Yue Yuen, seconda settimana di
sciopero per la fabbrica dei grandi marchi
Dietro alla mobilitazione degli operai, la sempre
crescente richiesta dei cinesi di abbandonare il lavoro manuale e partecipare
ai benefici del consumo. Solo nel 2013 i salari sono aumentati del 10%. E la
produzione si sposta verso i servizi
Seconda
settimana di sciopero per la Yue Yuen, fabbrica di scarpe del Guangdong,
già passato alle cronache come il più grosso sciopero che la storia recente
della Cina ricordi. I lavoratori fabbrica della città meridionale di Dongguan
sono scesi in strada perché l’azienda non avrebbe pagato sicurezza sociale e
contributi per la casa a 70mila di loro.
Gli operai sostengono che l’azienda è in
difetto dal 2006 e avrebbe accumulato un miliardo di debiti verso i suoi
operai. Lo stabilimento produce per marchi come Nike, Adidas, Reebok,
Asics e Converse. La protesta dei lavoratori, che sabato scorso
si è estesa anche a un’altra succursale della fabbrica in Jiangxi, aiuta
inoltre a capire il difficile passaggio da fabbrica del mondo a economia di
servizi che sta attraversando l’ex impero di mezzo.
Siamo
nel Guangdong, la ricca regione della Cina meridionale che è stata la
molla del miracolo economico cinese, là dove poco più di trent’anni fa sono
iniziate le riforme di apertura al mercato. Secondo quanto riportato dalla
Commissione per le riforme e lo sviluppo della regione nel 2013 qui il Pil è
cresciuto dell’8,5 per cento superando la somma di mille miliardi di dollari.
Nel 2013 il tasso di disoccupazione urbana della regione era del 2,43 per
cento (il tasso più basso tra le regioni cinesi, ma le previsioni lo vedono
in rialzo già nel 2014: 3,5%). Attualmente in Cina un posto di lavoro su otto è
in questa regione (164.500.000 nuovi posti di lavoro solo nel 2013) e il
tasso di occupazione dei fuorisciti dall’università è del 98 per cento
(il più alto del paese). Ma più la regione si arricchisce più cambia l’economia
e la struttura sociale. E nel 2013 il fatturato proveniente dal terziario ha
superato quello del settore industriale.
Osservando la mappa degli scioperi in Cina
costantemente aggiornata dall’ong di Hong Kong China Labour Bullettin si riesce a ricostruire un quadro
generale della situazione dei lavoratori cinesi. La maggior parte degli
scioperi avviene nelle regioni costiere e sud occidentali dove l’industria è –
da sempre – più sviluppata. E dove il settore dei servizi sta registrando un discreto
sviluppo. I lavoratori, come nell’ultimo caso di Dongguan, oltre agli arretrati
chiedono aumenti salariali e più sicurezza sul lavoro. Nell’ultimo anno i
problemi sono aumentati. La domanda occidentale è calata, le aziende madre
pagano in ritardo e per le fabbriche l’opzione più semplice per rimanere in
piedi è non pagare i dipendenti.
Questa almeno è l’analisi di Geoff Crothall,
portavoce del Clb. È come la goccia che scava lentamente la roccia. L’aumento
costante delle proteste operaie (molto chiaro nel grafico del Clb) ha ottenuto
come risultato un aumento dei salari. Nel 2013 le paghe sono cresciute
del dieci per cento rispetto all’anno precedente, e per il 2014 si prevede una
percentuale simile se non superiore. E c’è anche da sottolineare che gli
stipendi stanno crescendo più del Pil.
Il governo vede di buon occhio gli aumenti
salariali. Si inseriscono perfettamente nello sforzo programmato di traghettare
l’economia del paese dall’industria manifatturiera ai servizi. A questo si
aggiunge il problema dell’invecchiamento della popolazione che affligge anche
la Cina (il passaggio dalla politica del figlio unico alla politica dei due
figli non risolverà la situazione a breve), e la volontà di creare un consumo
interno in grado di sostenere la crescita economica: sono in molti a temere che
questo significherà che sempre più produzioni a basso costo si sposteranno
nelle aree limitrofe del Vietnam e della Cambogia.
A questo il Partito tenta di trovare una
soluzione con il piano di urbanizzazione e di sviluppo delle cosiddette città
di terza e quarta fascia: urbanizzazione delle aree rurali per riportarvi quei
lavoratori migranti che i dati dicono non essere già più il terzo stato ma una
nuova classe di consumatori. Quella su cui punta la Nuovissima Cina.
di Cecilia
Attanasio Ghezzi
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