Il commesso di un supermercato
si spara: chi ha armato quel fucile?
Di storie così ne ho ascoltate tante,
troppe. Franco aveva 62 anni, padre di tre figli maschi e nonno di un bimbo di tre
anni, era a capo del reparto macelleria di uno dei tanti supermercati
sparsi da nord a sud di questo paese infame. Franco si è sparato un colpo di
fucile alla testa. Secondo la Moglie Marina, che non si dà pace, Franco si
è tolto la vita nella taverna di casa a Vazia, frazione di Rieti “perché
semplicemente non sopportava più la distruzione di 12 anni di lavoro da parte
di qualcuno”. Questo il racconto pubblicato da AbbruzzoWeb. Di storie così
ne ho ascoltate tante, troppe. Una storia così l’ho vissuta da vicino e
anche se non posso esprimermi sulle reali motivazioni che hanno portato Franco
a togliersi la vita, quello che racconta la moglie disperata mi risuona molto
familiari. Su questa vicenda in particolare farà luce la magistratura: la
procura della Repubblica di Rieti ha infatti aperto un’inchiesta. L’ipotesi
di reato, secondo racconta il giornale on line, è di istigazione al
suicidio. Il fascicolo per ora è contro ignoti.
Le indagini sono
scattate in seguito al ritrovamento di una lettera, sequestrata dagli
inquirenti, lasciata dall’uomo, nella quale sarebbero spiegati i motivi che lo
avrebbero spinto a togliersi la vita: in particolare avrebbe, secondo fonti
legali, collegato il gesto estremo a un presunto mobbing subìto nell’ambito
lavorativo. L’azienda, una delle grandi multinazionali del commercio, nel
frattempo ha avviato un’indagine interna ed ha fatto sapere di “voler valutare
specifiche situazioni all’interno del punto vendita”, precisando inoltre che
Franco aveva “passione e professionalità per il lavoro”, come riportato
dall’edizione reatina del quotidiano il Messaggero. Oltre alla lettera,
Franco, secondo quanto raccontato in un lungo sfogo ad AbruzzoWeb dalla
moglie, avrebbe lasciato anche diversi fogli su cui, anche insieme alla moglie,
annotava quanto accadeva al lavoro, e un bigliettino giallo per lei e per la
famiglia con su scritto, ‘Fai quello che devi fare, vi ho voluto tanto bene,
continuerò a proteggervi da lassù’”. “Nella lettera e pure sui fogli – le
parole della donna – c’è scritta la verità su questa storia. Verità che dovrà
venire fuori, ma se così non sarà, io continuerò a battermi. Non posso non fare
giustizia per quanto successo a mio marito”. “Mi ripeteva – aggiunge – che lo
stavano stressando e a nulla sono serviti i miei tanti tentativi di farlo
reagire in modo diverso da quello che ha scelto quella domenica di maggio”. “La
situazione lavorativa – prosegue nella sua ricostruzione – si era fatta difficile,
tesa, per una serie di motivi e specie dopo le durissime reazioni dell’azienda,
che ha addirittura inviato all’Aquila uno dei vertici per la vicenda
dell’iscrizione di diversi lavoratori a un sindacato, cosa per cui Franco è
stato visto come responsabile e attaccato”. Sempre secondo la moglie,
inoltre, l’uomo, “quasi in preda alla disperazione, aveva accettato una
offerta poco conveniente di prepensionamento, dopo un periodo di attacchi di
ogni genere, ore ridotte e ferie forzate comprese, lui che le ferie non poteva
neppure sentirle nominare – rimarca – lui che andava a lavorare sempre, tutti i
giorni partendo alle quattro del mattino in qualsiasi condizione di salute, di
meteo, con la neve, con la pioggia, fregandosene degli incidenti in macchina, dei
pericoli, della stanchezza”. “Quel che fa molto male – continua con lo sfogo
Marina – è l’aver dovuto subire anche i voltafaccia delle persone a cui aveva
fatto solo del bene. Era un uomo buono e amato ma al tempo stesso duro come la
roccia. Evidentemente, chi voleva colpirlo sapeva che poteva farlo soltanto
puntando al suo lavoro”. Franco e Marina, quest’ultima di quattro anni
più giovane, si sono fidanzati da giovanissimi. Il macellaio, dopo aver chiuso
l’esperienza di 27 anni con un’azienda a conduzione familiare a Rieti, ha
trovato lavoro per una multinazionale nel capoluogo d’Abruzzo dove da subito è
diventato caporeparto della macelleria, gestita per 12 anni. Con il
terremoto del 2009, ha avuto la possibilità di poter tornare a lavorare
all’Iper di Rieti, “ma non ha mai voluto perché diceva che il suo lavoro
era all’Aquila e doveva ricominciare da lì con i suoi ragazzi. Durante la
ricostruzione è stato l’unico che ha sempre lavorato tra Terni, Rieti e a volte
Roma, Anguillara e Pomezia, però non vedeva l’ora di ricominciare con la sua
‘squadra’, come la chiamava lui – ricorda la coniuge – Ha lasciato un vuoto
enorme, Franco. Al funerale c’erano più di 1.500 persone. Nessuno capirà mai
come sia stato possibile finire così”. “Sono pronta a fare di tutto per far
conoscere all’Italia intera questa storia – conclude – Ho intenzione di
organizzare una fiaccolata all’Aquila in ricordo di Franco. A nostro nipote
diciamo che suo nonno è in cielo che balla e canta Alleluia con gli angeli.
Tutte le sere, balliamo e cantiamo Alleluia per far contento il piccolo. I miei
figli sono straziati, come sono straziata io, ma Franco avrà giustizia. Ne sono
sicura”.
Di storie così ne ho ascoltate tante, troppe. E sono certo che ne
avrete ascoltate tante anche voi. Storie di commessi vessati e umiliati nella
propria dignità. Storie di indifferenza e di omertà. Di certo dovremo aspettare
le indagini della magistratura per capire come stanno davvero le cose, ma nel
frattempo di storie così ne viviamo tutti i giorni, a due passi da noi. Un
problema di tutti, nessuno escluso. E noi una cosa la possiamo fare, almeno
per la memoria del povero Franco. Possiamo decidere di non fare spallucce,
di non girarci dall’altra parte o peggio renderci complici di chi emargina uno
di noi, un lavoratore. Possiamo denunciare e supportare chi è vittima di mobbing e viene messo ai margini. Perché un mondo del lavoro
così fa schifo, fa schifo davvero!
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