SICUREZZA SUL
LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS!
NEWSLETTER N. 223
DEL 07/08/15
NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
LE
“FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! -
N.4
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1
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IL
SILENZIO DELLA POLVERE: UNA STORIA MERIDIONALE DI AMIANTO
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5
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QUESITI
E PARERI: SUL RICORSO PER GIUDIZIO DI NON IDONEITA’ ALLA MANSIONE
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7
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IMPARARE
DAGLI ERRORI: QUANDO UNA MACCHINA MOVIMENTO TERRA SI RIBALTA
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8
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SICUREZZA
E SALUTE NELLE MICRO E PICCOLE IMPRESE
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10
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LA RESPONSABILITA’ DEL LAVORATORE PER INFORTUNIO A UN ALTRO LAVORATORE
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13
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VISITE
MEDICHE PREVENTIVE: PER QUANTO TEMPO VALGONO?
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15
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LE
“FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.4
Nella
mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro,
spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a
svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di
ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella
mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di
Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.
In qualche caso invece le richieste che mi
pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche
risposte a domande su temi molto specifici e limitati.
Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso
diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked
Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia
newsletter.
Ovviamente,
per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i
lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto
il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.
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DOMANDA
Ciao
Marco.
Sono
un’insegnante di scuola primaria e ho urgente bisogno di sapere se esistono
studi attendibili su eventuali effetti nocivi dell’esposizione al WI FI. Nella
scuola in cui lavoro si sta vagliando la possibilità di installare la
connessione wireless per tutte le classi; se fosse stata provata una loro
nocività vorrei quindi sottoporre i dati al collegio dei docenti affinché il
progetto venga accantonato, per il bene degli oltre trecento bambini e di tutti
i lavoratori della scuola.
Prima
della fine del mese il collegio dovrà esprimersi in merito, spero vivamente che
tu possa venirmi in aiuto.
Grazie
dell’attenzione.
RISPOSTA
In
Italia è presente specifica legislazione che impone limitazioni all’emissione
di campi elettromagnetici (come nel caso del wireless) ad alta frequenza, sia
per la protezione dei lavoratori, che per quella dei cittadini.
La
prima è il D.Lgs.81/08 (salute per i lavoratori), che recepisce la Direttiva Europea
2004/40/CE e altre e che pone i limiti per l’intensità di campo elettrico ad
alta frequenza generato dalle apparecchiature wireless.
Il
Decreto non impone richieste di autorizzazione da parte del datore di lavoro,
ma solo una valutazione del rischio specifica da eseguire all’atto (ma non
prima) della installazione della sorgente di campo elettromagnetico.
La
seconda è la Legge
36 del 2001, accompagnata dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
08/07/03 (salute dei cittadini) che deriva dal Regolamento Europeo 99/519/CE e
che pone anch’essa dei limiti per l’intensità di campo elettrico ad alta
frequenza.
Anche
in questo caso non sono prevista pratiche autorizzative per gli impianti di
alta frequenza.
Per
quanto riguarda il rischio di emissioni di campi elettromagnetici o radio
frequenza, ti posso dire che la norma CENELEC EN 50499 specifica che le
attrezzature marcate CE valutate secondo norme tecniche armonizzate (i cui
estremi sono cioè pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale della Unione Europea),
tra cui:
-
stazioni
radio base e stazioni terminali fisse per sistemi di telecomunicazione senza
fili (di cui alla norma EN 50385)
-
apparecchiature
fisse per trasmissione radio (110 MHz - 40 GHz) destinate a reti di telecomunicazione
senza fili (di cui alla norma EN 50401)
possono
essere definite “giustificabili” cioè non richiedono ulteriori approfondimenti
strumentali di valutazione del rischio in quanto si possono reputare per loro
natura che non comportino rischi per la salute, provocando emissioni elettromagnetiche
inferiori ai livelli di riferimento per la popolazione di cui alla
Raccomandazione 99/519/CE.
Per
tale tipo di sorgenti di radiofrequenze pertanto, non è necessaria alcuna
valutazione strumentale, in quanto la loro potenza e il loro spettro di
emissione, secondo norme tecniche, sono tali da non superare i limiti di cui
alla Raccomandazione 99/519/CE (e anche i limiti di cui alla Direttiva
2004/40/CE).
Per
esperienza mia personale, ho avuto l’occasione di misurare, con apparecchiatura
dedicata, campi elettromagnetici ad alta frequenza in presenza di apparati
wireless di aziende anche estese (e quindi con necessità di potenze di
emissione in gioco importanti), ma ho sempre rilevato valori ampiamente al di
sotto dei limiti sopra richiamati.
Che
poi tali limiti siano veramente cautelativi per la popolazione e per i
lavoratori è questione sulla quale qualcuno nutre dei dubbi e per questo lascio
la parola ai medici del lavoro.
Ti
consiglio quindi di richiedere i dati dell’apparecchiatura che intendono installare
(soprattutto potenza di emissione, campo di frequenza, certificazione e
marcatura CE) e soprattutto pretendere una IMMEDIATA (articolo 29, comma 3 del
D.Lgs.81/08, come recentemente modificato dalla Legge 161/14) valutazione del
rischio da campi elettromagnetici all’atto dell’installazione del sistema.
A
tale valutazione del rischio, la cui piena responsabilità è del datore di
lavoro (dirigente scolastico) deve obbligatoriamente collaborare e dire la sua
anche il medico competente (articolo 25, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08).
Metto
in evidenza che tale valutazione deve essere redatta (con criteri validati
scientificamente) “da personale
qualificato nell’ambito del servizio di prevenzione e protezione in possesso di
specifiche conoscenze in materia” (articolo 181, comma 2 del D.Lgs.81/08) e
non da un qualunque consulente.
Tale
valutazione deve essere messa a disposizione del Rappresentante dei Lavoratori
per la Sicurezza
(articolo 18, comma 1, lettera o) del D.Lgs.81/08) e i suoi risultati devono
essere comunicati a tutti i lavoratori (articolo 36, comma 2, lettera a) e
articolo 37, comma 1, lettera b) del D.Lgs.81/08).
A
disposizione per ulteriori chiarimenti, un caro saluto.
Marco
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DOMANDA
Ciao
Marco
sono
un RSU in un centro commerciale.
Volevo
chiederti una cosa: hai presente le slitte elettriche con pedana e guida
autista a bordo? Da qualche tempo la direzione sostiene che vadano guidate in
retromarcia ovvero costringendo il lavoratore ad essere sulla pedana rivolto in
direzione logica, ma appeso al timone e a guidare torcendo il tronco per
guardare alle spalle considerando quello il senso di marcia. Oltre alla postura
incongrua vi è una forte limitazione al campo visivo.
Che
fare? Aspettiamo il primo infortunio GRAVE o chiamiamo ASL?
Grazie
infinitamente.
RISPOSTA
Ciao,
sinceramente
io ho visto viaggiare le slitte, sia con le forche in avanti, che con le forche
all’indietro.
La
cosa migliore è consultare il manuale delle istruzioni della slitta, che deve
essere fornito assieme alla slitta alla tua azienda (Direttiva Macchine Decreto
Legislativo n.17 del 2010) e da questa messa a disposizione dei lavoratori
(testo Unico per la sicurezza D.Lgs.81/08).
Il
manuale deve contenere un capitolo “Uso consentito e uso proibito” (o con nome
simile) in cui potrai verificare se la slitta può effettivamente essere usata
in entrambi i lati, quali rischi aggiuntivi ciò comporta e che cautele occorre
adottare.
Quello
che sicuramente deve fare la tua azienda è verificare attraverso la valutazione
del rischio (sempre secondo il Testo Unico) se l’uso al contrario della slitta
può incrementare i fattori di rischio (quelli che tu segnali: postura e scarsa
visibilità) anche in funzione del magazzino all’interno del quale viene
utilizzata (dimensioni delle vie di transito, vicinanza tra gli scaffali,
presenza di specchi agli incroci, numero di slitte in contemporanea, presenza
di personale a piedi, ecc.).
Inoltre
questo tipo di attrezzatura comporta una formazione specifica per gli
utilizzatori (secondo l’Accordo Stato Regioni del 22/02/12) della durata
minima, nel tuo caso, di 12 ore. In genere questi corsi vengono tenuti da
tecnici specializzati delle ditte fornitrici le slitte e quindi esperti di
tutto quello che le riguarda. Che cosa vi è stato detto al corso a tale
proposito?
Intanto
consulta il manuale e fammi sapere.
Saluti.
Marco
************
DOMANDA
Gentile
Marco,
un
quesito.
Abbiamo
rieletto i nuovi RLS a marzo.
Se
uno dei vecchi ha consumato le 40 ore, il nuovo che lo sostituisce fruisce sempre
di 40 ore?
In
sostanza le 40 ore sono personali e sono complessive della figura?
RISPOSTA
Ciao,
dipende
dal CCNL applicato.
Dal
Contratto Collettivo Nazionale Quadro per il Pubblico Impiego riguardante i RLS
del 10/07/96 (l’ultimo che mi risulti che affronti questa tematica) risulta
quanto segue.
Per
quanto riguarda le amministrazioni con meno di 15 dipendenti all’articolo II
tale CCNQ prevede:
“Al rappresentante spettano, per
l’espletamento degli adempimenti previsti dall’articolo 19 del decreto legislativo
19 settembre 1994, n. 626 [oggi articolo 50 del D.Lgs.81/08], appositi permessi retribuiti pari a 12 ore
annue nelle amministrazioni o unità lavorative che occupano fino a 6 dipendenti
nonché pari a 30 ore annue nelle amministrazioni o unità lavorative che occupano
da 7 a 15
dipendenti. Per l’espletamento degli adempimenti previsti dall’articolo 19 citato,
lettere b), c), d), g), i) ed l) non viene utilizzato il predetto monte ore e
l’attività è considerata tempo di lavoro”.
Per
quanto riguarda le amministrazioni con più di 15 dipendenti all’articolo IV
tale CCNQ prevede:
“Nelle amministrazioni o unità lavorative che
occupano più di 15 dipendenti, per l’espletamento dei compiti previsti
dall’articolo 19 del decreto legislativo n. 626/94 [oggi articolo 50 del
D.Lgs.81/08], i rappresentanti per la
sicurezza, oltre ai permessi già previsti per le rappresentanze sindacali,
utilizzano appositi permessi retribuiti orari pari a 40 ore annue per ogni rappresentante.
Per l’espletamento degli adempimenti previsti dai punti b), c), d), g), i) ed
l) dell’art. 19 citato, non viene utilizzato il predetto monte ore e l’attività
è considerata tempo di lavoro”.
In
entrambi i casi gli articoli riportano l’indicazione “al rappresentante”, da cui si dovrebbe concludere che tali permessi
sono personali, per singolo RLS, e non relativi alla figura.
Pertanto,
anche se il precedente RLS ha esaurito le proprie ore di permesso, al nuovo
rappresentante spettano le 40 ore (o meno per amministrazioni con meno di 15
dipendenti) dal giorno in cui è stato eletto o designato e per il successivo
anno solare.
Metto
in evidenza che, a seguito di quanto sopra enunciato dal CCNQ, le attività di
cui ai punti b), c), d), g), i) ed l) dell’articolo 19 del D.Lgs.626/94 citato
(e ai corrispondenti punti dell’articolo 50 del D.Lgs.81/08) non vanno
computate nelle 40 ore (o meno) essendo considerate tempo di lavoro.
Tali
attività sono le seguenti:
-
consultazione
preventiva e tempestiva su valutazione dei rischi, individuazione, programmazione,
realizzazione e verifica della prevenzione nell’azienda (lettera b);
-
consultazione
sulla designazione degli addetti al servizio di prevenzione, all’attività di prevenzione
incendi, al pronto soccorso, alla evacuazione dei lavoratori (lettera c);
-
consultazione
in merito all’organizzazione della formazione dei lavoratori (lettera d);
-
erogazione
della formazione specifica per i RLS (lettera g);
-
formulazione
di osservazioni in occasione di visite e verifiche effettuate dalle autorità competenti
(lettera i);
-
partecipazione
alla riunione annuale su salute e sicurezza (lettera l).
Pertanto
tutte le attività di cui sopra non vanno a intaccare il monte ore previsto per
il RLS, ma devono essere computate a tutti gli effetti come orario di lavoro.
A
disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco
************
DOMANDA
Ciao Marco,
desideravo
sapere se c’è una norma che impone uno studio sui rischi dello stress correlato
al fatto che siamo in cassa integrazione dal febbraio 2011.
Ciao e
grazie per la tua risposta
RISPOSTA
Ciao,
non
c’è una norma specifica, ma un dettato legislativo che impone al datore di
lavoro di qualunque azienda, e indipendentemente dall’inserimento contrattuale
dei lavoratori (come definiti dall’ articolo 2, comma 1, lettera a) del
D.Lgs.81/08) di eseguire una valutazione di tutti i rischi per la salute e la
sicurezza, compreso quello da stress lavoro correlato (articolo 17, comma 1,
lettera a) e articolo 28, comma 1, lettera a) del Decreto).
Il
problema nel tuo caso è che la metodica ufficialmente riconosciuta in Italia
per valutare lo stress lavoro correlato (quella che segue le indicazioni della
Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza, descritta poi
in dettaglio all’interno di una linea guida dell’INAIL) è congegnata in maniera
tale da considerare come concorrenti allo stress circa 70 fattori di rischio e
di considerare che il rischio da stress sia elevato, soltanto se almeno 35 di
questi fattori risultino negativi per i lavoratori.
Pertanto
una valutazione da stress lavoro correlato nel tuo caso deve essere comunque
fatta, perché anche la cassa integrazione è fonte di stress, ma se svolta
secondo i metodi ufficiali darà paradossalmente un risultato di rischio basso,
in quanto solo 1 o 2 fattori di rischio sui circa 70 assumeranno valori
negativi.
A
disposizione per ulteriori chiarimenti.
Un
saluto.
Marco
************
NOTA
Nel
testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i
seguenti acronimi e termini:
ASL
= Azienda Sanitaria Locale
CCNL
= Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
DVR
= Documento di Valutazione dei Rischi
DUVRI
= Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori
in appalto
RSPP
= Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
RLS
= Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza
D.Lgs.81/08
o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e
integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)
IL SILENZIO DELLA
POLVERE: UNA STORIA MERIDIONALE DI AMIANTO
Da
Il lavoro debilita
24
luglio 2015
di
Giovanni Iozzoli
La
storia che è al centro del saggio “Il silenzio della polvere” è tragicamente
esemplare: una storia di operai e territori avvelenati da lavorazioni
assassine. Le cronache e la letteratura sociologica di questo paese, sono piene
di storie così. Il maledetto amianto poi, ha seminato e continua a seminare
morte ovunque. Ma nella vicenda Isochimica, narrata nel libro curato da Antonello
Petrillo, c’è qualcosa che “eccede” il già visto, un quid di violenza, una
matrice di cinismo e crudezza, che colpisce al cuore il lettore. E questa
matrice è il contesto di “colonialismo interno”, entro cui la vicenda si
sviluppa. Un territorio e le giovani vite che lo animano, mandate scientemente
al macello perché considerate “minori” e “immediatamente disponibili”, al
consumo capitalistico.
Usando
tutte le armi della sociologia critica (l’inchiesta operaia, la conricerca)
Petrillo riesce a condurre un’indagine che si legge come un romanzo. Una storia
di amianto diventa lo snodo di molti piani di indagine e riflessione che si
sovrappongono: il rapporto Nord/Sud, il rapporto tra nuda vita e valorizzazione
capitalistica, la terribile potenza dei blocchi sociali di consenso che si
creano intorno al governo emergenziale dei territori.
Il
contesto in cui tutto nasce e matura è l’Irpinia terremotata e affamata di
lavoro dell’inizio anni ‘80. Quale posto migliore per installarci la più
mortifera delle lavorazioni, la rimozione dell’amianto dall’intero parco
ferroviario italiano? Avellino si presta all’opera. Molte giovani braccia
disoccupate, bassissimo livello di coscienza sindacale e civile, una cappa
soffocante di conformismo e clientela. Una specie di terzo mondo domestico.
Sarà
lì che le FS dirotteranno, negli anni, centinaia di carrozze e locomotori da
ripulire dalle pannellature di amianto; le maestranze sindacalizzate delle FS
non hanno voluto saperne, di quel tipo di lavoro e comunque imporrebbero costi
di sicurezza e smaltimento elevati; da quel rifiuto si avvia
l’esternalizzazione di appalti e rischi, che nei 30 anni successivi diventerà
la norma. Centinaia di carrozze e locomotori saranno dirottati negli anni verso
la minuscola stazione di Avellino, dove un oscuro imprenditore cresciuto nel
sottobosco degli appalti ferroviari, l’ingegner Graziano, otterrà l’incarico di
ripulire dall’amianto i treni italiani, senza alcuna credenziale, senza nemmeno
le autorizzazioni formali delle istituzioni locali.
Molte
le pagine dure e crude di quella che solo formalmente è un’inchiesta
socio-etnografica. La scena del reclutamento, ad esempio, è atroce: in un
pomeriggio di ottobre, dentro un piazzale affollato di disoccupati, il padrone
arriva in Mercedes e chiede solo ai giovanissimi di fare un passo avanti;
saranno assunti immediatamente, sono loro i privilegiati, in un’assurda selezione
generazionale, che fa affidamento sui tempi lunghi di incubazione del ciclo
dell’asbestosi. Da allora comincia il lavoro. Decine di giovani, figli dei
quartieri periferici o dei campi baraccati, senza alcuna coscienza di rischi e
diritti, cominceranno la battaglia a mani nude contro quintali da amianto da
rimuovere: in jeans, maglietta e spatola, senza dispositivi, senza protezione,
dentro vagoni bui in cui le fibre ti ricoprono di una mortifera coltre bianca.
La polvere maledetta la porteranno a casa, dalle loro famiglie, nel loro
quartiere. Per un primo periodo, la scoibentazione si svolge addirittura sui
binari della stazione, a due passi dai pendolari e dagli studenti che
l’affollano nelle ore di punta.
Intorno,
un’intera città farà finta di non vedere, di non capire. Il miraggio del lavoro
a tutti i costi, il clientelismo di massa, la compravendita degli attori
sociali e dei controllori istituzionali, ogni tessera del mosaico si incastra
alla perfezione, compresa l’abilità del padrone, che sa agire ricatto sociale,
corruzione e paternalismo con maestria.
L’ingegner
Graziano diventerà anche il padrone dell’Avellino calcio; un connubio mefitico
(calcio, business, consenso) che per gli avvelenati si tradurrà in qualche
abbonamento-omaggio; per i sindacati tacita connivenza; per i politici attiva
collaborazione. Tutti hanno da guadagnarci. Gli stessi operai, non sappiamo con
che grado di incoscienza, preferiscono ignorare il rischio tremendo che incombe
sul loro futuro. Soprattutto per i più giovani, l’idea di una busta paga è
troppo attrattiva per quei tempi e quei territori. E’ lo stesso meccanismo
devastante per il quale, proprio in quegli anni, si intensifica il ruolo della
Campania come sversatoio dei rifiuti del nord industriale: epopea in qualche
modo parallela, medesima dinamica propriamente coloniale, gestita col presidio
di un gruppo di comando esteso e pervasivo.
Quando
alcuni giovani operai (ma sono già passati alcuni anni di avvelenamento)
acquisiscono informazioni sul pericolo mortale in cui svolgono le loro
prestazioni e iniziano ad agitarsi, si scoprono soli ed impotenti. La città li
isola, li stigmatizza, addirittura: stanno violando le regole del gioco, stanno
mordendo la mano generosa che gli da tutti i mesi da mangiare (e tiene in piedi
un largo sistema corruttivo a cui nessuno intende rinunciare). La vicenda
Isochimica ci cala prepotentemente dentro gli anni frenetici del dopo terremoto
irpino: un cataclisma che improvvisamente precipita dentro una “cattiva
modernizzazione” uomini, donne, territori, comunità e istituzioni. Il
laboratorio irpino diventerà il primo grande cantiere in cui l’emergenza
diventa dispositivo di governo. Ed è utile riflettere sul presente, sugli
elementi di continuità tra quel blocco di potere e la realtà attuale, tra la
sua pervasiva capacità di legare insieme interessi grandi e piccoli, legalità e
criminalità, stato e mercato: un blocco di potere formidabile che governerà un
mostruoso impasto di eroina, munnezza, calcestruzzo e consenso sociale, ridisegnando
in un decennio la storia del nostro mezzogiorno. L’ingegner Graziano, con
l’amianto interrato sotto al cortile della fabbrica (e in chissà quanti altri
siti abusivi) sta dentro quell’idea di modernità che prevalse allora,
prepotente. E anche i morti di oggi, gli ammalati innocenti, le bonifiche mai
avviate, stanno in questa specie di foto scattata al passato e al presente del
nostro mezzogiorno.
“Il
lavoro era faticoso, ma nelle pause si scherzava, eravamo tutti giovani, si
parlava di fidanzate, del matrimonio che grazie a questo lavoro sembrava
possibile. Seduti sui gradini delle carrozze dei treni, piene di polvere
d’amianto, mangiavamo il nostro panino, un caffè, poi si tornava a grattare”.
Petrillo
e il suo collettivo di lavoro (l’Unità di Ricerca Topografie Sociali) vivono e
condividono l’esperienza di una comunità ferita e delusa, in cui chi lottò al
momento giusto fu isolato e minoritario, e le voci di oggi restano flebili e
inascoltate. Più che alla lettura di un’inchiesta sociologica, il lettore è
invitato a calarsi dentro la vita e la sofferenza, guidato dagli “speleologi”
dell’Urit, che scandagliano tutto, territorio, media, comunità, esistenze
dissestate. La malattia dei contaminati come grande metafora della malattia del
nostro sud.
Due
parole vanno spese sul curatore, docente presso l’Università Suor Orsola
Benincasa, che si occupa da anni “dei dispositivi entro cui si articola
materialmente la governamentalità tardo liberale di popoli e territori”, già
autore di un testo fondamentale (Biopolitica di un rifiuto) sull’epopea della
munnezza in Campania. Quella di Antonello Petrillo è un’anomala figura di intellettuale
che ha scelto di non vendere il suo valore scientifico e le sue consolidate
relazioni internazionali al miglior offerente, bensì offrirle ai movimenti
della resistenza e dell’indignazione. Trovare gente così a Ballarò è difficile;
incontrarli nelle piazze delle mille emergenze italiane, a schierarsi, studiare
e condividere, è invece assai frequente.
Un
libro da leggere, non per specialisti. Con alcuni frammenti struggenti. Come
quella foto di gruppo scattata in una pausa caffè, dentro un vagone pieno
d’amianto, con cinque o sei giovanotti sorridenti che scherzano, in posa. E’ il
1983. La didascalia non racconta niente del loro destino.
IL
LIBRO: Antonello Petrillo (a cura di) “Il silenzio della polvere. Capitale,
verità e morte in una storia meridionale di amianto”, Mimesis/Cartografie
sociali, Milano, 2015, 238 pagine.
QUESITI E PARERI:
SUL RICORSO PER GIUDIZIO DI NON IDONEITA’ ALLA MANSIONE
Da
Articolo 19 (Città Metropolitana)
DOMANDA
Nei
giorni scorsi sono stata visitata dal medico competente dell’azienda in regime
di visita preventiva in fase preassuntiva. A seguito di tale visita mi è stata
riconosciuta una idoneità con limitazioni e a quel punto l’azienda non mi ha
assunto.
Mi
è stato detto che non posso fare ricorso contro il parere del medico
competente.
Le
mie domande sono due:
-
la
visita che mi hanno fatto è obbligatoria?
-
perché
non posso fare ricorso? E se lo posso fare a chi mi devo rivolgere?
RISPOSTA
Le
due domande sono molto precise e si prestano quindi a risposte altrettanto
precise ed inequivoche.
Per
quel che riguarda la prima domanda, se la mansione cui era destinata prevedeva
esposizione a un rischio per cui scatta la sorveglianza sanitaria, la visita preventiva
è obbligatoria (mentre non lo è se la mansione non prevede l’esposizione a
rischi per cui scatta la sorveglianza sanitaria).
Infatti,
l’articolo 41 del D.Lgs.81/08 precisa che la sorveglianza sanitaria consta di
diversi tipi di visite, tra cui la visita medica preventiva, intesa a
constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è
destinato al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica, e la
visita medica preventiva in fase preassuntiva.
Si
tratta dello stesso tipo di accertamento e con le stesse finalità: l’unica
differenza è il momento in cui viene eseguita: nel primo caso per un lavoratore
già assunto, nel secondo caso prima dell’assunzione.
Quindi
la visita preventiva in fase preassuntiva è perfettamente legittima, e il
medico competente è perfettamente legittimato ad eseguirla (ai sensi del comma
2-bis dello stesso articolo).
Per
quel che riguarda la seconda domanda, l’iter è questo: il medico competente
comunica il suo giudizio, per iscritto, al lavoratore (o aspirante lavoratore,
nel caso di visita preassuntiva) e al datore di lavoro, ai sensi del comma
6-bis dell’articolo 41.
Nel
momento in cui il lavoratore viene formalmente a conoscenza, ricevendolo per
iscritto, del giudizio del medico competente, può, se non lo condivide,
attivare il ricorso ai sensi del comma 9 dello stesso articolo 41.
Si
riporta integralmente il testo del comma 9, evidenziando la frase che contiene
la risposta al quesito della lavoratrice: “Avverso
i giudizi del medico competente, ivi compresi quelli formulati in fase
preassuntiva, è ammesso ricorso, entro trenta giorni dalla data di
comunicazione del giudizio medesimo, all’organo di vigilanza territorialmente
competente che dispone, dopo eventuali ulteriori accertamenti, la conferma, la
modifica o la revoca del giudizio stesso”.
Quindi
non è assolutamente vero che la lavoratrice non possa fare ricorso avverso il
giudizio del medico competente dopo una visita preventiva in sede preassuntiva:
infatti è chiaramente scritto, in modo che non lascia adito a nessuna
interpretazione diversa, che il ricorso è ammesso anche in questo caso.
Il
comma 9 contiene anche gli altri elementi utili a completare la risposta: visto
che il ricorso è chiaramente consentito dall’attuale normativa, la lavoratrice
può tranquillamente farlo perché ne ha, lo ripetiamo, il pieno diritto, anche
in sede di visita preassuntiva: il ricorso va inoltrato per iscritto (in carta
semplice, non necessita il bollo) entro 30 giorni da quando si è ricevuta la
formale comunicazione del medico competente) e va indirizzato allo SPSAL (così
si chiama in Emilia-Romagna, o altra denominazione che in altre regioni assume
l’organo di vigilanza) dell’Azienda USL competente per territorio non in base
alla residenza o domicilio del lavoratore, ma in base alla sede dell’azienda.
Leopoldo
Magelli
IMPARARE DAGLI ERRORI: QUANDO UNA
MACCHINA MOVIMENTO TERRA SI RIBALTA
Da:
PuntoSicuro
30 luglio
2015
Tiziano
Menduto
Esempi di
infortuni sul rischio di ribaltamento delle macchine con riferimento all’uso di
escavatori e miniescavatori. Infortuni in lavori di urbanizzazione, in terreni
agricoli e in cantieri di ristrutturazione. Gli incidenti e la prevenzione.
Dedichiamo
una seconda puntata di “Imparare dagli errori” a una delle tipologie di
infortuni che si possono riscontrare con più frequenza (con particolare
riferimento alle schede di “Informo”) nell’utilizzo di macchine movimento
terra.
Nella scorsa
puntata abbiamo parlato dell’investimento di lavoratori nel raggio d’azione
delle macchine e ci soffermiamo invece oggi sul rischio di ribaltamento, con
particolare riferimento, anche in questo caso, all’escavatore idraulico, una
delle macchine movimento terra più versatili e diffuse.
Prima di
presentare le dinamiche degli incidenti e una breve raccolta di misure di
prevenzione, segnaliamo che gli escavatori idraulici e a fune sono tra le
attrezzature di lavoro per le quali l’Accordo Stato Regioni inerente le
attrezzature di lavoro, pubblicato il 22 febbraio 2012, richiede una specifica
abilitazione degli operatori.
Il primo
caso è relativo ad un incidente in lavori di urbanizzazione di un’area.
I lavori
sono stati affidati ad una ditta di movimento terra formata da due soci dei
quali solo uno lavoratore. La ditta incarica un lavoratore autonomo come
assistente di cantiere per l’esecuzione dei rilievi tecnici. Con i lavori in
corso sono stati realizzati una serie di avvallamenti nel terreno per
posizionare gli impianti di urbanizzazione.
Un mattino
il lavoratore autonomo arriva in cantiere e, anche se non era suo compito,
visto che sul miniescavatore erano presenti le chiavi di accensione, vi sale
per effettuare dei lavori. Dopo avere messo in moto il mezzo si avvia in
un’area di cantiere particolarmente accidentata e inizia a scavare con la benna
effettuando una manovra di rotazione/traslazione che fa perdere l’equilibrio al
mezzo che inizia ad inclinarsi sul lato sinistro.
Probabilmente
a quel punto l’infortunato si è spaventato e ha deciso di uscire dal mezzo, sempre
dal lato sinistro, dove era presente una piccola scarpata costituita da
materiale particolarmente franoso (che rendeva ancora più difficile la via di
fuga) che l’operatore cerca di scalare.
Mentre cerca
di scappare (non è stato possibile accertare se l’operatore utilizzasse la
cintura di sicurezza) la cabina del miniescavatore si è inclina e con il lato
superiore sinistro lo schiaccia alla schiena contro il terreno provocandone la
morte, anche se non immediata.
Al momento
del fatto l’infortunato era da solo in cantiere. Del fatto si è accorto dopo un
certo lasso di tempo il personale di un’altra ditta che si trovava in una zona
attigua e che ha chiamato i soccorsi. Dall’indagine è emerso che l’operatore
non aveva ricevuto nessun addestramento all’uso del mezzo.
Questi i
fattori causali:
-
l’infortunato
esegue una manovra brusca di rotazione/traslazione che fa perdere l’equilibrio
al mezzo;
-
l’infortunato
esce dal mezzo che si sta ribaltando.
Il secondo
caso è relativo a un incidente avvenuto in un terreno agricolo nel corso di
operazioni di pulizia di un fosso effettuate mediante un attrezzo idraulico
detto “Jumbo” (assimilabile ad un miniescavatore) trainato da una trattrice
agricola. All’estremità del braccio idraulico è montata una benna a cucchiaio
che ha la funzione di prelevare la fanghiglia o altro materiale dal fosso. Il
terreno su cui opera la trattrice e l’attrezzo agricolo è fangoso e di scarsa
consistenza.
L’infortunato,
che opera sull’attrezzo descritto, dopo aver prelevato della fanghiglia
all’interno del fosso ha allungato il braccio idraulico per scaricarla sul lato
opposto del fosso stesso; durante questa operazione, condotta troppo
rapidamente, la ruota destra dell’attrezzo si affossava nel terreno, determinandone
il ribaltamento laterale. L’infortunato, che operava sul sedile in metallo a
lato del contrappeso, rimaneva schiacciato tra il contrappeso stesso ed il
ceppo di un albero presente lì a fianco. Il posto di comando era privo di
protezione contro lo schiacciamento.
Il terzo
caso è relativo ad un incidente avvenuto in un piccolo cantiere relativo alla
ristrutturazione di una porzione di immobile.
Il giorno
dell’infortunio un lavoratore sta operando a bordo di un miniescavatore alla
sistemazione dell’area antistante l’edificio. Durante uno spostamento in
retromarcia sale con un cingolo sopra un cumulo di terra. Il miniescavatore si
inclina sul lato sinistro e si ribalta. Il lavoratore, ai primi sintomi di
ribaltamento, tenta di scendere proprio dal lato sinistro e di allontanarsi.
Non riesce nell’operazione e rimane schiacciato sotto il telaio della cabina di
guida.
In merito
alla prevenzione di questi incidenti correlati all’uso di escavatori e
miniescavatori riportiamo alcune indicazioni tratte dalle schede contenute
nella seconda parte del manuale “Le macchine in edilizia. Caratteristiche e uso
in sicurezza”, un documento nato dal rapporto di collaborazione tra l’ INAIL
Piemonte e il CPT Torino.
Nella
“Scheda 6 Escavatore idraulico” sono elencati i principali rischi
(ribaltamento, caduta di materiale dall’alto, scivolamenti, urti, cesoiamento,
vibrazioni, rumore, ecc.) e le relative principali misure di sicurezza da
adottare per prevenirli o per la protezione dei soggetti interessati dalle
attività inerenti l’uso dell’escavatore idraulico.
Si indica,
ad esempio, che il ribaltamento dell’escavatore può essere determinato da una
serie di cause come:
-
cedimento
del piano di appoggio o dei percorsi, ad esempio per la presenza di
sottoservizi;
-
errori di
posizionamento e manovra durante le attività di scavo o sollevamento di
materiali.
E per
prevenire tale rischio occorre:
-
verificare i
percorsi e le aree di intervento e rispettare le istruzioni del fabbricante in
particolare in merito ai limiti d’uso e al posizionamento;
-
durante
l’attività di scavo procedere per fasi successive senza compromettere la
stabilità del terreno e conseguentemente del mezzo;
-
mantenere la
distanza di sicurezza dal ciglio dello scavo (nel caso degli escavatori
cingolati, orientare i cingoli perpendicolarmente alla parete dello scavo);
-
utilizzare
la cintura di sicurezza.
Fermo
restando le indicazioni contenute nelle istruzioni d’uso di ogni macchina,
riportiamo, per concludere, alcune indicazioni della scheda relative ad alcuni
divieti per l’uso degli escavatori:
-
non
ammettere a bordo della macchina altre persone;
-
non eseguire
operazioni di scavo sotto una superficie in pendenza;
-
non scavare
sotto la macchina per non compromettere la stabilità del terreno e conseguentemente
della macchina;
-
per evitare
guasti o deterioramenti, non fare uso della sola forza di rotazione per compattare
il terreno o per frantumare manufatti;
-
per evitare
guasti o deterioramenti, non usare la forza di caduta della benna ad esempio
per demolizioni o per inserire pali nel terreno;
-
per evitare
guasti o deterioramenti, non inserire i ‘denti’ della benna nel terreno e usare
la forza di marcia dell’escavatore per scavare;
-
non eseguire
operazioni mantenendo i cilindri idraulici sui finecorsa (cilindro completamente
esteso o cilindro completamente retratto);
-
non usare la
forza di caduta del braccio dell’escavatore per le operazioni di scavo o per
compattare il terreno;
-
non superare
i limiti di altezza raggiungibile dal braccio operando con i cingoli non correttamente
appoggiati a terra;
-
evitare
movimenti improvvisi delle leve sia per quanto riguarda la marcia sia per
quanto riguarda i movimenti dei bracci idraulici; muovere le leve gradualmente;
-
non condurre
la macchina in acque più profonde dell’altezza del centro della ruota motrice;
-
nei terreni
in pendenza, non far ruotare l’attrezzatura con la benna carica dal lato in
salita verso il lato in discesa.
La Home Page del sito web di “Informo” dal quale
sono state ricavate le indicazioni di questo articolo è:
SICUREZZA E SALUTE NELLE MICRO E
PICCOLE IMPRESE
Da:
PuntoSicuro
31 luglio
2015
Le corrette
condizioni di sicurezza e salute sono un beneficio per le micro e piccole
imprese. Quali difficoltà incontrano le micro e le piccole imprese? EU-OSHA
(Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro) le aiuta a valutare i
rischi del luogo di lavoro.
Le piccole e
medie imprese (PMI) sono considerate elementi chiave per la crescita economica,
l’innovazione, l’occupazione e l’integrazione sociale e costituiscono la spina
dorsale dell’economia dell’UE.
Nel 2013 le
PMI rappresentavano il 99,8% di tutte le imprese non finanziarie dell’UE. Ciò
equivale a 21,6 milioni di imprese dell’UE.
Alle PMI
appartengono tre categorie: micro, piccole e medie imprese. Nella
raccomandazione 2003/361/EC della Commissione del 6 maggio 2003 sono definite
come segue:
-
una media
impresa ha meno di 250 dipendenti e un fatturato annuo che non supera i 50
milioni di euro e/o il totale del bilancio annuo non supera i 43 milioni di
euro;
-
una piccola
impresa ha meno di 50 dipendenti e un fatturato annuo o un totale del bilancio
annuo non superiore a 10 milioni di euro;
-
una
microimpresa ha meno di 10 dipendenti e un fatturato annuo o un totale del
bilancio annuo non superiore a 2 milioni di EUR.
In media, le
PMI in Europa hanno assunto 4,22 persone, pertanto la stragrande maggioranza
(92,4%) delle imprese dell’Unione europea sono classificate come microimprese.
Le suddette microimprese rappresentano il 67,4% di tutti i posti di lavoro in
Europa, di conseguenza la loro importanza per l’economia europea è immensa.
Quali
difficoltà incontrano le micro e le piccole imprese?
Dai dati
emerge che i dipendenti delle imprese più piccole sono soggetti a maggiori
rischi rispetto ai dipendenti delle imprese più grandi, e che le imprese più
piccole hanno più difficoltà a controllare i rischi. Diversi studi, inclusa
l’indagine europea di EU-OSHA sulle imprese e i nuovi ed emergenti rischi
(ESENER), mostrano che le difficoltà nella gestione della salute e sicurezza
sul lavoro sono particolarmente rilevanti quanto più è ridotta la dimensione
dell’impresa.
La gestione
relativamente carente della salute e sicurezza sul lavoro può essere attribuita
a specifiche caratteristiche tipiche delle piccole imprese quali:
caratteristiche strutturali e organizzative del lavoro e delle assunzioni,
posizione economica e relazioni commerciali, diversità commerciale e
flessibilità, lontananza dalla portata delle misure di regolamentazione, comportamenti
e competenze di proprietari e lavoratori nei suddetti piccoli stabilimenti o
breve ciclo di vita. Queste caratteristiche rendono molto più difficile per le
micro e piccole imprese creare e mantenere un ambiente di lavoro sicuro e
salutare.
Diversi
altri fattori che hanno un impatto nella gestione della salute e sicurezza sul
lavoro in tali stabilimenti, se comparati con i più grandi, includono:
-
difficoltà
di regolamentazione, considerato che sono tipicamente eterogenei, geograficamente
sparsi, e privi di rappresentazione coesa;
-
i limiti di
bilancio comportano spesso una mancanza di risorse per porre in essere
iniziative e interventi per la sicurezza e la salute come ad esempio consulenze
per la salute e la sicurezza, informazioni, strumenti e controlli a pagamento;
-
meno risorse
ostacolano l’attuazione delle attività di prevenzione;
-
sono disponibili
meno tempo ed energie per attività non fondamentali, e la gestione della
sicurezza e della salute vengono spesso percepite come tali: condizioni
ottimali di salute e sicurezza sul lavoro non sono considerate una priorità;
-
la
valutazione dei rischi può essere costosa e difficile da completare, in
particolare modo se l’impresa non dispone del know-how in materia di salute e
sicurezza sul lavoro per effettuarla efficacemente;
-
raggiungere
le micro e le piccole imprese direttamente può essere difficoltoso per le organizzazioni
che promuovono o attuano una corretta sicurezza e salute nel luogo di lavoro.
Meno della
metà delle micro e piccole nuove imprese sopravvive per più di 5 anni, e solo
una frazione di queste entra a far parte del gruppo di aziende ad alte
prestazioni che costituiscono il motore dell’innovazione e della performance
industriale. Uno studio ha rivelato che tra le nuove micro e piccole imprese
statunitensi, quelle che fallivano entro uno o due anni avevano un tasso medio
di infortuni sul lavoro superiore più del doppio a quelle sopravvissute per più
di cinque anni.
I costi
degli incidenti costituiscono un motivo di particolare preoccupazione per le
piccole imprese in quanto rappresentano l’82% di tutti gli infortuni sul lavoro
ed il 90% di tutti gli incidenti mortali.
L’impatto di
un grave incidente nell’ambito della salute e sicurezza sul lavoro potrebbe
rivelarsi catastrofico per una piccola impresa:
-
è molto più
difficile per le micro e piccole imprese riprendersi da un incidente legato
alla salute e sicurezza sul lavoro;
-
l’impatto
relativo è maggiore rispetto a quello delle aziende più grandi;
-
i lavoratori
indispensabili non possono essere facilmente o velocemente sostituiti;
-
brevi
interruzioni dell’attività possono causare la perdita di clienti e di contratti
importanti;
-
un grave
incidente può portare alla chiusura dell’attività a causa dei costi diretti
legati all’incidente o alla perdita dei contratti e/o dei clienti;
-
anche
piccoli incidenti e casi di malattia possono raddoppiare le assenze per motivi
di salute.
Statistiche
come queste dimostrano che buone pratiche di salute e sicurezza sul lavoro sono
fondamentali per il successo e la sopravvivenza a lungo termine di tali micro e
piccole imprese. L’indagine EU-OSHA ha dimostrato che anche imprese molto
piccole possono ottenere risultati di alto livello per quanto riguarda le
pratiche di gestione della salute e sicurezza sul lavoro in alcuni paesi e
settori dell’Unione europea. Ciò suggerisce che creando un ambiente che incoraggia
la salute e sicurezza sul lavoro è possibile migliorare notevolmente la
gestione nelle micro e piccole imprese.
Una gestione
efficace della salute e sicurezza sul lavoro non solo è essenziale per
migliorare il benessere dei lavoratori, ma garantisce inoltre la prosperità
delle aziende e delle economie in una prospettiva a lungo termine riducendo le
perdite di produzione derivanti da infortuni o malattie.
Si legga la
relazione EU-OSHA sulla sicurezza e salute sul luogo di lavoro e l’andamento economico
nelle piccole e medie imprese (“Occupational Safety and Health and economic
performance in small and medium enterprises: a review”)
EU-OSHA
aiuta le micro e le piccole imprese a valutare i rischi del luogo di lavoro.
Una adeguata
valutazione del rischio è la chiave per un luogo di lavoro salutare. Tuttavia,
il processo di valutazione del rischio può rivelarsi piuttosto impegnativo
specialmente per le micro e le piccole imprese che spesso non possiedono le
risorse o il know-how in materia di sicurezza e salute sul lavoro necessari per
svolgere tale valutazione in modo efficace.
Lo strumento
interattivo online EU-OSHA per la valutazione dei rischi (OiRA) ha lo scopo di
superare questi ostacoli, quale prima iniziativa a livello dell’Unione europea
che incoraggia le micro e le piccole imprese europee alla valutazione dei
rischi (principalmente attraverso gli Stati membri e le parti sociali a livello
di UE e degli Stati membri).
La
piattaforma OiRA permette di elaborare strumenti online facili da usare e
gratuiti in grado di aiutare le micro e le piccole organizzazioni a istituire
procedure di valutazione del rischio per tappe che iniziano con
l’identificazione e la valutazione dei rischi sul luogo di lavoro, seguite dal
processo decisionale e l’attuazione di azioni preventive, e si conclude con il
monitoraggio e le relazioni.
Questo
strumento viene utilizzato dai partner sociali settoriali (organizzazioni di
datori di lavoro e di lavoratori) nonché da autorità nazionali (ministeri,
ispettorati del lavoro, istituti di salute e sicurezza sul lavoro, ecc.) per
elaborare strumenti di valutazione del rischio per settori specifici destinati
alle piccole imprese.
Per maggiori
informazioni su OiRA visitare il sito del progetto e il relativo articolo
OSHWiki .
Data
l’importanza della salute e sicurezza sul lavoro nelle piccole e medie imprese,
l’EU-OSHA ha avviato un progetto su larga scala (dal 2014 al 2017) sul
“Miglioramento della salute e della sicurezza sul lavoro (salute e sicurezza
sul lavoro) nelle micro e piccole imprese in Europa”.
Lo scopo di
tale panoramica salute e sicurezza sul lavoro sulle micro e piccole imprese è
raccogliere, analizzare e diffondere una conoscenza approfondita, aggiornata e
nuova nonché maggiore comprensione circa: politiche e strategie, strumenti e
risorse, opinioni e prassi nel posto di lavoro con riferimento alla gestione
della salute e sicurezza sul lavoro nelle micro e piccole imprese. Ciò
includerà una ricerca empirica, basata sulla teoria e orientata allo sviluppo
di politiche, che andrà ad integrare l’analisi preventiva e sul campo
attraverso l’uso di metodologie di ricerca, strumenti e tecniche analitiche
qualitativi e quantitativi.
Questo
progetto EU-OSHA cercherà di individuare come si comportano al momento le micro
e piccole imprese per quanto riguarda la gestione della salute e sicurezza sul
lavoro dei loro lavoratori, che cosa gli impedisce di prendere in
considerazione la salute e sicurezza sul lavoro, e cosa potrebbe incoraggiarle
a migliorare le condizioni di salute e sicurezza sul lavoro all’interno
dell’ambiente lavorativo. Una revisione della letteratura combinata con
l’analisi dei dati quantitativi da parte di EU-OSHA aiuterà a comprendere
l’attuale stato della salute e sicurezza sul lavoro nelle suddette imprese più
piccole. L’attività si baserà dunque sul lavoro esistente, e con il contributo
di seminari, interviste e questionari delle parti interessate, affiancherà
l’attuazione delle raccomandazioni, lo scambio delle migliori pratiche e le
ulteriori indagini sui modi per migliorare la salute e sicurezza sul lavoro in
queste imprese - in particolare per comprendere come le micro e piccole imprese
possano essere motivate e incoraggiate a migliorare le condizioni lavorative,
riducendo così gli incidenti legati al lavoro e le malattie professionali.
Attraverso
un’analisi comparativa tra i paesi, i settori, le classi di grandezza, ecc.,
questo progetto assisterà i legislatori europei e nazionali aiutandoli a capire
“cosa funziona” e “perché funziona” nello sviluppo e nell’impiego di strategie
e risorse per migliorare i risultati circa la salute e sicurezza sul lavoro in
queste imprese.
Fonte: EU-OSHA
LA RESPONSABILITA’ DEL LAVORATORE
PER INFORTUNIO A UN ALTRO LAVORATORE
Da:
PuntoSicuro
3 agosto
2015
di Gerardo
Porreca
L’autista di
una betonpompa è stato ritenuto responsabile per il decesso di un altro
lavoratore causato dal mancato rispetto delle procedure e istruzioni: la
condotta è stata considerata sufficiente alla determinazione dell’evento
lesivo.
E’ uno di
quei casi quello preso in esame dalla Corte di Cassazione in questa sentenza in
cui determinante è stato considerato il comportamento di un operatore di una
macchina che, a seguito di un errore dallo stesso commesso e del mancato
rispetto delle procedure e delle istruzioni previste per la sua utilizzazione,
ha provocato l’infortunio di un lavoratore.
Nel caso
particolare la macchina era una betonpompa e l’errore dell’operatore era
consistito nell’abbassare il braccio dell’attrezzatura che ha colpito
l’infortunato venuto a trovarsi nel raggio di azione del braccio medesimo
difformemente da quanto specificatamente previsto nel libretto di istruzione
della macchina.
La Corte di Appello ha confermata la
sentenza con la quale il Tribunale aveva condannato un lavoratore alla pena di
nove mesi di reclusione in relazione al reato di omicidio colposo commesso ai
danni di un altro lavoratore in violazione delle norme per la prevenzione degli
infortuni sul lavoro. All’imputato era stata originariamente contestata la
violazione dei tradizionali parametri della colpa generica e delle norme di
colpa specifica espressamente richiamate nel capo d’imputazione, per effetto
della quale, nell’esercizio della propria attività di autista della betonpompa,
mentre era intento a una gettata di calcestruzzo, aveva comandato
l’abbassamento del braccio dell’attrezzatura in presenza di persone nel raggio
di azione di questo, in difformità da quanto previsto dal libretto di
istruzioni del mezzo, venendo così a colpire violentemente alla testa il
lavoratore infortunato cagionandone il decesso.
Avverso la
sentenza della Corte di Appello l’imputato, a mezzo del proprio difensore, ha
proposto ricorso alla Corte di Cassazione sulla base di diverse motivazioni di
impugnazione.
Con un primo
motivo, il ricorrente ha censurata la sentenza impugnata, avendo la Corte territoriale ritenuto
inattendibili le dichiarazioni a discarico di un testimone oculare, di cui era
stata richiesta la tardiva escussione in appello, sulla base di una motivazione
illogica e contraddittoria, con particolare riguardo alla circostanza relativa
all’effettiva presenza del testimone stesso sul luogo dei fatti al momento del
sinistro.
Come atro
motivo fondamentale il ricorrente ha censurata la sentenza impugnata per vizio
di motivazione e violazione di legge, con particolare riguardo alla
ricostruzione dello svolgimento dei fatti e del dinamismo causale che ebbe a
condurre al decesso del lavoratore, con particolare riguardo alla valutazione
della condotta della vittima, nella specie idonea a costituire di per sé sola
una condizione sufficiente alla determinazione dell’evento lesivo oggetto della
causa.
Il ricorso è
stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione che lo ha pertanto
rigettato.
Per quanto
riguarda la lamentela avanzata dal ricorrente con riguardo alla valutazione
operata dalla Corte territoriale circa l’inattendibilità del testimone, la
suprema Corte ha considerata legittima la decisione assunta dai giudici
d’appello avendo gli stessi spiegato in modo coerente e logicamente argomentato
le ragioni per le quali fosse del tutto non credibile la circostanza della
presenza dello stesso sul luogo del sinistro e quindi irrilevante la sua
testimonianza. Al riguardo, la
Corte territoriale ha evidenziato come ben tre ufficiali di
polizia giudiziaria intervenuti presso il cantiere subito dopo l’infortunio
(sottoscrittori della comunicazione della notizia di reato) avessero dato atto
che nessuno dei soggetti presenti sul luogo al momento dell’infortunio avesse
confermato la contestuale presenza del teste, presenza del cui riscontro nessun
accenno era emerso nel corso dell’interrogatorio reso dallo stesso imputato
dopo l’avviso di conclusione delle indagini. Ciò posto, secondo la suprema
Corte, nessuna violazione del principio che impone al giudice l’ammissione di
prove decisive richieste dalle parti (ai sensi dell’articolo 606, lettera d)
del Codice di Procedura Penale) può essere ascritta alla scelte della Corte
territoriale, avendo quest’ultima analiticamente spiegato, in forza delle
richiamate motivazioni, le ragioni della ritenuta radicale inattendibilità
delle dichiarazioni del preteso testimone addotto dalla difesa.
Quanto alla
ricostruzione del dinamismo causale che aveva condotto al decesso del
lavoratore la Sezione IV
ha rimarcato come la Corte
territoriale (sulla scia delle linee argomentative fatte proprie dal giudice di
primo grado) “avesse del tutto correttamente escluso il rilievo causale del
comportamento del lavoratore deceduto nella produzione dell’evento lesivo,
evidenziando invece come l’imputato si fosse reso autore di gravissime
violazioni delle norme cautelari riferite al governo del braccio della
betonpompa dallo stesso azionato, con particolare riguardo al radicale rigoroso
divieto di procedere all’azionamento di detto braccio in caso di presenza di
lavoratori nel relativo raggio d’azione; violazioni espressive d’imprudenza
tale da porsi, di per sé sola, quale fonte autonoma di gravissimi rischi come
quello nella specie puntualmente concretizzatosi”.
La Sentenza n. 31234 del 17 luglio 2015 della
Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:
VISITE MEDICHE PREVENTIVE: PER
QUANTO TEMPO VALGONO?
Da:
PuntoSicuro
3 agosto
2015
di Leopoldo
Magelli
E’
necessario effettuare un nuova visita medica preventiva in caso di riassunzione
dello stesso lavoratore per la medesima mansione?
Pubblichiamo
un articolo tratto da “Articolo 19”
n. 02/2014, Bollettino di informazione e comunicazione per la rete di RLS delle
aziende della Provincia di Bologna realizzato dal SIRS (Servizio Informativo
per i Rappresentanti dei lavoratori per la Sicurezza) con la collaborazione di vari soggetti
istituzionali provinciali (Provincia di Bologna, AUSL, INAIL, DPL,
organizzazioni sindacali, ecc.).
Come è noto,
la visita medica preventiva viene effettuata prima che il lavoratore
interessato inizi a svolgere la sua mansione/attività a rischio, per accertare
se è idoneo a svolgere tale specifica mansione/attività, constatando quindi che
non esistano controindicazioni al lavoro a cui è destinato ed ai suoi rischi.
Tale visita
è disciplinata dall’articolo 41 del D.Lgs.81/08, al comma 2, che così recita:
“la visita medica preventiva è intesa a
constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è
destinato al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica”.
Si coglie
l’occasione per ricordare due importanti elementi, correlati al quesito in
oggetto:
All’articolo
41 comma 2-bis si precisa che le visite mediche preventive possono essere
svolte in fase preassuntiva, su scelta del datore di lavoro, dal medico
competente o dai dipartimenti di prevenzione delle ASL.
All’articolo
41, comma 9, si precisa che contro il giudizio emesso in sede di visita
preventiva (anche il fase preassuntiva) è ammesso il ricorso del lavoratore:
entro trenta giorni dalla data di comunicazione del giudizio medesimo,
all’organo di vigilanza territorialmente competente che dispone, dopo eventuali
ulteriori accertamenti, la conferma, la modifica o la revoca del giudizio
stesso.
Il quesito
che ci è stato posto è il seguente: se un lavoratore è stato dichiarato idoneo
alla sua mansione specifica alla visita preventiva e poi, per qualsiasi motivo,
viene a cessare il rapporto di lavoro con quell’azienda, un eventuale rientro
nell’azienda per svolgere la stessa mansione (o una mansione analoga in termini
di profilo di rischio) obbliga l’azienda ed il lavoratore a svolgere una nuova
visita preventiva?
La risposta
della Commissione per gli Interpelli ha fornito una risposta ufficiale a questo
quesito (vedi Interpello N. 8/2013 del 24/10/13 al link a seguire) e al suo
parere ci atterremo nella nostra risposta.
La Commissione, partendo dalla considerazione che
la visita medica periodica, per controllare lo stato di salute dei lavoratori
ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica, è prevista con
una periodicità di norma di in una volta l’anno (salvo i casi in cui specifici
riferimenti normativi non prevedano diversamente), ritiene di poter assumere lo
stesso intervallo temporale (un anno) come limite di validità di una visita
preventiva (ovviamente a parità di mansione e quindi di rischi).
Pertanto la Commissione così si
pronuncia:
“Nel caso di assunzioni successive, qualora
il lavoratore sia impiegato in mansioni che lo espongono allo stesso rischio
nel corso del periodo di validità della visita preventiva o della visita
periodica […] e comunque per un
periodo non superiore a un anno, il datore di lavoro non è tenuto ad effettuare
una nuova visita preventiva, in quanto la situazione sanitaria del lavoratore
risulta conosciuta dal medico competente”.
Attenzione
però a non interpretare male questo parere.
Esso infatti
si applica solo al caso in cui il nuovo accesso (dopo una cessazione dal
lavoro) alla stessa mansione a rischio per cui si era stati dichiarati idonei
avviene nella stessa azienda, mentre non vale ovviamente per assunzioni, anche
entro un anno dalla prima visita preventiva, in aziende diverse.
Infine si fa
notare che dire che “il datore di lavoro non è tenuto” non equivale a dire che
è vietato effettuarla, quindi il datore di lavoro potrebbe decidere, magari in
accordo col medico competente, di rieffettuare una nuova visita preventiva.
La risposta
della Commissione per gli interpelli n. 8/2013 del 24 ottobre 2013 è
scaricabile all’indirizzo:
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