NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
LAVORO NOTTURNO E GESTIONE DELLA
SALUTE E DELLA SICUREZZA
LE
CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.70
Come
sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche
quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su
tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire
che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a
fare chiarezza sui diritti del lavoratori.
Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di
leggere le mie newsletters, queste consulenze.
Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire
un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi
simili o analoghi.
Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle
persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.
Marco Spezia
QUESITO
Buongiorno
Marco,
la
mia azienda intende introdurre in alcuni reparti il lavoro notturno (dalle 9 di
sera alle 5 di mattina).
In
realtà questo non sarebbe per tutto il periodo dell’anno, ma solo in presenza
di picchi di richieste e quindi necessità di aumentare la produzione.
L’ufficio
del personale e la produzione parlano di un periodo complessivo non superiore
ai 30 giorni nell’arco dell’anno.
Ti
volevo chiedere se abbiamo diritto a misure di sicurezza particolari visto che
faremo questo lavoro notturno, quando in fabbrica mancheranno molti dei servizi
che ci sono a giornata (responsabile sicurezza, addetti primo soccorso e
antincendio).
Ti
ringrazio.
RISPOSTA
Prima di addentrarmi sull’argomento
che mi poni è bene verificare se nel vostro caso si possa parlare di lavoro
notturno, come definito dalla normativa vigente.
A tale proposito ho
riportato in fondo il Punto 18 della Circolare del Ministero del Welfare n.8 del 3 marzo
2005, che trovi integralmente ad esempio al link:
Tale Circolare, interpretativa del Decreto Legislativo
n.66 del 8 aprile 2003 e
successive modifiche e integrazioni , che trovi ad esempio al link:
definisce in maniera molto chiara cosa deve intendersi
per “lavoratore notturno”.
Secondo tali fonti normative, il caso da te citato, in
cui il lavoratore esegue un turno di 8 ore di cui almeno 7 nel periodo notturno
come sopra definito, ma per meno di 80 giorni all’anno non rientra nella
definizione di “lavoratore notturno”.
In ogni caso, anche se i lavoratori coinvolti non
possano essere identificati come “lavoratori
notturni” secondo il D.Lgs.66/03, ciò nondimeno parte della attività della
tua azienda avviene nel “periodo notturno”
come definito dal medesimo Decreto.
Pertanto (ma questa è mia interpretazione) gli
obblighi di cui all’articolo 14 del D.Lgs.66/03, si devono applicare alla tua
azienda nel periodo di lavoro notturno, cioè dalle 24 alle 5, indipendentemente
se i lavoratori possano essere classificati come “lavoratori notturni” secondo le definizioni e i chiarimenti di cui
sopra.
In particolare devono essere adottati gli obblighi di
cui all’articolo 14, comma 2:
“Durante il lavoro notturno il datore di
lavoro garantisce, previa informativa alle rappresentanze sindacali di cui
all’articolo 12 [rappresentanze sindacali in azienda], un livello di
servizi o di mezzi di prevenzione o di protezione adeguato ed equivalente a
quello previsto per il turno diurno”.
Quanto sopra
deve essere garantito sia per l’aspetto routinario delle attività lavorative,
sia, in particolare, per la gestione delle situazioni di emergenza che
dovessero manifestarsi.
Comunque, al
di là della mia interpretazione di quanto disposto dal D.Lgs.66/03, a seguito
delle modifiche organizzative comportate dal passaggio a lavoro notturno, anche
se parziale, il datore di lavoro della tua azienda ha l’obbligo di aggiornare
il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) di cui agli articoli 17, comma 1,
lettera a), 28 e 29 del Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008
(D.Lgs.81/08).
Infatti
l’articolo 29, comma 3, del D.Lgs.81/08 impone (a seguito delle ultime modifiche
operate dalla Legge 161 del 2014:
“La
valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto
delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo
produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute
e sicurezza dei lavoratori [...]. A
seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere
aggiornate. Nelle ipotesi di cui ai periodi che precedono il documento di
valutazione dei rischi deve essere rielaborato, nel rispetto delle modalità di
cui ai commi 1 e 2, nel termine di trenta giorni dalle rispettive causali.
Anche in caso di rielaborazione della valutazione dei rischi, il datore di
lavoro deve comunque dare immediata evidenza, attraverso idonea documentazione,
dell’aggiornamento delle misure di prevenzione e immediata comunicazione al
rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. A tale documentazione accede,
su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.
Pertanto il datore di lavoro (e la responsabilità
è esclusivamente sua, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera a) del
D.Lgs.81/08) deve, prima dell’inizio dei lavori con orario notturno, definire
formalmente misure di prevenzione e protezione specifiche conseguenti al mutato
scenario di rischio e darne comunicazione al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS).
Entro trenta giorni poi dall’inizio del lavoro
notturno, il DVR deve essere rielaborato, comprendendo anche le misure di
prevenzione e protezione sopra specificate.
Ovviamente il RLS deve essere consultato
preventivamente in merito alla modifica del DVR e ha la facoltà di consultare
il DVR stesso, ai sensi dell’articolo 50, comma 1 lettere b) ed e) del
D.Lgs.81/08 rispettivamente.
La modifica del DVR (così come la sua redazione)
deve essere eseguita dal datore di lavoro, con la collaborazione del medico
competente e del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
(articolo 29, comma 1 del D.Lgs.81/08).
In particolare il medico competente dovrà
verificare se le mutate variazioni organizzative non richiedano una modifica al
protocollo di sorveglianza sanitaria, di cui agli articoli 25, comma 1, lettera
b) e 41 del D.Lgs.81/08.
Quindi (ma anche questa è una mia
interpretazione), anche se, ai sensi del D.Lgs.66/03 non è obbligatoria la
sorveglianza sanitaria specifica di verifica e di controllo della idoneità
sanitaria alla mansione dei lavoratori notturni, il medico competente dovrà
comunque esprimere un suo giudizio sulla idoneità sanitaria alla mansione dei
lavoratori, a fronte del mutamento organizzativo.
E sempre seconde me, il medico competente
dovrebbe esprimere in maniera formale la necessità o meno di variazione del
protocollo di sorveglianza sanitaria.
In merito alle altre misure di prevenzione e
protezione, il datore di lavoro deve verificare che il mutamento organizzativo
non comporti un aumento o un’aggiunta di rischio e definire di conseguenza
specifiche misure di prevenzione e protezione.
Per quanto riguarda l’aspetto routinario della
attività lavorativa, il datore di lavoro dovrà valutare l’influenza dei
seguenti aspetti sul profilo di rischio:
-
illuminazione artificiale
dei luoghi di lavoro (punto 1.10 dell’allegato IV del D.Lgs.81/08);
-
parametri microclimatici
(punto 1.9 dell’allegato IV del D.Lgs.81/08);
-
stress lavoro correlato
(articolo 28, comma 1, del D.Lgs.81/08);
-
manutenzione e controllo
delle attrezzature utilizzate (in assenza di una squadra di manutenzione)
(articolo 71, comma 4 del D.Lgs.81/08).
Per quanto riguarda invece le situazioni di emergenza,
il datore di lavoro dovrà valutare l’influenza dei seguenti aspetti sul profilo
di rischio:
-
presenza degli addetti al designare
preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di
prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in
caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e,
comunque, di gestione dell’emergenza (articoli 18, comma 1, lettera b) e 43,
comma 2 del D.Lgs.81/08);
-
possibilità di contattare i
servizi pubblici competenti in materia di primo soccorso, salvataggio, lotta
antincendio e gestione dell’emergenza (articolo 43, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08);
-
possibilità che i lavoratori, in caso di pericolo
grave e immediato che non può essere evitato, possano cessare la loro attività,
o mettersi al sicuro, abbandonando immediatamente il luogo di lavoro (articolo
43, comma 1, lettera d) del D.Lgs.81/08);
-
possibilità per i lavoratori, in caso di pericolo
grave e immediato per la propria sicurezza o per quella di altre persone e
nell’impossibilità di contattare il competente superiore gerarchico, possano
prendere le misure adeguate per evitare le conseguenze di tale pericolo, tenendo
conto delle sue conoscenze e dei mezzi tecnici disponibili (articolo 43, comma
1, lettera e) del D.Lgs.81/08).
*
* * *
CIRCOLARE DEL MINISTERO DEL WELFARE N.8 DEL 3 MARZO
2005
18 “LAVORO NOTTURNO”
Gli articoli dall’11 al 15, in materia di lavoro
notturno, riprendono in larga misura il contenuto del decreto legislativo n.
532 del 1999 con il quale era stata data attuazione alla delega conferita al
Governo dall’art. 17, comma 2 della legge n. 25 del 1999, nonché alla direttiva
93/104.
La normativa di cui ai citati articoli non si
allontana, sostanzialmente, da quella del 1999, ma viene riordinata e
razionalizzata.
DEFINIZIONE DI LAVORO E DI
LAVORATORE NOTTURNO
Il lavoro notturno è quello prestato in un periodo di
almeno sette ore consecutive comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le
cinque del mattino.
Quindi il lavoro notturno è quello svolto tra le 24 e
le 7, ovvero tra le 23 e le 6, ovvero tra le 22 e le 5, indipendentemente dalla
eventuale maggiorazione retributiva prevista dalla contrattazione collettiva.
Il lavoratore notturno è il lavoratore che svolge,
durante il periodo notturno, almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero
impiegato in modo normale; è, inoltre, lavoratore notturno anche colui che
svolge durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro secondo
le norme definite dai contratti collettivi di lavoro. Qualora la disciplina
collettiva nulla stabilisca sul punto è considerato lavoratore notturno
qualsiasi lavoratore che svolga, durante il periodo notturno almeno una parte
del suo tempo di lavoro giornaliero, per un minimo di 80 giorni lavorativi
all’anno.
Quest’ultimo criterio di definizione del lavoratore
notturno non va a sovrapporsi con il primo in quanto prende in considerazione
lo svolgimento di una prestazione lavorativa in parte esercitata durante il
periodo notturno, a prescindere che l’attività in oggetto rientri nell’orario
normale di lavoro. Quindi, deve considerarsi lavoratore notturno anche colui
che non sia impiegato in modo normale durante il periodo notturno ma che,
nell’arco di un anno, svolga almeno 80 giorni di lavoro notturno. Ad esempio se
al lavoratore è richiesto lo svolgimento, per esigenze contingenti, di
prestazioni durante il periodo notturno, tale prestatore è considerato
lavoratore notturno ai fini della disciplina in oggetto se detto periodo, anche
frazionato, abbia durata di almeno 80 giorni lavorativi nell’arco temporale di
un anno solare.
Ove il limite degli 80 giorni venga superato in
ragione del sopravvenire di eventi eccezionali e straordinari (gravi incidenti
agli impianti o nell’esercizio di particolari servizi, calamità naturali), non
potrà configurarsi la fattispecie in esame.
Il suddetto limite minimo è riproporzionato in caso di
lavoro a tempo parziale.
Il lavoratore, per poter svolgere prestazioni di
lavoro notturno, deve esserne ritenuto idoneo mediante accertamento ad opera
delle strutture sanitarie pubbliche competenti o per il tramite del medico
competente.
I lavoratori notturni, la cui idoneità sia già stata
verificata ai sensi della legge previgente, non devono essere sottoposti ad un
nuovo accertamento.
Oltre a questa iniziale valutazione che deve precedere
l’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno, lo stato di salute dei
lavoratori notturni deve essere periodicamente verificato. La periodicità di
tali controlli è individuata dal legislatore in almeno due anni. I controlli
potranno essere più frequenti sia nel caso in cui il medico competente abbia
prescritto una periodicità inferiore sia nel caso in cui siano mutati i rischi
relativi alle lavorazioni cui il lavoratore è addetto.
Tali controlli devono essere effettuati dalle
competenti strutture sanitarie pubbliche, o dal medico competente di cui
all’articolo 17 del decreto legislativo n. 626 del 1994. In ogni caso tali
controlli devono avvenire a cura e spese del datore di lavoro.
LIMITAZIONI AL LAVORO
NOTTURNO
L’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno è
obbligatoria per i lavoratori idonei fatto salvi i casi di divieto o di
esclusione dall’obbligo di eseguire la prestazione.
È vietato adibire al lavoro dalle 24 alle 6 le donne
in gestazione dall’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di
un anno di età del bambino o, comunque, dal momento in cui il datore di lavoro
ha avuto conoscenza della fattispecie generatrice del divieto.
Alcuni lavoratori hanno facoltà di non prestare lavoro
notturno dandone comunicazione, in forma scritta, al datore di lavoro entro 24
ore precedenti al previsto inizio della prestazione. Il datore ha facoltà di
accettare la comunicazione del rifiuto avvenuta in un termine inferiore rispetto
a quello previsto.
L’individuazione dei requisiti dei lavoratori che
determinano l’insorgere della facoltà sono stabiliti dai contratti collettivi.
Il decreto prevede, inoltre, che abbiano facoltà di rifiutarsi di prestare
lavoro notturno:
-
la lavoratrice subordinata, madre di un figlio di età
inferiore di tre anni o, qualora la stessa non abbia esercitato la facoltà di
rifiutare l’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno;
-
il lavoratore padre convivente che sia anch’esso
lavoratore subordinato;
-
l’unico genitore affidatario e convivente di un minore
di età inferiore a 12 anni;
-
coloro che abbiano a loro carico un soggetto disabile
ai sensi della legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i
diritti delle persone handicappate.
OBBLIGHI DI COMUNICAZIONE
Il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicare per
iscritto, annualmente, l’esecuzione di lavoro notturno continuativo oppure
compreso in turni periodici regolari.
La comunicazione deve essere effettuata ai servizi
ispettivi della DPL competente e alle organizzazioni sindacali titolari del
diritto ad essere consultate al fine dell’introduzione del lavoro notturno.
Se il contratto collettivo applicato in azienda
disciplina in modo specifico l’esecuzione di lavoro notturno continuativo
oppure compreso in turni periodici regolari, non sorge l’obbligo di comunicazione.
DURATA DELLA PRESTAZIONE
Ai sensi dell’articolo 13 del D.Lgs. n. 66/2003, per
tutti i lavoratori notturni, l’orario non può superare le 8 ore, in media,
nell’arco di 24 ore calcolate dal momento di inizio dell’esecuzione della
prestazione lavorativa.
Tale limite costituisce, data la sua formulazione, un
media fra ore lavorate e non lavorate pari ad 1/3 (8/24) che, in mancanza di
una esplicita previsione normativa, può essere applicato su di un periodo di
riferimento pari alla settimana lavorativa – salva l’individuazione da parte
dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo più ampio sul quale
calcolare detto limite – considerato che il Legislatore ha in più occasioni
adoperato l’arco settimanale quale parametro per la quantificazione della
durata della prestazione (vedi ad esempio gli articoli 3 e 4 del D.Lgs. n.
66/2003 in materia di orario normale di lavoro e orario medio).
Per il settore della panificazione industriale la
media su cui calcolare il limite di durata della prestazione lavorativa è
riferito, comunque, alla settimana lavorativa e, pertanto, la norma si
configura quale limite alla contrattazione collettiva di estendere
ulteriormente il periodo di riferimento sul quale calcolare l’orario di lavoro.
Inoltre, conformemente alla direttiva 93/104/CE, per
alcune lavorazioni che comportano rischi particolari o rilevanti tensioni
fisiche o mentali, il limite orario è di otto ore nel corso di ogni periodo di
24 ore. In questo caso il limite è fisso e non va considerato come media.
L’individuazione di tali lavorazioni è rimessa ad un
decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali – di concerto col
Ministro per la funzione pubblica per quanto riguarda, in modo non esclusivo, i
pubblici dipendenti – previa consultazione delle organizzazioni sindacali
nazionali dei lavoratori e dei datori di lavoro.
Per le materie di esclusivo interesse dei pubblici
dipendenti il decreto è adottato dal ministro della funzione pubblica di concerto
col Ministro del lavoro e delle politiche sociali.
La durata massima della settimana lavorativa non
potrà, quindi, superare le 48 ore comprensive delle ore di straordinario,
tenendo presente che queste ultime non potranno essere superiori, in assenza di
determinazioni collettive, di 250 ore annue.
Nel computo della media su cui calcolare il limite
delle 8 ore non si deve tener conto del periodo di riposo minimo settimanale
quando questo ricade nel periodo di riferimento stabilito dai contratti collettivi.
TRASFERIMENTO AL LAVORO
DIURNO
Qualora sopraggiungano condizioni di salute che
comportino l’inidoneità alla prestazione di lavoro notturno il lavoratore può
essere trasferito al lavoro diurno.
La sopraggiunta inidoneità deve essere accertata dalle
competenti strutture sanitarie pubbliche o dal medico competente.
Il decreto dispone che il trasferimento al lavoro
notturno è subordinato alla esistenza e alla disponibilità di un posto di
lavoro la cui esecuzione sia relativa a mansioni equivalenti a quelle svolte.
In mancanza di tali condizioni il datore di lavoro ha facoltà di risolvere il
rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo.
Alla contrattazione collettiva è attribuita la facoltà
di definire le modalità di applicazione delle disposizioni illustrate in
materia di trasferimento al lavoro diurno e di individuare le soluzioni per le
ipotesi in cui manchino le condizioni per l’assegnazione al lavoro diurno del
prestatore di lavoro notturno.
Quindi, mentre il decreto legislativo n. 532 del 1999
stabiliva che il trasferimento al lavoro diurno o ad altra mansione era
automatico, con la nuova disciplina tale trasferimento è vincolato alla
disponibilità in azienda, secondo le modalità stabilite dalla contrattazione
collettiva che potrà ricercare anche soluzioni alternative in caso di
inesistenza di altro posto di lavoro disponibile.
ATTENZIONE ALLE
VISITE E AI GIUDIZI DEL MEDICO COMPETENTE
Da
FILCAMS CGIL Lombardia
Si
rivolgono sempre più spesso a noi, lavoratori, che a seguito di visita dal
Medico competente, ci segnalano di aver ricevuto dallo stesso l’invito a
continuare la malattia in quanto a parere del Medico competente sono inidonei a
riprendere la propria attiva lavorativa.
Questo
avviene nella gran parte dei casi a voce e in altri per iscritto con diciture
tutt’altro che inattaccabili. Spesso i lavoratori accettano quanto loro viene
detto o scritto senza valutarne a pieno le conseguenze.
Per
questo pensiamo utile ricordare a tutti quali le norme e la procedura da
seguire:
-
il
lavoratore non si può rifiutare di sostenere le visite mediche disposte dal
Datore di Lavoro (articolo 20, comma 2, lettera i) del D.Lgs.81/08);
-
i
costi sono a totale carico del datore di lavoro (articolo 15, comma 2 del
Decreto).
-
le
visite siano esse preventive all’applicazione, periodiche legate al programma
di sorveglianza sanitaria, richieste dal lavoratore o conseguenti ad assenze
superiori a 60 giorni non devono essere fatte quando il lavoratore è in
malattia;
-
dopo
la visita il Medico competente deve redigere il proprio giudizio che può essere
d’idoneità, idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni e
limitazioni, inidoneità temporanea, inidoneità permanente (articolo 41, comma 5
del Decreto).
-
in
caso d’inidoneità temporanea vanno indicati i limiti temporali. (articolo 41,
comma 7 del Decreto);
-
qualora il giudizio del Medico competente preveda
un’inidoneità alla mansione specifica, il Datore di Lavoro deve adibire il
lavoratore (se possibile) a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori, garantendo
il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza (articolo 42 del
Decreto).
Chiaro
è che l’invito verbale a mettersi in malattia non rientra nelle norme citate.
Il
Medico competente può ritenere che un dipendente sano (se è stato in malattia o
in infortunio ed è stato giudicato idoneo a riprendere il lavoro dal medico di
base) sia inidoneo a svolgere questa o quella mansione in funzione dei rischi a
cui è sottoposto.
Ma
nel caso il Medico competente giudichi un dipendente che svolge un’attività
specifica questo non significa che sia inidoneo a svolgere tutte le mansioni.
Proprio
perché il Medico Competente, ha partecipato alla valutazione del rischio e ha
visitato gli ambienti di lavoro, potrebbe tranquillamente indicare eventuali
mansioni cui il dipendente può essere adibito nell’ambito della propria
azienda.
Un
paio di esempi.
Un
lavoratore della Grande Distribuzione Organizzata addetto al rifornimento, a
causa di problemi ai piedi, non può per un certo periodo utilizzare le
calzature antinfortunistiche previste per la propria mansione. Questo non
significa automaticamente che non possa essere trovata una collocazione
lavorativa all’interno dell’azienda ove le calzature antinfortunistiche non
sono obbligatorie ove applicarlo, ad esempio alla cassa.
Una
commessa della moda per problemi al rachide non può stare in piedi
continuativamente per otto ore, non significa automaticamente che possa essere
giudicata inidonea alla mansione. E’ possibile, infatti, definire pause di
riposo o di altra attività non in posizione eretta.
Chi
accetta supinamente indicazioni verbali a rimettersi in malattia, o un responso
scritto d’inidoneità lavorativa di dubbia validità senza presentare ricorso
avverso entro trenta giorni dal ricevimento all’ASL di competenza (articolo 41,
comma 9 del Decreto) rischia nel peggiore dei casi di ritrovarsi (come già
capitato) una lettera di licenziamento per superamento dei periodi di comporto.
L’AMIANTO PRESENTE
NELL’80% DELLE RISTRUTTURAZIONI E DEMOLIZIONI
Da:
PuntoSicuro
15
dicembre 2015
di
Tiziano Menduto
L’Italia è un paese pieno di amianto, con bonifiche insufficienti e un’insufficiente attenzione e tutela della popolazione e dei lavoratori. Cosa si dovrebbe fare? Ne parliamo con Stefano Farina di AIFOS (Associazione Italiana Formatori e Operatori della Sicurezza) e Paolo Varesi della Commissione Consultiva.
Che
la presenza nel nostro paese di fibre d’amianto e la necessità di idonee
bonifiche siano ormai da considerare una emergenza nazionale, è emerso anche
dalla recente “Assemblea Nazionale sull’Amianto” che si è tenuta il 30 novembre
al Senato e che ha parlato anche concretamente della possibilità di un futuro
Testo Unico. Un Testo Unico in grado di dare organicità alla materia,
raccordando le oltre 400 norme regionali e nazionali sull’amianto, e offrire
tutela e aiuto ai familiari delle vittime, come richiesto anche da Camilla
Fabbri, presidente della Commissione di Inchiesta sugli infortuni sul lavoro
del Senato.
E
tutto questo in un paese, come il nostro, in cui l’amianto è stato
massicciamente utilizzato. Un paese, come ha ricordato all’Assemblea il
presidente dell’INPS Tito Boeri, in cui si procede troppo lentamente con le
bonifiche. Infatti riguardo alla quantità di amianto, “sul territorio italiano
sono ancora presenti 32 milioni di tonnellate. A questo ritmo di bonifica,
occorrerebbero ancora 85 anni, un’infinità...”.
Del
rinnovato impegno a liberare l’Italia dall’amianto e ad aumentare l’attenzione
verso questo pericolosissimo materiale, vogliamo parlare anche noi di
PuntoSicuro pubblicando una recente intervista sul tema amianto che abbiamo
realizzato durante la manifestazione Ambiente Lavoro che si è tenuta a Bologna
nel mese di ottobre.
Con
i nostri microfoni abbiamo raccolto le esperienze e le indicazioni di Stefano
Farina (coordinatore della sicurezza e responsabile del settore costruzioni di
AIFOS) e Paolo Varesi (componente della Commissione Consultiva, ex articolo 6
del D.Lgs.81/08) a margine del convegno, organizzato dall’associazione ANMIL
(Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro), dal titolo “Rischio
amianto: il quadro informativo aggiornato e gli strumenti pratici per la
migliore assistenza e tutela” (Bologna, 14 ottobre 2015). I due intervistati
erano relatori del convegno sul tema specifico della “Valutazione della
presenza di amianto nei cantieri di ristrutturazione e in agricoltura”.
A
23 anni dalla Legge n. 257 del 27 marzo 1992, contenente le “Norme relative
alla cessazione dell’impiego dell’amianto”, chiediamo innanzitutto ai due
relatori quale sia la dimensione del problema amianto in edilizia e agricoltura.
Accade spesso in questi comparti che ci si trovi ad avere a che fare con
materiale in amianto?
Rimandando
per le risposte alla trascrizione dell’intervista, che ci ricorda come nei
cantieri di ristrutturazione o demolizione di edifici “circa nell’80% dei casi
si riscontra la presenza di amianto” e dell’abitudine a utilizzare l’amianto
nel mondo agricolo, nei palazzi pubblici e nelle tubazioni, chiediamo ai due
relatori anche informazioni più dettagliate sulla tutela dei lavoratori.
In
edilizia quando si progetta una ristrutturazione si pensa all’amianto?
E
il manutentore cosa deve fare se si trova di fronte a materiali contenenti
amianto?
Quali
sono invece le procedure da seguire laddove si sa che è presente amianto?
Non
possiamo poi non soffermarci a quanto fatto in questi anni dalla Commissione
Consultiva e sulle necessità odierne a livello procedurale e normativo.
In
Commissione Consultiva si sta lavorando per migliorare la prevenzione del
fenomeno amianto?
In
questi anni è cambiato qualcosa dal punto di vista normativo e procedurale
riguardo alla sicurezza per esposti all’amianto?
Quali
sono le problematiche che dovrebbe affrontare oggi il legislatore?
Chi
sono i lavoratori più esposti al rischio amianto?
L’intervista
si conclude elencando le iniziative più urgenti.
Ad
esempio, ricorda Paolo Varesi, è necessario “instaurare anche un po’ di paura”.
Stiamo parlando di una malattia, quella correlata alla presenza di amianto,
“che ha una latenza lunghissima, addirittura di 30/40 anni, e che non lascia
scampo. Si muore, non c’è speranza di vita. E questa malattia colpisce spesso
persone che hanno avuto una attività professionale che le ha messe in contatto
con l’amianto, ma anche persone che, nel 20% dei casi, non riescono a spiegare
come sia avvenuto il contatto con la fibra...”.
Ci
vorrebbe dunque “una giornata nazionale da dedicare al’amianto, un momento di
riflessione collettiva che non coinvolga soltanto gli addetti ai lavori”. E,
ricorda infine anche Stefano Farina, necessita anche una “diffusione capillare
della formazione”.
Come
sempre diamo ai nostri lettori la possibilità di ascoltare integralmente
l’intervista, al link:
e/o
di leggerne una parziale trascrizione.
ARTICOLO
E INTERVISTA A CURA DI TIZIANO MENDUTO
Cominciamo
a cercare di comprendere la dimensione del problema della presenza di amianto
in edilizia e agricoltura. Accade spesso in questi comparti che ci si trovi ad
avere a che fare con materiale in amianto?
Stefano
Farina
Secondo
quella che è la mia esperienza, nei cantieri di ristrutturazione o demolizione
di edifici circa nell’80% dei casi abbiamo riscontrato la presenza di amianto.
Una quantità molto elevata che non sempre è visibile. Tante volte ci si
sofferma alle verifica delle coperture, mentre in realtà all’interno di
strutture o finiture troviamo la presenza di queste fibre, chiamate anche “fibre
killer”.
Anche
in agricoltura specialmente in fase di smontaggio di capannoni o annessi
agricoli si rileva la presenza di amianto. E molte volte questo amianto,
soprattutto se in lastre, viene riutilizzato perché non c’è la conoscenza della
sua pericolosità. La presenza di amianto si riscontra anche nel sottosuolo, in
tubazioni di tipo irriguo o di acquedotti e fognature...
Nella
Commissione Consultiva questa dimensione del problema è avvertita? Si sta
lavorando per migliorare la prevenzione del fenomeno amianto?
Paolo
Varesi
C’è
una grande attenzione istituzionale. La Commissione già nel precedente mandato aveva istituito
un apposito Comitato Tecnico che aveva approfondito vari aspetti in
collaborazione con il Ministero della Salute e con l’INAIL. La nuova
Commissione ha già previsto la permanenza di questo comitato.
Io
integrerei quanto già detto da Farina, ricordando che il nostro paese è stato
il più grande utilizzatore di fibra d’amianto. Ne sono presenti sul territorio
milioni di tonnellate, in modo molto diffuso, perché l’utilizzo di questa fibra
veniva raccomandata. Ci sono pubblicità in cui si raccomandava l’uso di questo
materiale per le sue caratteristiche a livello industriale per l’isolamento
termico.
Stefano
Farina
E
per la protezione dei lavoratori...
Paolo
Varesi
Per
cui non a caso in alcuni ambiti, come in agricoltura ed edilizia, oggi è
difficile censire completamente la presenza di questo materiale.
La
mia generazione è nata con l’Eternit che veniva utilizzato anche per realizzare
la cuccia del cane. Veniva utilizzato con molta facilità, soprattutto in
campagna. E viene ancora utilizzato. Ci sono regioni in cui l’Eternit è usato
dalle famiglie per proteggere particolari formaggi che vengono realizzati in
fossa, oppure per proteggere gli animali da cortile.
Questo
è un tema che non può restare di interesse istituzionale o da addetti ai lavori
ma deve permeare la popolazione attraverso tutti gli strumenti di
comunicazione. Ad esempio attraverso le scuole che spesso vengono investite da
questo problema e che spesso sono oggetto di attenzione perché moltissimi
edifici pubblici, è stato ricordato anche recentemente dall’ex Ministro
Balduzzi, sono caratterizzati dalla presenza di fibre d’amianto.
Proprio
per la caratteristica del nostro paese e per l’uso che questo paese ha fatto
dell’amianto noi abbiamo il problema di individuare bene tutti i siti, di fare
una buona informazione, perché le persone si difendano, e soprattutto di
instaurare anche un po’ di paura. E lo dico senza creare allarmismo. Il
problema è che noi tema siamo abituati a vivere sulla cronaca, a prevenire
l’infortunio, mentre qui stiamo parlando di una malattia che ha una latenza
lunghissima, addirittura di 30/40 anni, e che non lascia scampo. Si muore, non
c’è speranza di vita. E questa malattia colpisce spesso persone che hanno avuto
una attività professionale che le ha messe in contatto con l’amianto, ma anche
persone che, nel 20% dei casi, non riescono a spiegare come sia avvenuto il
contatto con la fibra.
In
edilizia quando, ad esempio, si pianifica, si progetta una ristrutturazione si
pensa all’amianto?
Stefano
Farina
Sicuramente
si dovrebbe pensare all’amianto facendo campionamenti, sopralluoghi e vedendo,
locale per locale, se c’è presenza di amianto.
Molte
volte invece questo controllo viene fatto solo a livello visivo, per cui si
guardano le superfici in cui è quasi assodato ci sia la presenza di amianto
mentre non si vanno ad approfondire altri aspetti.
E
sappiamo che l’amianto può trovarsi in realtà anche nelle contropareti,
all’interno degli sfiati e anche dietro a stufe. C’erano infatti i cartonati di
amianto che venivano utilizzati dietro stufe e termosifoni per isolare la
parete.
Un
altro problema è relativo alle caldaie. Sappiamo che molte guarnizioni e
rivestimenti delle caldaie contengono amianto...
Per
cui parliamo anche di rischi nelle manutenzioni...
Stefano
Farina
Parliamo
di manutenzioni e anche soprattutto di situazioni dove magari una caldaia è
stata dismessa, ma è stata lasciata in ambiente e la fibra d’amianto rimane. E
quando si fa la manutenzione successiva, il manutentore è esposto all’amianto.
Parliamo
anche di rivestimenti di tubazioni (idriche, riscaldamento, ecc.). Anche in
questo caso mi è capitato di vedere isolazioni completamente danneggiate, con
perdita di fibra, anche in ambienti pubblici. E il manutentore è totalmente
esposto e non sempre è a conoscenza di questi aspetti.
E’
cambiato qualcosa in questi anni dal punto di vista normativo e procedurale
riguardo alla sicurezza per esposti all’amianto? Quali sono le problematiche
che dovrebbe affrontare oggi il legislatore alla luce di quanto ci avete detto?
Quali sono oggi i lavoratori più a rischio riguardo all’amianto?
Paolo
Varesi
A
volte ci dimentichiamo che i manutentori spesso sono lavoratori stranieri che
arrivano da paesi in cui non c’è questa sensibilità, dove spesso non c’è
neanche una normativa che tuteli i lavoratori dall’esposizione all’amianto, e
che si trovano a fare lavori (cosiddetti in economia) con un datore di lavoro
che chiede la risoluzione veloce del problema manutentivo.
Per
questo io dico che si devono fare grandi campagne molto aggressive per
sensibilizzare le persone e anche per sensibilizzare i datori di lavoro che
spesso non sono grandi imprese, dove comunque il sistema tiene, ci sono RSPP
qualificati, dove c’è un sistema di collaborazione che consente questa
tipologia di interventi.
Noi
dobbiamo parlare della quotidianità, dell’acquirente di un appartamento di un
negozio, di un appartamento, di uno stabile da ristrutturare, che spesso si
rivolge a lavoratori autonomi, a piccole ditte di cittadini stranieri che fanno
un lavoro in economia. Stiamo parlando di un lavoro che si fa senza orario,
velocemente, senza guardare la tutela dei lavoratori. Questi sono i futuri
esposti all’amianto, non sono i lavoratori che hanno la fortuna di lavorare in
una grande azienda o in un grande progetto.
Per
concludere cosa servirebbe dunque oggi in Italia a livello normativo o a
livello di campagne di prevenzione?
Paolo
Varesi
Ci
vorrebbe un’attenzione politica e mediatica innanzitutto. Ci vorrebbe una
giornata nazionale da dedicare all’amianto, un momento di riflessione
collettiva che non coinvolga soltanto gli addetti ai lavori, ma anche tutte le
associazioni, le comunità, le parrocchie, tutti quegli strumenti che possono
aiutare a fare decollare questa formazione culturale.
Stefano
Farina
E’
anche necessario operare per una diffusione capillare della formazione. In
questi anni tanta formazione è stata fatta, ma probabilmente a livello di
amianto e di conoscenza della presenza di amianto non si è sviluppato, ad
esempio in edilizia e agricoltura, un sistema di passaggio di informazioni.
Molte volte capita di venire consultati da colleghi e imprese dopo che
l’amianto è stato trovato all’interno di un edificio con perdita di fibre.
Dobbiamo
far capire prima come comportarsi e non arrivare dopo, perché dopo è tardi.
IL NUOVO CODICE
PREVENZIONE INCENDI: IL SISTEMA DI ESODO
Da:
PuntoSicuro
15
dicembre 2015
Il
nuovo codice di prevenzione incendi riporta precise indicazioni relative al
sistema di esodo. Procedure ammesse, vie di esodo, luoghi sicuri, scale,
illuminazione di sicurezza, segnaletica d’esodo ed orientamento.
Le
finalità del sistema di esodo sono quelle di “assicurare che gli occupanti
dell’attività possano raggiungere o permanere in un luogo sicuro, a prescindere
dall’intervento dei Vigili del Fuoco”.
Inizia
con queste parole il capitolo dedicato al “sistema d’esodo” e contenuto nel
cosiddetto “Codice di prevenzione Incendi” relativo al Decreto del Ministero
dell’Interno del 3 agosto 2015 recante “Approvazione di norme tecniche di
prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del Decreto Legislativo 8 marzo
2006, n. 139”,
Codice di prevenzione che è entrato in vigore il 18 novembre 2015.
Riguardo
a questo aspetto così importante per l’efficacia delle strategie di prevenzione
antincendio nei luoghi di lavoro, ricordiamo innanzitutto che secondo il Codice
le procedure ammesse per l’esodo sono tra le seguenti:
-
esodo
simultaneo: modalità di esodo che prevede lo spostamento contemporaneo degli occupanti
fino a luogo sicuro (l’attivazione della procedura di esodo segue
immediatamente la rivelazione dell’incendio oppure è differita dopo verifica da
parte degli occupanti dell’effettivo innesco dell’incendio);
-
esodo
per fasi: modalità di esodo di una struttura organizzata con più compartimenti,
in cui l’evacuazione degli occupanti fino a luogo sicuro avviene in successione
dopo l’evacuazione del compartimento di primo innesco; si attua con l’ausilio
di misure antincendio di protezione attiva, passiva e gestionali (ad esempio
l’esodo per fasi si attua in edifici di grande altezza, ospedali, multisale,
centri commerciali, grandi uffici, ecc.);
-
esodo
orizzontale progressivo: modalità di esodo che prevede lo spostamento degli occupanti
dal compartimento di primo innesco in un compartimento adiacente capace di contenerli
e proteggerli fino a quando l’incendio non sia estinto o fino a che non si
proceda a una successiva evacuazione verso luogo sicuro (l’esodo orizzontale
progressivo si attua ad esempio nelle strutture ospedaliere);
-
protezione
sul posto: modalità di esodo che prevede la protezione degli occupanti nel compartimento
in cui si trovano.
Il
documento “Norme tecniche di prevenzione incendi”, allegato al Decreto del 3
agosto 2015, riporta nel capitolo sull’esodo varie indicazioni relative ai
livelli di prestazione, ai criteri di attribuzione dei livelli di prestazione e
alle possibili soluzioni progettuali.
Noi
ci soffermiamo invece su alcune delle caratteristiche generali del sistema
d’esodo.
Ad
esempio riguardo al “luogo sicuro” (luogo esterno alle costruzioni nel quale
non esiste pericolo per gli occupanti che vi stazionano o vi transitano in caso
di incendio) si indica che ogni luogo sicuro deve essere idoneo a contenere gli
occupanti che lo impiegano durante l’esodo. La superficie lorda del luogo
sicuro è calcolabile tenendo in considerazione le superfici minime per
occupante riportate in una tabella contenuta nel codice.
Inoltre
si considerano luogo sicuro per l’attività almeno le seguenti soluzioni:
-
la
pubblica via,
-
ogni
altro spazio scoperto esterno alla costruzione sicuramente collegato alla
pubblica via in ogni condizione d’incendio, che non sia investito dai prodotti
della combustione, in cui il massimo irraggiamento dovuto all’incendio sugli
occupanti sia limitato a 2,5 kW/m2, in cui non vi sia pericolo di crolli (nel
Codice è presente una metodologia per calcolare anche la distanza di
separazione che limita l’irraggiamento sugli occupanti e a meno di valutazioni
più approfondite da parte del progettista, la distanza minima per evitare il
pericolo di crollo dell’opera da costruzione è pari alla sua massima altezza).
Infine
il luogo sicuro deve essere contrassegnato con cartello UNI EN ISO 7010:2015 o
equivalente.
Veniamo
invece al “luogo sicuro temporaneo” (luogo interno o esterno alle costruzioni
nel quale non esiste pericolo imminente per gli occupanti che vi stazionario o
vi transitano in caso di incendio: da ogni luogo sicuro temporaneo gli
occupanti devono poter raggiungere un luogo sicuro). In particolare si
considera luogo sicuro temporaneo per un’attività almeno un compartimento
adiacente a quelli da cui avviene l’esodo o uno spazio scoperto.
Veniamo
alle vie d’esodo.
Riportiamo
alcune indicazioni:
-
l’altezza
minima delle vie di esodo è pari a 2
m; sono ammesse altezze inferiori per brevi tratti
segnalati lungo le vie d’esodo da locali ove vi sia esclusiva presenza
occasionale e di breve durata di personale addetto (ad esempio locali
impianti);
-
non
devono essere considerati ai fini del calcolo delle vie d’esodo i seguenti
percorsi: scale portatili e alla marinara; ascensori; rampe con pendenza
superiore all’8%; scale e marciapiedi mobili non progettati secondo le
indicazioni presenti nel paragrafo 5.4.5.4 del Codice;
-
è
ammesso l’uso di scale alla marinara a servizio di locali ove vi sia esclusiva
presenza occasionale e di breve durata di personale addetto (ad esempio locali
impianti);
-
per
quanto possibile, il sistema d’esodo deve essere concepito tenendo conto che,
in caso di emergenza, gli occupanti che non hanno familiarità con l’attività
tendono solitamente a uscire percorrendo in senso inverso la via che hanno
impiegato per entrare;
-
tutte
le superfici di calpestio delle vie d’esodo devono essere non sdrucciolevoli;
-
il
fumo ed il calore dell’incendio smaltiti o evacuati dall’attività non devono
interferire con il sistema delle vie d’esodo.
Il
Codice si sofferma poi su vari altri aspetti che riguardano il sistema d’esodo:
via d’esodo protetta, via d’esodo a prova di fumo, via d’esodo esterna, via
d’esodo aperta, rampe d’esodo, porte lungo le vie di esodo, uscite finali,
posti a sedere fissi e mobili, affollamento, scale, segnaletica, illuminazione.
Ci
soffermiamo sulle “scale d’esodo”:
-
nelle
attività con massima quota dei piani superiore a 54 m almeno una scala d’esodo
deve addurre anche al piano di copertura dell’edificio, qualora praticabile;
-
quando
un pavimento inclinato immette in una scala d’esodo, la pendenza deve interrompersi
almeno ad una distanza dalla scala pari alla larghezza della stessa;
-
le
scale d’esodo devono essere dotate di corrimano laterale;
-
le
scale d’esodo di larghezza maggiore di 2.400 mm dovrebbero essere dotate di corrimano
centrale;
-
le
scale d’esodo devono consentire l’esodo senza inciampo degli occupanti, a tal
fine i gradini devono avere alzata e pedata costanti e le scale devono essere
interrotte da pianerottoli di sosta;
-
dovrebbero
essere evitate scale d’esodo composte da un solo gradino in quanto fonte
d’inciampo; se il gradino singolo non è eliminabile, deve essere opportunamente
segnalato.
Nel
documento sono anche riportate le condizioni per considerare scale e
marciapiedi mobili ai fini del calcolo delle vie di esodo.
Riportiamo
inoltre alcune indicazioni generali relative alla segnaletica d’esodo ed
orientamento.
Il
sistema d’esodo (ad esempio le vie d’esodo, i luoghi sicuri, gli spazi calmi,
ecc.) deve essere facilmente riconosciuto e impiegato dagli occupanti grazie ad
apposita segnaletica di sicurezza. Ciò può essere conseguito anche con
ulteriori indicatori ambientali quali: accesso visivo e tattile alle
informazioni; grado di differenziazione architettonica; uso di segnaletica per
la corretta identificazione direzionale, tipo UNI EN ISO 7010:2015 o
equivalente; ordinata configurazione geometrica dell’edificio, anche in
relazione ad allestimenti mobili o temporanei.
Inoltre
la segnaletica d’esodo deve essere adeguata alla complessità dell’attività e
consentire l’orientamento degli occupanti (wayfinding).
E
a tal fine:
-
devono
essere installate in ogni piano dell’attività apposite planimetrie
semplificate, correttamente orientate, in cui sia indicata la posizione del
lettore (ad esempio “Voi siete qui”) e il layout del sistema d’esodo (ad esempio
vie d’esodo, spazi calmi, luoghi sicuri, ecc.); a tal proposito possono essere
applicate le indicazioni contenute nella norma ISO 23601 “Safety identification
- Escape and evacuation plan sign”;
-
possono
essere applicate le indicazioni supplementari contenute nella norma ISO 16069
“Graphical symbols - Safety signs - Safety way guidance systems”.
E
riguardo all’illuminazione di sicurezza deve essere installato un impianto di
illuminazione di sicurezza lungo tutto il sistema delle vie d’esodo fino a luogo
sicuro qualora l’illuminazione possa risultare anche occasionalmente
insufficiente a garantire l’esodo degli occupanti.
Tale
impianto deve assicurare un livello di illuminamento sufficiente a garantire
l’esodo degli occupanti, conformemente alle indicazioni della norma UNI EN
1838:2013 o equivalente.
Il
documento “Norme tecniche di prevenzione incendi”, allegato al Decreto del 3
agosto 2015, riporta infine anche precise indicazioni relative al calcolo delle
vie d’esodo, alle misure antincendio minime per l’esodo e alla progettazione
dell’esodo, anche con riferimento alla presenza di occupanti con disabilità.
Concludiamo
questa breve presentazione del capitolo relativo all’Esodo (S.4), contenuto nel
nuovo Codice di prevenzione Incendi, riportandone l’indice:
-
premessa;
-
livelli
di prestazione;
-
criteri
di attribuzione dei livelli di prestazione;
-
soluzioni
progettuali;
-
caratteristiche
generali del sistema d’esodo;
-
dati
di ingresso per la progettazione del sistema d’esodo;
-
misure
antincendio minime per l’esodo;
-
progettazione
dell’esodo;
-
esodo
in presenza di occupanti con disabilità;
-
misure
antincendio aggiuntive;
-
riferimenti.
Il
Decreto del Ministero dell’Interno 3 agosto 2015 “Approvazione di norme
tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del Decreto
Legislativo 8 marzo 2006, n. 139”
è consultabile all’indirizzo:
DIFFERENZE DI
GENERE: RISCHI PSICOSOCIALI, STRESS E SUICIDI
Da:
PuntoSicuro
21
dicembre 2015
di
Tiziano Menduto
Informazioni
sulle differenze di genere nel mondo del lavoro con particolare riferimento ai
rischi psicosociali e allo stress lavoro correlato. I fattori di rischio, le
mansioni femminili e le differenze sull’incidenza di suicidio tra donne e
uomini.
Diversi
articoli di PuntoSicuro in questi ultimi anni hanno sottolineato come le
differenze di genere si associno spesso nel mondo del lavoro a una
distribuzione diversa, per tipologia e incidenza, delle patologie di origine
professionale.
E
questa differente distribuzione è attribuibile sia ad una ineguale esposizione
ai rischi per la salute che ad alcune specificità dei due sessi, ad esempio a
peculiarità di tossico-cinetica e tossico-dinamica, differenti suscettibilità
di organi bersaglio e specificità legate al sistema riproduttivo e ormonale che
possono predisporre a effetti biologici diversi, anche a parità di esposizione.
Ad
affermarlo è il documento INAIL “Salute e sicurezza sul lavoro, una questione
anche di genere. Rischi lavorativi. Un approccio multidisciplinare” che segue
la pubblicazione di altri tre volumi INAIL sul tema delle differenze correlate
all’appartenenza al genere maschile o femminile.
E
se in passati articoli di presentazione del documento, PuntoSicuro ha
evidenziato diverse differenze di genere correlate, ad esempio, ai rischi
chimici e biologici e ai rischi ergonomici e organizzativi, si possono notare
sensibili differenze anche riguardo ai rischi psicosociali?
Ricordiamo
che i rischi psicosociali sono (come indica il documento INAIL e come da
definizione di Cox e Griffiths del 1995, ripresa nel 2000 dall’Agenzia europea
per la sicurezza e la salute sul lavoro) “gli aspetti di progettazione,
organizzazione e gestione del lavoro e i loro contesti ambientali e sociali
che, potenzialmente, possono dar luogo a danni di natura psicologica, sociale o
fisica”. E in particolare “lo stress lavoro correlato è un insieme di reazioni
fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste in ambito
lavorativo non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del
lavoratore” (NIOSH, 1999).
Per
capire se ci siano specificità e differenze di genere riguardo ai rischi
psicosociali, bisogna innanzitutto elencare i principali fattori di rischio in
ambito lavorativo suddivisi per contenuto e contesto di lavoro, per i quali
esiste un’ampia evidenza scientifica che rappresentino un potenziale di stress
e di danno per la salute: l’elevato carico di lavoro, una scarsa autonomia, un
basso supporto sociale da colleghi e superiori, instabilità e insicurezza del
lavoro, alcune caratteristiche dell’orario di lavoro e una bassa remunerazione.
Se
fino a oggi gli studi “non hanno evidenziato differenze tra uomini e donne
nelle cause dello stress lavoro correlato” (Miller e altri, 2000), è importante
sottolineare che molti di questi fattori di rischio indicati sono presenti
nelle mansioni svolte generalmente da donne: mancanza di controllo sul proprio
lavoro, posizione nella gerarchia organizzativa, gap salariale, compiti ripetitivi,
instabilità e insicurezza sul lavoro, esigenze contrastanti tra lavoro e vita
privata, discriminazione, molestie sessuali.
Ad
esempio la difficoltà nel conciliare lavoro e vita familiare è “considerato un
fattore in grado di aumentare nelle donne il rischio di disturbi psicologici da
stress quali stanchezza cronica, nervosismo, ansia, disturbi della sfera
sessuale e depressione” (Wedderburn, 2000).
Inoltre
“i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità così come quelli derivanti da
statistiche condotte in Italia, dimostrano come la depressione e i disturbi
d’ansia siano più diffusi tra le donne rispetto agli uomini e che questa
maggiore prevalenza femminile può essere dovuta a fattori ormonali (basti
pensare alla depressioni post-partum), biologici e sociali, o potrebbe essere
l’epifenomeno di una maggior propensione delle donne a richiedere un
trattamento terapeutico” (Dell’Osso, 2012).
E
all’inverso “il minor ricorso a trattamenti terapeutici, ovviato spesso da
condotte di abuso di alcol e droghe, potrebbe portare alla sottostima di queste
patologie nel sesso maschile” (Haslam, 2003).
E
se le differenze di genere sono particolarmente evidenti con riferimento ai
casi di segregazione occupazionale, cioè all’ineguale distribuzione per genere
degli individui tra le diverse occupazioni, si evidenzia come in alcuni settori
a elevata occupazione femminile (sanità e istruzione in primo luogo) si
richiede alle lavoratrici di svolgere mansioni molto impegnative sia sul piano
fisico, che su quello mentale, con un forte uso delle risorse relazionali ed
emotive che possono comportare stati di stress e di stanchezza notevoli.
Senza
dimenticare che, come ricordato a proposito dei rischi da fattori inerenti
l’organizzazione di lavoro, in una lavoratrice un lavoro faticoso e stressante
può alterare il ciclo mestruale provocando, amenorrea, dismenorrea, cicli
anovulatori e riduzione della fertilità.
Inoltre
secondo alcuni studi le donne “tendono a sviluppare 2-3 volte più degli uomini
il disturbo post traumatico da stress dopo un trauma e ad avere sintomi più
persistenti” (American Medical Association Councilon Scientific Affairs).
E
sembra che il rischio di disturbi dell’ansia e dell’umore sia in genere
associato per le donne a eventi stressanti della vita legati alla riproduzione,
educazione e cura dei figli e alla gestione della famiglia, mentre per gli
uomini tale rischio “viene a essere associato maggiormente a problematiche
lavorative e finanziarie” (Afifi, 2007).
Concludiamo
l’articolo proprio parlando delle reazioni alle problematiche economiche e alle
differenze riscontrate sull’incidenza di suicidio tra donne e uomini.
Infatti
si è riscontrato, in uno studio condotto alla fine degli anni ‘80, che
l’incidenza di suicidio è “superiore nell’uomo rispetto alla donna con un
rapporto 3,5:1 nella popolazione generale” (Conroy, 1989). Altri studi hanno
evidenziato come tale divario aumenti notevolmente se si considerano solo i
suicidi per i quali fosse possibile riconoscere una motivazione legata al mondo
del lavoro.
Veniamo
ad alcuni dati che riguardano l’Italia, come riportati nel documento
dell’INAIL:
-
i
suicidi di imprenditori e lavoratori, motivati da difficoltà economiche, sono
saliti del 52% dai 123 del 2005 ai 187 del 2010 (dati ISTAT);
-
secondo
i dati EURES nel corso del 2009
in Italia i suicidi commessi sono stati 2.986 (il 5,6%
in più rispetto all’anno precedente), con incremento sia della componente
femminile (643 casi, +1,6% rispetto al 2008) che, ancor più, della componente
maschile (2.197 casi, + 5,6%);
-
i
suicidi per ragioni economiche (per quanto sia possibile attribuire una
motivazione univoca al gesto e al netto dei suicidi “non spiegati”) risultano
essere stati 198 nel 2009 (+32% rispetto al 2008, +67,8% rispetto al 2007),
rappresentando il 10,3% dei casi totali contro il 2,9% rilevato nel 2000,
evidenziando così la forte influenza determinata dalla crisi economica che il
Paese sta attraversando.
In
ogni caso il suicidio per ragioni economiche sembra rappresentare nel nostro
paese un fenomeno quasi esclusivamente maschile e si può ipotizzare, infine,
che questo dipenda dal particolare contesto socio culturale del nostro paese:
la centralità del lavoro e la responsabilità del mantenimento della famiglia
sono, infatti, ancora oggi prerogativa e responsabilità prettamente maschili.
IL
documento dell’INAIL “Salute e sicurezza sul lavoro, una questione anche di
genere. Rischi lavorativi. Un approccio multidisciplinare” è scaricabile
all’indirizzo:
PONTEGGI METALLICI:
LE NORME CI SONO, MA BISOGNA APPLICARLE
Da:
PuntoSicuro
22
dicembre 2015
di
Tiziano Menduto
Per
evitare incidenti nei cantieri le norme relative ai ponteggi metallici fissi le
l’abbiamo, ma bisogna applicarle. Ne parliamo con Michele Candreva del
Ministero del Lavoro.
La
cronaca di molti incidenti professionali che avvengono quotidianamente nei
cantieri (ad esempio il caso del crollo di un’impalcatura con la morte di due
operai che è avvenuta a fine ottobre a Piedimonte Matese, in provincia di
Caserta) ci ricordano come sia importante la nostra opera di informazione sul
tema delle cadute dall’alto in edilizia o, più semplicemente, della tenuta delle
opere provvisionali.
Per
affrontare il tema della sicurezza delle opere provvisionali, del rischio di
caduta dall’alto, per cercare di capire perché sono ancora così tanti gli
incidenti di lavoro gravi e mortali, abbiamo intervistato l’ingegner Michele
Candreva della Direzione Generale della tutela delle condizioni di lavoro e
delle relazioni industriali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Lo
abbiamo intervistato a margine della manifestazione Ambiente Lavoro, che si è
tenuta a Bologna nel mese di ottobre, dove l’ingegner Candreva è intervenuto
come relatore al convegno INAIL “I ponteggi metallici fissi: comportamento
strutturale ed utilizzi specifici”.
E’
un’intervista diversa dalle altre interviste che realizziamo ai vari attori istituzionali
della sicurezza. Il rappresentante del Ministero portava con sé una capiente e
pesante borsa nella quale conservava alcuni importanti elementi dei ponteggi,
quegli elementi che spesso sono alla radice di molti problemi delle opere
provvisionali. E ha voluto mostrarceli, farli vedere alla nostra telecamera,
parlarne praticamente per mostrare come a volte servano anche conoscenze pratiche
per una reale prevenzione. Per dimostrare che “le norme in questo settore, le
disposizioni giuridiche, ce l’abbiamo già”. E che “lo sforzo che dobbiamo fare
è applicare quelle norme”.
Veniamo
brevemente alle domande rivolte dal nostro giornale.
Non
si può non partire da un breve excursus storico che è anche il tema della sua
relazione.
Partendo
dagli anni cinquanta cosa è cambiato a livello normativo, tecnico e
legislativo, sul tema delle disposizioni legislative sulla fabbricazione,
commercializzazione dei ponteggi metallici fissi e sulle norme per la
prevenzione?
Passare
poi nell’intervista dalle norme teoriche agli aspetti pratici e tecnici, è un
attimo...
Lei
dice che non mancano le norme per la prevenzione e che ci sono tuttavia alcuni
aspetti pratici che, spiegati in concreto, potrebbero migliorare la
prevenzione. Può fare qualche esempio?
In
questa parte dell’intervista, che si sviluppa quasi come una breve sessione di
addestramento, l’ingegner Candreva si sofferma in particolare su:
-
elementi
contro lo sganciamento accidentale delle tavole metalliche;
-
spine
a verme per tenere collegati il montante inferiore con il montante superiore;
-
pipette
di un corrente o di un diagonale.
E
viene più volte citato l’articolo 137 del D.Lgs.81/08 sulla manutenzione e
revisione. Articolo in cui si indica che “il preposto, ad intervalli periodici
o dopo violente perturbazioni atmosferiche o prolungata interruzione di lavoro
deve assicurarsi della verticalità dei montanti, del giusto serraggio dei
giunti, della efficienza degli ancoraggi e dei controventi, curando l’eventuale
sostituzione o il rinforzo di elementi inefficienti”. E che i vari elementi
metallici “devono essere difesi dagli agenti nocivi esterni con idonei sistemi
di protezione”.
Le
domande cercano poi di capire le cause e le eventuali “soluzioni” per
migliorare la prevenzione.
Perché
queste normative sono poco applicate? Mancanza di consapevolezza nelle aziende
o nei lavoratori? Mancanza di formazione o addestramento?
A
questo proposito l’ingegner Candreva ricorda quanto possa essere importante
l’addestramento per “far capire agli operatori l’importanza del montaggio di
quel determinato attrezzo, di quel determinato dispositivo di protezione, di
quel determinato dispositivo di sicurezza”.
E
infine cosa può fare il legislatore per aumentare la prevenzione?
Viene
citata la Circolare
del Ministero del lavoro 9 febbraio 1995 sull’utilizzo di elementi di impalcato
metallico prefabbricato di tipo autorizzato in luogo di elementi di impalcato
in legname. E la Circolare
27 agosto 2010, n. 29 in
relazione all’impiego di ponteggi come protezione collettiva per i lavoratori
che svolgono la loro attività sulle coperture.
Come
sempre diamo ai nostri lettori la possibilità di ascoltare integralmente
l’intervista al link:
e/o
di leggerne una parziale trascrizione.
ARTICOLO
E INTERVISTA A CURA DI TIZIANO MENDUTO
Partendo
dagli anni cinquanta cosa è cambiato a livello normativo, tecnico e
legislativo, sul tema delle disposizioni legislative sulla fabbricazione, commercializzazione
dei ponteggi metallici fissi e sulle norme per la prevenzione?
Michele
Candreva
Purtroppo
gli infortuni degli ultimi sessanta anni, relativi alle cadute dall’alto e alle
opere provvisionali e dei ponteggi, sono in buona sostanza sempre gli stessi.
A
mio parere la norma c’è. Il legislatore italiano è intervenuto in questo
settore già dal 1955/1956 con idee molto chiare. La differenza con i tempi
odierni è che all’epoca era il legislatore ad avere già fatto la valutazione
dei rischi e aver dato le indicazioni precise ed esatte di quello che si doveva
fare. Ora grazie all’Europa (e l’Europa da questo punto ci ha dato tantissimo)
a seguito dell’analisi, dello studio, della valutazione dei rischi, si esamina
il problema e si arriva a definire quali sono le migliori misure preventive e
protettive per il caso specifico.
Nel
mio intervento ho detto che, a mio parere, le norme in questo settore, le
disposizioni giuridiche, ce l’abbiamo già. Lo sforzo che dobbiamo fare è
applicare quelle norme. Dopo di che ho dato anche altre informazioni. Ad
esempio ho detto che le Direttive europee di prodotto sulle opere provvisionale
non esistono. Inutile che diciamo che c’è quel prodotto marcato CE, perché non
può essere marcato CE, perché non esiste una Direttiva di prodotto
sull’argomento.
Viceversa
il legislatore italiano ha seguito costantemente questi temi fino ai giorni
nostri, l’ultima circolare sui dispositivi di ancoraggio è infatti la Circolare n. 3 del 13
febbraio 2015. E’ vero che non esiste una Direttiva di prodotto su questo
argomento, ma esiste una Direttiva di uso che è la Direttiva 2001/45/CE del
giugno del 2001. E poi esistono una serie di norme a livello europee pubblicate
dal Comitato europeo di normazione. Ne esistono tantissime: sui ponteggi, sui trabattelli,
sui pontelli, sulle reti di sicurezza, sui parapetti provvisori, ecc..
Di
normativa ne abbiamo tantissima, dobbiamo soltanto applicare quelle norme. Per
applicare quelle norme avremo necessità di fare, a mio avviso, più che della
formazione, dell’addestramento. Bisogna far vedere quelle cose che sono di
natura pratica agli operatori del settore e far capire per quale motivo è
utile, opportuno, necessario, inserire un certo dispositivo o meno.
Lei
dice che non mancano le norme per la prevenzione e che ci sono tuttavia alcuni
aspetti pratici che, spiegati in concreto, potrebbero migliorare la
prevenzione. Può fare qualche esempio?
Michele
Candreva
All’operatore
bisogna dire che nel momento in cui questi elementi contro lo sganciamento accidentali
sono utilizzati, ci sono diversi benefici.
Montiamo
il ponteggio, magari montiamo naturalmente anche l’impalcato sull’ultimo piano
del ponteggio a quota quindici metri, venti metri, trenta metri (a seconda di
come sia l’edificio). E magari lo montiamo in una zona molto ventosa. Voi
capite bene che quando vediamo sul giornale che le tavole metalliche di un
ponteggio sono stata sbilanciate a trenta, quaranta metri di distanza
evidentemente questi elementi contro lo sganciamento accidentale della tavola
metallica non erano stati montati. E nel momento in cui vengono effettuate le
prove di controventatura in pianta sulle tavole metalliche che questi elementi
contro lo sganciamento siano montati o meno incide almeno per il 30-40% sulla
prova.
Mi
viene poi in mente un articolo che è tra quelli più disattesi, l’articolo 137
del Testo Unico, quello sulla manutenzione.
Spesso
e volentieri quando noi acquistiamo qualcosa, anche per casa nostra, non
pensiamo alla manutenzione. Ma la manutenzione è molto importante. L’articolo
dice che a intervalli periodici o dopo violente perturbazioni atmosferiche o
prolungata interruzione di lavoro bisogna fare dei controlli periodici.
Ma
questi controlli possono anche essere semplici. E, a mio modesto parere, si può
andare a prendere l’allegato XIX del Testo Unico, fare la fotocopia, aggiungere
due colonne alla fine con un si e un no, dare queste sette/otto pagine ad un
responsabile del cantiere, a un preposto che, magari, ogni lunedì mattina vada
a verificare il ponteggio.
Perché
queste normative sono poco applicate? Mancanza di consapevolezza nelle aziende?
Mancanza di formazione o addestramento?
Michele
Candreva
L’impresa
in realtà conosce abbastanza bene le problematiche e penso che cerchi di tenere
le attrezzature in ordine. Molte volte è la fretta del cantiere che non
consente di affrontare correttamente le problematiche.
Cosa
si potrebbe fare? A mio avviso si dovrebbe operare il più possibile con
l’addestramento: far capire agli operatori l’importanza del montaggio di quel determinato
attrezzo, di quel determinato dispositivo di protezione, di quel determinato
dispositivo di sicurezza. Quando si comprende che se, ad esempio non viene
inserita la spina a verme o l’elemento contro lo sganciamento delle tavole
metalliche viene a decurtarsi il coefficiente di sicurezza dell’intero
ponteggio e ne va della sicurezza degli operatori, forse abbiamo più coscienza
dei rischi.
Nessun commento:
Posta un commento