domenica 3 giugno 2012


Il 31 maggio "l'unità della Repubblica" fondata sullo smantellamento dei diritti dei lavoratori, sull'affossamento delle conquiste proletarie frutto di anni di lotte, sulla beffa della loro stessa democrazia borghese, si è realizzata con una rapida votazione trasversale sulla controriforma del Lavoro, che ha il suo cuore politico/ideologico nell'attacco all'art.18.
Riportiamo stralci del paragrafo dell'opuscolo "riforma del lavoro: analisi del Ddl - incertezza e precarietà in engtrata, certezza in uscita" (opuscolo che si può richiedere e ricevere via internet):
 
 "...alla fine si è creata la ‘Santa alleanza’ dal PD al PdL, con anche il giudizio della Camusso che parla di soddisfazione perché nei licenziamenti per ‘motivi economici’ è stata introdotta la parola “reintegro”.
Al di là che la vera cancellazione dell’art. 18 sta proprio nel permettere i licenziamenti per ‘motivi economici’ –successivamente vedremo quanto vasti e flessibili siano questi‘motivi economici’ - su questa “vittoria” sul ‘reintegro’basta sentire Monti per capire che rimarrà solo come ‘specchietto per le allodole”. Monti definisce questa ipotesi: fattispecie non molto rilevante, fattispecie molto estrema e improbabile; così come basta sentire le reazioni isteriche della Marcegaglia e dell’intera Confindustria per capire che mai e poi mai un lavoratore licenziato rientrerà al lavoro (Marchionne insegna)........ Quindi Monti spiega la filosofia di questa modifica dell'art. 18: “noi vogliamo con questa riforma rafforzare il lavoratore superando l’idea di rapporto proprietario con il suo posto di lavoro, quando la sua azienda non ha più ragioni economiche per esistere”. Se non fosse tragico, sarebbe da ridere: ora è il lavoratore che sarebbe “proprietario” – di cosa? Della sua forza lavoro da sfruttare! Ora è l’azienda che sarebbe vincolata alla volontà del lavoratore - ma non scherziamo!
La formulazione – mediatoria – trovata, poi, dice solo che il giudice “può” stabilire, in caso di “manifesta insussistenza del fatto a base del licenziamento, al posto dell’indennizzo, il reintegro del lavoratore, non dice “deve”; l’insussistenza viene fatta diventare un caso ultra raro, infatti in modo perverso si introduce la paroletta “manifesta”, di cui tecnicamente non ci sarebbe alcun bisogno, e che viene posta quasi come severo avviso (stile mafioso) al giudice.
Nello stesso tempo questo "può" è un'aberrazione giuridica: su altri contenziosi, se ad una persona è stato tolto un diritto illegalmente, la conseguenza naturale di una sentenza favorevole è che quel diritto torni integro alla persona, non torna un diritto dimezzato; per il licenziamento, invece, pur in caso in cui il lavoratore ha ragione, non è automatico che riabbia il suo diritto al posto di lavoro.
Ma anche questa modifica che non cambia la sostanza è stata pagata ai padroni, sia con concessioni sulla flessibilità in entrata, sia con soldi veri e propri, riducendo le mensilità indennizzate a 12-24 mesi dalle originarie 15-27.
L’impugnazione del licenziamento per ‘motivi economici’ davanti ad un giudice deve prima passare dal tentativo di conciliazione davanti alla Direzione territoriale del lavoro. Ma questo passaggio invece di essere a favore del lavoratore per evitare le lungaggini processuali, rischia di diventare una forte penalizzazione, perché sarà tenuto in conto dal giudice l’atteggiamento assunto davanti alla DTL, e nel caso fosse stato il lavoratore a “creare ostruzionismi o a dimostrare insofferenza”, sarà ‘punito’, accollando a lui le spese processuali e riducendogli l’indennità risarcitoria.
Ma vediamo nel merito i ‘motivi economici’. Le condizioni per cui può scattare il licenziamento per “motivi economici” sono tante e tanto generiche da far stare tutti gli operai e i lavoratori permanentemente sotto una “spada di Damocle”.
Infatti, il licenziamento può scattare, a parte per crisi aziendale, per:
-soppressione della mansione cui era addetto il lavoratore– questo può non centrare nulla con i problemi economici bensì rientrare nella“normale” legge dei padroni di tagliare il costo del lavoro, per es. accorpando mansioni;
-cancellazione del reparto, della filiale, dell’ufficio in cui lavora il dipendente da licenziare, anche se non viene soppressa la sua mansione bensì viene redistribuita tra gli altri dipendenti– anche in questo caso la motivazione sta solo in un taglio del costo del lavoro facendo lavorare di più gli operai che restano, quindi si tratta di una riorganizzazione produttiva volta solo ad aumentare i profitti, anche in mancanza di problemi economici;
-introduzione di macchinari che fanno risparmiare sul lavoroumano– quindi altro che“motivi economici”! Ma solo la classica e sempre attuale legge del capitale di aumentare la produttività e i suoi profitti riducendo l’occupazione, facendo, con l’introduzione di macchinari, lavorare un operaio al posto di due/tre attraverso aumento dei carichi, dei tempi di lavoro;
-affidamento di servizi alle imprese esterne – se non fosse tragico qui ci sarebbe da ridere: sempre più le grandi aziende esternalizzano servizi ma non certo perchè in crisi, ma unicamente per abbattere costi, per avere la stessa produzione senza dover garantire salari, diritti;
-chiusura dell’attività produttiva – salvo poi andare a ritrovare all’estero la stessa ditta.
La soppressione della mansione potrà poi essere usata in grandi stabilimenti, come la Fiat, per licenziare tanti operai e operaie con Ridotte Capacità Lavorative, diventati tali proprio per come sono costretti a lavorare in fabbrica, pagando in salute, invalidità; quindi se passa la modifica dell’art. 18 centinaia di operai e operaie già penalizzati, rischiano pure il posto di lavoro.
E non basta. E’ evidente che la formula, volutamente generica, di“motivi economici”, è fatta apposta per mascherare licenziamenti sindacali, licenziamenti politici, dove di “economico” sta solo nel senso di difesa dei profitti aziendali liberandosi della presenza di “teste calde” che“pretendono” di difendere gli interessi operai.
Infine questa sarà la nuova strada utilizzata dal padronato per effettuare licenziamenti collettivi (che comunque devono rispettare una procedura, dei criteri, ecc.) licenziando per ‘motivi economici’uno ad uno i lavoratori “esuberi”.
Per quanto riguarda gli altri licenziamenti, di fatto gli unici che prevedono il reintegro sono quelli discriminatori. Anche per quelli disciplinari, la riforma stabilisce sia l’indennizzo che il reintegro, e il reintegro solo in tre casi: perché il fatto contestato non sussiste, perché il lavoratore non lo ha commesso, perché il fatto poteva essere punito con una sanzione conservativa. Negli altri casi, anche se il licenziamento disciplinare è illegittimo, c’è solo l’indennizzo.
Ma, nel caso del reintegro, per ricompensare i padroni, il governo ha fatto un taglio a loro favore stabilendo che non devono pagare tutte le mensilità arretrate, ma solo massimo 12. E il taglio non finisce qui, a queste 12 mensilità “andrà sottratto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative”, e (anche) – e in questo c’è tutto un pervicace humus antilavoratore che non ha alcuna base reale – “quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione”. Cioè il lavoratore, la lavoratrice è stata licenziata illegittimamente, ma nel frattempo doveva cercarsi un altro posto di lavoro… ?!...".
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