(un contributo)
di Giovanni
Iozzoli
Eccolo, ci mancava un ingrediente
decisivo. Arrivano sulla scena quei sindacati complici che firmano un accordo,
separato e truffaldino, per soccorrere il padrone e dividere i sommersi dai
salvati.
Alla vicenda
della Castelfrigo mancava solo questo elemento tradizionale – la corruzione
sindacale – per avvicinarsi compiutamente alla Chicago anni Trenta: mafiosi
capi di cooperative, narcotrafficanti addetti alle risorse umane, lavoratori
schiavizzati, spremuti e buttati sul lastrico e adesso, finalmente, scendono in
campo anche i sindacalisti venduti.
Così, se Sergio Leone dovesse decidere di
reincarnarsi, tra qualche anno potrà girare un nostalgico “C’era una volta a
Castelnuovo Rangone” dove non mancherà nessuno degli stereotipi classici della crime story – senza lieto fine, ovviamente, perché nella terra
del maiale niente finisce lietamente: anche se l’assassino è pubblicamente
smascherato, continua imperterrito a produrre crimine e impunità.
L’epica
lotta dei forzati del prosciutto si avvia verso il suo sentiero finale, con
orgoglio, consapevolezza, ma anche con un retrogusto amaro: la Cisl e l’azienda
hanno tirato fuori un accordo, tenuto segreto per un mese, che tutela – assai
debolmente – 52 dei 127 licenziati; si tratta esattamente del perimetro dei suoi
iscritti, oltre a tutti quelli che non avevano partecipato ai due mesi di
mobilitazione precedente. Un’attenta cernita. Del resto, il padrone non è tipo
da nascondere la mano, era stato abbastanza esplicito già tempo addietro:
sceglietevi la tessera giusta o ne pagherete le conseguenze. La faccenda ha
destato scandalo persino sulla stampa locale – troppo smaccata la provocazione,
troppo infame il comportamento cislino – finanche il sindaco di Castelnuovo ha
dovuto mimare qualche timida ripulsa. Se il “paccotto” di Natale si confeziona
con modalità così luride, dove va a finire l’auspicata “mediazione sociale”,
l’appello “al dialogo e alla ragionevolezza”, la ricerca di “soluzioni
condivise”?
Ma la
vicenda Castelfrigo cos’è, se non la riproposizione su scala minore del modello
Pomigliano e del metodo Marchionne, a suo tempo pienamente metabolizzato e
legittimato dentro la società italiana? Perché il più grande gruppo industriale
italiano avrebbe il diritto di spacchettare oscenamente i diritti e i destini dei
suoi dipendenti, mentre nel più modesto comparto carni tutto ciò dovrebbe
essere evitato? Perché questa, stringi stringi, è stata la “rivoluzione di
Marchionne”, quella a suo tempo salutata come l’avvio di una nuova era: chi
sciopera, chi ha la tessera non gradita o anche solo chi è potenzialmente
individuato come disturbatore, è pregato di accomodarsi fuori. E alla
Castelfrigo, oggi, spaccarsi la schiena e i polsi nelle celle frigorifere (per
un contrattino interinale di tre mesi) è diventato un privilegio che si paga
con la sottomissione, la presa di distanza dai reprobi, la resa unilaterale
davanti al padrone. Questa è l’Italia sordida che abbiamo lasciato dilagare, in
questi anni.
Flashback: da più di vent’anni, nel cuore
dell’economia modenese, la filiera agroalimentare e il rinomatissimo “distretto
carni”, le aziende hanno permesso l’insediamento di cooperative spurie, spesso
gestite da malavitosi, grazie alle quali, con un complicato sistema di appalti
e subappalti, si può risparmiare il 50% del costo del lavoro e praticare una
generalizzata evasione fiscale e contributiva. In questo modo le imprese,
grandi marchi o loro importantissimi terzisti, hanno dimostrato in pratica, a
mo’ di teorema, che il discrimine tra economia criminale ed economia capitalistica
ordinaria, sostanzialmente non esiste.
Le mafie non
sono un “cancro”, come dice la retorica legalitaria: sono una variante,
un’opzione, una potenzialità in più del meccanismo economico.
Tutto ciò
negli anni si è consolidato, in questo assai poco ridente angolo di provincia
modenese, in forma organizzata e capillare di “sistema”, distribuendo miseria a
chi lavora e consentendo margini di competitività ad imprese che per reggere la
concorrenza globale farebbero ogni schifezza, anche riempire i polpettoni di
carne operaia, se servisse.
Da un paio
d’anni, i nuovi schiavi dei prosciuttifici hanno cominciato ad alzare la testa
e ribellarsi. Si tratta di lavoratori spesso stranieri, eternamente precari,
ogni anno più poveri e ricattabili sulla base dei furiosi cambi appalto che
fanno sparire e ricomparire magicamente i formali datori di lavoro. La loro
presa di parola, il coraggio della lotta, non era cosa né facile né scontata. E
se già in altre aziende, vedi la Alcar, il conflitto aveva prodotto visibilità,
è stato alla Castelfrigo che una lotta operaia ha fatto finalmente irruzione
nell’agenda politica e costretto tutto il territorio a interrogarsi, con
corpose ricadute nazionali.
E anche
questo recente accordo truffa, tirato fuori tra Natale e Capodanno, non
consentirà di seppellire né la vertenza, né le questioni che essa ha evocato.
Finalmente il muro d’omertà diffuso, che aveva sostanzialmente salvaguardato il
caporalato criminale per tutelare “le eccellenze produttive locali”, ha
cominciato a sgretolarsi. Gazzettieri, amministratori, politicanti, magistrati
e semplice opinione pubblica: tutti hanno dovuto toccare con mano che dietro i
marchi scintillanti dei banconi degli ipermercati, si poteva leggere una storia
durissima e vergognosa di sfruttamento paraschiavistico; la vetrina della
qualità gastronomica italiana era chiazzata di sangue – e non in senso
metaforico.
Dopo un paio
di mesi di incessante mobilitazione davanti ai cancelli dell’azienda di
Castelnuovo Rangone, con il protagonismo reale di una compagine
determinatissima e disperatamente vitale, che è riuscita a inventarsi giorno
per giorno un’enorme volume di iniziative, i centri di potere locali non hanno
potuto più ignorare il problema; troppo insistente l’irruzione operaia, troppo
clamore, troppi reportage, troppe vergogne nascoste per lunghi, lunghissimi
anni, dietro le mura di capannoni che sbandierano il “made in Italy” come
garanzia di qualità. Piano piano sono arrivati i pronunciamenti, le prese di
distanza, gli ordini ispettivi e istituzionali e le denunce.
Come un
novello Candide, il ceto politico da sempre al governo da queste parti, ha
manifestato indignazione per una realtà che tutti conoscevano da almeno
vent’anni. La verità è che queste terre avevano lungamente alimentato una
“congiura del silenzio” degna dell’Aspromonte: l’impresa è sacra, la
competizione è selvaggia, il fatturato è inviolabile – chi parla di diritti e
contratti è un disfattista, un estraneo imbucato, uno che non afferra la
modernità delle filiere, un troglodita.
Questi
straordinari ragazzi ghanesi, albanesi, maghrebini, cinesi (sì, evviva, ci sono
anche i cinesi in testa alle mobilitazioni, ed è un segnale di novità) che
hanno dato corpo questa lotta, inseguendo il padrone persino nei suoi sacri
spazi privati, hanno prodotto in sé un mutamento di coscienza straordinaria: la
lotta di classe è una scuola politica, culturale e umana che non ha eguali.
Ogni santo giorno hanno animato la loro assemblea, accumulato competenze,
concesso interviste, discusso da pari a pari con i sindacalisti professionisti
a cui non hanno delegato nulla. Mesi che valgono come anni per lavoratori che
se – come è scritto nei protocolli firmati ai tavoli regionali – dovessero
trovare una nuova collocazione in aziende del territorio, dentro realtà meno
piratesche e compromesse, resteranno comunque sentinelle vigili contro il nuovo
schiavismo che avanza. Quadri operai, non merce.
Si è detto,
senza retorica, che questi proletari, in massima parte stranieri, hanno
insegnato molto agli italiani. Però attenzione: anche loro hanno imparato
qualche lezione, pure quelli che vivono qui da un quarto di secolo e pensavano
di sapere tutto.
Lezione 1
In Italia,
oltre alla “cooperative spurie” esistono i “sindacati spuri”. Non si tratta di
semplice corruzione (anche se in questi casi, mazzette e marchette non sono mai
sgradite). O meglio: stiamo parlando di una corruzione più profonda,
ontologica, viene da dire; un sindacato che fa esattamente il contrario di
quello che dovrebbe fare, una perversione dei fini che mette in contrasto il
nome e la cosa: come se il WWF si mettesse a organizzare safari. Questa
espressione, “spuria”, tipica di un italiano desueto e burocratico, significa
letteralmente (leggiamo dal Garzanti): “di natura non definita, bastardo”. Naturalmente
la natura dei sindacalisti Cisl appare ben definita!
Lezione 2
In Italia
non basta aver ragione, non serve che il sindaco o il Governatore della tua
Regione o i giornali e la Rai, la Commissione Lavoro di Montecitorio o persino
il Santo Padre e l’Onu, ti diano ragione. La vera ragione sta in bilico, ben
nascosta dentro il rapporto di forza; la democrazia è solo una favola per anime
semplici: patrimonio, fatturato, batterie di avvocati e complicità che contano,
questo decide se le ragioni si incarnano in cambiamenti o restano pezzi di
carta. Castelfrigo ha subito gravi danni di immagine e forse perso un po’ di
commesse. Ma la vicenda dell’accordo separato, conferma che l’arroganza del
padrone può anche fare a meno del consenso. È una rivendicazione di autonomia
del comando d’impresa, una maligna dichiarazione di indipendenza che racconta
bene la brutale ideologia esibita dai padroni oggi: dite pure quello che vi
pare, io rispondo con i milioni. Se la vicenda Castelfrigo finirà con qualche
sentenza in Tribunale e un po’ di risarcimenti, sarà l’ennesima vittoria delle
ragioni d’impresa: la violazione della Costituzione è monetizzabile e con i
soldi si compra tutto
Lezione 3
La vicenda
Castelfrigo ha effettivamente smosso l’agenda politica e fatto uscire i paguri
dal loro guscio. Ma l’ostinazione a non “spingersi troppo oltre”, a rimanere
“sul terreno democratico”, una certa fissazione legalista, la scelta in
definitiva di non praticare i blocchi dei cancelli, ha impedito che si
sperimentasse l’ultimo miglio della lotta, quello in cui, esperite tutte le
fasi di pubblica sensibilizzazione, il rapporto di forza diventa nudo e crudo,
e si fa la cernita tra amici interessati, tartufi e solidali. I lavoratori
hanno il diritto e il dovere di non abbandonare nessuna delle armi in loro
possesso, se vogliono vincere.
Lezione 4
Non bisogna
confidare nel fatto che i pronunciamenti istituzionali a favore di questa
battaglia siano irreversibili: in Italia non esiste la nozione di
“irreversibilità”, tutto è riassorbibile, niente passa davvero in giudicato.
Peraltro siamo sotto elezioni, i politici italiani sono bestie impudiche e
senza ritegno (soprattutto quelli nelle due versione piddine double face – PD e
MDP). Le lotte sociali sono viste con sostanziale fastidio, come elementi di
disturbo del traccheggiamento quotidiano a cui sono abituati; appena esse
rifluiscono, le priorità tornano quelle tradizionali: prima il mercato poi
tutto il resto.
Lezione 5
I padroni sanno
cos’è la lotta di classe e soprattutto conoscono bene la solidarietà di classe.
Confindustria non ha mollato un centimetro, ha considerato i padroni di
Castelfrigo “colleghi che sbagliano” da non abbandonare, il fronte
imprenditoriale è rimasto stoicamente compatto: si può e si deve difendere
l’indifendibile! – molleranno prima loro, si son detti, con le loro pezze al
culo e gli affitti in arretrato, piuttosto che noi, pilastri benemeriti del
territorio. Una lezione di coerenza, per i proletari.
Lezione 6
Quando Diego
– insieme a Chen, Frank e tutti gli altri – sostiene che alla Castelfrigo
“stanno scrivendo un pezzo di storia sindacale” sta dicendo la verità, al di là
di quali saranno gli esiti finali della vertenza. Il presidio andrà avanti,
orgogliosamente, fino a quando tutti i lavoratori esclusi non saranno
ricollocati in aziende della provincia (ci sono impegni assunti in tal senso
dalla Lega delle Cooperative e da attori importanti del comparto, tutti ansiosi
di cancellare l’onta e le polemiche di queste settimane e di ricacciare la
polvere sotto al tappeto). Ma adesso è il momento di andare avanti, di non
mollare, di spostarsi davanti ai cancelli delle altre decine di Castelfrigo che
ammorbano il tessuto economico. Il rischio è che escano dal portone le
cooperative “spurie” e rientrino dalla finestra gli appalti interni, tramite
Srl “fatte in casa”- con la medesima finalità: non stabilizzare i lavoratori e
comprimere il loro costo vivo. Bisogna proseguire, col coltello in mezzo ai
denti. Perché è lì, dentro quei contratti farlocchi, dentro quegli stipendi
miserabili, dentro lo spezzettamento della base occupazionale, dentro la
sacrosanta disaffezione al lavoro, che cova e marcisce l’eterna crisi italiana:
nella svalorizzazione cronica del lavoro, nel suo deprezzamento, nella sua
marginalità, nel suo scadimento qualitativo e professionale. Quella è la vera
cancrena italiana – il lavoro che un tempo fu ricchezza, civilizzazione,
mobilità sociale, oggi è maledizione, povertà, cristallizzazione delle gerarchie.
Si blatera tanto di ricette economiche e strategie di uscita dalla crisi. Viene
da sorridere. Se si vogliono capire le ragioni della crisi, basta dare
un’occhiata alla paga oraria in Castelfrigo. Là dentro è scritto l’arcano della
crisi. E più si affannano a erodere i salari, a precarizzare le prestazioni,
più la crisi, sghignazzando oscena, si avvita su se stessa. L’unica misura
anticiclica oggi la potrebbero mettere in campo i proletari scioperando e
strappando ricchezza.
Intanto il
presepe emiliano traballa e scricchiola sempre di più. La figura operaia,
simbolo dell’iconografia para-socialista che per alcuni decenni aveva dato
corpo all’ideologia emiliana – l’operaio integrato, l’operaio in ascesa
sociale, l’operaio professionale e dalla tuta immacolata, l’operaio con il
figlio dottore, l’operaio cooperatore, civico, sentinella del territorio
affacciato sulla soglia della sezione, a fronte strada –, quella figura
operaia, dicevamo, sta solo nei ricordi sbiaditi e malinconici degli anziani,
protagonisti inconsapevoli dell’epopea del compromesso sociale. Il microcosmo
della lotta alla Castelfrigo ha squadernato brutalmente, in modo quasi
didascalico, la moderna composizione del lavoro produttivo. I nuovi operai sono
figure picaresche, tragicamente povere, sbattute come foglie al vento tra i
diversi gironi di un mercato del lavoro pericoloso e inafferrabile. I più
esposti e precari, come i forzati delle cooperative spurie, sperano in una
stabilizzazione che li consegni a vita alla schiavitù di una busta paga sicura
– e per molti è un miraggio chimerico; gli altri, quelli con un impiego e un
contratto un po’ più solido, si tengono stretti la ciotola, bestemmiando,
ringhiando, pagando bollette, mutui e rette sanguinose che devono garantire il
destino di giovani e vecchietti di famiglia, abbandonati dalla ritirata del
Welfare.
Annaspano tutti insieme, sgomitando, a tentoni in mezzo alle nebbie padane – giorno per giorno, mese dopo mese, prestito su prestito, nella pallida speranza che Grillo, Salvini, Gesù Cristo o chissà chi altro, riesca a parlare al loro livore, alla paura del futuro, alle loro speranze deluse.
Altro che miti socialisti. L’Emilia Romagna, proprio dentro le sue vetrine produttive, sta covando silenziosamente i virus più infidi e pericolosi. C’è qualcuno a sinistra, che trova il coraggio di rimettere le mani dentro questi laboratori tossici?
Annaspano tutti insieme, sgomitando, a tentoni in mezzo alle nebbie padane – giorno per giorno, mese dopo mese, prestito su prestito, nella pallida speranza che Grillo, Salvini, Gesù Cristo o chissà chi altro, riesca a parlare al loro livore, alla paura del futuro, alle loro speranze deluse.
Altro che miti socialisti. L’Emilia Romagna, proprio dentro le sue vetrine produttive, sta covando silenziosamente i virus più infidi e pericolosi. C’è qualcuno a sinistra, che trova il coraggio di rimettere le mani dentro questi laboratori tossici?
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