La
modifica è arrivata con l'approvazione dei decreti attuativi al Jobs Act.
Nella seduta n. 67 del Consiglio dei Ministri, in data 11.06.2015,
sono stati licenziati gli ultimi sei decreti attuativi sul jobs act.
Diverse le materie trattate, dal contratto a tempo indeterminato,
alla somministrazione di manodopera, passando per l’apprendistato e la cassa
integrazioni guadagni ordinaria e straordinaria.
Tra le novità di maggior rilievo la prevista riformulazione
dell’art. 2103 c.c., in materia di mansioni.
Nella versione ancora (per poco) in vigore, la norma prevede tra
l’altro che: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per
le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che
abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime
effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione.
In buona sostanza le mansioni devono essere quelle previste nel
contratto di lavoro ovvero quelle superiori conseguite nel corso del tempo.
Era prevista altresì la possibilità, per il datore di lavoro, di
variare le mansioni del proprio dipendente (cd. ius variandi), tuttavia,
senza possibilità alcuna di diminuzione della retribuzione e ferma
restando l’equivalenza delle stesse, vale a dire il mantenimento del
medesimo livello di inquadramento.
Sul punto la giurisprudenza ha avuto modo di precisare come: “Il
divieto per il datore di lavoro di variazione in "pejus" ex art. 2103
cod. civ., opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle
precedenti e nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente
inferiori, dovendo il giudice accertare che le nuove mansioni siano aderenti
alla specifica competenza del dipendente, senza fermarsi al mero formale
inquadramento dello stesso” (Ex multis: Cass. civ. Sez. lavoro,
05/08/2014, n. 17624).
In sostanza, l’elaborazione giurisprudenziale aveva portato a
ritenere che l’equivalenza delle mansioni doveva tenere conto sia del dato
formale, vale a dire il medesimo inquadramento professionale, ma anche del dato
concreto, ossia che le nuove mansioni fossero aderenti e confacenti alla
competenza professionale specifica acquisita dal dipendente, di modo da
garantirgli l'accrescimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze (Cfr. da
ultimo: Cass. civ. Sez. lavoro, 03/02/2015, n. 1916).
Entro tali limiti e, pertanto, con il rispetto delle anzidette
condizioni, la possibilità di mutamento delle mansioni del dipendente era
riconosciuta, anche in maniera unilaterale, in capo al datore di lavoro.
Il decreto attuativo spariglia le carte e ridisegna
profondamente la norma.
Viene previsto, infatti, che il lavoratore possa essere assegnato
a qualunque mansione inerente il medesimo livello di inquadramento,
analogamente a quanto già avviene nel pubblico impiego, tanto è vero che il
decreto attuativo richiama espressamente l’art. 52 del D.Lgs. n. 165/2011 “Norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche. Disciplina delle mansioni”.
Sostanzialmente viene eliminato il principio dell’equivalenza
delle mansioni, pertanto, sparisce il riferimento alla competenza professionale
specifica acquisita dal dipendente e al suo accrescimento.
L’unico limite rimasto è quello per cui le nuove mansioni dovranno
rientrare nella medesima categoria di inquadramento.
Si è privilegiato, pertanto, soltanto il dato formale ed economico
a scapito della professionalità del lavoratore, e tanto nell’ottica di un
processo innovativo già intrapreso con il jobs act, che prevede una maggiore
flessibilità lavorativa.
Sono previste, tuttavia, due ulteriori ipotesi nelle quali è
possibile anche derogare al principio del medesimo livello di inquadramento e
che, pertanto, consentono la legittima adibizione del lavoratore a mansioni
inferiori di un livello sia con identica retribuzione, ma anche con stipendio
inferiore.
La prima ipotesi è quella per cui, in presenza di processi di
ristrutturazione o riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro potrà
modificare unilateralmente le mansioni del lavoratore di un livello, senza
possibilità però di modificare il suo trattamento economico, fatte salve quelle
indennità accessorie proprie delle mansioni ricoperte in precedenza che,
pertanto, potranno essere legittimamente decurtate.
Si pensi, a titolo di esempio, alle indennità di disagio, a quelle
di cassa ovvero a quelle di turno, e così via.
Ebbene, salvo diverso accordo tra le parti, queste indennità, se
rientranti nelle precedenti mansioni assegnate, in caso di variazione delle
stesse, potranno essere lecitamente sottratte.
Il decreto attuativo, con una sorta di delega in bianco, prevede
altresì che la contrattazione collettiva e, pertanto, le associazioni sindacali
e quelle di categoria dei datori di lavoro, possano individuare ulteriori
ipotesi (al di fuori di quelle viste: ristrutturazione o riorganizzazione
aziendale), nelle quali consentire l’adibizione a mansioni inferiori di un
livello.
Il riferimento generico alla “contrattazione collettiva”, porta a
presumere che il riferimento possa essere, oltre che alla contrattazione
nazionale, anche a quella di secondo livello, vale a dire su base territoriale
e aziendale di settore.
A tal proposito, ci auguriamo che la norma non presti il fianco ad
eventuali abusi, da una parte o dall’altra, magari concernenti ristrutturazioni
o riorganizzazioni aziendali inesistenti, utilizzate al solo scopo di
demansionare il dipendente ovvero a continui ricorsi alla magistratura per
eccepire l’inesistenza della fattispecie riorganizzativa.
Ed invero, ricordiamo che la giurisprudenza si è già occupata di
tali problematiche, sia pure in ambiti diversi, ad esempio per i trasferimenti,
i licenziamenti o la cassa integrazione.
In dette occasioni, la stessa, ha avuto modo di precisare come
tali processi aziendali tecnico-organizzativi solitamente comportano la
soppressione del settore lavorativo o del reparto cui era addetto il dipendente
licenziato, sempreché risulti l'effettività e la non pretestuosità del
riassetto organizzativo operato (Cfr.: Cass. 7/01/2004, n. 28), la
perdita di commesse e la riduzione degli ordini (Cfr.: Cass. 7/08/2013, n.
18827) e, comunque, ogni ragione, in senso economico, non escluse le
esigenze di mercato o il perseguimento di un incremento dei profitti attraverso
modifiche organizzative, ragione che tuttavia deve essere seria e non
pretestuosa (Trib. Bari, 26/04/2012).
Fermo restando che il giudizio non può estendersi fino a sindacare
le scelte imprenditoriali, ma limitarsi a verificare la sussistenza del nesso
causale tra la progettata riorganizzazione ed i singoli provvedimenti assunti
nei confronti dei lavoratori.
Infine, la terza e ultima ipotesi, quella sicuramente più gravosa
per il lavoratore, prevede la possibilità di accordi individuali tra datore di
lavoro e lavoratore, assunti “in sede protetta” - il riferimento è alle sedi di
conciliazione previste dalla legge - con i quali, gli stessi, al fine di
salvaguardare il posto di lavoro o per conseguire una diversa professionalità o
il miglioramento delle condizioni di vita, possono modificare in peius
sia il livello di inquadramento che la retribuzione.
Pertanto, per la prima volta, viene prevista anche la possibilità
di diminuzione della retribuzione percepita fino a quel momento dal prestatore
di lavoro.
Questa ipotesi, a differenza della precedente, non prevede che il
livello di inquadramento possa essere ridotto al massimo “fino a un livello”,
pertanto, appare plausibile che la modifica al ribasso possa riguardare anche
più di un livello, rispetto all’inquadramento iniziale ovvero a quello
acquisito successivamente.
Appare evidente, infine, la necessità della forma scritta
dell’accordo derogativo delle mansioni e della retribuzione, considerata
l’obbligatorietà di raggiungere l’accordo in sede conciliativa.
A tal uopo, la mancanza di forma scritta, potrebbe comportare la
nullità del mutamento di mansioni, esponendo il datore di lavoro alla
corresponsione di tutte le differenze retributive fino ad allora maturate.
Avv. Paolo Accoti
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