Marco Spezia
ingegnere e tecnico
della salute e della sicurezza sul lavoro
Progetto “Sicurezza sul
Lavoro! Know Your Rights”
Medicina Democratica - Movimento di lotta
per la salute onlus
INDICE
- Sulla sicurezza non si gioca: i morti sul lavoro e di lavoro non sono mai
una fatalità
- Disturbi muscolo
scheletrici e lavoro: una mappatura critica
- Infortunio sul lavoro: il datore di lavoro deve
provare il rispetto delle regole sulla sicurezza
- Infortuni sul lavoro: come ottenere indennizzi e
rendite dall’INAIL
- Le cadute dall’alto dei lavoratori
- Il rischio delle interferenze tra mezzi e pedoni
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SULLA SICUREZZA NON SI GIOCA: I MORTI SUL
LAVORO E DI LAVORO NON SONO MAI UNA FATALITA’
Da Lavoro & Salute
Rivista dell’Associazione Medicina
Democratica Movimento di Lotta per la Salute Onlus
Anno 33 n.4 luglio 2017
Gli infortuni sul lavoro, le malattie
professionali, e le stragi del profitto sono sempre il risultato della mancanza
di adeguate misure di sicurezza, che provocano condizioni di vita e di lavoro
insicure in ambienti insalubri, a contatto con sostanze nocive e cancerogene,
senza adeguate protezioni per i lavoratori che coinvolgono sempre più spesso
anche la popolazione.
Secondo l’ILO (l’International Labour
Office), ogni giorno muoiono nel mondo più di seimila persone per infortuni e
malattie professionali, mentre le stragi provocati da disastri ambientali a
tutt’oggi non sono conteggiate.
Le stragi di lavoratori morti per
infortuni sul lavoro e malattie professionali sono sempre da bollettino di
guerra, nonostante la diminuzione dei posti di lavoro dovuti alla crisi
economica che dura dal 2008.
Le malattie professionali diluiscono
semplicemente le morti nel tempo: per esposizione o contatto con sostanze
nocive e cancerogene nel processo di produzione, l’ILO stima che ogni anno
perdano la vita circa 438.000 lavoratori, cifra senz’altro in difetto rispetto
alla realtà.
L’amianto, in particolare, è responsabile
della morte di 100.000 persone l’anno (più di 4.000 nella sola Italia, 11 al
giorno, uno ogni due ore), mentre la silicosi continua a colpire milioni di
lavoratori e pensionati nel mondo.
Così scriveva Giovanni Berlinguer in
Medicina del lavoro in “La salute nella fabbrica” (edizioni Italia - URSS, Roma
1972): “Nel ventennio 1946-1966 si sono verificati in Italia 22.860.964 casi di
infortunio e di malattia professionale, con 82.557 morti e con 966.880
invalidi. Quasi un milione di invalidi, il doppio di quelli causati in Italia
dalle due guerre mondiali, che furono circa mezzo milione. Mentre la media
degli infortuni e malattie professionali nel ventennio 1946-1966 è stata
lievemente superiore ad 1 milione di casi annui, negli anni dal 1967 al 1969 la
cifra è salita ad oltre 1,5 milioni di casi e nel 1970 ad 1.650.000 casi”.
Sono passati molti anni da quello studio,
ma la condizione dei lavoratori italiani è in continuo peggioramento.
Nella crisi si sono ridotti i posti di
lavoro, ci sono meno lavoratori occupati, ma aumentano i morti sul lavoro. Nel
2015 gli infortuni mortali sul lavoro sono aumentati del 16% rispetto al 2014 (1.172
a fronte degli 1.009 del 2014).
Anche nel 2017 i morti sul lavoro sono in
aumento. I morti per infortuni sul lavoro dal 1° gennaio al 20 giugno 2017,
secondo l’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro “sono di 315
lavoratori. Con i morti sulle strade e in itinere, che sono considerati a tutti
gli effetti morti sul lavoro, si superano i 640 morti complessivi. Erano il 4
giugno di quest’anno 276. Erano 262 sui luoghi di lavoro al 4 giugno del 2016
(+5,1%). Erano 236 il 4 giugno del 2008 (+14,5%). Come vedete nessun calo delle
morti per infortuni sui luoghi di lavoro, anzi, un aumento costante in questi
dieci anni nonostante vogliono farci credere il contrario, e questo per
giustificare l’incredibile massa di denaro speso per la Sicurezza in questi
anni”.
Gli incidenti sul lavoro in Italia hanno
fatto più morti fra i lavoratori che fra i soldati della coalizione occidentale
della 2° guerra del Golfo. L’Eurispes ha calcolato che dall’aprile 2003
all’aprile 2007 i militari che hanno perso la vita sono stati 3.520, mentre dal
2003 al 2006 in Italia i morti sul lavoro sono stati ben 5.252 e l’età media di
chi perde la vita è intorno ai 37 anni.
Secondo dati Eurostat (del 2005) ogni anno
5.700 persone muoiono a causa di incidenti sul lavoro.
L’OIL (Organizzazione Internazionale del
Lavoro) stima che altri 159.500 lavoratori perdano la vita a causa di malattie
professionali. Sommando i dati, si stima che ogni 3 minuti e mezzo nell’Unione
Europea ci sia un decesso per cause legate all’attività lavorativa.
Anche le malattie professionali non
tabellate dall’INAIL sono in aumento: nel 2002 erano il 71%, nel 2006 sono
arrivate all’83%, mentre si calcolano in 200.000 gli incidenti sommersi e non
denunciati.
Questi dati ci dicono che avremmo estremo
bisogno di prevenire gli “incidenti” e le malattie professionali, e le stragi
ambientali, mettendo in sicurezza i luoghi di lavoro ed eliminando le sostanze
cancerogene dai processi e dagli ambienti di lavoro. Serve una medicina
preventiva in grado di rintracciare le cause che producono malattie e morte e
di eliminarle, ma questo non è nell’interesse di chi ha trasformato la salute e
la morte in una fonte di profitto.
In questa società gli esseri umani sono
trattati come merce, come cose e la natura è ridotta a qualcosa da saccheggiare
selvaggiamente. Da qui la causa delle “catastrofi naturali” che di naturale non
hanno niente.
Tocca quindi ai lavoratori, ai
Rappresentanti dei lavoratori per la Sicurezza (RLS) ricordare (anche entrando
in conflitto con padroni e istituzioni) che i lavoratori sono esseri umani e
non numeri.
Il nostro paese ha il suo fondamento nella
Costituzione Repubblicana, che all’articolo 32 recita “La Repubblica Italiana
tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e della collettività”,
arrivando a dichiarare che la stessa iniziativa privata (pur essendo libera)
“non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno
alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (articolo 41,secondo comma
della Costituzione).
Il ruolo dei RLS consiste proprio nel fare
applicare questa norma. Non basta intervenire dopo che il danno c’è stato,
bisogna intervenire per prevenirlo.
L’amianto come tutte le sostanze
cancerogene provocano danni che sono all’origine di numerosi tumori. Ormai
dovrebbe essere chiaro a tutti che non esistono soglie di sicurezza o di
tolleranza alle sostanze cancerogene.
Sebbene sia necessario, non basta
predisporre dispositivi di protezione individuali o collettivi per la riduzione
del rischio, ma bisogna adoperarsi affinché il rischio sia ridotto a zero.
L’esposizione alle fibre di amianto riduce
l’attesa di vita di chi è stato esposto, facendo inoltre vivere lui e la sua
famiglia nel terrore di ammalarsi, e questa situazione è già una malattia.
Gli RLS, insieme ai lavoratori (che non
devono delegare solo agli RLS il problema della sicurezza e della difesa della
salute, ma essere protagonisti mobilitandosi in prima persona), si devono
battere per il rischio zero, anche se questo può generare contrasti con i
padroni e manager, come dimostra il licenziamento del compagno ferroviere
Riccardo Antonini a cui va tutta la nostra stima e solidarietà. Sulla sicurezza
e la salute non si scherza! Non si può accettare, sotto il ricatto del posto di
lavoro, di venire meno al principio di solidarietà di classe e umana.
Spesso, nel nostro paese, i diritti
sanciti nella Costituzione sono subordinati ai poteri forti e applicati solo se
compatibili con essi. La sicurezza sui posti di lavoro e la salute dei
lavoratori e dei cittadini, viene prima di tutto, anche se questo comporta il
rischio di scontrarsi con i datori di lavoro e le istituzioni che spesso sono
in conflitto di interesse.
Le nomine dei direttori dei vari Enti,
INAIL, INPS, ATS (ex ASL), e delle aziende pubbliche sono decisi dalla politica
cui rispondono, cosi come i manager delle aziende private rispondono agli
azionisti, ai quali interessa realizzare il massimo profitto risparmiando anche
i pochi euro sulla sicurezza, anche se questo va a scapito della salute dei
lavoratori. Basti qui ricordare solo alcune delle innumerevoli stragi, da
quelle della ThyssenKrupp, a quelle di ILVA di Taranto, da quelle dell’amianto
fino alla strage ferroviaria di Viareggio con 32 cittadini morti, bruciati vivi
nelle loro case.
L’INAIL è l’Ente che deve accertare e
nello stesso tempo indennizzare le malattie professionali è in palese conflitto
d’interessi.
Generalmente in prima richiesta respinge
di solito le domande di malattia professionale, anche per casi di mesotelioma.
Non si può subordinare la salute e la vita
umana alla logica del profitto, ai costi economici aziendali o ai bilanci dello
stato. Senza rispetto per la sicurezza sul lavoro, gli operai, i lavoratori
continueranno a subire infortuni, ad ammalarsi e morire sul lavoro e di lavoro
e l’amianto e altre sostanze cancerogene presenti sul territorio, se non si
eliminano, continueranno ad uccidere gli esseri umani e la natura. I limiti
legali imposti per legge alle sostanze cancerogene non danno alcuna garanzia
alla tutela della salute. In presenza di cancerogeni la salute è continuamente
esposta a rischi.
Lottare per ambienti di lavoro salubri e
per un mondo pulito significa lottare contro chi (pur di fare soldi sulla pelle
dei lavoratori e cittadini) condanna a morte ogni anno migliaia di esseri
umani, anteponendo i suoi interessi privati a quelli collettivi della società
su cui, tra l’altro, ricadono i costi di tutte queste malattie e queste morti.
26/06/17
Michele Michelino
Presidente del Comitato per la Difesa della
Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio
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DISTURBI MUSCOLO
SCHELETRICI E LAVORO: UNA MAPPATURA CRITICA
Riporto a seguire
l’introduzione del documento “Disturbi
muscolo scheletrici e lavoro: una mappatura critica” redatto da Livia Di
Stefano e Dario Fontana.
Il lavoro mi è stato
segnalato dallo stesso Dario Fontana che mi ha scritto:
“Siamo riusciti finalmente e con molto
ritardo a pubblicare sul sito della Fondazione la ricerca sulle denunce di
malattie da Disturbi Muscolo Scheletrici (DMS). Io promuoverò le mie analisi
sia in un Convegno accademico sulle politiche sociali sia, spero (aspetto
risposta), in una rivista scientifica. Spero che questa ricerca possa essere
utile a incentivare un dibattito sul sistema che sottende le denunce di
malattia professionale e non solo”.
L’indice della pubblicazione è il
seguente:
Capitolo 1 - L’era dei disturbi muscolo-scheletrici
Capitolo 2 - La denuncia assicurativa come fenomeno oggetto di studio
Capitolo 3 - Il dataset delle denunce da disturbi muscolo-scheletrici
Capitolo 4 - Analisi del fenomeno della denuncia e dei riconoscimenti
Capitolo 5 - Il quadro istituzionale e la scelta del dataset
Capitolo 6 - L’analisi statistica del fenomeno “denuncia”
La pubblicazione è scaricabile
integralmente all’indirizzo:
DISTURBI
MUSCOLO-SCHELETRICI E LAVORO: UNA MAPPATURA CRITICA
INTRODUZIONE
L’andamento delle
statistiche italiane ed europee sulla salute dei lavoratori registrano, un
aumento esponenziale delle malattie professionali. Dentro l’arco delle malattie
professionali si assiste a una diversa incidenza fra “vecchie e nuove”
patologie. I Disturbi Muscolo Scheletrici (da adesso DMS) si caratterizzano,
insieme allo stress lavoro-correlato, come le maggiori patologie del nuovo modo
di produzione.
A livello europeo il 60%
delle malattie professionali è riconducibile a DMS, al secondo posto troviamo
malattie da stress e il trend crescente di queste patologie sembra
inarrestabile. In Italia, negli ultimi anni, si registra un andamento
esponenziale dei DMS, quasi certamente legato alla nuova tabellazione INAIL
varata nel 2008. Fatto che ha finalmente permesso l’emersione del fenomeno in
linea con le tendenze europee.
Il progetto di ricerca
“Disturbi muscolo scheletrici e lavoro: una mappatura critica” ha rappresentato
il primo tentativo, allo stato della nostra conoscenza, di tenere assieme lo studio
del fenomeno dei DMS lavoro-correlati con quello della “denuncia assicurativa”,
allo scopo di definire una mappatura del rischio tecnopatico basata su dati
INAIL.
La comunità scientifica italiana si è
sempre distinta per studi rilevanti, stimati anche a livello internazionale,
per quanto riguarda l’eziologia medica dei DMS, gli strumenti di valutazione
del rischio e più in generale lo studio connesso alle soluzioni di natura
ergonomica.
Poco o pochissimo si è sviluppato invece
sul versante dello studio del fenomeno della denuncia e di conseguenza ad
approfondire le dinamiche “macro” dei DMS. Non è un caso che anche l’ultimo
rapporto Eurogip1 sulle malattie professionali dichiari che per l’Italia manchi
uno studio sulle denunce, nello specifico della sottostima del dato. A parte i
report annuali dell’INAIL che si limitano a descrivere lo stato dell’arte,
emerge un grande vuoto da colmare teso a comprendere il fenomeno dei DMS in
chiave interdisciplinare, che ad esempio come in Francia riesca a mettere insieme
un interesse disciplinare eterogeneo: dalla medicina alla sociologia,
dall’etnografia alla giurisprudenza, dall’ergonomia all’economia.
Voler analizzare a livello macro le
malattie professionali da DMS non può far a meno del dato assicurativo, unica
fonte in Italia, stante il sostanziale rallentamento del progetto di mappatura
epidemiologica dei DMS per mezzo del Registro Nazionale delle Malattie
Professionali.
Di conseguenza però è bene affermare fin
da subito che la denuncia di malattia professionale è un “fatto sociale” e non
solo medico, questo è il filo rosso che lega (nell’autonomia di studio dei due
autori) i diversi capitoli che seguono questa introduzione.
Come sottolinea Hatzfeld, nei suoi lavori
di ricostruzione storiografica dei DMS in Francia, le patologie
muscolo-scheletriche legate al lavoro sono conosciute fin dai tempi di
Ramazzini (padre della medicina del lavoro già nel XVIII secolo), ma solo
attraverso l’accettazione politica del riconoscimento legale e della sua
contabilizzazione assicurativa, esse diventano una questione sociale.
Scelte di natura politica e sociale
emergono già al principio dell’inaccettabile ritardo di ben 36 anni fra Italia
(2008) e Francia (1972) rispetto al riconoscimento professionale dei DMS e che
nel nostro paese, come analizzato in parte da questo studio, persistono tuttora
delle distorsioni territoriali e settoriali importanti sia per l’andamento
delle denunce che per i riconoscimenti.
Ovviamente partire dall’insieme delle
denunce e non solo dalle patologie riconosciute come positive dall’ente
assicuratore, è una scelta che permette di mettere sotto osservazione anche le
diverse dinamiche insite nei processi di riconoscimento, visto che anch’esse
sono soggette a distorsioni.
Dunque i dati INAIL
costituiscono naturalmente la base della reportistica ufficiale sugli infortuni
e le malattie professionali, oltre ad essere impiegati per il calcolo dei premi
che (in funzione del rischio stimato) le aziende sono tenute a corrispondere
all’Istituto.
Essi costituiscono anche
la principale fonte di alimentazione dei sistemi informativi di sorveglianza
sulle tecnopatie (come i progetti MalProf e Flussi Informativi INAIL-Regioni).
Obiettivo del progetto è
stato quindi anzitutto quello di sviluppare una metodologia d’analisi che
consentisse di disvelare parzialmente le dinamiche che sottendono le denunce e
i riconoscimenti, permettendo di dire qualcosa in più sull’andamento dei DMS in
Italia.
La chiave per lo
sviluppo di tale metodologia è stata individuata nell’analisi dei differenziali
territoriali, in particolare provinciali e di settore produttivo. Obiettivo
dell’indagine è stato quindi quello di discriminare il più possibile le
componenti dell’incidenza delle denunce DMS attribuibili alle caratteristiche
delle imprese e dei settori di appartenenza, al comportamento di “denuncia” dei
lavoratori assicurati, al comportamento decisionale dell’INAIL in qualità di
ente assicuratore, al ruolo di altri attori/fattori istituzionali.
Un simile approccio è
stato in grado sia di rivelare aspetti ancora non messi in luce, sia di
approfondire l’indagine di quelli già evidenziati in letteratura. Una
complessità che restituisce nel suo insieme un fenomeno DMS sottostimano anche
in Italia, in cui le differenze territoriali svolgono un ruolo distorsivo
maggiore di quello logicamente atteso dei settori produttivi.
Il presente rapporto è frutto del lavoro
autonomo dei due autori, a cui seguono parziali differenze interpretative del
fenomeno oggetto di studio e diverse attribuzioni dei capitoli che compongono
questo lavoro.
Il Capitolo 1 è dedicato all’inquadramento
generale del fenomeno dei DMS, mentre il capitolo 2 presenta l’inquadramento
teorico del fenomeno della denuncia assicurativa.
Il Capitolo 3 presenta un’illustrazione
completa del dataset utilizzato nelle analisi, corredata dalle principali
evidenze descrittive emerse e dai problemi riscontrati nell’applicazione del
dato amministrativo fornito dalla fonte “Flussi informativi INAIL-Regioni”
edizione 2013.
Il Capitolo 4 è dedicato all’analisi
statistica del fenomeno delle denunce e dei riconoscimenti in una prospettiva
economico-organizzativa e sociologica.
Il Capitolo 5 presenta una ricostruzione
del quadro istituzionale italiano in cui l’analisi delle denunce di DMS si
situa.
Il Capitolo 6 presenta quindi un’analisi
statistica del fenomeno della denuncia e dei riconoscimenti in una prospettiva
economico-giuridica e politologica, nel quadro delineato dai Capitoli 2 e 5.
La ricerca è stata accolta all’interno dei
percorsi di studio sulla salute e sicurezza sul lavoro della Fondazione “Marco
Biagi” grazie al finanziamento della Fondazione “Banca nazionale delle
comunicazioni”. I dati con cui è stata svolta la ricerca (Flussi informativi
INAIL/Regioni, edizione 2013) sono stati forniti dal Servizio sovrazonale di
epidemiologia, ASL TO3.
Un ringraziamento degli autori va alle
istituzioni che hanno permesso tale lavoro, ai coordinatori del progetto di
ricerca Ylenia Curzi e Iacopo Senatori, ricercatori presso la Fondazione “Marco
Biagi”, ad Angelo D’Errico ed Osvaldo Pasqualini dell’ASL TO3 e a Giuseppe
Fiorani dell’Università di Modena e Reggio Emilia per i loro consigli e il loro
impegno nel colmare le nostre lacune.
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INFORTUNIO SUL LAVORO: IL DATORE DI LAVORO
DEVE PROVARE IL RISPETTO DELLE REGOLE SULLA SICUREZZA
Da Studio Cataldi
19/06/17
di Paolo Accoti
In materia di sicurezza sul lavoro
esistono norme specifiche in ragione del tipo di attività lavorativa svolta,
nonché una norma generale, altrimenti detta di chiusura, siccome esplicitamente
posta a tutela della salute dei prestatori di lavoro in mancanza di peculiare
disciplina.
L’articolo 2087 del Codice Civile,
infatti, prevede che: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa
le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica,
sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei
prestatori di lavoro”.
Ciò posto, in caso di infortunio sul
lavoro, al dipendente spetterà l’onere di dimostrare l’esistenza di un rapporto
di lavoro, dell’infortunio stesso ovvero della malattia, nonché il nesso di
causalità tra l’ambiente di lavoro ovvero tra l’impiego di un determinato
strumento di lavoro e il danno subito.
Viceversa, il datore di lavoro, per andare
esente da responsabilità, dovrà dimostrare il rispetto della specifica
normativa antinfortunistica, nonché di aver adottato tutte quelle misure
sufficienti a tutelare la salute del lavoratore, anche vigilando sul rispetto
delle regole apprestate dall’ordinamento per la sicurezza sui luoghi di lavoro.
Detti principi sono stati di recenti
ribaditi dalla Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 14468, pubblicata in data
9 giugno 2017.
A seguito di incidente sul lavoro,
verificatosi in dipendenza della rottura di un macchinario, il lavoratore
evocava in giudizio la ditta datrice chiedendo il risarcimento dei danni
subiti.
Lo stesso aveva provato di essere
dipendente della ditta, di svolgere mansioni di operaio specializzato addetto
al “trapano a colonna” e di aver subito lo schiacciamento della mano a seguito
dell’improvviso cedimento del braccio orizzontale di sostegno del trapano.
Intervenuti sul luogo di lavoro gli
ispettori dell’ASL questi accertavano la recente fabbricazione del macchinario
e la sua certificazione CE, il buono stato generale dell’utensile, l’assenza di
anomalie nel funzionamento, il corretto utilizzo dello stesso e che, pertanto,
“la caduta del braccio del macchinario era dovuta ad una improvvisa rottura
(guasto cedimento strutturale) dei meccanismi elettromeccanici deputati al
sollevamento-abbassamento del braccio, evento da ritenersi non ragionevolmente
prevedibile”.
Sulla scorta dell’anzidetta relazione il
Tribunale di Bergamo e, quindi, la Corte d’Appello di Brescia, rigettavano la
domanda risarcitoria.
Proposto ricorso per Cassazione da parte
del dipendente, lo stesso eccepiva, tra l’altro, la violazione e l’errata
applicazione dell’articolo 2087 del Codice Civile, in particolare, l’errata
ripartizione dell’onere della prova.
Ed invero, la Corte d’Appello, riferisce
il giudice di legittimità, sostiene che l’infortunio sia dovuto ad un evento
imprevedibile, ritenendo con ciò liberato il datore di lavoro dalla presunzione
di colpa sullo stesso incombente nel momento in cui il lavoratore assolve al
proprio onere probatorio.
A tal proposito ricorda il proprio
precedente per cui: (Sentenza di Cassazione. n. 16003 del 2007) “il lavoratore
che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del
danno patito a seguito di infortunio sul lavoro ha l’onere di provare il fatto
costituente l’inadempimento e il nesso di causalità materiale tra
l’inadempimento e il danno, ma non anche la colpa del datore di lavoro, nei cui
confronti opera la presunzione posta dall’articolo 1218 del Codice Civile, il
superamento della quale comporta la prova di aver adottato tutte le cautele
necessarie a evitare il danno, in relazione alle specificità del caso ossia al
tipo di operazione effettuata e ai rischi intrinseci alla stessa, potendo al
riguardo non risultare sufficiente la mera osservanza delle misure di
protezione individuale imposte dalla legge”.
Orientamento confermato anche dalla
Sentenza della Cassazione n. 20533 del 2015 per la quale: “ai fini della
configurabilità della responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio
subito dal dipendente o per la tecnopatia contratta, grava su quest’ultimo
l’onere di provare la sussistenza del rapporto di lavoro, dell’infortunio o
della malattia e il nesso causale tra l’utilizzazione del macchinario o la
nocività dell’ambiente di lavoro e l’evento dannoso, e grava sul datore di
lavoro l’onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente
stabilite in relazione all’attività svolta nonché di aver adottato, ex articolo
2087 del Codice Civile, tutte le misure che (in considerazione della
peculiarità dell’attività e tenuto conto dello stato della tecnica) siano
necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla
loro osservanza, mentre il comportamento del lavoratore è idoneo a escludere il
rapporto causale tra inadempimento del datore di lavoro ed evento,
esclusivamente quando esso sia autosufficiente nella determinazione
dell’evento, cioè se abbia il carattere dell’abnormità per essere assolutamente
anomalo ed imprevedibile”.
Fermo restando che il datore di lavoro non
può ritenersi responsabile né obbligato a predisporre accorgimenti atti a
salvaguardare il lavoratore da cause d’infortunio del tutto imprevedibili
(Sentenza della Cassazione n. 312 del 2014).
Continua la Corte di Cassazione affermando
che “la Corte d’Appello non ha fatto corretta applicazione dei principi sopra
richiamati in relazione all’assolvimento dell’onere della prova in ordine
all’adempimento degli obblighi di protezione specifici del datore di lavoro
rispetto alle caratteristiche del macchinario e alle modalità di uso, atteso
che il vizio strutturale, quale fatto liberatorio, non può prescindere dalla
prova circostanziata offerta dal parte del datore di lavoro dell’assolvimento dei
suddetti obblighi, prova non soddisfatta dal mero rinvio operato dalla Corte
d’Appello alle circostanze rilevate dagli ispettori dell’ASL”.
Peraltro, il datore di lavoro è sempre
tenuto “ad accertare la corrispondenza ai requisiti di legge dei macchinari
utilizzati, e risponde dell’infortunio occorso a un dipendente a causa della
mancanza di tali requisiti”, a prescindere della marchiatura di conformità CE
(vedi Sentenza della Cassazione n. 54480 del 2016 e Sentenza della Cassazione
n. 3626 del 2016).
Il ricorso, quindi, viene accolto e la
sentenza cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Brescia, in diversa
composizione, affinché si attenga ai principi di diritto enunciati.
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INFORTUNI SUL LAVORO: COME OTTENERE INDENNIZZI
E RENDITE DALL’INAIL
Da Studio Cataldi
19/06/17
di Valeria Zeppilli
L’indennizzabilità del danno, l’indennità
giornaliera, la rendita, il risarcimento del danno biologico, la denuncia di
infortunio e le altre prestazioni
INFORTUNIO SUL LAVORO: DEFINIZIONE
L’infortunio sul lavoro è quello che si
verifica per causa violenta in occasione di lavoro e che comporta, in danno del
lavoratore, la morte, l’inabilità permanente assoluta o parziale al lavoro,
l’inabilità temporanea totale per più di 3 giorni o un danno biologico.
LA CAUSA VIOLENTA E L’OCCASIONE DI LAVORO
Come accennato, un infortunio è
indennizzabile dall’INAIL anzitutto se imputabile a una causa violenta. Si
tratta, nei fatti, di un’aggressione esterna all’indennità psico-fisica del
lavoratore, intensa e concentrata nel tempo. Non sono, invece, indispensabili i
requisiti della straordinarietà, dell’accidentalità o dell’imprevedibilità del
fatto lesivo.
Proprio le caratteristiche della causa
violenta permettono di distinguere l’infortunio dalla malattia, caratterizzata,
invece, da una causa lenta.
La causa violenta deve, poi, verificarsi
in occasione di lavoro. Ciò vuol dire che tra l’attività lavorativa e
l’infortunio deve sussistere un rapporto, diretto o indiretto, di
causa-effetto, senza che sia sufficiente che l’evento si verifichi durante il
lavoro.
Se l’infortunio è connesso a una condotta
riconducibile all’attività lavorativa, l’indennizzabilità non è compromessa dal
comportamento imprudente, negligente o privo di perizia del lavoratore, mentre
restano esclusi dalla tutela gli infortuni le cui conseguenze siano dolosamente
aggravate dal lavoratore o che derivino dall’abuso di sostanze alcoliche e di
psicofarmaci, dall’uso non terapeutico di stupefacenti e allucinogeni o dalla
mancanza della patente di guida.
L’INFORTUNIO IN ITINERE
Si considera verificatosi durante il
lavoro anche il cosiddetto “infortunio in itinere”, ovverosia quello che
avviene durante il tragitto compiuto per raggiungere, dalla propria abitazione,
il luogo di lavoro o quello compiuto per recarsi da un luogo di lavoro a un
altro o, infine, quello necessario per la consumazione dei pasti in assenza di
mensa aziendale.
Se l’infortunio si verifica durante
eventuali deviazioni rispetto ai predetti tragitti, esso è risarcibile
dall’INAIL solo se tali deviazioni siano necessarie per accompagnare i figli a
scuola, conseguenza di una direttiva del datore di lavoro o dovute a causa di
forza maggiore, a esigenze assistenziali improrogabili o a obblighi penalmente
rilevanti. In caso di sosta il risarcimento è riconosciuto solo se essa sia
breve e non alteri le condizioni di rischio.
Occorre tuttavia chiarire che il tragitto
percorso con l’utilizzo di un mezzo privato è coperto dall’assicurazione solo
se tale uso sia indispensabile, come ad esempio nel caso in cui il mezzo sia
fornito o prescritto dal datore di lavoro per esigenze lavorative o nel caso in
cui il luogo di lavoro non possa essere raggiunto, o non possa essere raggiunto
in tempo utile, con l’utilizzo dei mezzi pubblici.
L’INDENNIZZABILITA’ DEL DANNO
Il danno derivante dall’infortunio sul
lavoro è indennizzabile solo laddove sia di particolare rilevo e comporti,
quindi, una riduzione della capacità lavorativa di almeno il 16%, un danno
biologico quantificato in minimo 6 punti percentuali, un’inabilità assoluta
temporanea al lavoro.
In particolare, se il danno permanente è:
-
inferiore al 6%, non si
ha diritto ad alcun indennizzo;
-
di entità compresa tra
il 6% e il 15%, si ha diritto all’indennizzo in capitale del danno biologico;
-
di entità compresa tra
il 16% e il 100%, si ha diritto a una rendita a titolo di indennizzo sia del
danno biologico sia del danno patrimoniale.
L’INDENNITA’ GIORNALIERA PER L’INABILITA’
TEMPORANEA
Nel caso in cui dall’infortunio sia
derivata al lavoratore un’inabilità al lavoro temporanea e assoluta, egli avrà
diritto a un’indennità giornaliera corrisposta dall’INAIL a partire dal quarto
giorno (i primi tre giorni sono a carico del datore di lavoro) e pari al 60%
della retribuzione per i primi 90 giorni e al 75% dal novantunesimo giorno in
poi.
Terminato il periodo di inabilità
temporanea, il lavoratore è sottoposto a visita medico-legale dall’INAIL al
fine di valutare la presenza di eventuali postumi.
LA RENDITA DIRETTA
Nel caso in cui dall’infortunio sia
derivata al lavoratore un’inabilità permanente, assoluta o parziale, fino al 25
luglio 2000 egli aveva diritto ad una rendita corrisposta mensilmente.
Essa spetta ancora oggi ai lavoratori che
abbiano subito un infortunio prima di tale data ed è subordinata alla
circostanza che l’inabilità derivata fosse almeno pari all’11%.
La rendita è incompatibile con le pensioni
di inabilità e gli assegni di invalidità erogati per il medesimo evento
invalidante ma è cumulabile con le pensioni di vecchiaia e di anzianità.
IL RISARCIMENTO DEL DANNO BIOLOGICO
Per gli infortuni avvenuti a partire dal
25 luglio 2000 è previsto il risarcimento, da parte dell’INAIL, del danno
biologico subito dal lavoratore a seguito di infortunio sul lavoro.
Esso è influenzato nel suo ammontare dal
tipo e dalla percentuale di menomazione che ne è derivata e soggiace alle
stesse incompatibilità previste per la rendita diretta.
Bisogna quindi fare riferimento,
congiuntamente, alla tabella delle menomazioni e alla tabella di indennizzo del
danno biologico.
Se la menomazione è inferiore al 6% il
danno biologico, come visto, non è riconosciuto, se essa è compresa tra il 6% e
il 15% comporta l’erogazione di una somma in capitale, una tantum, influenzata
anche dal sesso e dall’età del danneggiato. Se, infine, la menomazione è
superiore al 16% dà luogo a una rendita corrisposta tramite l’INPS e
influenzata, nel suo ammontare, oltre che dalla percentuale di invalidità,
anche dallo stipendio e da un coefficiente di maggiorazione. In tale ultime
ipotesi il lavoratore può anche ottenere il risarcimento del danno patrimoniale
subito, calcolato riferendosi alla cosiddetta “tabella dei coefficienti”.
LA DENUNCIA DI INFORTUNIO
Il lavoratore è tenuto a denunciare
immediatamente l’infortunio al datore di lavoro, il quale deve a sua volta
denunciarlo all’INAIL entro due giorni.
In ogni caso per poter ottenere
l’erogazione delle prestazioni, il lavoratore deve fare espressa domanda
all’INAIL entro tre anni e centocinquanta giorni dall’evento dannoso,
compilando un modulo scaricabile online o recandosi presso le sedi
dell’Istituto.
ALTRE PRESTAZIONI
Sono previsti inoltre l’assegno per
l’assistenza personale continuativa, l’assegno di incollocabilità e la rendita
ai superstiti.
La tutela previdenziale prevede ulteriori
prestazioni oltre a quelle fondamentali sopra analizzate.
Ad esempio, al lavoratore che benefici
della rendita e, invalido al 100%, non sia in grado di far fronte autonomamente
alle esigenze di vita quotidiana, spetta anche un assegno per l’assistenza
personale continuativa.
E’ previsto, poi, un assegno di
incollocabilità corrisposto al lavoratore che, a causa delle conseguenze
riportate a seguito dell’infortunio, stimate in almeno il 34% di invalidità,
non possa usufruire del sistema di collocamento obbligatorio.
Va considerata poi la rendita corrisposta
ai superstiti nel caso in cui dall’infortunio sia derivata la morte del
lavoratore, da dividersi pro quota tra il coniuge e i figli, in mancanza tra
gli ascendenti se a carico del defunto o, in subordine, a fratelli e sorelle
conviventi e a carico del defunto.
LE SANZIONI PENALI
In alcuni casi le lesioni all’integrità
psico-fisica che derivano al lavoratore a seguito di un infortunio sul lavoro
sono punite anche dalla legge penale. E’ possibile, infatti, che esse integrino
delle ipotesi di lesioni colpose o di omicidio colposo, ascrivibili alla
condotta del datore di lavoro nel caso in cui l’infortunio sia derivato dalla
mancata osservanza da parte di quest’ultimo delle regole vigenti in materia di
salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
A tal proposito, si segnala che il reato
di omicidio colposo, previsto e sanzionato dall’articolo 589 del Codice Penale,
è procedibile d’ufficio, con la conseguenza che non è richiesta alcuna querela
per far sì che prendano il via le indagini volte ad accertare l’effettiva
responsabilità penale dell’evento.
Le lesioni colpose, invece, sono
procedibili a querela di parte e, pertanto, il relativo procedimento penale
necessita dell’impulso dell’infortunato. Questa regola, tuttavia, conosce
un’eccezione, rappresentata dalle ipotesi in cui l’infortunio sia grave: in tal
caso il Procuratore della Repubblica, informato dall’INAIL, esercita d’ufficio
l’azione penale.
RISORSE UTILI IN RETE:
Le tabelle INAIL per le menomazioni, la
tabella per l’indennizzo del danno biologico, la tabella dei coefficienti, sono
scaricabili all’indirizzo:
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LE CADUTE DALL’ALTO DEI LAVORATORI
Da: PuntoSicuro
21/06/17
I fattori di rischio e le misure preventive allo scopo di eliminare e/o
ridurre il rischio di caduta dall’alto.
Pubblichiamo i fattori di rischio e le misure preventive per il rischio
cadute dall’alto tratte dalla scheda n. 2 “Le cadute dall’alto dei lavoratori”
pubblicata da INAIL.
ANALISI DELLE DINAMICHE INFORTUNISTICHE
Per analizzare i fattori di rischio emersi dall’analisi delle dinamiche
infortunistiche, sono stati esaminati in dettaglio oltre 160 casi di caduta
dall’alto dell’archivio INFOR.MO. per gli anni 2009 - 2010.
Da tale analisi, risultano sei principali sottocategorie di caduta dall’alto:
- caduta per sfondamento
di copertura (23,2%);
- caduta da scala
portatile (17,3%);
- caduta da parte fissa di
edificio (12,5%);
- caduta da ponteggi,
impalcature fisse (10,1%);
- caduta all’interno di
varco (10,1%);
- caduta da mezzi di
sollevamento o per lavori in quota (8,0%).
La somma degli incidenti rientranti nelle citate categorie rappresenta
circa l’81% della totalità delle cadute dall’alto dell’infortunato.
Con riferimento alla caduta per sfondamento di copertura, dall’analisi
qualitativa emerge che il fattore di rischio maggiormente ricorrente è quello
relativo alla modalità operativa del lavoratore (43%). Tra i fattori di questo
tipo, in circa due casi su tre si rileva un errore di procedura che si
riferisce a situazioni in cui l’infortunato si trova a transitare su superfici
non portanti e, quindi, non calpestabili.
Altrettanto rilevante in termini percentuali, con il 35%, è il fattore
ambiente individuato come fattore di rischio per la mancata interdizione al
passaggio di siti pericolosi, più specificatamente il riferimento è all’assenza
di percorsi segnalati o di protezioni e parapetti (rispettivamente, in oltre
due casi su cinque e in più di un caso su quattro di questo specifico fattore).
Infine, il 18% dei fattori di rischio riscontrati riguarda il mancato o
scorretto utilizzo dei Dispositivi di Protezione Individuale (casco, cintura di
sicurezza, ecc.). Di questi, due casi su tre fanno riferimento a un DPI che non
era stato fornito al lavoratore.
Per quanto attiene alle cadute da scale portatili, il fattore più
frequentemente rilevato è la modalità operativa del lavoratore (62%), seguita
dal fattore utensili, macchine, impianti con il 31%. Per il primo fattore, la
problematica che si evidenzia, in circa tre casi su cinque, è quella relativa a
un uso improprio o errato di una scala portatile. Per il secondo fattore, in
più di tre casi su quattro emerge un problema di assetto della scala portatile
utilizzata, che ne determina l’inadeguatezza all’uso.
Altra categoria di caduta dall’alto rilevante è quella in cui l’infortunato
cade da parte fissa di edificio (in particolar modo da tetto o terrazzo). Il
40% dei fattori è riferibile alle modalità operative del lavoratore, con un
problema che in circa un caso su quattro riguarda un errore nella procedura per
cui il lavoratore perde l’equilibrio.
Gli altri fattori evidenziati dall’analisi sono i dispositivi di protezione
individuale (28,6%) e l’ambiente (20%). Le problematiche riscontrate si
riferiscono, per il primo fattore, al mancato utilizzo del DPI risultato non
fornito al lavoratore in due casi su tre e, per il secondo fattore, all’assenza
di punti di ancoraggio delle linee vita, di parapetti e di protezioni in quota
in circa tre casi su cinque.
La caduta da ponteggi ed impalcature fisse è spesso determinata dalla
perdita di equilibrio del lavoratore. Il fattore di rischio più frequente è
rappresentato, in questa specifica categoria, da utensili, macchine, impianti,
con circa il 40%, e la problematica che emerge è la mancanza di protezioni
fisse in più di un caso su due. A questo si aggiunge il fattore relativo alla
modalità operativa del lavoratore (36%), con un problema legato alle procedure
di lavoro in due casi su tre.
Per le cadute all’interno di varco, accade di sovente che l’evento
infortunistico sia determinato dai fattori riferibili all’organizzazione
dell’ambiente (48%), con una mancanza di protezioni del varco o di parapetti in
più di due casi su tre, e alle modalità operative del lavoratore (22%), che
transita comunque su percorsi pericolosi, non protetti e non segnalati.
Nelle cadute da mezzi di sollevamento o per lavori in quota, l’ultima delle
categorie di caduta dall’alto individuate, i fattori di rischio maggiormente
riscontrati sono le modalità operative del lavoratore (45%, con un errore di
procedura in due casi su tre) o un macchinario non appropriato (25%).
MISURE PREVENTIVE
In relazione alle sei categorie di modalità di infortunio esaminate nel
paragrafo precedente, riportiamo di seguito alcune misure preventive allo scopo
di eliminare o, quantomeno, ridurre il rischio di caduta dall’alto.
Per lavoro in quota si intende un’attività lavorativa che espone il
lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m
rispetto a un piano stabile. Nei casi in cui i lavori temporanei in quota non
possano essere eseguiti in condizioni di sicurezza e in condizioni ergonomiche
adeguate a partire da un luogo adatto allo scopo è necessario scegliere le
attrezzature di lavoro più idonee a garantire e mantenere condizioni di lavoro
sicure, in conformità ai seguenti criteri a prescindere dalla modalità
specifica dell’incidente:
- priorità alle misure di
protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale;
- dimensioni delle
attrezzature di lavoro confacenti alla natura dei lavori da eseguire, alle
sollecitazioni prevedibili e a una circolazione priva di rischi;
- scelta del tipo più
idoneo di sistema di accesso ai posti di lavoro temporanei in quota in rapporto
alla frequenza di circolazione, al dislivello e alla durata dell’impiego.
Si devono inoltre individuare le misure atte a minimizzare i rischi per i
lavoratori, insiti nelle attrezzature in questione, prevedendo, ove necessario,
l’installazione di dispositivi di protezione contro le cadute.
Caduta per sfondamento di copertura
Per quanto attiene a questa specifica modalità di incidente, che come già
evidenziato costituisce la prima causa di morte per caduta dall’alto,
innanzitutto, occorre che sia segnalato adeguatamente, o intercluso, il
passaggio degli operatori su coperture non portanti presenti nell’area di
lavoro, che è una delle casistiche più frequenti in base a quanto emerso
dall’analisi. Si evidenzia la necessità di dotare l’area di lavoro di opportuni
piani di camminamento per effettuare i lavori in sicurezza e di disporre
impalcati di protezione o reti di sicurezza al di sotto della copertura.
Ove non sia possibile adottare tali misure collettive si rende necessario
dotare gli operatori di sistemi di protezione individuali idonei per l’uso
specifico, composti da diversi elementi, non necessariamente presenti
contemporaneamente ma conformi alle norme tecniche.
Tali sistemi atti a prevenire e ridurre le cadute dall’alto denominati
solitamente Dispositivi di Protezioni Individuale (DPI) anticaduta, possono
essere costituiti da:
- imbracatura del corpo;
- connettore;
- cordino;
- assorbitore di energia;
- dispositivi retrattili;
- guide o linee vita
flessibili;
- guide o linee vita
rigide;
- dispositivo di
ancoraggio.
In particolare i sistemi di protezione devono essere assicurati,
direttamente o mediante connettore lungo una guida o linea vita, a parti
stabili delle opere fisse o provvisionali.
Cadute da scale portatili
Le cadute da scale portatili, costituiscono così come emerso nell’analisi,
circa il 17% delle cadute dall’alto.
Le scale portatili, che nei casi registrati dal sistema di sorveglianza
presentano un problema di adeguatezza all’uso specifico, devono essere
costruite con materiale adatto alle condizioni di impiego. Esse devono inoltre
essere provviste di: dispositivi antisdrucciolevoli alle estremità inferiori
dei due montanti e di ganci di trattenuta o dispositivi antisdrucciolevoli alle
estremità superiori.
Quando l’uso delle scale, per la loro altezza o per altre cause, comporti
pericolo di sbandamento, esse devono essere adeguatamente assicurate o
trattenute al piede da altra persona. Si evidenzia poi la necessità di
utilizzare scale appropriate alla natura del lavoro da svolgersi (con
riferimento alla quota, alla pendenza dei luoghi e alla durata).
Utilizzare una scala a pioli quale posto di lavoro in quota, solo nei casi
in cui l’uso di altre attrezzature di lavoro considerate più sicure non è
giustificato a causa del limitato livello di rischio e della breve durata di
impiego oppure delle caratteristiche esistenti dei siti che non si possono
modificare. E’ obbligatorio indossare calzature a uso professionale (è vietato
l’utilizzo delle scale a piedi nudi, scarpe con tacchi alti, sandali).
Caduta da parte fissa di edificio
Per lavorare sui tetti o sulle coperture è necessario predisporre misure di
sicurezza specifiche quali:
- adeguati sistemi di
accesso dall’esterno (es. ponteggi) in assenza di un accesso sicuro
dall’interno;
- opere provvisionali a
protezione della caduta verso l’esterno (es. ponteggi, parapetti prefabbricati,
reti sicurezza, ecc.) oppure se è possibile, effettuare i lavori dall’interno
di piattaforma di lavoro elevabile;
- dispositivi di
protezione individuali (DPI) anticaduta qualora, per motivi
tecnici-organizzativi, non sia possibile adottare dispositivi di protezione
collettiva quali opere provvisionali.
E’ opportuno verificare se sono già stati predisposti sul fabbricato
sistemi di accesso e ancoraggio come previsto dalle norme vigenti (vedere
fascicolo tecnico del fabbricato redatto ai sensi del D.Lgs. 81/08).
La caduta da ponteggi ed impalcature fisse
Per impedire l’accadimento di questo tipo di infortuni si devono
predisporre le attrezzature di lavoro in quota dotandole di tutti gli elementi
di protezione. Nelle fasi di montaggio/smontaggio dei ponteggi fare riferimento
al PIMUS (PIano di Montaggio, Uso e Smontaggio di un ponteggio).
Il personale addetto all’installazione di ponteggi deve ricevere
un’adeguata formazione mediante la partecipazione ad uno specifico corso
teorico pratico di cui deve essere acquisita attestazione.
Riguardo alla scelta dei dispositivi di protezione da inserire nel PIMUS,
ovvero da utilizzare durante il montaggio e lo smontaggio, ai sensi
dell’articolo 75 del D.Lgs. 81/08, i DPI anticaduta devono essere impiegati
solo quando i rischi non possono essere evitati o sufficientemente ridotti da
misure tecniche di prevenzione, da mezzi di protezione collettiva, da misure,
metodi o procedimenti di riorganizzazione del lavoro.
Se ne deduce che sui sistemi a telai prefabbricati, i parapetti devono
essere preferiti ai DPI anticaduta che invece trovano un impiego più frequente
sui telai a tubi e giunti che vengono montati in configurazioni atipiche.
A tal fine, raccomandabile è l’utilizzo di ponteggi che prevedono il
montaggio in sicurezza dei parapetti dall’impalcato sottostante.
Caduta all’interno di varco
Devono essere previste idonee protezioni e segnalazioni, individuabili
anche in condizione di scarsa visibilità, per i varchi presenti in prossimità
di vani scale, vani ascensore e lucernai in manutenzione e più in generale
tutte le volte che vengono lasciate aperture nei solai o nelle piattaforme di
lavoro, per poter così eliminare il rischio di caduta dall’alto. A tal fine
devono essere adottate idonee opere provvisionali quali robusti parapetti
dotati di tavole fermapiede oppure un tavolato solidamente fissato, a
protezione delle aperture.
La caduta da mezzi di sollevamento o per lavori in quota
Al fine di ridurre l’accadimento di incidenti relativi a questa specifica
modalità di infortunio (ad esempio piattaforme elevabili, automezzi per la
lavorazione in quota, ecc.), si rende necessario un riferimento
all’ottemperanza dei principali obblighi di formazione e di addestramento del
lavoratore e del datore di lavoro nell’utilizzo di macchinari.
Infine, è utile richiamare il fatto che, ai sensi dell’articolo 77 del
D.Lgs. 81/08, è necessario mantenere in efficienza i DPI (cinture di sicurezza,
caschi, ecc.) nel corso del tempo, mediante la manutenzione, le riparazioni e
le sostituzioni necessarie secondo le indicazioni fornite dal fabbricante con
il foglio informativo, nonché, ancora una volta, assicurare ai lavoratori una
formazione adeguata ed uno specifico addestramento all’uso corretto dei
dispositivi.
Il documento dell’INAIL “Le cadute dall’alto dei lavoratori” è scaricabile
all’indirizzo:
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IL RISCHIO DELLE INTERFERENZE TRA MEZZI E PEDONI
Da: PuntoSicuro
22/06/17
Esempi di infortuni professionali dovuti a una cattiva gestione delle
interferenze tra i mezzi operativi e le persone a piedi. La dinamica di un
infortunio, i fattori causali, i piani di viabilità e la prevenzione.
In diversi articoli del nostro giornale, anche con riferimento alle cause
degli infortuni professionali, abbiamo potuto constatare come la viabilità in
un’azienda, l’interferenza tra mezzi e persone, sia un aspetto importante da
valutare per aumentare la tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro. Un
aspetto a cui spesso non si dà la giusta importanza.
Per questo motivo torniamo a occuparci, attraverso “Imparare dagli errori”,
rubrica dedicata al racconto e all’analisi degli infortuni lavorativi, dei
rischi relativi alle interferenze che avvengono nei luoghi di lavoro.
Interferenze che riguardano non solo attività diverse in regime di appalto, ma
anche, ad esempio, il rischio di investimento, in una stessa attività, per il
contatto tra mezzi operativi o tra mezzi e pedoni.
Il caso presentato è tratto, come sempre, dalle schede di INFOR.MO.,
strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema
di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi
Ci soffermiamo oggi su un caso che riguarda un infortunio che sottolinea le
conseguenze della mancanza di istruzioni atte all’eliminazione di interferenze
tra persone a piedi e mezzi.
L’infortunato è un autotrasportatore e il giorno dell’infortunio si trova
con il mezzo (un camion centinato) proprio avanti all’ingresso di un magazzino
portuale, in attesa che il camion venga caricato con alcuni pallet di sacchi di
caffè da un carrellista dell’impresa portuale che li inforca e li carica
progressivamente, prelevandoli dall’interno del magazzino e depositandoli sul
pianale del mezzo di trasporto. Dopo che alcuni pallet sono già stati caricati
sul camion dal carrellista, l’autotrasportatore si porta all’esterno della
cabina di guida, lateralmente al rimorchio, per cominciare ad assicurare il
carico al mezzo (lavoro del tutto fattibile anche a fine carico); tale
operazione è da lui compiuta lanciando da un lato all’altro del rimorchio delle
lunghe cinghie. Durante l’azione finale di trazione e chiusura di tali cinghie
da parte dell’autotrasportatore, posizionato frontalmente rispetto al fianco
del rimorchio dallo stesso lato dell’ingresso del magazzino, sopraggiunge il
carrellista, il quale è uscito in retromarcia con un ulteriore carico sulle
forche; l’addetto, dopo aver percorso con il mezzo alcuni metri in linea retta,
sempre in retromarcia e senza girarsi all’indietro, passa, non accorgendosene,
con una ruota posteriore del carrello sul piede sinistro dell’infortunato che
sta chiudendo le cinghie, trovandosi in quella circostanza sulla traiettoria
del mezzo in uscita dal magazzino; l’infortunato in quel momento ha la gamba
sinistra un po’ divaricata e il piede con la punta rivolta all’esterno; in
conseguenza il piede subisce l’investimento da parte del mezzo, riportando la
frattura del malleolo tibiale sinistro.
Ai controlli effettuati alcuni giorni dopo, il segnalatore acustico di
retromarcia del carrello risultava funzionante. L’area operativa peraltro
risulta spesso rumorosa. Si è valutato che l’utilizzo delle scarpe
antiinfortunistiche (che non si è potuto accertare fossero in uso) non avrebbe
evitato il danno conseguente all’infortunio. È risultato che non fossero
presenti, nell’ambito dell’organizzazione aziendale per la sicurezza,
istruzioni operative specifiche per gli autotrasportatori e per gli addetti al
carico atte a eliminare le interferenze nelle aree operative tra le persone a
piedi e i mezzi.
Questi i fattori causali individuati:
- l’infortunato si trovava
nella zona operativa di manovra del carrello e non prestava attenzione al
sopraggiungere di esso;
- il carrellista non si è
accertato della posizione dell’autotrasportatore durante il percorso in
retromarcia.
Spesso si è sottolineata la necessità di gestire la viabilità nelle aziende
attraverso l’elaborazione di veri e propri piani di viabilità.
Per parlarne facciamo riferimento a un documento (prodotto in relazione al
Piano Mirato di Prevenzione “Carrelli elevatori e viabilità sicura in azienda”
dell’ ATS Brianza) dal titolo “Carrelli elevatori e viabilità sicura in
azienda. Requisiti essenziali per l’uso in sicurezza dei carrelli elevatori”.
Il documento si sofferma, infatti, sul “Piano della viabilità aziendale”,
un piano scritto che definisca le regole di circolazione in uso nei reparti e
nelle aree esterne dell’Azienda e che stabilisca le misure organizzative e
procedurali sufficienti a garantire la sicurezza dei lavoratori rispetto ai
rischi connessi con l’uso dei carrelli elevatori e di tutti gli altri mezzi di
trasporto (transpallet, auto, camion, ecc.).
Queste sono alcune indicazioni che il piano deve prevedere:
- lo stato della
pavimentazione e della sua manutenzione deve essere tale da evitare buche o
avvallamenti pericolosi per la stabilità del mezzo e del carico;
- la pavimentazione va
tenuta costantemente pulita da scarti di lavorazione al fine di rendere sicuro
il transito di persone e mezzi;
- la segnaletica e
cartellonistica, cioè adottare una chiara segnaletica che permetta di
interpretare chiaramente la viabilità aziendale, la disposizione dei luoghi e
degli spazi e l’organizzazione complessiva della circolazione interna; dovrà
inoltre informare e far rilevare la presenza di pericoli generici e particolari
connessi alla viabilità (ad esempio: prevedere la separazione delle corsie di
marcia, evidenziare i luoghi di stoccaggio delle merci, di passaggio dei
carrelli e dei pedoni; utilizzare la tradizionale segnaletica verticale per
evidenziare le condizioni di pericolo, indicazione, prescrizione; evidenziare
gli attraversamenti pedonali, gli STOP, eventuali pericoli particolari e
ostacoli; ecc.);
- spazi riservati alle
merci, devono essere stoccate in aree allo scopo dedicate, in modo da lasciare
sempre sgombri i pavimenti e i passaggi per la normale circolazione dei pedoni
e dei mezzi di trasporto sulle rispettive vie di circolazione;
- corsie riservate ai
carrelli e ai pedoni, dove è tecnicamente possibile, al fine di evitare il più
possibile le ‘interferenze’ e i relativi rischi di investimento; a questo
proposito si rammenta la necessità di tracciare i relativi attraversamenti,
coerenti e funzionali alle reali necessità di spostamento delle persone in
azienda;
- uscite dai luoghi
distinte e protette, dove questo è tecnicamente possibile, per carrelli e
pedoni;
- misure di prudenza
necessarie (velocità ridotte dei mezzi, uso di specchi nei punti critici e
negli incroci tra le corsie e presso le uscite, ecc.) per tutte le altre aree
dove, la distinzione tra pedoni e mezzi, non è tecnicamente realizzabile;
- protezione delle aree di
sosta e ristoro (distributori di bevande, ecc.) con barriere idonee;
- l’ubicazione delle
uscite di sicurezza e le procedure in uso per garantire sempre che le uscite di
sicurezza siano tenute sgombre da intralci ed apribili: i relativi percorsi di
esodo devono anch’essi essere liberi e accessibili;
- le misure organizzative
per la possibile presenza, sui luoghi di transito e di manovra, di terze
persone (autisti, fornitori, clienti, ecc.) che devono essere anch’esse
tutelate;
- l’informazione ai
lavoratori del contenuto del Piano di circolazione interna Aziendale di cui va
lasciata traccia;
- procedure di controllo
aziendali per la vigilanza sul rispetto concreto delle procedure di sicurezza
elaborate nel piano della viabilità. A questo scopo è consigliabile
individuare, con apposita procedura formalizzata, un incaricato al controllo
periodico frequente.
Il documento della Azienda sanitaria locale della provincia di Monza e
Brianza “Carrelli elevatori e viabilità sicura in azienda. Requisiti essenziali
per l’uso in sicurezza dei carrelli elevatori” è scaricabile all’indirizzo:
Il sito web di INFOR.MO., di cui nell’articolo abbiamo presentato la scheda
numero 4184 è consultabile all’indirizzo:
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