NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
INFORTUNI SUL
LAVORO: INDENNIZZABILE IL DANNO DALL’INAIL ANCHE SE DERIVA SOLO DA UNO SFORZO
FISICO
Da
Studio Cataldi
6
ottobre 2015
di
Valeria Zeppilli
Infortuni
sul lavoro: indennizzabile il danno dall’INAIL anche se deriva solo da uno
sforzo fisico.
Per
il tribunale di Ivrea, lo sforzo è da considerarsi causa violenta se è diretto
a vincere una resistenza peculiare della prestazione lavorativa.
La
causa violenta, necessaria affinché un infortunio possa essere indennizzato
dall’INAIL con l’indennità giornaliera legislativamente prevista, può
ravvisarsi anche in uno sforzo fisico.
Questo
almeno è quanto stabilito dal Tribunale di Ivrea con la sentenza n. 61/2014.
I
giudici della Sezione Lavoro, infatti, hanno precisato che è ben possibile che
se da un atto di forza derivi una lesione, esso possa integrare un’ipotesi di
sforzo idoneo a legittimare la corresponsione dell’indennità giornaliera da
infortunio.
Nel
caso di specie la lesione era derivata al lavoratore dalla necessità di
appoggiarsi con la schiena sulla parete di un silos e scuoterla con forza al
fine di far defluire, come necessario, del pangrattato che era rimasto bloccato
sui bordi.
A
causa del dolore persistente, il ricorrente, il giorno successivo, si era
trovato costretto ad abbandonare il posto di lavoro per raggiungere, peraltro
tramite autoambulanza, il Pronto Soccorso, dove gli veniva diagnosticata una
lombalgia acuta da sforzo.
Dinanzi
a tale circostanza, e in contrasto con quanto richiesto dall’Istituto (per il
quale l’evento dal quale al lavoratore era derivata la lesione non sarebbe in
realtà dipeso da causa violenta, ma da malattia comune), i giudici hanno
riconosciuto al ricorrente cinquanta giorni di inabilità temporanea assoluta
indennizzabili da parte dell’INAIL.
Ciò
in considerazione del fatto che, nel caso di specie, il lavoratore aveva
compiuto, da solo, un’operazione anormale dal punto di vista ergonomico e
rifacendosi alla giurisprudenza della Cassazione, in base alla quale lo sforzo
che comporta una lesione integra la fattispecie della causa violenta, anche se
non straordinario né eccezionale, purché sia diretto a vincere dinamicamente
una resistenza peculiare della prestazione o dell’ambiente di lavoro.
Per
approfondimenti:
MORTE SUL LAVORO: I
DIRITTI DEGLI EREDI E LE PRESTAZIONI INAIL
Da
Studio Cataldi
6
ottobre 2015
di
Valeria Zeppilli
MORTE
SUL LAVORO: I DIRITTI DEGLI EREDI E LE PRESTAZIONI INAIL
LA RENDITA AI SUPERSTITI E LE
VOCI DI DANNO INDENNIZZABILI
Tra
le numerose tutele apprestate dall’INAIL rientra anche quella posta a favore
dei familiari dei lavoratori che siano deceduti in conseguenza di un infortunio
sul lavoro o di una malattia professionale.
A
favore di tali soggetti, infatti, al ricorrere di determinati requisiti
l’istituto riconosce una rendita che decorre dal giorno successivo a quello in
cui si è verificato l’evento nefasto e ha durata differente a seconda dei
soggetti ai quali sia rivolta.
I
BENEFICIARI DELLA RENDITA AI SUPERSTITI
Più
nel dettaglio, tra i familiari del lavoratore deceduto sul lavoro ai quali
spetta la rendita vanno ricompresi anzitutto il coniuge superstite e i figli.
Per
il primo, la rendita cessa di essere erogata al momento della morte o nel caso
in cui contragga un nuovo matrimonio.
Con
riferimento ai figli, invece, la rendita spetta a quelli legittimi, naturali,
riconosciuti o riconoscibili e adottivi, sino al compimento del diciottesimo
anno di età.
Se
sono studenti di scuola media superiore o professionale, a carico del defunto e
senza un lavoro retribuito, la rendita spetta loro sino ai 21 anni.
Il
beneficio, infine, può poi estendersi per tutta la durata del corso di studi e
sino a massimo i 26 anni di età se i figli siano studenti universitari, a carico
e senza un lavoro retribuito.
Si
precisa che, nel caso in cui i figli siano inabili al lavoro, la rendita spetta
sino alla cessazione dell’inabilità.
Se,
invece, il lavoratore non era sposato e non aveva figli, della rendita possono
beneficiare i genitori, purché fossero a suo carico e sino alla loro morte, e i
fratelli e le sorelle, anche in questo caso purché a carico del lavoratore
defunto e, inoltre, purché conviventi.
A
questi ultimi il beneficio spetta sino ai medesimi termini visti per i figli.
In
ogni caso, la rendita non spetta ai superstiti dei lavoratori non soggetti alla
tutela assicurativa obbligatoria prevista dal Testo Unico 1124/65 e dalla Legge
493/99.
CARATTERISTICHE
E AMMONTARE DELLA RENDITA
La
rendita offerta dall’INAIL ai superstiti dei lavoratori deceduti in conseguenza
di malattia professionale o infortunio sul lavoro è una prestazione economica
che ha il vantaggio di non essere soggetta a tassazione IRPEF.
La
base di calcolo per determinarne l’ammontare ha subito una variazione a partire
dal 1° gennaio 2014. Mentre, infatti, essa era in precedenza identificata nella
retribuzione annua effettiva del lavoratore nel rispetto di determinati limiti
stabiliti, nel minimo e nel massimo, dal Testo Unico 1124/65, oggi, a seguito
della legge di stabilità 2014, essa va individuata nella retribuzione massima
convenzionale del settore industria.
Posta
questa base di calcolo, l’ammontare della rendita varia a seconda di quale sia
il soggetto che ne beneficia.
Nel
dettaglio, essa spetta nella misura del 50% al coniuge e nella misura del 20% a
ciascun figlio.
Se
però i figli siano orfani di entrambi i genitori o siano figli naturali
riconosciuti o riconoscibili, la rendita spetta loro nella misura del 40%.
Laddove,
invece, in assenza di coniuge o figli, la rendita vada a vantaggio, alle
condizioni sopra viste, dei genitori naturali o adottivi o dei fratelli o delle
sorelle, essa sarà erogata nella misura del 20%.
In
ogni caso, le quote di rendita non possono mai complessivamente superare la
base di calcolo presa come riferimento per determinare il loro ammontare.
Pertanto,
laddove ciò potenzialmente accada, le quote di rendita spettanti ai familiari
vanno adeguatamente riproporzionate.
Ciò
posto in via generale, va da ultimo specificato che l’ammontare effettivo delle
rendite è rivalutato annualmente sulla base della variazione effettiva dei
prezzi al consumo e mediante decreto del Ministero del lavoro e delle politiche
sociali.
COME
CHIEDERE LA RENDITA
In
caso di morte a seguito di infortunio sul lavoro, la rendita ai superstiti
viene erogata dall’INAIL direttamente a seguito di denuncia dell’evento nefasto
da parte del datore di lavoro.
Solo
laddove quest’ultimo non vi provveda, saranno gli eredi del lavoratore a dover
presentare apposita richiesta, corredata di tutta la documentazione sanitaria
idonea ad attestare la causa del decesso.
Nel
caso invece in cui il decesso riguardi il lavoratore già titolare di una
rendita diretta, la richiesta all’INAIL va presentata direttamente dai
superstiti, sempre corredata della documentazione sanitaria necessaria a
ricondurre la morte al lavoro.
In
ogni caso, è l’INAIL che informa i superstiti del lavoratore della possibilità
di richiedere la rendita entro novanta giorni dalla data in cui ricevono tale
comunicazione.
LE
MODALITÀ DI CORRESPONSIONE
Una
volta riconosciuto ai superstiti il diritto a beneficiare della rendita,
l’INAIL provvede al relativo pagamento sia attraverso assegni, che attraverso
accredito su conto corrente, su libretto di deposito o su carta prepagata
dotata di codice IBAN.
Se
la quota di rendita non supera i mille euro, il pagamento può avvenire anche in
contanti presso gli sportelli postali o bancari.
Nel
caso, infine, in cui la rendita venga riscossa all’estero, il pagamento avviene
presso gli sportelli convenzionati con l’INPS.
LE
VOCI DI DANNO INDENNIZZABILI
Da
ultimo occorre segnalare che, laddove la morte sul lavoro sia cagionata da
colpa del datore di lavoro, agli eredi del lavoratore spetta sia il
risarcimento del danno morale da liquidarsi in via equitativa, tenendo conto
delle sofferenze patite e della gravità dell’illecito, sia il risarcimento del
danno biologico “iure proprio” conseguente alla lesione dell’integrità
psico-fisica subita dagli interessati in ragione della morte del familiare.
Nel
caso in cui, tra l’infortunio e la morte, il lavoratore sia rimasto in vita per
un apprezzabile lasso di tempo, agli eredi compete inoltre il risarcimento del
danno biologico “iure ereditario”.
IL RISCHIO
PSICOSOCIALE E LO STRESS
Da
Orizzonte degli Eventi
23/10/15
Di
Franco Simonini e Vincenza Bruno
L’Organizzazione
Mondiale della Sanità definisce la salute non più come “assenza di malattia”
(un concetto lineare connesso alla semplicità di due sole variabili: presenza,
assenza) ma come lo “stato” (condizione che prevede l’interazione spontanea tra
molteplici variabili dalla cui sintesi emerge una condizione dell’essere
(benessere o malessere) indipendente da ogni singola variabile che partecipa
alla definizione della totalità) di benessere fisico, psichico e sociale
dell’individuo.
Questa
definizione risuona con la naturale ontologia dell’essere umano che da macchina
(funzionante/non malata, rotta/malata) passa a percezione vitale in cui ogni
aspetto dell’essere (fisico, psichico e sociale) influisce sulla descrizione
totale dello stato di benessere individuale.
Dal
1948 vi è stata una significativa evoluzione nella ricerca e nella
sperimentazione di tutte le materia appartenenti al sistema “benessere
individuale”. Nella pratica le scienze e le conoscenze subiscono, e hanno
subito, l’influenza di lobby, gruppi di potere, interessi privati, che hanno
diretto l’applicazione del diritto alla salute nelle direzioni a loro
confacenti spesso anche a discapito delle reali esigenze dei cittadini.
Anche
la sicurezza e la salute dei luoghi di lavoro ha subito gli stessi
condizionamenti, abbiamo ancora, oggi, chi ritiene naturale che il lavoro debba
essere, sacrificio, fatica, disagio, debba contenere un certo grado di rischio
e di insalubrità.
Quando
nel 1994 grazie all’influenza Europea si iniziò anche in Italia ha discutere
del rischio psicosociale molti affermavano che la “gente” moriva ancora sul
lavoro per infortuni e malattie professionali e occuparsi dello stress era come
curare il raffreddore lasciando a se stesso il malato di polmonite.
Secondo
l’OMS, invece, ogni condizione che allontana dal benessere psichico e sociale è
una condizione da bonificare perché contraria alla salute. Secondo le più
importanti agenzie Europee, e anche la nostra organizzazione, i rischi
psicosociali, che producono importanti forme di stress nei lavoratori,
rappresentano la massima preoccupazione oltre che per la salute anche per la
loro influenza negativa sulla produzione.
I
rischi psicosociali producono stress negli individui, modificano la loro
capacità creativa e di produzione della coscienza. Incidono sul DNA e stimolano
la produzione di proteine difensive nelle cellule cerebrali, condizionano
pensieri e comportamenti. Questi rischi possono produrre gravi stati di
sofferenza come nei processi di mobbing o burnout. Lo stress per le vessazioni
subite aumenta drammaticamente il rischio di suicidio, le vessazioni nel luogo
di lavoro non producono disagio solo al singolo operatore ma dimostrano una
condizione di malessere dell’intero sistema produttivo.
IL
RISCHIO PSICOSOCIALE
Il
rischio psicosociale può essere inteso come l’insieme di “quegli aspetti
relativi alla progettazione, organizzazione e gestione del lavoro, nonché ai
rispettivi contesti ambientali e sociali, che dispongono del potenziale per dar
luogo a danni di tipo fisico, sociale o psicologico” (Cox, Griffiths, 1995).
Da
questa definizione è possibile dedurre la complessità e la trasversalità di
tale rischio, esso non riguarda tipiche aree di lavoro o specifici compiti, ma
può essere in potenza presente in ogni organizzazione.
Nel
pensiero sistemico le imprese sono osservate come organismi inseriti
all’interno di collettività preesistenti, devono affrontare problemi connessi
all’impatto ambientale e seguono indicazioni da standard internazionali per la
gestione dei comportamenti che producono il minore disagio alla popolazione
ospitante. Le ISO 14001 regolano questa materia a livello mondiale. Ultimamente
le ISO 26000 prescrivono anche la necessità di valutare l’impatto sociale sulle
comunità ospitanti. La cultura manageriale internazionale ritiene che le
imprese producano una loro specifica cultura in grado di interagire col contesto
ambientale e sociale.
Per
i luoghi di lavoro le OHSAS 18001 prescrivono come fondamentale la
partecipazione degli Responsabili dei Lavoratori per la Sicurezza e dei
lavoratori alla gestione della sicurezza e della salute. Ogni sistema di
gestione ha bisogno di un continuo monitoraggio delle variabili che incidono
sull’evoluzione o sulla regressione del sistema.
Se
utilizziamo il pensiero sistemico, traducendo in metafora la definizione di Cox
e Griffiths di rischio psicosociale, si ottiene una interrelazione tra gli
aspetti manageriali del lavoro col suo contesto ambientale e sociale.
Gli
aspetti di progettazione, organizzazione e gestione del lavoro non possono
essere considerati come momenti separati della conduzione aziendale, essi sono
comunque in interazione tra loro a formare una “unità complessa”. E’ da questa
unità complessa che si origina il contesto ambientale e sociale anche quando
non siamo in grado di valutarne gli effetti come nelle analisi lineari (Bruno,
2013).
Nell’osservazione
separata delle variabili possiamo solo perdere la consapevolezza che errori di
progettazione, ad esempio, ricadono obbligatoriamente sull’organizzazione e da
questa condizionano la gestione del lavoro.
Gli
aspetti di organizzazione, progettazione, il contesto sociale ecc. anche se
distinguibili sono connessi tra loro in maniera circolare e non dissociabile.
Nel momento in cui un elemento è in interrelazione con un altro si realizza
qualcosa di diverso della somma delle parti, inoltre le parti stesse dopo il
processo di interrelazione mutano se stesse e i relativi contesti ambientali e
sociali, anche se a volte in maniera non direttamente e immediatamente
osservabile (Bruno, 2013).
Il
rischio psicosociale (comprese le sue variabili produttrici di vessazioni,
mobbing, burnout) si manifesta attraverso i meccanismi dinamici che creano
all’interno delle organizzazioni sottogruppi informali in risposta ai limiti o
alle costrizioni del management inesperto e approssimativo. In risposta a
procedure formali statiche e lontane dai reali bisogni di comunicazione, gli
operatori si organizzano in piccoli gruppi condividendo interessi “omogenei”
che diminuiscono difficoltà, disagio e fatica operativa.
In
questo modo le organizzazioni sono definite da una complessa rete di aspetti formali
ed informali continuamente interagenti tra loro e non sempre percepiti o
conosciuti dal management.
Le
variabili formali ed informali rivestono un ruolo fondamentale per la vita e
l’efficacia dei sistemi organizzati, da esse o meglio dalla loro interazione
dipendono la cultura aziendale, la politica aziendale, la “mission”,
l’organizzazione generale del lavoro fino ad arrivare all’esecuzione di
specifiche attività, di conseguenza gli aspetti formali e informali influiscono
sulla salubrità dell’azienda a tutti i livelli.
Le
organizzazioni del lavoro sono definite da due aspetti:
-
formale
o teorico-programmatico;
-
informale
o comunicativo-interrelazionale.
I
due aspetti, anche se distinguibili, solitamente nei manuali di psicologia del
lavoro sono descritti per comodità di esposizione in maniera separata, sono di
fatto in stretta interrelazione, la dimensione formale genera anche aspetti di
informalità e a sua volta l’aspetto informale può produrre nel tempo nuove o
diverse caratteristiche formali; entrambi poi agiscono sull’organizzazione, a
sua volta l’organizzazione in quanto totalità agisce sui due aspetti (Bruno,
2013).
L’organizzazione
informale senza il supporto di una cultura adeguata (campo interrelazionale)
può innescare processi in grado di sviluppare fenomeni pericolosi per la salute
dei lavoratori e dell’organizzazione stessa (ad esempio vessazioni, eccessivo
conflitto, indifferenza per abbandono mentale del “campo” (Bruno, 2013), allo
stesso tempo può produrre fenomeni positivi come la solidarietà e la
cooperazione spontanea nei gruppi di lavoro, ma se non gestita e lasciata al
caso questi aspetti di positività possono così come generati spontaneamente
regredire.
Un
altro aspetto fondamentale riguarda l’interazione tra le variabili. Qualsiasi
tipo di variabile interagisce con le altre presenti, l’analisi delle singole
variabili, senza uno studio delle loro interazioni fornisce dei dati non
attinenti con la realtà produttiva e quindi non in grado di fornire indicazioni
e suggerimenti utili per affrontare i problemi presenti o attuare procedure di
miglioramento.
Gli
interventi nelle aziende quindi devono essere effettuati attraverso tecniche e
metodologie in grado di osservare le interazioni nel tempo, una misura di serie
di variabili estrapolate dal loro contesto generale e dalle loro relazioni (per
esempio liste di controllo dove viene indicata la presenza o meno di un singolo
aspetto) risulta poco utile e anche non realistica. (Bruno, 2014).
Tutti
i giorni durante il suo lavoro l’operatore non svolge una singola operazione
per volta e non la svolge in un laboratorio asettico, ma in un contesto dove
sono presenti differenti variabili, altri operatori e nel caso di molti lavori
clienti, pazienti, studenti ecc.
Ad
esempio se consideriamo il lavoro di un infermiere del pronto soccorso possiamo
ipotizzare che molto spesso si troverà a dover gestire contemporaneamente
almeno tre dei fattori di rischio psicosociale: pressione del tempo, avere a
che fare con pazienti difficili, orari di lavoro irregolari o lunghi.
La
ricerca europea ESENER, nell’indagare quali aspetti influiscono maggiormente
sulla salute e sicurezza sul lavoro, ha messo in evidenza che una delle
maggiori preoccupazioni delle imprese europee riguardano lo stress (79%),
preceduta soltanto dagli infortuni (80%).
I
settori maggiormente interessati (le percentuali tra i diversi settori
oscillano dal 90% al 75%) sono la sanità e l’assistenza sociale, l’istruzione,
servizi, trasporti e comunicazione; questi settori hanno percentuali più alte
per problematiche quali la violenza o la minaccia di violenza, il bullismo e le
molestie.
Per
quanto riguarda i fattori che contribuiscono al rischio psicosociale sul
lavoro, le aziende
intervistate
hanno indicato:
-
pressione
di tempo (52%);
-
avere
a che fare con clienti, pazienti, studenti difficili, ecc. (50%);
-
insicurezza
del lavoro (27%);
-
scarsa
comunicazione tra management e dipendenti (27%);
-
scarsa
cooperazione tra colleghi (25%);
-
orari
di lavoro irregolari o lunghi (22%);
-
problemi
nelle relazioni tra dirigente e dipendente (19%);
-
mancanza
di controllo dei dipendenti nell’organizzare il loro lavoro (19%);
-
politica
poco chiara delle risorse umane (14%);
-
discriminazione
(per esempio a causa di genere, età o etnia) (7%);
La
maggior parte delle cause identificate sono indicate più frequentemente con
l’aumentare della dimensione dell’impresa, con differenze fino al 20%, ad
eccezione della caratteristica “avere a che fare con clienti, pazienti,
studenti difficili ecc.” che è indicata con la stessa frequenza in tutte le
dimensioni delle aziende intervistate. Di conseguenza la maggiore incidenza espressa
nelle alte percentuali dei settori sopra esposti è proprio dovuta al fattore
“dover trattare con clienti, studenti, pazienti difficili”.
Anche
nei paesi in cui il livello generale di stress risulta inferiore rispetto alla
media dell’Unione Europea, come ad esempio il Regno Unito, i settori comunque
maggiormente interessati risultano i medesimi.
E`
da notare che la maggior parte dei fattori indicati riguarda aspetti
considerati informali all’interno delle organizzazioni o comunque aspetti sui
quali non esiste una procedura e/o una formazione specifica degli operatori.
In
generale gli aspetti che costituiscono un rischio psicosociale possono
trasformarsi in opportunità, ossia la gestione di queste variabili non solo
riduce il rischio, ma aumenta l’efficacia dell’organizzazione in generale e
quindi la sua produttività.
LO
STRESS LAVORO CORRELATO
Lo
stress è uno “stato” psicologico negativo, con componenti emotive e cognitive,
che fa parte e riflette un processo più ampio di interazione dinamica tra la
persona e l’ambiente di lavoro, e che produce effetti sia sulla salute dei
singoli dipendenti che sulle loro organizzazioni (Cox, Griffith, Rial-Gonzales
2002).
Questo
modo di vedere è in linea con la definizione dell’Organizzazione Internazionale
del Lavoro e con la definizione di benessere proposta dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità.
Secondo
Cox lo stress è definibile solo da un termine negativo. Le esperienze emotive
negative legate all’esperienza di stress riducono la qualità della vita in
generale e il senso di benessere, quindi la convinzione di alcuni secondo la
quale un certo livello di stress aumenti la produttività e conseguentemente la
salute è errata.
Esiste
la convinzione che un certo livello di stress sia connesso a un buon rendimento
e, conseguentemente, a buone condizioni di salute. In alcune occasioni, per
giustificare procedure di gestione mediocri, si è fatto ricorso alla
convinzione che certi livelli di stress possono essere auspicabili (Cox,
Griffith, Rial-Gonzales 2002).
Se
consideriamo l’azienda come un ‘‘sistema di parti’’ in interazione tra loro ci
accorgiamo subito della presenza, tra gli operatori, di potenti dinamiche
costruite nel tempo. Le forze di relazione hanno una doppia natura: da una
parte collidono, confliggono, creano disordine; dall’altra armonizzano, trovano
punti d’incontro, producono momenti solidali, generano ordine.
Proprio
nella continua “enantiodromia” tra ordine e disordine l’organizzazione
informale si forma, cresce, evolve, per poi divenire turbolenta, critica,
instabile; ma ritrovare, a più alti livelli, nuove forme, aggregazioni, armonie
(Simonini, Bruno, 2012).
Tuttavia
quando le organizzazioni rispondono alle naturali esigenze antagoniste degli
elementi operativi del sistema produttivo, diminuendo drasticamente i gradi di
libertà dei comportamenti compensativi degli scompensi prodotti
dall’organizzazione formale, si produce la condizione di stress.
Lo
stress è quindi la “mutilazione” delle risposte cognitive ed emozionali che le
parti di un sistema produttivo mettono in campo come difesa. La “mutilazione
interattiva” riduce la relazione spontanea, la presa di coscienza dei punti
critici, la possibilità di intervenire nella loro soluzione, di scegliere e
criticare gli standard organizzativi, di indicare direzioni e scelte
alternative.
L’interazione
dinamica tra ambiente e persona è l’aspetto fondamentale dell’intero processo,
è proprio da tale interazione, dalle elaborazioni e valutazioni che il soggetto
riesce o non riesce a realizzare, dalle emozioni che ne emergono più o meno
rese coscienti, che insorge la condizione di stress.
JOBS ACT OVVERO DELLA
“SEMPLIFICAZIONE MANCATA”
Da:
PuntoSicuro
21 ottobre
2015
Pubblichiamo
il commento di Attività Professionale del Medico del Lavoro / Medico Competente
(AProMeL) la sezione tematica della Società Italiana di Medicina del Lavoro e
Igiene Industriale (SIMLII) dedicata specificamente all’attività professionale
del medico del lavoro / medico competente, ai decreti del Jobs Act.
Dopo una
lunga attesa, in seguito all’approvazione da parte del consiglio dei ministri e
al successivo parere del Parlamento, sulla Gazzetta Ufficiale n. 221 del
23/09/15 sono stati pubblicati gli ultimi Decreti relativi alla Legge Delega
del cosiddetto Jobs Act.
Si ricorderà
che la Legge Delega,
tra l’altro, aveva imposto al Governo di emanare uno o più provvedimenti
legislativi “allo scopo di conseguire obiettivi di semplificazione e
razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di
lavoro nonché in materia di igiene e sicurezza sul lavoro”, per cui uno di
questi decreti (il D.Lgs.151/15) reca norme specifiche in materia di sicurezza
sul lavoro e modifica anche qualche articolo del D.Lgs.81/08, in particolare
con il Capo III intitolato “Razionalizzazione e semplificazione in materia di
salute e sicurezza sul lavoro”.
Purtroppo,
occorre premettere subito che i medici del lavoro e tutti i medici competenti
hanno accolto l’emanazione e la successiva pubblicazione dei Decreti delegati
con grande delusione ed amarezza. Si tratta, infatti, come già detto anche in
altre occasioni e da parte di molti esperti del settore, dell’ennesima
occasione mancata da parte del nostro sistema politico e istituzionale. A
testimonianza della scarsa attenzione politica per quanto riguarda il tema
specifico, d’altronde, sono ancora numerosi i decreti attuativi previsti dal
D.Lgs.81/08 non ancora approvati, alcuni neanche in fase di elaborazione.
Nonostante
il titolo, infatti, il D.Lgs.151/15 non modifica a fondo la normativa vigente
né procede a concrete semplificazioni della stessa se non con alcuni interventi
di ristrutturazione di alcuni comitati, introduzione di nuove sanzioni,
correzione di alcuni (pochi) errori materiali del D.Lgs.81/08, chiarimenti di
alcune esclusioni della sua applicazioni (lavoro domiciliare, badanti etc.),
obbligo di trasmissione telematica di certificati INAIL, abolizione del
registro infortuni ecc.
E’ da
ribadire che, nonostante i numerosi e ripetuti interventi della Società
Italiana di Medicina del Lavoro e Igiene Industriale presso i competenti organi
istituzionali, funzionari ministeriali ed esponenti politici e del Governo (in
primis il Ministero del Lavoro), non è stata apportata nessuna modifica nel
senso di razionalizzazione, semplificazione o altro inerente l’attività professionale
del medico competente.
Restano
invariati gli errori materiali, le incongruenze del testo legislativo, gli
adempimenti di difficile (talora quasi impossibile) accoglienza da parte del
medico competente che erano stati puntualmente sottoposti all’attenzione di
funzionari ministeriali ed esponenti politici del Governo con vari documenti e
prese di posizione chiare e precise. Addirittura, con una decisione non del
tutto comprensibile, nel testo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale è scomparso
anche quanto presente nello schema di Decreto inviato dal Governo al Parlamento
per il parere delle competenti commissioni di Camera e Senato, cioè quella
modifica dell’articolo 41 del D.Lgs.81/08 che giustamente aboliva la scorretta
ripetizione, nello stesso articolo, della “visita medica preventiva in fase
preassuntiva”, che ha dato adito a interpretazioni difformi che possono rendere
complesso l’adempimento di tale obbligo di legge.
L’articolo
20 del citato D.Lgs.151/15 prevede una serie di modiche e/o integrazioni di
diversi articoli del D.Lgs.81/08, in assenza di una complessiva rivisitazione
dell’impianto legislativo (iniziativa auspicabile, ma che in effetti sarebbe
andata al di là dei limiti della delega imposta) e di una reale
razionalizzazione o semplificazione.
Una presunta
semplificazione riguarda la modifica della composizione della Commissione Consultiva,
organo pletorico ma che, tutto sommato, finora aveva lavorato con una discreta
efficienza. In seguito a tali modifiche, la Commissione
comprenderà ancora trenta componenti, per cui si tratta comunque di un organo
che non può dirsi particolarmente snello; occorrerà verificare nel prossimo
futuro come riuscirà a organizzar la sua attività. La modifica introdotta riduce
il numero dei componenti indicati dalle Regioni e dalle parti sociali e
aggiunge alcuni nuovi componenti, tra cui tre esperti – rispettivamente - in
medicina del lavoro, igiene industriale e impiantistica industriale. Tali
soggetti dovranno essere individuati e inseriti nella Commissione in seguito ad
apposito decreto del Ministero del Lavoro (ancora da emanare). L’inserimento
nella Commissione di esperti in Medicina del Lavoro era una delle richieste
SIMLII che non compariva nell’iniziale documento del Governo ed è stata
recepita nel testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale, anche in seguito alla
discussione in sede parlamentare. E’ auspicabile che quanto previsto nel nuovo
dettato legislativo comporti la scelta di membri autorevoli e dotati di sufficiente
esperienza, provenienti dalle società scientifiche e dalle associazioni del
settore più rappresentative a livello nazionale, in grado di proporre soluzioni
e indicazioni adeguate alla realtà sociale e professionale del nostro Paese.
Il Comitato
per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive per il Coordinamento
nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul
lavoro, costituito ai sensi dell’articolo 5 del D.Lgs.81/08, viene parzialmente
modificato nella sua composizione e la sua direzione viene affidata al
Ministero della Salute; si confida che questa variazione abbia importanti
sviluppi per la tutela, la prevenzione e la promozione della salute nei luoghi
di lavoro avente come protagonista il medico competente, purtroppo ancora
troppo penalizzato dalla rigida normativa e dalle condizioni di mercato.
L’articolo
28 del D.Lgs.81/08 viene integrato con la previsione che l’INAIL possa rendere
disponibili al datore di lavoro “strumenti tecnici e specialistici per la
riduzione dei livelli di rischio” e il successivo articolo 29 viene modificato
con la previsione di ulteriori “strumenti semplificati di supporto per la
valutazione dei rischi”, tra cui anche strumenti informatizzati, come ad esempio
il sistema europeo OIRA (Online Interactive Risk Assessment).
Non è
chiaro, peraltro, come questa indicazione potrà tradursi concretamente nella
pratica, soprattutto nelle piccole e medie aziende (la maggioranza del sistema
produttivo italiano), in cui la valutazione del rischio è quasi sempre affidata
a tecnici esterni all’impresa e spesso considerata come adempimento puramente
formale.
Allo stesso
tempo spiace notare come non venga adeguatamente precisato e valorizzato il ruolo
del medico competente in questa iniziale fase di valutazione, nonostante
l’obbligo di collaborazione sancito dall’articolo 25 del D.Lgs.81/08, che ha
dato adito a tante discussioni e contenziosi.
Anche
l’impianto sanzionatorio del D.Lgs.81/08 è stato parzialmente modificato, senza
però prevedere alcuna riduzione o abolizione delle sanzioni a carico del medico
competente, modifiche più volte invocate dalla SIMLII e da tutte le
associazioni del settore. Si rimanda al testo del D.Lgs.151/15 per i dettagli,
ma può essere utile far presente la modifica che riguarda il raddoppio o la
triplicazione della sanzione per il datore di lavoro qualora lo stesso (o il
dirigente incaricato) ometta di “inviare i lavoratori alla visita medica entro
le scadenze previste dal programma di sorveglianza e richiedere al medico
competente l’osservanza degli obblighi previsti a suo carico”. In questi casi
l’importo della sanzione prevista dall’articolo 55 viene raddoppiato se la
violazione si riferisce a più di 5 lavoratori e triplicato se la violazione si
riferisce a più di 10 lavoratori.
Inutile
sottolineare l’importanza che tale previsione riveste per le ricadute pratiche
a carico dei medici competenti, soprattutto nel caso di aziende o enti pubblici
con numerosi dipendenti, ove non sempre si riesce, per motivi di forza
maggiore, a essere puntuali nell’effettuare le visite entro la scadenza
prevista.
Quella che è
stata da più parti considerata come una effettiva semplificazione è il nuovo
obbligo della trasmissione telematica del primo certificato medico di
infortunio o malattia professionale (così l’articolo 21 del D.Lgs.151/15
modifica l’articolo 53 del D.P.R. 1124/65) con efficacia pressoché immediata, a
180 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (entro il 21 marzo 2016).
Nel
frattempo l’INAIL dovrebbe mettere a punto un sistema informatizzato atto a
consentire l’adempimento di tale nuovo obbligo, che riguarda ovviamente non
solo i medici competenti, ma, in generale, tutti i medici italiani. Anche qui è
lecito dubitare sul reale impatto di semplificazione di tale atto sanitario,
atteso che l’obbligo di trasmissione telematica di tali certificati comporta la
necessità di accreditare al sistema informatico INAIL (ancora da realizzare)
tutti i medici iscritti all’albo professionale, che quindi dovranno essere
dotati di strumenti informatici e di una connessione alla rete adeguata. Non è
chiaro, inoltre, come la notizia dell’infortunio o della malattia professionale
possa giungere in tempi congrui al datore di lavoro, che a sua volta dovrebbe
compilare (sempre per via telematica) la relativa denuncia all’ente
assicuratore.
In
conclusione, rimane ancora rilevante l’obiettivo di una reale semplificazione e
di una modifica integrale delle norme vigenti in tema di tutela della salute
nei luoghi di lavoro nonché, per quanto ci riguarda, dei requisiti, delle
prerogative e delle responsabilità dei medici competenti, che sarebbe il caso
di cominciare a definire più correttamente e modernamente “medici della
prevenzione occupazionale”, ampliando il ventaglio delle loro competenze e
rendendo più utile ed efficace il loro operato, specialmente nel momento
attuale in cui la
Sanità Pubblica è soggetta a una profonda revisione allo
scopo di eliminare sprechi e pratiche inappropriate.
A tale
proposito, è necessario oggi più che mai continuare a incalzare tutte le forze
politiche e governative, come già fatto in passato, con una azione comune che
coinvolga tutte le parti interessate, convergendo su proposte e obiettivi
condivisi e concretamente realizzabili in tempi congrui e senza rimandare a un
imprecisato e mai definito “futuro”.
Ernesto
Ramistella - Coordinatore nazionale AProMeL
Cristiano
Mirisola - Segretario nazionale AProMeL
D.LGS. 149/2015: COSA CAMBIA IN
MATERIA ISPETTIVA?
Da:
PuntoSicuro
22 ottobre
2015
Di Tiziano
Menduto
Quali sono
le novità di uno dei Decreti attuativi del Jobs Act, il D.Lgs.149/15, per le
ispezioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro? Il nuovo
ispettorato nazionale del lavoro e i tempi necessari alla sua organizzazione.
Gli ultimi
quattro Decreti Legislativi in attuazione del “Jobs Act”, la Legge 10 dicembre 2014, n.
183 (recante le “Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori
sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia
di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e
di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”) sono
entrati in vigore il giorno successivo a quello della loro pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale, cioè il 24 settembre 2015.
Uno di
questi decreti riguarda in particolare l’attività ispettiva.
Si tratta
del Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 149 “Disposizioni per la
razionalizzazione e la semplificazione dell’attività ispettiva in materia di
lavoro e legislazione sociale, in attuazione della Legge 10 dicembre 2014, n. 183”.
La prima
cosa che dobbiamo domandarci è se dal 24 settembre sono cambiati i termini e
risolte le criticità delle ispezioni in Italia. Cosa è realmente avvenuto e che
cosa avverrà?
Innanzitutto,
siamo chiari, al di là dei titoli dei Decreti, al di là del più volte
utilizzato termine di Agenzia unica delle ispezioni del lavoro, che Massimo
Peca indicava nei mesi passati come qualcosa che “si può fare, si deve fare”,
non solo per le ispezioni in materia di salute e sicurezza non ci saranno
sensibili cambiamenti, ma in realtà di “agenzia unica” (le ASL continueranno a
mantenere le proprie competenze) non si può ancora parlare.
Come
ricordava ai nostri microfoni il dottor Giuseppe Piegari, del Segretariato
Generale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con l’emanazione
di questo Decreto abbiamo la nascita di un’agenzia che assume il nome di
Ispettorato nazionale del lavoro.
E le
finalità sono relative alla razionalizzazione e semplificazione dell’attività
di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale. Tuttavia per quanto
riguarda la materia salute e sicurezza in realtà non avremo modifiche: al
momento questo ispettorato nazionale del lavoro eserciterà le attività
ispettive già esercitate dal Ministero del Lavoro, dall’INPS e dall’INAIL.
Nell’Ispettorato
nazionale del lavoro confluiranno quelle che sono oggi le competenze del Ministero
del Lavoro in materia di vigilanza nei luoghi di lavoro su salute e sicurezza
oggi definite nell’articolo 13 del D.Lgs.81/08.
Ricordiamo a
questo proposito le competenze in materia di salute e sicurezza del personale ispettivo
del Ministero del Lavoro come indicate dall’articolo 13, comma 2, del
D.Lgs.81/08:
“Ferme
restando le competenze in materia di vigilanza attribuite dalla legislazione
vigente al personale ispettivo del Ministero del lavoro, della salute e delle
politiche sociali, ivi compresa quella in materia di salute e sicurezza dei
lavoratori di cui all’articolo 35 della legge 26 aprile 1974, n. 191, lo stesso
personale esercita l’attività di vigilanza sull’applicazione della legislazione
in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro nelle seguenti attività,
nel quadro del coordinamento territoriale di cui all’articolo 7: a) attività
nel settore delle costruzioni edili o di genio civile e più in particolare
lavori di costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione e
risanamento di opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura e in cemento
armato, opere stradali, ferroviarie, idrauliche, scavi, montaggio e smontaggio
di elementi prefabbricati; lavori in sotterraneo e gallerie, anche comportanti
l’impiego di esplosivi; b) lavori mediante cassoni in aria compressa e lavori
subacquei; c) ulteriori attività lavorative comportanti rischi particolarmente
elevati, individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su
proposta del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, e,
adottato sentito il comitato di cui all’articolo 5 e previa intesa con la Conferenza permanente
per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di
Bolzano, in relazione alle quali il personale ispettivo del Ministero del
lavoro, della salute e delle politiche sociali svolge attività di vigilanza
sull’applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei
luoghi di lavoro, informandone preventivamente il servizio di prevenzione e
sicurezza dell’Azienda Sanitaria Locale competente per territorio”.
Dunque
nessun cambiamento, a oggi, per la vigilanza sull’applicazione della
legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro svolta
invece dalle Aziende Sanitarie Locali. Sottolineerei, tuttavia, “ad oggi”,
perché come dice Piegari stesso è evidente che la nascita di questo ispettorato
nazionale del lavoro è un primo possibile passo verso una modifica più ampia
che potrà vedere forse, nel futuro, collocate in un unico soggetto,
nell’Ispettorato nazionale, tutte le funzioni di vigilanza anche in materia di
salute e sicurezza.
Un primo
passo che passa chiaramente attraverso le conseguenze della riforma
costituzionale sulle competenze Stato/Regioni in materia di sicurezza sul
lavoro, riforma che è stata appena approvata al Senato e che dovrà andare alla
Camera per l’ultima lettura definitiva e per il probabile referendum consultivo
previsto dal Governo (con tempi che non potranno essere brevi).
Ci
soffermiamo ora sul testo definitivo del D.Lgs.149/15, ad esempio per quanto
riguarda l’articolo 1 che fa riferimento al nuovo “Ispettorato nazionale del
lavoro” che integra i servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle
politiche sociali, dell’INPS e dell’INAIL.
L’Ispettorato
viene istituto al fine di razionalizzare e semplificare l’attività di vigilanza
in materia di lavoro e legislazione sociale, nonché al fine di evitare la
sovrapposizione di interventi ispettivi.
E
l’Ispettorato svolgerà le attività ispettive “già esercitate dal Ministero del
lavoro e delle politiche sociali, dall’INPS e dall’INAIL”.
Dunque il 24
settembre 2015 è nato il nuovo “Ispettorato nazionale del lavoro”?
Beh, anche
sui tempi serve un po’ di chiarezza...
Se infatti
andiamo a leggere i vari articoli del D.Lgs.149/15 troviamo l’articolo 5
(Organizzazione e funzionamento dell’Ispettorato) che indica che “con uno o più
decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro del
lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell’economia e
delle finanze, il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione
e il Ministro della difesa, da adottarsi entro quarantacinque giorni dalla data
di entrata in vigore del presente decreto legislativo, sono disciplinate, senza
nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, l’organizzazione delle
risorse umane e strumentali per il funzionamento dell’Ispettorato e la
contabilità finanziaria ed economico patrimoniale relativa alla sua gestione”.
Inoltre
l’articolo 2 indica a sua volta che “entro quarantacinque giorni dall’entrata
in vigore del presente decreto è adottato, con decreto del Presidente della
Repubblica ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n.
400, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto
con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione, lo statuto dell’Ispettorato, in
conformità ai principi e ai criteri direttivi stabiliti dall’articolo 8, comma
4, del decreto legislativo n. 300 del 1999, ivi compresa la definizione,
tramite convenzione da stipularsi tra il Ministro del lavoro e delle politiche
sociali e il direttore dell’Ispettorato, degli obiettivi specificamente
attribuiti a quest’ultimo”.
In poche
parole saranno questi Decreti attuativi a dare il via effettivo al nuovo
“Ispettorato nazionale del lavoro” e con quale tempi è difficile dirlo visto
l’italica brutta abitudine di rispettare poco le scadenze che la normativa
esprime invece in modo chiaro...
Per
concludere questo articolo, che vuole mantenere alta l’attenzione sulle novità
presenti e future in materia di attività ispettiva, riportiamo, sempre
dall’articolo 2 del Decreto, le funzioni e attribuzioni assegnate
all’Ispettorato:
“a) esercita
e coordina su tutto il territorio nazionale, sulla base di direttive emanate
dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, la vigilanza in materia di
lavoro, contribuzione e assicurazione obbligatoria nonché legislazione sociale,
ivi compresa la vigilanza in materia di tutela della salute e della sicurezza
nei luoghi di lavoro, nei limiti delle competenze già attribuite al personale
ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali ai sensi del
decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, e gli accertamenti in materia di
riconoscimento del diritto a prestazioni per infortuni su lavoro e malattie professionali,
della esposizione al rischio nelle malattie professionali, delle
caratteristiche dei vari cicli produttivi ai fini della applicazione della
tariffa dei premi;
b) emana
circolari interpretative in materia ispettiva e sanzionatoria, previo parere
conforme del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nonchè direttive
operative rivolte al personale ispettivo;
c) propone,
sulla base di direttive del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, gli
obiettivi quantitativi e qualitativi delle verifiche ed effettua il
monitoraggio sulla loro realizzazione;
d) cura la
formazione e l’aggiornamento del personale ispettivo, ivi compreso quello di
INPS e INAIL;
e) svolge le
attività di prevenzione e promozione della legalità presso enti, datori di
lavoro e associazioni finalizzate al contrasto del lavoro sommerso e irregolare
ai sensi dell’articolo 8 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124;
f) esercita
e coordina le attività di vigilanza sui rapporti di lavoro nel settore dei
trasporti su strada, i controlli previsti dalle norme di recepimento delle
direttive di prodotto e cura la gestione delle vigilanze speciali effettuate
sul territorio nazionale;
g) svolge
attività di studio e analisi relative ai fenomeni del lavoro sommerso e
irregolare e alla mappatura dei rischi, al fine di orientare l’attività di
vigilanza;
h) gestisce
le risorse assegnate ai sensi dell’articolo 8, anche al fine di garantire
l’uniformità dell’attività di vigilanza, delle competenze professionali e delle
dotazioni strumentali in uso al personale ispettivo;
i) svolge
ogni ulteriore attività, connessa allo svolgimento delle funzioni ispettive, ad
esso demandata dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali;
l) riferisce
al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, all’INPS e all’INAIL ogni
informazione utile alla programmazione e allo svolgimento delle attività
istituzionali delle predette amministrazioni;
m) ferme
restando le rispettive competenze, si coordina con i servizi ispettivi delle
aziende sanitarie locali e delle agenzie regionali per la protezione ambientale
al fine di assicurare l’uniformità di comportamento ed una maggiore efficacia
degli accertamenti ispettivi, evitando la sovrapposizione degli interventi”.
Il Decreto
Legislativo 14 settembre 2015, n. 149 “Disposizioni per la razionalizzazione e
la semplificazione dell’attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione
sociale, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” è scaricabile
all’indirizzo:
La Legge 10 dicembre 2014, n. 183 “Deleghe
al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per
il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della
disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e
conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro” è scaricabile
all’indirizzo:
SICUREZZA NEL LAVORO IN SOLITUDINE
Da: PuntoSicuro
23 ottobre
2015
Di Antonio
Zuliani e Emenuela Bellotto
Il rischio
psicosociale e le capacità decisionali dei lavoratori: le caratteristiche
rilevanti per la salute e la sicurezza del lavoratore, ma anche per la
sicurezza generale nell’azienda.
Ospitiamo un
articolo tratto da “Psicologia dell’Emergenza”, rivista di psicologia applicata
all’emergenza, alla sicurezza e all’ambiente, che porta l’attenzione ai rischi
e problemi del lavoro in solitudine.
Il lavoro in
solitudine si sta diffondendo sempre di più, ponendo problemi non solo relativi
agli aspetti infortunistici, ma anche a quelli psicosociali e a quelli relativi
alle capacità decisionali dei lavoratori. L’articolo si sofferma
specificatamente su questi due ultimi aspetti spesso non adeguatamente
considerati.
Riteniamo
interessante portare l’attenzione sul lavoro in solitudine, sia perché molti
segnali indicano un aumento di questa modalità lavorativa, sia perché (a parte alcuni
specifici divieti) nella legislazione italiana non sembra esistere una
posizione organica su questo argomento, sia infine perché il tema va
considerato nella sua complessità, non solamente legato agli aspetti relativi
ai possibili infortuni sul lavoro.
Il lavoro in
solitudine si riscontra in molteplici comparti, dalle aziende produttive
(impianti caratterizzati da elevata automazione, magazzini), all’agricoltura,
fino al terziario (tecnici controllo impianti, addetti a servizi di vigilanza,
ad attività di pulizie notturne).
Può
svolgersi sia di giorno che di notte: e in questo secondo caso le problematiche
sono potenziate da molteplici fattori.
Ci occupiamo
di questo tema perché il lavoro in solitudine presenta tre caratteristiche
rilevanti per la salute e la sicurezza del lavoratore, ma anche per la
sicurezza generale nell’azienda:
-
in primo
luogo espone alla possibilità di non essere soccorsi in caso di malore o in
caso di infortunio;
-
in secondo
luogo mette il lavoratore in condizione di affrontare da solo situazioni che richiedono
una consapevolezza della situazione e una presa di decisione, a fronte di
eventi più o meno anomali legati al processo lavorativo e alla sua sicurezza;
-
la terza
criticità è collegata ad aspetti di natura psicologica e sociale che possono
avere importanti ripercussioni sullo stato di benessere del lavoratore: ed è il
tema dello stress legato alla specifica condizione del sentirsi da solo.
Quando si
tratta di lavoro dipendente, queste tre problematiche devono essere prese in
considerazione dal datore di lavoro, che sulla base dell’articolo 17 del
D.Lgs.81/08 ha il dovere di valutare i rischi, individuare in quali attività
sia permesso o meno il lavoro in solitudine (alcuni divieti compaiono anche
nella legislazione italiana, ma altri riferimenti sono interessanti, come
quelli reperibili nel codice SUVA) ed infine adottare le soluzioni più idonee a
far fronte ad un lavoro così organizzato.
Per quanto
riguarda l’aspetto legato all’allarme a fronte di malori, infortuni, incidenti,
oggi le soluzioni tecnologiche (sistemi di trasmissione, GPS, applicazioni ai
cellulari, segnalatori automatici di malessere, eccetera) sono in grado di
offrire una risposta, soprattutto se combinate tra loro.
Il tema del
rapporto tra la solitudine e i processi decisionali è invece scarsamente
affrontato da chi si occupa di questi argomenti.
Vi sono
molte situazioni nei quali il lavoratore è chiamato a prendere delle decisioni.
Può trattarsi di eventi improvvisi, anche se non inattesi, di eventi che
possono compromettere la sicurezza per lui stesso, per il processo produttivo e
anche per le strutture aziendali.
Per la
maggior parte di queste situazioni è verosimile (e obbligatorio) che l’azienda
abbia condotto delle previsioni, sviluppato piani di intervento se non
addirittura dei veri piani di emergenza. E che abbia impegnato il lavoratore in
opportuni corsi di formazione, ripetuti nel tempo.
Pur tuttavia
vi è sempre un margine decisionale da parte del lavoratore sia nel dare
risposta agli eventi (accorgersi di un’anomalia, di un malfunzionamento), sia
nel decidere quale soluzione adottare per risolverli.
Molte
mansioni lavorative richiedono una piena efficienza del lavoratore, la cui
consapevolezza è importante per la sicurezza. Pensiamo alla situazione di un
affaticamento legato a condizioni personali di vita (insonnia, attività fisiche
pregresse, malessere generalizzato, ecc.) che il singolo, in assenza di un
confronto con i colleghi può non riconoscere.
Questo
aspetto è simile alla condizione di altri lavoratori, che pur non essendo
definibili come lavoratori in solitudine si possono trovare ugualmente soli nel
prendere decisioni vitali: pensiamo agli infermieri soli di notte nei reparti
ospedalieri, o agli operatori di notte nelle case di riposo: appunto non soli,
ma con responsabilità di persone a loro affidate, le cui condizioni di salute
possono aggravarsi in breve tempo. Anche il loro processo decisionale si
svolge, almeno per un certo tempo, in solitudine e sotto la tensione di una
forte responsabilità, condizione in cui è più facile sbagliare, pur tuttavia
non è una piena solitudine, perché vi è un contatto possibile con esseri umani.
Il terzo
aspetto riguarda le componenti psicologiche e sociali del lavoro in solitudine.
Il vivere
una situazione di solitudine e di isolamento può comportare delle sofferenze
importanti per la persona, basti pensare che la risonanza magnetica funzionale
(FMR) mostra che la regione emotiva del cervello attivata quando una persona si
sente emarginata è la stessa che registra le risposte emotive al dolore fisico:
il cingolo anteriore dorsale. Ciò mostra che il dolore determinato dalla
solitudine è una ferita in grado di sconvolgere profondamente la persona anche
dal punto di vista fisico.
D’altra
parte il nostro bisogno di vivere connessi ad altre persone deriva dal fatto
che i primi esseri umani avevano più probabilità di sopravvivere rimanendo in
gruppo e si può pensare che l’evoluzione abbia selezionato i geni che generano
piacere quando si è assieme ad altri e sensazioni di disagio quando si è da
soli, perché si tratta di una situazione di insicurezza e di pericolo.
Il lavoro in
solitudine può arrivare a farci sentire insicuri come se fossimo minacciati
anche fisicamente.
E’ il caso
di ricordare che le reazioni delle persone non sono uguali tra loro né
matematicamente prevedibili: si può arrivare a un vissuto critico per fattori
oggettivi particolarmente pesanti (la complessità della situazione da
affrontare, l’orario notturno che è certamente più sfavorevole, ossia i fattori
di stress legati alla situazione), oppure per fattori soggettivi (la persona
non se la sente, non ce la fa), oppure per un intreccio dei due fattori, che
peraltro può anche variare nel tempo.
Ecco allora
la possibilità, specialmente di notte, di vedere attorno mille pericoli, di
diminuire la capacità di valutazione di quello che accade, fino ad un aumento
dell’aggressività verso gli sconosciuti che si incontrano.
In queste
situazioni può crescere la tendenza all’abuso di bevande alcoliche, del fumo,
di farmaci, di droghe e anche di cibo, come strategia, peraltro inefficace, di
controllo dello stress e della sofferenza. L’abuso di tutto ciò può a sua volta
divenire un fattore di difficoltà nell’assunzione di decisioni in situazioni
critiche, e quindi rappresentare un fattore di rischio per la persona e un
pericolo per il processo produttivo. Formazione e piani di emergenza possono
essere vanificati da questi comportamenti.
Anche il
semplice abuso di cibo è contrario al benessere e alla salute del lavoratore.
E’ ben vero
che si tratta di comportamenti spesso vietati nell’ambiente di lavoro, ma è
altrettanto vero che esistono, e che non prendere in considerazioni il fatto
che possano essere stimolati o accentuati da determinate condizioni di lavoro
non appare produttivo per chi si voglia veramente occupare del benessere dei
lavoratori.
Anche il
medico competente, che si è espresso sulla idoneità del lavoratore alla
attività in solitudine, deve tenere sotto controllo nel tempo questi comportamenti,
e considerarli indicatori importanti di malessere.
Se il lavoro
in solitudine non rappresenta di per sé un rischio, bensì una condizione di
lavoro che può esporre il lavoratore alle tre situazioni di rischio accennate,
è allora il caso di ridurlo al minimo, soprattutto di notte. Tra le misure da
adottare, la valutazione dei rischi, la formazione ripetuta, la sorveglianza
sanitaria, la valutazione dello stress lavoro correlato. Tra le scelte organizzative,
è il caso di prevedere, ad esempio, che non siano sempre gli stessi soggetti ad
essere adibiti al lavoro in solitudine, indipendentemente dalle loro opzioni.
Riteniamo infatti sia compito dell’organizzazione favorire la rotazione e non
caricare di turni di solitudine coloro che si offrono. Occorre, in altri
termini, abbandonare la logica della disponibilità per abbracciare quella
dell’idoneità.
Altra misura
di attenuazione può consistere in un periodico e frequente contatto audio/video
con il lavoratore che opera in queste condizioni.
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