazione specifica per i RLS (lettera g);
-         formulazione di osservazioni in occasione di visite e verifiche effettuate dalle autorità competenti (lettera i);
-         partecipazione alla riunione annuale su salute e sicurezza (lettera l).
Pertanto tutte le attività di cui sopra non vanno a intaccare il monte ore previsto per il RLS, ma devono essere computate a tutti gli effetti come orario di lavoro.
A disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco

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DOMANDA
Ciao Marco,
desideravo sapere se c’è una norma che impone uno studio sui rischi dello stress correlato al fatto che siamo in cassa integrazione dal febbraio 2011.
Ciao e grazie per la tua risposta

RISPOSTA
Ciao,
non c’è una norma specifica, ma un dettato legislativo che impone al datore di lavoro di qualunque azienda, e indipendentemente dall’inserimento contrattuale dei lavoratori (come definiti dall’ articolo 2, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08) di eseguire una valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza, compreso quello da stress lavoro correlato (articolo 17, comma 1, lettera a) e articolo 28, comma 1, lettera a) del Decreto).
Il problema nel tuo caso è che la metodica ufficialmente riconosciuta in Italia per valutare lo stress lavoro correlato (quella che segue le indicazioni della Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza, descritta poi in dettaglio all’interno di una linea guida dell’INAIL) è congegnata in maniera tale da considerare come concorrenti allo stress circa 70 fattori di rischio e di considerare che il rischio da stress sia elevato, soltanto se almeno 35 di questi fattori risultino negativi per i lavoratori.
Pertanto una valutazione da stress lavoro correlato nel tuo caso deve essere comunque fatta, perché anche la cassa integrazione è fonte di stress, ma se svolta secondo i metodi ufficiali darà paradossalmente un risultato di rischio basso, in quanto solo 1 o 2 fattori di rischio sui circa 70 assumeranno valori negativi.
A disposizione per ulteriori chiarimenti.
Un saluto.
Marco

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NOTA
Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:
ASL = Azienda Sanitaria Locale
CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
DVR = Documento di Valutazione dei Rischi
DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto
RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza
D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)




IL SILENZIO DELLA POLVERE: UNA STORIA MERIDIONALE DI AMIANTO

Da Il lavoro debilita
24 luglio 2015
di Giovanni Iozzoli

La storia che è al centro del saggio “Il silenzio della polvere” è tragicamente esemplare: una storia di operai e territori avvelenati da lavorazioni assassine. Le cronache e la letteratura sociologica di questo paese, sono piene di storie così. Il maledetto amianto poi, ha seminato e continua a seminare morte ovunque. Ma nella vicenda Isochimica, narrata nel libro curato da Antonello Petrillo, c’è qualcosa che “eccede” il già visto, un quid di violenza, una matrice di cinismo e crudezza, che colpisce al cuore il lettore. E questa matrice è il contesto di “colonialismo interno”, entro cui la vicenda si sviluppa. Un territorio e le giovani vite che lo animano, mandate scientemente al macello perché considerate “minori” e “immediatamente disponibili”, al consumo capitalistico.

Usando tutte le armi della sociologia critica (l’inchiesta operaia, la conricerca) Petrillo riesce a condurre un’indagine che si legge come un romanzo. Una storia di amianto diventa lo snodo di molti piani di indagine e riflessione che si sovrappongono: il rapporto Nord/Sud, il rapporto tra nuda vita e valorizzazione capitalistica, la terribile potenza dei blocchi sociali di consenso che si creano intorno al governo emergenziale dei territori.
Il contesto in cui tutto nasce e matura è l’Irpinia terremotata e affamata di lavoro dell’inizio anni ‘80. Quale posto migliore per installarci la più mortifera delle lavorazioni, la rimozione dell’amianto dall’intero parco ferroviario italiano? Avellino si presta all’opera. Molte giovani braccia disoccupate, bassissimo livello di coscienza sindacale e civile, una cappa soffocante di conformismo e clientela. Una specie di terzo mondo domestico.
Sarà lì che le FS dirotteranno, negli anni, centinaia di carrozze e locomotori da ripulire dalle pannellature di amianto; le maestranze sindacalizzate delle FS non hanno voluto saperne, di quel tipo di lavoro e comunque imporrebbero costi di sicurezza e smaltimento elevati; da quel rifiuto si avvia l’esternalizzazione di appalti e rischi, che nei 30 anni successivi diventerà la norma. Centinaia di carrozze e locomotori saranno dirottati negli anni verso la minuscola stazione di Avellino, dove un oscuro imprenditore cresciuto nel sottobosco degli appalti ferroviari, l’ingegner Graziano, otterrà l’incarico di ripulire dall’amianto i treni italiani, senza alcuna credenziale, senza nemmeno le autorizzazioni formali delle istituzioni locali.

Molte le pagine dure e crude di quella che solo formalmente è un’inchiesta socio-etnografica. La scena del reclutamento, ad esempio, è atroce: in un pomeriggio di ottobre, dentro un piazzale affollato di disoccupati, il padrone arriva in Mercedes e chiede solo ai giovanissimi di fare un passo avanti; saranno assunti immediatamente, sono loro i privilegiati, in un’assurda selezione generazionale, che fa affidamento sui tempi lunghi di incubazione del ciclo dell’asbestosi. Da allora comincia il lavoro. Decine di giovani, figli dei quartieri periferici o dei campi baraccati, senza alcuna coscienza di rischi e diritti, cominceranno la battaglia a mani nude contro quintali da amianto da rimuovere: in jeans, maglietta e spatola, senza dispositivi, senza protezione, dentro vagoni bui in cui le fibre ti ricoprono di una mortifera coltre bianca. La polvere maledetta la porteranno a casa, dalle loro famiglie, nel loro quartiere. Per un primo periodo, la scoibentazione si svolge addirittura sui binari della stazione, a due passi dai pendolari e dagli studenti che l’affollano nelle ore di punta.

Intorno, un’intera città farà finta di non vedere, di non capire. Il miraggio del lavoro a tutti i costi, il clientelismo di massa, la compravendita degli attori sociali e dei controllori istituzionali, ogni tessera del mosaico si incastra alla perfezione, compresa l’abilità del padrone, che sa agire ricatto sociale, corruzione e paternalismo con maestria.
L’ingegner Graziano diventerà anche il padrone dell’Avellino calcio; un connubio mefitico (calcio, business, consenso) che per gli avvelenati si tradurrà in qualche abbonamento-omaggio; per i sindacati tacita connivenza; per i politici attiva collaborazione. Tutti hanno da guadagnarci. Gli stessi operai, non sappiamo con che grado di incoscienza, preferiscono ignorare il rischio tremendo che incombe sul loro futuro. Soprattutto per i più giovani, l’idea di una busta paga è troppo attrattiva per quei tempi e quei territori. E’ lo stesso meccanismo devastante per il quale, proprio in quegli anni, si intensifica il ruolo della Campania come sversatoio dei rifiuti del nord industriale: epopea in qualche modo parallela, medesima dinamica propriamente coloniale, gestita col presidio di un gruppo di comando esteso e pervasivo.

Quando alcuni giovani operai (ma sono già passati alcuni anni di avvelenamento) acquisiscono informazioni sul pericolo mortale in cui svolgono le loro prestazioni e iniziano ad agitarsi, si scoprono soli ed impotenti. La città li isola, li stigmatizza, addirittura: stanno violando le regole del gioco, stanno mordendo la mano generosa che gli da tutti i mesi da mangiare (e tiene in piedi un largo sistema corruttivo a cui nessuno intende rinunciare). La vicenda Isochimica ci cala prepotentemente dentro gli anni frenetici del dopo terremoto irpino: un cataclisma che improvvisamente precipita dentro una “cattiva modernizzazione” uomini, donne, territori, comunità e istituzioni. Il laboratorio irpino diventerà il primo grande cantiere in cui l’emergenza diventa dispositivo di governo. Ed è utile riflettere sul presente, sugli elementi di continuità tra quel blocco di potere e la realtà attuale, tra la sua pervasiva capacità di legare insieme interessi grandi e piccoli, legalità e criminalità, stato e mercato: un blocco di potere formidabile che governerà un mostruoso impasto di eroina, munnezza, calcestruzzo e consenso sociale, ridisegnando in un decennio la storia del nostro mezzogiorno. L’ingegner Graziano, con l’amianto interrato sotto al cortile della fabbrica (e in chissà quanti altri siti abusivi) sta dentro quell’idea di modernità che prevalse allora, prepotente. E anche i morti di oggi, gli ammalati innocenti, le bonifiche mai avviate, stanno in questa specie di foto scattata al passato e al presente del nostro mezzogiorno.

“Il lavoro era faticoso, ma nelle pause si scherzava, eravamo tutti giovani, si parlava di fidanzate, del matrimonio che grazie a questo lavoro sembrava possibile. Seduti sui gradini delle carrozze dei treni, piene di polvere d’amianto, mangiavamo il nostro panino, un caffè, poi si tornava a grattare”.

Petrillo e il suo collettivo di lavoro (l’Unità di Ricerca Topografie Sociali) vivono e condividono l’esperienza di una comunità ferita e delusa, in cui chi lottò al momento giusto fu isolato e minoritario, e le voci di oggi restano flebili e inascoltate. Più che alla lettura di un’inchiesta sociologica, il lettore è invitato a calarsi dentro la vita e la sofferenza, guidato dagli “speleologi” dell’Urit, che scandagliano tutto, territorio, media, comunità, esistenze dissestate. La malattia dei contaminati come grande metafora della malattia del nostro sud.

Due parole vanno spese sul curatore, docente presso l’Università Suor Orsola Benincasa, che si occupa da anni “dei dispositivi entro cui si articola materialmente la governamentalità tardo liberale di popoli e territori”, già autore di un testo fondamentale (Biopolitica di un rifiuto) sull’epopea della munnezza in Campania. Quella di Antonello Petrillo è un’anomala figura di intellettuale che ha scelto di non vendere il suo valore scientifico e le sue consolidate relazioni internazionali al miglior offerente, bensì offrirle ai movimenti della resistenza e dell’indignazione. Trovare gente così a Ballarò è difficile; incontrarli nelle piazze delle mille emergenze italiane, a schierarsi, studiare e condividere, è invece assai frequente.

Un libro da leggere, non per specialisti. Con alcuni frammenti struggenti. Come quella foto di gruppo scattata in una pausa caffè, dentro un vagone pieno d’amianto, con cinque o sei giovanotti sorridenti che scherzano, in posa. E’ il 1983. La didascalia non racconta niente del loro destino.

IL LIBRO: Antonello Petrillo (a cura di) “Il silenzio della polvere. Capitale, verità e morte in una storia meridionale di amianto”, Mimesis/Cartografie sociali, Milano, 2015, 238 pagine.




QUESITI E PARERI: SUL RICORSO PER GIUDIZIO DI NON IDONEITA’ ALLA MANSIONE

Da Articolo 19 (Città Metropolitana)

DOMANDA

Nei giorni scorsi sono stata visitata dal medico competente dell’azienda in regime di visita preventiva in fase preassuntiva. A seguito di tale visita mi è stata riconosciuta una idoneità con limitazioni e a quel punto l’azienda non mi ha assunto.
Mi è stato detto che non posso fare ricorso contro il parere del medico competente.
Le mie domande sono due:
-         la visita che mi hanno fatto è obbligatoria?
-         perché non posso fare ricorso? E se lo posso fare a chi mi devo rivolgere?

RISPOSTA

Le due domande sono molto precise e si prestano quindi a risposte altrettanto precise ed inequivoche.

Per quel che riguarda la prima domanda, se la mansione cui era destinata prevedeva esposizione a un rischio per cui scatta la sorveglianza sanitaria, la visita preventiva è obbligatoria (mentre non lo è se la mansione non prevede l’esposizione a rischi per cui scatta la sorveglianza sanitaria).
Infatti, l’articolo 41 del D.Lgs.81/08 precisa che la sorveglianza sanitaria consta di diversi tipi di visite, tra cui la visita medica preventiva, intesa a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica, e la visita medica preventiva in fase preassuntiva.
Si tratta dello stesso tipo di accertamento e con le stesse finalità: l’unica differenza è il momento in cui viene eseguita: nel primo caso per un lavoratore già assunto, nel secondo caso prima dell’assunzione.
Quindi la visita preventiva in fase preassuntiva è perfettamente legittima, e il medico competente è perfettamente legittimato ad eseguirla (ai sensi del comma 2-bis dello stesso articolo).

Per quel che riguarda la seconda domanda, l’iter è questo: il medico competente comunica il suo giudizio, per iscritto, al lavoratore (o aspirante lavoratore, nel caso di visita preassuntiva) e al datore di lavoro, ai sensi del comma 6-bis dell’articolo 41.
Nel momento in cui il lavoratore viene formalmente a conoscenza, ricevendolo per iscritto, del giudizio del medico competente, può, se non lo condivide, attivare il ricorso ai sensi del comma 9 dello stesso articolo 41.
Si riporta integralmente il testo del comma 9, evidenziando la frase che contiene la risposta al quesito della lavoratrice: “Avverso i giudizi del medico competente, ivi compresi quelli formulati in fase preassuntiva, è ammesso ricorso, entro trenta giorni dalla data di comunicazione del giudizio medesimo, all’organo di vigilanza territorialmente competente che dispone, dopo eventuali ulteriori accertamenti, la conferma, la modifica o la revoca del giudizio stesso”.
Quindi non è assolutamente vero che la lavoratrice non possa fare ricorso avverso il giudizio del medico competente dopo una visita preventiva in sede preassuntiva: infatti è chiaramente scritto, in modo che non lascia adito a nessuna interpretazione diversa, che il ricorso è ammesso anche in questo caso.
Il comma 9 contiene anche gli altri elementi utili a completare la risposta: visto che il ricorso è chiaramente consentito dall’attuale normativa, la lavoratrice può tranquillamente farlo perché ne ha, lo ripetiamo, il pieno diritto, anche in sede di visita preassuntiva: il ricorso va inoltrato per iscritto (in carta semplice, non necessita il bollo) entro 30 giorni da quando si è ricevuta la formale comunicazione del medico competente) e va indirizzato allo SPSAL (così si chiama in Emilia-Romagna, o altra denominazione che in altre regioni assume l’organo di vigilanza) dell’Azienda USL competente per territorio non in base alla residenza o domicilio del lavoratore, ma in base alla sede dell’azienda.

Leopoldo Magelli

IMPARARE DAGLI ERRORI: QUANDO UNA MACCHINA MOVIMENTO TERRA SI RIBALTA

Da: PuntoSicuro
30 luglio 2015
Tiziano Menduto

Esempi di infortuni sul rischio di ribaltamento delle macchine con riferimento all’uso di escavatori e miniescavatori. Infortuni in lavori di urbanizzazione, in terreni agricoli e in cantieri di ristrutturazione. Gli incidenti e la prevenzione.

Dedichiamo una seconda puntata di “Imparare dagli errori” a una delle tipologie di infortuni che si possono riscontrare con più frequenza (con particolare riferimento alle schede di “Informo”) nell’utilizzo di macchine movimento terra.
Nella scorsa puntata abbiamo parlato dell’investimento di lavoratori nel raggio d’azione delle macchine e ci soffermiamo invece oggi sul rischio di ribaltamento, con particolare riferimento, anche in questo caso, all’escavatore idraulico, una delle macchine movimento terra più versatili e diffuse.

Prima di presentare le dinamiche degli incidenti e una breve raccolta di misure di prevenzione, segnaliamo che gli escavatori idraulici e a fune sono tra le attrezzature di lavoro per le quali l’Accordo Stato Regioni inerente le attrezzature di lavoro, pubblicato il 22 febbraio 2012, richiede una specifica abilitazione degli operatori.

Il primo caso è relativo ad un incidente in lavori di urbanizzazione di un’area.
I lavori sono stati affidati ad una ditta di movimento terra formata da due soci dei quali solo uno lavoratore. La ditta incarica un lavoratore autonomo come assistente di cantiere per l’esecuzione dei rilievi tecnici. Con i lavori in corso sono stati realizzati una serie di avvallamenti nel terreno per posizionare gli impianti di urbanizzazione.
Un mattino il lavoratore autonomo arriva in cantiere e, anche se non era suo compito, visto che sul miniescavatore erano presenti le chiavi di accensione, vi sale per effettuare dei lavori. Dopo avere messo in moto il mezzo si avvia in un’area di cantiere particolarmente accidentata e inizia a scavare con la benna effettuando una manovra di rotazione/traslazione che fa perdere l’equilibrio al mezzo che inizia ad inclinarsi sul lato sinistro.
Probabilmente a quel punto l’infortunato si è spaventato e ha deciso di uscire dal mezzo, sempre dal lato sinistro, dove era presente una piccola scarpata costituita da materiale particolarmente franoso (che rendeva ancora più difficile la via di fuga) che l’operatore cerca di scalare.
Mentre cerca di scappare (non è stato possibile accertare se l’operatore utilizzasse la cintura di sicurezza) la cabina del miniescavatore si è inclina e con il lato superiore sinistro lo schiaccia alla schiena contro il terreno provocandone la morte, anche se non immediata.
Al momento del fatto l’infortunato era da solo in cantiere. Del fatto si è accorto dopo un certo lasso di tempo il personale di un’altra ditta che si trovava in una zona attigua e che ha chiamato i soccorsi. Dall’indagine è emerso che l’operatore non aveva ricevuto nessun addestramento all’uso del mezzo.
Questi i fattori causali:
-         l’infortunato esegue una manovra brusca di rotazione/traslazione che fa perdere l’equilibrio al mezzo;
-         l’infortunato esce dal mezzo che si sta ribaltando.

Il secondo caso è relativo a un incidente avvenuto in un terreno agricolo nel corso di operazioni di pulizia di un fosso effettuate mediante un attrezzo idraulico detto “Jumbo” (assimilabile ad un miniescavatore) trainato da una trattrice agricola. All’estremità del braccio idraulico è montata una benna a cucchiaio che ha la funzione di prelevare la fanghiglia o altro materiale dal fosso. Il terreno su cui opera la trattrice e l’attrezzo agricolo è fangoso e di scarsa consistenza.
L’infortunato, che opera sull’attrezzo descritto, dopo aver prelevato della fanghiglia all’interno del fosso ha allungato il braccio idraulico per scaricarla sul lato opposto del fosso stesso; durante questa operazione, condotta troppo rapidamente, la ruota destra dell’attrezzo si affossava nel terreno, determinandone il ribaltamento laterale. L’infortunato, che operava sul sedile in metallo a lato del contrappeso, rimaneva schiacciato tra il contrappeso stesso ed il ceppo di un albero presente lì a fianco. Il posto di comando era privo di protezione contro lo schiacciamento.

Il terzo caso è relativo ad un incidente avvenuto in un piccolo cantiere relativo alla ristrutturazione di una porzione di immobile.
Il giorno dell’infortunio un lavoratore sta operando a bordo di un miniescavatore alla sistemazione dell’area antistante l’edificio. Durante uno spostamento in retromarcia sale con un cingolo sopra un cumulo di terra. Il miniescavatore si inclina sul lato sinistro e si ribalta. Il lavoratore, ai primi sintomi di ribaltamento, tenta di scendere proprio dal lato sinistro e di allontanarsi. Non riesce nell’operazione e rimane schiacciato sotto il telaio della cabina di guida.

In merito alla prevenzione di questi incidenti correlati all’uso di escavatori e miniescavatori riportiamo alcune indicazioni tratte dalle schede contenute nella seconda parte del manuale “Le macchine in edilizia. Caratteristiche e uso in sicurezza”, un documento nato dal rapporto di collaborazione tra l’ INAIL Piemonte e il CPT Torino.

Nella “Scheda 6 Escavatore idraulico” sono elencati i principali rischi (ribaltamento, caduta di materiale dall’alto, scivolamenti, urti, cesoiamento, vibrazioni, rumore, ecc.) e le relative principali misure di sicurezza da adottare per prevenirli o per la protezione dei soggetti interessati dalle attività inerenti l’uso dell’escavatore idraulico.

Si indica, ad esempio, che il ribaltamento dell’escavatore può essere determinato da una serie di cause come:
-         cedimento del piano di appoggio o dei percorsi, ad esempio per la presenza di sottoservizi;
-         errori di posizionamento e manovra durante le attività di scavo o sollevamento di materiali.
E per prevenire tale rischio occorre:
-         verificare i percorsi e le aree di intervento e rispettare le istruzioni del fabbricante in particolare in merito ai limiti d’uso e al posizionamento;
-         durante l’attività di scavo procedere per fasi successive senza compromettere la stabilità del terreno e conseguentemente del mezzo;
-         mantenere la distanza di sicurezza dal ciglio dello scavo (nel caso degli escavatori cingolati, orientare i cingoli perpendicolarmente alla parete dello scavo);
-         utilizzare la cintura di sicurezza.

Fermo restando le indicazioni contenute nelle istruzioni d’uso di ogni macchina, riportiamo, per concludere, alcune indicazioni della scheda relative ad alcuni divieti per l’uso degli escavatori:
-         non ammettere a bordo della macchina altre persone;
-         non eseguire operazioni di scavo sotto una superficie in pendenza;
-         non scavare sotto la macchina per non compromettere la stabilità del terreno e conseguentemente della macchina;
-         per evitare guasti o deterioramenti, non fare uso della sola forza di rotazione per compattare il terreno o per frantumare manufatti;
-         per evitare guasti o deterioramenti, non usare la forza di caduta della benna ad esempio per demolizioni o per inserire pali nel terreno;
-         per evitare guasti o deterioramenti, non inserire i ‘denti’ della benna nel terreno e usare la forza di marcia dell’escavatore per scavare;
-         non eseguire operazioni mantenendo i cilindri idraulici sui finecorsa (cilindro completamente esteso o cilindro completamente retratto);
-         non usare la forza di caduta del braccio dell’escavatore per le operazioni di scavo o per compattare il terreno;
-         non superare i limiti di altezza raggiungibile dal braccio operando con i cingoli non correttamente appoggiati a terra;
-         evitare movimenti improvvisi delle leve sia per quanto riguarda la marcia sia per quanto riguarda i movimenti dei bracci idraulici; muovere le leve gradualmente;
-         non condurre la macchina in acque più profonde dell’altezza del centro della ruota motrice;
-         nei terreni in pendenza, non far ruotare l’attrezzatura con la benna carica dal lato in salita verso il lato in discesa.

La Home Page del sito web di “Informo” dal quale sono state ricavate le indicazioni di questo articolo è:

SICUREZZA E SALUTE NELLE MICRO E PICCOLE IMPRESE

Da: PuntoSicuro
31 luglio 2015
           
Le corrette condizioni di sicurezza e salute sono un beneficio per le micro e piccole imprese. Quali difficoltà incontrano le micro e le piccole imprese? EU-OSHA (Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro) le aiuta a valutare i rischi del luogo di lavoro.

Le piccole e medie imprese (PMI) sono considerate elementi chiave per la crescita economica, l’innovazione, l’occupazione e l’integrazione sociale e costituiscono la spina dorsale dell’economia dell’UE.

Nel 2013 le PMI rappresentavano il 99,8% di tutte le imprese non finanziarie dell’UE. Ciò equivale a 21,6 milioni di imprese dell’UE.

Alle PMI appartengono tre categorie: micro, piccole e medie imprese. Nella raccomandazione 2003/361/EC della Commissione del 6 maggio 2003 sono definite come segue:
-         una media impresa ha meno di 250 dipendenti e un fatturato annuo che non supera i 50 milioni di euro e/o il totale del bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro;
-         una piccola impresa ha meno di 50 dipendenti e un fatturato annuo o un totale del bilancio annuo non superiore a 10 milioni di euro;
-         una microimpresa ha meno di 10 dipendenti e un fatturato annuo o un totale del bilancio annuo non superiore a 2 milioni di EUR.

In media, le PMI in Europa hanno assunto 4,22 persone, pertanto la stragrande maggioranza (92,4%) delle imprese dell’Unione europea sono classificate come microimprese. Le suddette microimprese rappresentano il 67,4% di tutti i posti di lavoro in Europa, di conseguenza la loro importanza per l’economia europea è immensa.

Quali difficoltà incontrano le micro e le piccole imprese?
Dai dati emerge che i dipendenti delle imprese più piccole sono soggetti a maggiori rischi rispetto ai dipendenti delle imprese più grandi, e che le imprese più piccole hanno più difficoltà a controllare i rischi. Diversi studi, inclusa l’indagine europea di EU-OSHA sulle imprese e i nuovi ed emergenti rischi (ESENER), mostrano che le difficoltà nella gestione della salute e sicurezza sul lavoro sono particolarmente rilevanti quanto più è ridotta la dimensione dell’impresa.
La gestione relativamente carente della salute e sicurezza sul lavoro può essere attribuita a specifiche caratteristiche tipiche delle piccole imprese quali: caratteristiche strutturali e organizzative del lavoro e delle assunzioni, posizione economica e relazioni commerciali, diversità commerciale e flessibilità, lontananza dalla portata delle misure di regolamentazione, comportamenti e competenze di proprietari e lavoratori nei suddetti piccoli stabilimenti o breve ciclo di vita. Queste caratteristiche rendono molto più difficile per le micro e piccole imprese creare e mantenere un ambiente di lavoro sicuro e salutare.
Diversi altri fattori che hanno un impatto nella gestione della salute e sicurezza sul lavoro in tali stabilimenti, se comparati con i più grandi, includono:
-         difficoltà di regolamentazione, considerato che sono tipicamente eterogenei, geograficamente sparsi, e privi di rappresentazione coesa;
-         i limiti di bilancio comportano spesso una mancanza di risorse per porre in essere iniziative e interventi per la sicurezza e la salute come ad esempio consulenze per la salute e la sicurezza, informazioni, strumenti e controlli a pagamento;
-         meno risorse ostacolano l’attuazione delle attività di prevenzione;
-         sono disponibili meno tempo ed energie per attività non fondamentali, e la gestione della sicurezza e della salute vengono spesso percepite come tali: condizioni ottimali di salute e sicurezza sul lavoro non sono considerate una priorità;
-         la valutazione dei rischi può essere costosa e difficile da completare, in particolare modo se l’impresa non dispone del know-how in materia di salute e sicurezza sul lavoro per effettuarla efficacemente;
-         raggiungere le micro e le piccole imprese direttamente può essere difficoltoso per le organizzazioni che promuovono o attuano una corretta sicurezza e salute nel luogo di lavoro.

Meno della metà delle micro e piccole nuove imprese sopravvive per più di 5 anni, e solo una frazione di queste entra a far parte del gruppo di aziende ad alte prestazioni che costituiscono il motore dell’innovazione e della performance industriale. Uno studio ha rivelato che tra le nuove micro e piccole imprese statunitensi, quelle che fallivano entro uno o due anni avevano un tasso medio di infortuni sul lavoro superiore più del doppio a quelle sopravvissute per più di cinque anni.
I costi degli incidenti costituiscono un motivo di particolare preoccupazione per le piccole imprese in quanto rappresentano l’82% di tutti gli infortuni sul lavoro ed il 90% di tutti gli incidenti mortali.

L’impatto di un grave incidente nell’ambito della salute e sicurezza sul lavoro potrebbe rivelarsi catastrofico per una piccola impresa:
-         è molto più difficile per le micro e piccole imprese riprendersi da un incidente legato alla salute e sicurezza sul lavoro;
-         l’impatto relativo è maggiore rispetto a quello delle aziende più grandi;
-         i lavoratori indispensabili non possono essere facilmente o velocemente sostituiti;
-         brevi interruzioni dell’attività possono causare la perdita di clienti e di contratti importanti;
-         un grave incidente può portare alla chiusura dell’attività a causa dei costi diretti legati all’incidente o alla perdita dei contratti e/o dei clienti;
-         anche piccoli incidenti e casi di malattia possono raddoppiare le assenze per motivi di salute.

Statistiche come queste dimostrano che buone pratiche di salute e sicurezza sul lavoro sono fondamentali per il successo e la sopravvivenza a lungo termine di tali micro e piccole imprese. L’indagine EU-OSHA ha dimostrato che anche imprese molto piccole possono ottenere risultati di alto livello per quanto riguarda le pratiche di gestione della salute e sicurezza sul lavoro in alcuni paesi e settori dell’Unione europea. Ciò suggerisce che creando un ambiente che incoraggia la salute e sicurezza sul lavoro è possibile migliorare notevolmente la gestione nelle micro e piccole imprese.
Una gestione efficace della salute e sicurezza sul lavoro non solo è essenziale per migliorare il benessere dei lavoratori, ma garantisce inoltre la prosperità delle aziende e delle economie in una prospettiva a lungo termine riducendo le perdite di produzione derivanti da infortuni o malattie.
Si legga la relazione EU-OSHA sulla sicurezza e salute sul luogo di lavoro e l’andamento economico nelle piccole e medie imprese (“Occupational Safety and Health and economic performance in small and medium enterprises: a review”)

EU-OSHA aiuta le micro e le piccole imprese a valutare i rischi del luogo di lavoro.
Una adeguata valutazione del rischio è la chiave per un luogo di lavoro salutare. Tuttavia, il processo di valutazione del rischio può rivelarsi piuttosto impegnativo specialmente per le micro e le piccole imprese che spesso non possiedono le risorse o il know-how in materia di sicurezza e salute sul lavoro necessari per svolgere tale valutazione in modo efficace.
Lo strumento interattivo online EU-OSHA per la valutazione dei rischi (OiRA) ha lo scopo di superare questi ostacoli, quale prima iniziativa a livello dell’Unione europea che incoraggia le micro e le piccole imprese europee alla valutazione dei rischi (principalmente attraverso gli Stati membri e le parti sociali a livello di UE e degli Stati membri).

La piattaforma OiRA permette di elaborare strumenti online facili da usare e gratuiti in grado di aiutare le micro e le piccole organizzazioni a istituire procedure di valutazione del rischio per tappe che iniziano con l’identificazione e la valutazione dei rischi sul luogo di lavoro, seguite dal processo decisionale e l’attuazione di azioni preventive, e si conclude con il monitoraggio e le relazioni.
Questo strumento viene utilizzato dai partner sociali settoriali (organizzazioni di datori di lavoro e di lavoratori) nonché da autorità nazionali (ministeri, ispettorati del lavoro, istituti di salute e sicurezza sul lavoro, ecc.) per elaborare strumenti di valutazione del rischio per settori specifici destinati alle piccole imprese.
Per maggiori informazioni su OiRA visitare il sito del progetto e il relativo articolo OSHWiki .

Data l’importanza della salute e sicurezza sul lavoro nelle piccole e medie imprese, l’EU-OSHA ha avviato un progetto su larga scala (dal 2014 al 2017) sul “Miglioramento della salute e della sicurezza sul lavoro (salute e sicurezza sul lavoro) nelle micro e piccole imprese in Europa”.
Lo scopo di tale panoramica salute e sicurezza sul lavoro sulle micro e piccole imprese è raccogliere, analizzare e diffondere una conoscenza approfondita, aggiornata e nuova nonché maggiore comprensione circa: politiche e strategie, strumenti e risorse, opinioni e prassi nel posto di lavoro con riferimento alla gestione della salute e sicurezza sul lavoro nelle micro e piccole imprese. Ciò includerà una ricerca empirica, basata sulla teoria e orientata allo sviluppo di politiche, che andrà ad integrare l’analisi preventiva e sul campo attraverso l’uso di metodologie di ricerca, strumenti e tecniche analitiche qualitativi e quantitativi.

Questo progetto EU-OSHA cercherà di individuare come si comportano al momento le micro e piccole imprese per quanto riguarda la gestione della salute e sicurezza sul lavoro dei loro lavoratori, che cosa gli impedisce di prendere in considerazione la salute e sicurezza sul lavoro, e cosa potrebbe incoraggiarle a migliorare le condizioni di salute e sicurezza sul lavoro all’interno dell’ambiente lavorativo. Una revisione della letteratura combinata con l’analisi dei dati quantitativi da parte di EU-OSHA aiuterà a comprendere l’attuale stato della salute e sicurezza sul lavoro nelle suddette imprese più piccole. L’attività si baserà dunque sul lavoro esistente, e con il contributo di seminari, interviste e questionari delle parti interessate, affiancherà l’attuazione delle raccomandazioni, lo scambio delle migliori pratiche e le ulteriori indagini sui modi per migliorare la salute e sicurezza sul lavoro in queste imprese - in particolare per comprendere come le micro e piccole imprese possano essere motivate e incoraggiate a migliorare le condizioni lavorative, riducendo così gli incidenti legati al lavoro e le malattie professionali.
Attraverso un’analisi comparativa tra i paesi, i settori, le classi di grandezza, ecc., questo progetto assisterà i legislatori europei e nazionali aiutandoli a capire “cosa funziona” e “perché funziona” nello sviluppo e nell’impiego di strategie e risorse per migliorare i risultati circa la salute e sicurezza sul lavoro in queste imprese.

Fonte: EU-OSHA




LA RESPONSABILITA’ DEL LAVORATORE PER INFORTUNIO A UN ALTRO LAVORATORE

Da: PuntoSicuro
3 agosto 2015
di Gerardo Porreca

L’autista di una betonpompa è stato ritenuto responsabile per il decesso di un altro lavoratore causato dal mancato rispetto delle procedure e istruzioni: la condotta è stata considerata sufficiente alla determinazione dell’evento lesivo.

E’ uno di quei casi quello preso in esame dalla Corte di Cassazione in questa sentenza in cui determinante è stato considerato il comportamento di un operatore di una macchina che, a seguito di un errore dallo stesso commesso e del mancato rispetto delle procedure e delle istruzioni previste per la sua utilizzazione, ha provocato l’infortunio di un lavoratore.
Nel caso particolare la macchina era una betonpompa e l’errore dell’operatore era consistito nell’abbassare il braccio dell’attrezzatura che ha colpito l’infortunato venuto a trovarsi nel raggio di azione del braccio medesimo difformemente da quanto specificatamente previsto nel libretto di istruzione della macchina.

La Corte di Appello ha confermata la sentenza con la quale il Tribunale aveva condannato un lavoratore alla pena di nove mesi di reclusione in relazione al reato di omicidio colposo commesso ai danni di un altro lavoratore in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. All’imputato era stata originariamente contestata la violazione dei tradizionali parametri della colpa generica e delle norme di colpa specifica espressamente richiamate nel capo d’imputazione, per effetto della quale, nell’esercizio della propria attività di autista della betonpompa, mentre era intento a una gettata di calcestruzzo, aveva comandato l’abbassamento del braccio dell’attrezzatura in presenza di persone nel raggio di azione di questo, in difformità da quanto previsto dal libretto di istruzioni del mezzo, venendo così a colpire violentemente alla testa il lavoratore infortunato cagionandone il decesso.

Avverso la sentenza della Corte di Appello l’imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso alla Corte di Cassazione sulla base di diverse motivazioni di impugnazione.
Con un primo motivo, il ricorrente ha censurata la sentenza impugnata, avendo la Corte territoriale ritenuto inattendibili le dichiarazioni a discarico di un testimone oculare, di cui era stata richiesta la tardiva escussione in appello, sulla base di una motivazione illogica e contraddittoria, con particolare riguardo alla circostanza relativa all’effettiva presenza del testimone stesso sul luogo dei fatti al momento del sinistro.
Come atro motivo fondamentale il ricorrente ha censurata la sentenza impugnata per vizio di motivazione e violazione di legge, con particolare riguardo alla ricostruzione dello svolgimento dei fatti e del dinamismo causale che ebbe a condurre al decesso del lavoratore, con particolare riguardo alla valutazione della condotta della vittima, nella specie idonea a costituire di per sé sola una condizione sufficiente alla determinazione dell’evento lesivo oggetto della causa.

Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione che lo ha pertanto rigettato.
Per quanto riguarda la lamentela avanzata dal ricorrente con riguardo alla valutazione operata dalla Corte territoriale circa l’inattendibilità del testimone, la suprema Corte ha considerata legittima la decisione assunta dai giudici d’appello avendo gli stessi spiegato in modo coerente e logicamente argomentato le ragioni per le quali fosse del tutto non credibile la circostanza della presenza dello stesso sul luogo del sinistro e quindi irrilevante la sua testimonianza. Al riguardo, la Corte territoriale ha evidenziato come ben tre ufficiali di polizia giudiziaria intervenuti presso il cantiere subito dopo l’infortunio (sottoscrittori della comunicazione della notizia di reato) avessero dato atto che nessuno dei soggetti presenti sul luogo al momento dell’infortunio avesse confermato la contestuale presenza del teste, presenza del cui riscontro nessun accenno era emerso nel corso dell’interrogatorio reso dallo stesso imputato dopo l’avviso di conclusione delle indagini. Ciò posto, secondo la suprema Corte, nessuna violazione del principio che impone al giudice l’ammissione di prove decisive richieste dalle parti (ai sensi dell’articolo 606, lettera d) del Codice di Procedura Penale) può essere ascritta alla scelte della Corte territoriale, avendo quest’ultima analiticamente spiegato, in forza delle richiamate motivazioni, le ragioni della ritenuta radicale inattendibilità delle dichiarazioni del preteso testimone addotto dalla difesa.

Quanto alla ricostruzione del dinamismo causale che aveva condotto al decesso del lavoratore la Sezione IV ha rimarcato come la Corte territoriale (sulla scia delle linee argomentative fatte proprie dal giudice di primo grado) “avesse del tutto correttamente escluso il rilievo causale del comportamento del lavoratore deceduto nella produzione dell’evento lesivo, evidenziando invece come l’imputato si fosse reso autore di gravissime violazioni delle norme cautelari riferite al governo del braccio della betonpompa dallo stesso azionato, con particolare riguardo al radicale rigoroso divieto di procedere all’azionamento di detto braccio in caso di presenza di lavoratori nel relativo raggio d’azione; violazioni espressive d’imprudenza tale da porsi, di per sé sola, quale fonte autonoma di gravissimi rischi come quello nella specie puntualmente concretizzatosi”.

La Sentenza n. 31234 del 17 luglio 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:




VISITE MEDICHE PREVENTIVE: PER QUANTO TEMPO VALGONO?

Da: PuntoSicuro
3 agosto 2015        
di Leopoldo Magelli

E’ necessario effettuare un nuova visita medica preventiva in caso di riassunzione dello stesso lavoratore per la medesima mansione?
Pubblichiamo un articolo tratto da “Articolo 19” n. 02/2014, Bollettino di informazione e comunicazione per la rete di RLS delle aziende della Provincia di Bologna realizzato dal SIRS (Servizio Informativo per i Rappresentanti dei lavoratori per la Sicurezza) con la collaborazione di vari soggetti istituzionali provinciali (Provincia di Bologna, AUSL, INAIL, DPL, organizzazioni sindacali, ecc.).

Come è noto, la visita medica preventiva viene effettuata prima che il lavoratore interessato inizi a svolgere la sua mansione/attività a rischio, per accertare se è idoneo a svolgere tale specifica mansione/attività, constatando quindi che non esistano controindicazioni al lavoro a cui è destinato ed ai suoi rischi.
Tale visita è disciplinata dall’articolo 41 del D.Lgs.81/08, al comma 2, che così recita:
la visita medica preventiva è intesa a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica”.

Si coglie l’occasione per ricordare due importanti elementi, correlati al quesito in oggetto:
All’articolo 41 comma 2-bis si precisa che le visite mediche preventive possono essere svolte in fase preassuntiva, su scelta del datore di lavoro, dal medico competente o dai dipartimenti di prevenzione delle ASL.
All’articolo 41, comma 9, si precisa che contro il giudizio emesso in sede di visita preventiva (anche il fase preassuntiva) è ammesso il ricorso del lavoratore: entro trenta giorni dalla data di comunicazione del giudizio medesimo, all’organo di vigilanza territorialmente competente che dispone, dopo eventuali ulteriori accertamenti, la conferma, la modifica o la revoca del giudizio stesso.

Il quesito che ci è stato posto è il seguente: se un lavoratore è stato dichiarato idoneo alla sua mansione specifica alla visita preventiva e poi, per qualsiasi motivo, viene a cessare il rapporto di lavoro con quell’azienda, un eventuale rientro nell’azienda per svolgere la stessa mansione (o una mansione analoga in termini di profilo di rischio) obbliga l’azienda ed il lavoratore a svolgere una nuova visita preventiva?

La risposta della Commissione per gli Interpelli ha fornito una risposta ufficiale a questo quesito (vedi Interpello N. 8/2013 del 24/10/13 al link a seguire) e al suo parere ci atterremo nella nostra risposta.
La Commissione, partendo dalla considerazione che la visita medica periodica, per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica, è prevista con una periodicità di norma di in una volta l’anno (salvo i casi in cui specifici riferimenti normativi non prevedano diversamente), ritiene di poter assumere lo stesso intervallo temporale (un anno) come limite di validità di una visita preventiva (ovviamente a parità di mansione e quindi di rischi).

Pertanto la Commissione così si pronuncia:
Nel caso di assunzioni successive, qualora il lavoratore sia impiegato in mansioni che lo espongono allo stesso rischio nel corso del periodo di validità della visita preventiva o della visita periodica […] e comunque per un periodo non superiore a un anno, il datore di lavoro non è tenuto ad effettuare una nuova visita preventiva, in quanto la situazione sanitaria del lavoratore risulta conosciuta dal medico competente”.

Attenzione però a non interpretare male questo parere.
Esso infatti si applica solo al caso in cui il nuovo accesso (dopo una cessazione dal lavoro) alla stessa mansione a rischio per cui si era stati dichiarati idonei avviene nella stessa azienda, mentre non vale ovviamente per assunzioni, anche entro un anno dalla prima visita preventiva, in aziende diverse.
Infine si fa notare che dire che “il datore di lavoro non è tenuto” non equivale a dire che è vietato effettuarla, quindi il datore di lavoro potrebbe decidere, magari in accordo col medico competente, di rieffettuare una nuova visita preventiva.

La risposta della Commissione per gli interpelli n. 8/2013 del 24 ottobre 2013 è scaricabile all’indirizzo:



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