Cina ondata di scioperi paralizza l'industria del
tessile
Continua
l'agitazione sociale in Cina, nella fabbrica del mondo, mentre questa si
proietta sempre più ai primi posti nella gerarchia capitalistica globale. Una
fabbrica del mondo colpita questa volta dallo sciopero di almeno 10.000
lavoratori impiegati dall'azienda Yue Yuen a Dongguan, nel sud del
Paese.
Lavoratori
che volgono alla lotta in protesta contro i salari miseri che guadagnano,
nonchè per l'assenza di dispositivi di previdenza sociale e di una minima
sicurezza sul posto di lavoro. L'azienda, di proprietà taiwanese, produce
calzature per i più grandi marchi globali, da Nike ad Adidas a Reebok a
Timberland. Il suo stabilimento di Dongguan, nella regione del Guangdong -
ovvero quella dove si è sviluppata la più grande Zona Economica Speciale del
paese in seguito alle riforme di Deng Xiaoping - è stato paralizzato da
una composizione in rivolta per la maggior parte donna e di origine migrante. I
lavoratori del settore tessile cinese, così come quelli di altri paesi
(Bangladesh, Cambogia, Vietnam) vengono pagati con salari da fame, e obbligati
dalle leggi sulla residenza a stabilirsi in condizioni precarie ai margini
delle città, nei dormitori costruiti dalle stesse fabbriche presso le quali
lavorano, in una condizione di fatto feudale di prestazione lavorativa. La
legge sulla residenza statale, l'hukou, non permette ad un lavoratore
migrante di portare la propria assicurazione sociale in un altro luogo a meno
che non ne sia pagata una supplementare.
I lavoratori
erano già scesi in piazza lo scorso 5 aprile, venendo attaccati dalle
forze dell'ordine, per chiedere all'azienda di provvedere ad incrementare le
condizioni lavorative, ma di fronte all'immobilismo padronale sono tornati a
chiedere risposte. Si asterranno dalla prestazione lavorativa, a quanto afferma
l'ong China Labour Watch, fino a quando l'azienda non pagherà l'assicurazione
supplementare richiesta dalle leggi del paese, cosa che l'azienda vorrebbe far
essere a carico dei lavoratori. Intanto i dati più recenti affermano che paiono
essere almeno 600.000 i morti da iper-sfruttamento in Cina, la maggior parte
operai messi al lavoro proprio nelle fabbriche destinate all'export verso il
mondo occidentale, e sempre di più anche verso le zone ricche del paese. Lo
stato non prevede alcun tipo di prestazione di welfare nei confronti della
cosiddetta popolazione fluttuante, ovvero una fascia di circa 200 milioni di
persone che dalle campagne si sposta verso i grandi centri industriali a
cercare lavoro.
E' proprio
la riforma dell'hukou, uno dei temi centrali nel dibattito politico
cinese attuale, ad essere invocata da parte di questi scioperi. Una
riforma che dovrebbe permettere, con l'aumento della ricchezza indiretta
percepita, di dare nuovo slancio ad un'economia interna ancora troppo debole a
livello di consumi. Modificare questo status quo, che vede i lavoratori
migranti privati dei diritti acquisiti da chi risiede nella città dove lavora,
è potenzialmente la riforma più importante da compiere per la dirigenza di Xi
Jinping, che dovrà iniziare ad affrontare concretamente il pericolo
rappresentato dai 180mila "incidenti di massa" che si
verificano ogni anno nel paese.
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