NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
IL LAVORATORE PUO’ CONOSCERE IL
DOCUMENTO DI VALUTAZIONE DEI RISCHI
Si tratta di
una sentenza del TAR un po’ datata, ma ancora attualissima anche a seguito
della mutata normativa, che mantiene però gli stessi criteri sulla redazione
del documento di valutazione dei rischi.
Da: Kataweb
Lex
IL
LAVORATORE PUO’ CONOSCERE LA
VALUTAZIONE DEI RISCHI
LA LEGGE SULLA TRASPARENZA PREVALE SUL DECRETO
SULLA SICUREZZA
Il
lavoratore che chiede di avere una copia del documento sulla valutazione dei
rischi ha diritto ad ottenerla.
E’ questo il
principio affermato dal Tribunale Amministrativo per la Sicilia, con una sentenza
depositata il 13 maggio 2003. I giudici amministrativi hanno accolto un ricorso
presentato da una docente, che si era vista rifiutare una domanda di accesso
agli atti, riguardante la documentazione che viene predisposta dal dirigente
scolastico per valutare i rischi, secondo quanto previsto dal Decreto
Legislativo n.626 del 1994 [oggi D.Lgs.81/08] sulla sicurezza sul lavoro.
La stessa
norma, peraltro, prevede che la pubblicità del documento dei rischi possa
essere soddisfatta anche affiggendone all’albo una parte.
Ma il
Tribunale Amministrativo ha ritenuto che questa prescrizione non possa
annullare gli effetti della legge sulla trasparenza amministrativa, che dispone
la facoltà di accedere agli atti amministrativi da parte di tutti i soggetti
portatori di interesse giuridico qualificato.
Come, per
esempio, il lavoratore in servizio nell’unità produttiva a cui si riferisce il
documento.
A seguire
riportiamo integralmente la sentenza del TAR.
Il Tribunale
Amministrativo Regionale per la
Sicilia, Sezione II, ha pronunziato la seguente Sentenza
799/2003 ai sensi dell’articolo 25 della Legge 241/90 sul ricorso 2640/2002
R.G., sezione II, proposto da G.M.C. rappresentata e difesa dall’avvocato D.C.,
elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avvocato G.L.;
CONTRO
l’Istituto
professionale per i servizi alberghieri IPSSARTC in persona del Dirigente
Scolastico pro-tempore, rappresentato e difeso come per legge dall’Avvocatura
distrettuale dello Stato di Palermo, domiciliataria;
E NEI
CONFRONTI
di S.A. in
qualità di dirigente scolastico dell’Istituto professionale per i servizi
alberghieri IPSSARTC, rappresentata e difesa dall’avvocato A.P. presso il cui
studio, in Palermo è elettivamente domiciliata - interveniente;
PER L’
ANNULLAMENTO
del silenzio
rifiuto ex articolo 25 della Legge 241/1990 [che dispone la facoltà, per il
soggetto che abbia subito il diniego di atti amministrativi, di chiedere
l’intervento del difensore civico o di ricorrere al TAR; il ricorso può essere
presentato anche senza l’avvocato], formatosi in ordine alla richiesta avanzata
dalla ricorrente in data 24/04/02 finalizzata ad ottenere copia integrale del
Documento di Valutazione dei Rischi adottato dall’istituto ai sensi della
D.Lgs.626/94 [oggi D.Lgs.81/08].
-
Visto il
ricorso con i relativi allegati;
-
vista la
costituzione in giudizio dell’amministrazione intimata;
-
visto l’atto
di intervento proposto da S.A.;
-
vista la
memoria prodotta dalla ricorrente;
-
visti gli
atti tutti di causa;
-
designato
relatore il referendario Luca Morbelli;
-
udito alla
camera di consiglio del 16 gennaio 2003 l’Avvocato A.P. per l’interveniente e
l’Avvocato dello Stato per l’amministrazione resistente;
-
ritenuto in
fatto e considerato in diritto:
PREMESSO
-
che la
ricorrente, delegato sindacale GILDA per il personale insegnante dell’Istituto
professionale per i servizi alberghieri ha richiesto, con istanza depositata in
data 24/04/02, copia integrale del Documento di Valutazione dei Rischi di cui
al D.Lgs.626/94 [oggi D.Lgs.81/08];
-
che il
predetto istituto non ha provveduto entro i termini previsti a quanto richiesto
dalla ricorrente;
-
che
quest’ultima con il ricorso proposto ha chiesto l’annullamento del
silenzio/rifiuto formatosi ai sensi dell’articolo 25 della Legge 241/90;
-
che nella
Camera di consiglio del 16 gennaio 2003 la difesa dell’amministrazione e
dell’interveniente hanno chiesto la reiezione del ricorso siccome infondato;
CONSIDERATO
-
che la
ricorrente ha rispettato le procedure ed i termini di cui all’articolo 25 della
Legge 241/90 e in particolare ha motivato sufficientemente la richiesta con il
riferimento alla propria qualità di dipendente dell’istituto;
-
che la
stessa ha interesse a conoscere il Documento richiesto in quanto inerente a
interessi essenziali della persona quali la tutela preventiva della salute e
della sicurezza;
-
che il
particolare regime di pubblicità del documento rischi, previsto dagli articoli
19, comma 5 [“Il rappresentante per la sicurezza ha accesso, per l’espletamento
della sua funzione, al documento di cui all’articolo 4, commi 2 e 3”] e 4,
comma 3 del D.Lgs.626/94 [“Il documento è custodito presso l’azienda ovvero
l’unità produttiva”], sostanziandosi nella visione integrale riservata ai soli
responsabili dei rischi e nell’affissione all’albo, limitatamente ad alcune
parti dello stesso, non esclude la possibilità di una sua conoscenza integrale
ai sensi della Legge 241/90, ma costituisce informazione preliminare tale da
mettere in condizione i lavoratori interessati di ottenerne la visione
integrale o l’estrazione di copia, non sussistendo alcun interesse meritevole
di tutela che si contrapponga alla piena estensibilità del documento;
-
che,
pertanto, le giustificazioni addotte dal Dirigente dell’istituto in data
05/06/02 non costituiscono motivazione valida per escludere il diritto di
accesso;
-
che,
conseguentemente, va accolto il ricorso in epigrafe e dichiarato l’obbligo
dell’Istituto professionale per i servizi alberghieri di rilasciare i documenti
indicati nell’istanza di che trattasi;
-
che
sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese e gli onorari di
giudizio.
PER QUESTI
MOTIVI
Il Tribunale
amministrativo regionale per la
Sicilia, Sezione Seconda, in accoglimento del ricorso
indicato in epigrafe, ordina all’Istituto professionale per i servizi
alberghieri, in persona del dirigente scolastico pro-tempore, di rilasciare
alla ricorrente gli atti dalla stessa richiesti con l’istanza di cui in
narrativa, entro trenta giorni dalla comunicazione o dalla notifica a cura di
parte della presente sentenza.
Ordina che
la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa
Così deciso
in Palermo, il 16 gennaio 2003
in Camera di consiglio con l’intervento dei signori
magistrati:
-
Calogero
Adamo, Presidente;
-
Filippo
Giamportone, consigliere;
-
Luca
Morbelli, referendario, estensore.
VALUTAZIONE DEI RISCHI: LE
DIFFERENZE DI GENERE SONO ANCORA IGNORATE
Da
FILCAMS CGIL Lombardia
Nei Documenti di Valutazione dei
Rischi la diversità tra uomini e donne non viene considerata, se non per la
gravidanza e la maternità. Ma i pericoli non sono neutri, e capirlo
migliorerebbe prevenzione e sorveglianza sanitaria.
Le
tematiche di genere nella valutazione del rischio entrano nella nostra
normativa almeno a partire dal 2001, nel corpus di leggi a tutela della maternità e sui
congedi parentali. Sul versante delle norme a tutela della salute e sicurezza,
rispetto al precedente Decreto 626 del 1994, il Testo Unico (D.Lgs.81/08)
accoglie in modo esplicito dalle Direttive europee la diversità di genere come
filtro di analisi del rischio in più parti, spesso inesplorate: all’articolo
28, in particolare, si prevede che la valutazione dei rischi avvenga anche in
ottica di genere.
Il
rischio come fenomeno completamente neutro, universale e assoluto rispetto ai
soggetti interessati, in
concreto lavoratrici e lavoratori, dovrebbe essere quindi un concetto superato
ormai da qualche anno. Eppure non ne abbiamo alcun ritorno nei Documenti di
Valutazione dei Rischi che grazie ai Rappresentanti dei Lavoratori per la
Sicurezza (RLS) nei luoghi di lavoro ci troviamo a consultare, analizzare e
confrontare con la realtà lavorativa.
Le
valutazioni del rischio differenziate per genere (ma potremmo anche parlare di
differenze di età o di paese d’origine) vengono per lo più trattate superficialmente dai
datori di lavoro e dai Servizi di Prevenzione e Protezione, e soltanto negli
aspetti macro, come i rischi durante la gravidanza e la maternità, oppure la
sorveglianza sanitaria nel corso dell’allattamento.
Si parla, soprattutto, di
interdizioni legate ai rischi chimico e biologico, e poco altro. Vengono
sottovalutate, invece, le misure di prevenzione e le valutazioni di genere sia
nelle norme tecniche sia nei protocolli sanitari adottati per la sorveglianza
sanitaria dai medici competenti, se non per quanto esplicitamente previsto dal
Testo Unico (come, ad esempio, per il rischio da movimentazione manuale dei
carichi). Spesso mancano addirittura anche queste parti minime di valutazione.
La
maggior parte dei medici competenti, che negli ultimi anni hanno introdotto in
vari protocolli sanitari i concetti
di promozione della salute come valore aggiunto, anche per quanto è esterno al
contesto lavorativo, tendono a non prendere in considerazione le varianti di
genere in modo esplicito, se non come dato statistico delle persone soggette a
sorveglianza sanitaria.
In pratica, è come se la forza
lavoro di un’azienda fosse irrimediabilmente neutra, o al massimo con l’unica
differenza legata alla possibilità di una parte di rimanere incinta. La
composizione dell’organico di un’azienda, invece, dovrebbe essere già un dato
importante di pretutela: la conoscenza del contesto lavorativo è la premessa
della prevenzione e della protezione. Chi lavora, come e cosa si fa in una
certa azienda, sono i dati minimi di realtà da rappresentare in una valutazione
dei rischi.
Da
anni, nonostante la crisi profonda dell’economia e della rappresentanza, la
FILCAMS CGIL Torino si sta
occupando di rafforzare il ruolo e le conoscenze dei nostri RLS in settori
lavorativi in cui la maggioranza dell’occupazione è femminile, le modalità di
lavoro precarie, su committenza e con prevalenza di rapporti part time.
Sicuramente, anche a causa della composizione della nostra categoria e dei
nostri rappresentati (il 70 per cento dei nostri iscritti sono donne e il
bacino potenziale dei nostri settori è rappresentato da una maggioranza
assoluta di occupazione femminile), la contrattazione di genere e la lotta alla
discriminazione sui luoghi di lavoro sono temi prioritari nella nostra azione
quotidiana.
I settori lavorativi della
categoria sono molteplici, così come i rischi cui le lavoratrici sono sottoposte:
si va dal commercio tradizionale alla grande distribuzione, dal pulimento in
contesti complessi come ospedali, laboratori e centri di ricerca, con rischi
davvero particolari, alla vigilanza, al terziario avanzato, alle mense, ai
servizi di ogni genere per gli studi professionali. Per questa varietà di
situazioni di rischio, e per la forte rappresentanza del lavoro femminile nel
terziario che possiamo offrire, siamo convinti che il ruolo degli RLS sia
fondamentale anche per ottenere una migliore contrattazione e tutela delle
condizioni lavorative tout court.
In
prospettiva possiamo dire che garantire una tutela sempre più efficace nei
luoghi di lavoro sarà centrale e prioritario, se consideriamo che la speranza di vita delle donne
è più alta e che l’età pensionabile è stata di molto spostata in avanti.
Anche sul tema della conciliazione
dei tempi di vita e di lavoro, la lente di analisi “salute e sicurezza” apre
scenari importanti. Come incidono le differenze di genere sul rischio stress
lavoro correlato? Davvero i periodi di assenza delle lavoratrici per maternità
o malattia dei figli sono ben integrati nell’atmosfera aziendale e
nell’organizzazione del lavoro? Il monte ore settimanale (di solito part time
rispetto ai colleghi maschi) e l’inquadramento delle lavoratrici non incide in
alcun modo nella loro gestione dei tempi di vita e di lavoro?
Eppure le donne infortunate in
itinere, secondo gli ultimi dati INAIL disponibili, sono aumentate e sono
maggiori rispetto ai lavoratori. Tanti e complessi sono gli spunti di
riflessione e analisi possibili, fattibili e che vogliamo iniziare a fare. Il
lavoro femminile è un valore aggiunto inestimabile, sia in termini economici
per la collettività come punti di PIL che si potrebbero aggiungere, sia in
termini di pari opportunità reali e di crescita della nostra società civile.
Il
26 maggio scorso abbiamo tenuto la prima assemblea degli RLS FILCAMS CGIL di
Torino, in cui
abbiamo provato a coniugare i temi della contrattazione di genere con la
prevenzione della salute.
Abbiamo anzitutto confermato che
le priorità europee in materia di salute e sicurezza (ossia lo stress lavoro
correlato e i rischi psico-sociali, e le malattie osteo-articolari) sono anche
le nostre, come testimoniano i nostri dati quotidiani dai luoghi di lavoro e
dalle assemblee. Priorità di cui, è bene sottolinearlo, le aziende sembrano non
essersi accorte.
Dalla discussione sono emerse
buone prassi e suggerimenti, ma soprattutto la volontà di intraprendere
iniziative in sinergia con i vari soggetti istituzionali e sociali coinvolti. A
partire dalla redazione condivisa di linee guida per la valutazione dei rischi
in ottica di genere nel dettaglio e dagli approfondimenti su alcuni settori
problematici (grande distribuzione, in primis) per quanto attiene le malattie
professionali.
Isabella Liguori
Coordinamento RLS FILCAMS CGIL Torino
INFORTUNI SUL
LAVORO: INDENNIZZABILE IL DANNO DALL’INAIL ANCHE SE DERIVA SOLO DA UNO SFORZO
FISICO
Da
Studio Cataldi
6
ottobre 2015
di
Valeria Zeppilli
Infortuni
sul lavoro: indennizzabile il danno dall’INAIL anche se deriva solo da uno
sforzo fisico.
Per
il tribunale di Ivrea, lo sforzo è da considerarsi causa violenta se è diretto
a vincere una resistenza peculiare della prestazione lavorativa.
La
causa violenta, necessaria affinché un infortunio possa essere indennizzato
dall’INAIL con l’indennità giornaliera legislativamente prevista, può
ravvisarsi anche in uno sforzo fisico.
Questo
almeno è quanto stabilito dal Tribunale di Ivrea con la sentenza n. 61/2014.
I
giudici della Sezione Lavoro, infatti, hanno precisato che è ben possibile che
se da un atto di forza derivi una lesione, esso possa integrare un’ipotesi di
sforzo idoneo a legittimare la corresponsione dell’indennità giornaliera da
infortunio.
Nel
caso di specie la lesione era derivata al lavoratore dalla necessità di
appoggiarsi con la schiena sulla parete di un silos e scuoterla con forza al
fine di far defluire, come necessario, del pangrattato che era rimasto bloccato
sui bordi.
A
causa del dolore persistente, il ricorrente, il giorno successivo, si era
trovato costretto ad abbandonare il posto di lavoro per raggiungere, peraltro
tramite autoambulanza, il Pronto Soccorso, dove gli veniva diagnosticata una
lombalgia acuta da sforzo.
Dinanzi
a tale circostanza, e in contrasto con quanto richiesto dall’Istituto (per il
quale l’evento dal quale al lavoratore era derivata la lesione non sarebbe in
realtà dipeso da causa violenta, ma da malattia comune), i giudici hanno
riconosciuto al ricorrente cinquanta giorni di inabilità temporanea assoluta
indennizzabili da parte dell’INAIL.
Ciò
in considerazione del fatto che, nel caso di specie, il lavoratore aveva
compiuto, da solo, un’operazione anormale dal punto di vista ergonomico e
rifacendosi alla giurisprudenza della Cassazione, in base alla quale lo sforzo
che comporta una lesione integra la fattispecie della causa violenta, anche se
non straordinario né eccezionale, purché sia diretto a vincere dinamicamente
una resistenza peculiare della prestazione o dell’ambiente di lavoro.
Per
approfondimenti:
MORTE SUL LAVORO: I
DIRITTI DEGLI EREDI E LE PRESTAZIONI INAIL
Da
Studio Cataldi
6
ottobre 2015
di
Valeria Zeppilli
MORTE
SUL LAVORO: I DIRITTI DEGLI EREDI E LE PRESTAZIONI INAIL
LA RENDITA AI SUPERSTITI E LE
VOCI DI DANNO INDENNIZZABILI
Tra
le numerose tutele apprestate dall’INAIL rientra anche quella posta a favore
dei familiari dei lavoratori che siano deceduti in conseguenza di un infortunio
sul lavoro o di una malattia professionale.
A
favore di tali soggetti, infatti, al ricorrere di determinati requisiti
l’istituto riconosce una rendita che decorre dal giorno successivo a quello in
cui si è verificato l’evento nefasto e ha durata differente a seconda dei
soggetti ai quali sia rivolta.
I
BENEFICIARI DELLA RENDITA AI SUPERSTITI
Più
nel dettaglio, tra i familiari del lavoratore deceduto sul lavoro ai quali
spetta la rendita vanno ricompresi anzitutto il coniuge superstite e i figli.
Per
il primo, la rendita cessa di essere erogata al momento della morte o nel caso
in cui contragga un nuovo matrimonio.
Con
riferimento ai figli, invece, la rendita spetta a quelli legittimi, naturali,
riconosciuti o riconoscibili e adottivi, sino al compimento del diciottesimo
anno di età.
Se
sono studenti di scuola media superiore o professionale, a carico del defunto e
senza un lavoro retribuito, la rendita spetta loro sino ai 21 anni.
Il
beneficio, infine, può poi estendersi per tutta la durata del corso di studi e
sino a massimo i 26 anni di età se i figli siano studenti universitari, a
carico e senza un lavoro retribuito.
Si
precisa che, nel caso in cui i figli siano inabili al lavoro, la rendita spetta
sino alla cessazione dell’inabilità.
Se,
invece, il lavoratore non era sposato e non aveva figli, della rendita possono
beneficiare i genitori, purché fossero a suo carico e sino alla loro morte, e i
fratelli e le sorelle, anche in questo caso purché a carico del lavoratore
defunto e, inoltre, purché conviventi.
A
questi ultimi il beneficio spetta sino ai medesimi termini visti per i figli.
In
ogni caso, la rendita non spetta ai superstiti dei lavoratori non soggetti alla
tutela assicurativa obbligatoria prevista dal Testo Unico 1124/65 e dalla Legge
493/99.
CARATTERISTICHE
E AMMONTARE DELLA RENDITA
La
rendita offerta dall’INAIL ai superstiti dei lavoratori deceduti in conseguenza
di malattia professionale o infortunio sul lavoro è una prestazione economica
che ha il vantaggio di non essere soggetta a tassazione IRPEF.
La
base di calcolo per determinarne l’ammontare ha subito una variazione a partire
dal 1° gennaio 2014. Mentre, infatti, essa era in precedenza identificata nella
retribuzione annua effettiva del lavoratore nel rispetto di determinati limiti
stabiliti, nel minimo e nel massimo, dal Testo Unico 1124/65, oggi, a seguito
della legge di stabilità 2014, essa va individuata nella retribuzione massima
convenzionale del settore industria.
Posta
questa base di calcolo, l’ammontare della rendita varia a seconda di quale sia
il soggetto che ne beneficia.
Nel
dettaglio, essa spetta nella misura del 50% al coniuge e nella misura del 20% a
ciascun figlio.
Se
però i figli siano orfani di entrambi i genitori o siano figli naturali
riconosciuti o riconoscibili, la rendita spetta loro nella misura del 40%.
Laddove,
invece, in assenza di coniuge o figli, la rendita vada a vantaggio, alle
condizioni sopra viste, dei genitori naturali o adottivi o dei fratelli o delle
sorelle, essa sarà erogata nella misura del 20%.
In
ogni caso, le quote di rendita non possono mai complessivamente superare la
base di calcolo presa come riferimento per determinare il loro ammontare.
Pertanto,
laddove ciò potenzialmente accada, le quote di rendita spettanti ai familiari
vanno adeguatamente riproporzionate.
Ciò
posto in via generale, va da ultimo specificato che l’ammontare effettivo delle
rendite è rivalutato annualmente sulla base della variazione effettiva dei
prezzi al consumo e mediante decreto del Ministero del lavoro e delle politiche
sociali.
COME
CHIEDERE LA RENDITA
In
caso di morte a seguito di infortunio sul lavoro, la rendita ai superstiti
viene erogata dall’INAIL direttamente a seguito di denuncia dell’evento nefasto
da parte del datore di lavoro.
Solo
laddove quest’ultimo non vi provveda, saranno gli eredi del lavoratore a dover
presentare apposita richiesta, corredata di tutta la documentazione sanitaria
idonea ad attestare la causa del decesso.
Nel
caso invece in cui il decesso riguardi il lavoratore già titolare di una
rendita diretta, la richiesta all’INAIL va presentata direttamente dai
superstiti, sempre corredata della documentazione sanitaria necessaria a
ricondurre la morte al lavoro.
In
ogni caso, è l’INAIL che informa i superstiti del lavoratore della possibilità
di richiedere la rendita entro novanta giorni dalla data in cui ricevono tale
comunicazione.
LE
MODALITÀ DI CORRESPONSIONE
Una
volta riconosciuto ai superstiti il diritto a beneficiare della rendita,
l’INAIL provvede al relativo pagamento sia attraverso assegni, che attraverso
accredito su conto corrente, su libretto di deposito o su carta prepagata
dotata di codice IBAN.
Se
la quota di rendita non supera i mille euro, il pagamento può avvenire anche in
contanti presso gli sportelli postali o bancari.
Nel
caso, infine, in cui la rendita venga riscossa all’estero, il pagamento avviene
presso gli sportelli convenzionati con l’INPS.
LE
VOCI DI DANNO INDENNIZZABILI
Da
ultimo occorre segnalare che, laddove la morte sul lavoro sia cagionata da
colpa del datore di lavoro, agli eredi del lavoratore spetta sia il
risarcimento del danno morale da liquidarsi in via equitativa, tenendo conto
delle sofferenze patite e della gravità dell’illecito, sia il risarcimento del
danno biologico “iure proprio” conseguente alla lesione dell’integrità
psico-fisica subita dagli interessati in ragione della morte del familiare.
Nel
caso in cui, tra l’infortunio e la morte, il lavoratore sia rimasto in vita per
un apprezzabile lasso di tempo, agli eredi compete inoltre il risarcimento del
danno biologico “iure ereditario”.
LA RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI
LAVORO PER DANNO SUBITO DA TERZI
Da:
PuntoSicuro
12 ottobre
2015
Gerardo
Porreca
Le norme
antinfortunistiche sono dettate a tutela non solo dei lavoratori nell’esercizio
della loro attività, ma anche dei terzi che vengono a trovarsi in azienda
indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di lavoro.
Viene
ribadito ancora una volta dalla Corte di Cassazione in questa sentenza quali
sono le responsabilità e a carico di chi vanno poste nel caso che in una
azienda accada un incidente che vede coinvolto un terzo estraneo.
In tema di
prevenzione nei luoghi di lavoro, ha affermato la Suprema Corte, le
norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori
nell’esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che si trovino
nell’ambiente di lavoro, indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di
dipendenza con il titolare dell’azienda, per cui, ove nella stessa si verifichi
un eventuale fatto lesivo a danno del terzo, è configurabile l’ipotesi del
fatto commesso con violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul
lavoro, di cui agli articoli 589, comma secondo [omicidio colposo], e 590,
comma terzo [lesioni personali colpose] del Codice Penale, sempre che sussista
tra la violazione stessa e l’evento dannoso un legame causale e la norma
violata mirava a prevenire l’incidente verificatosi.
Nel caso in
esame la violazione alle norme di prevenzione degli infortuni è stata quella
relativa all’articolo 163 del D.Lgs.81/08 che impone al datore di lavoro, al
fine di regolare il traffico all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva,
il ricorso, se necessario, alla segnaletica prevista dalla legislazione vigente
in relazione al traffico stradale e cioè alla prevista cartellonistica indicante
l’altezza massima di ingresso dei veicoli all’interno del piazzale dello
stabilimento atteso che le misure del mezzo condotto dalla persona offesa,
rispetto alla luce del portale di accesso al piazzale, non escludeva
l’eventualità di prevedibili rischi di danno che si sono poi puntualmente
concretizzati.
Il Tribunale
ha condannato il legale rappresentante di una azienda alla pena di nove mesi di
reclusione in relazione al reato di lesioni personali colpose commesso, in
violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, ai danni
dell’autista di un veicolo industriale non dipendente dall’azienda, rimasto
infortunato nel mentre si accingeva a entrare nello stabilimento.
All’imputato
era stata originariamente contestata la violazione dei tradizionali parametri
della colpa generica e delle norme di colpa specifica espressamente richiamate
nel capo di imputazione, per non aver predisposto la prevista cartellonistica
indicante l’altezza massima di ingresso dei veicoli all’interno del piazzale
aziendale, avuto riguardo all’altezza della pensilina in cemento armato ubicata
all’ingresso di detto piazzale.
Per effetto
di tale omissione, l’autista che si stava recando presso lo stabilimento, nel
transitare al di sotto della descritta pensilina alla guida di un
autoarticolato di altezza superiore allo spazio esistente, aveva urtato, con
l’angolo superiore destro del container posizionato sul semirimorchio, contro
il lato esterno della pensilina, causandone la caduta sulla cabina di guida,
provocandosi così delle gravissime lesioni.
La Corte di Appello ha successivamente
riformata parzialmente la sentenza impugnata riducendo la pena inflitta
all’imputato determinandola in quattro mesi di reclusione e confermando, nel
resto, la sentenza del primo giudice.
Avverso la
sentenza d’Appello il datore di lavoro dell’azienda, a mezzo del proprio
difensore, ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di alcune motivazioni.
Con un primo
motivo il ricorrente ha censurata la sentenza impugnata per avere la Corte territoriale omesso di
rilevare la violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza,
con particolare riguardo alla circostanza relativa al rapporto di dipendenza
della persona offesa con la società dell’imputato, nel caso particolare
totalmente insussistente, e alla correlativa rilevanza della contestata qualità
di datore di lavoro sul piano dell’esatta identificazione della posizione di
garanzia.
Con un
secondo motivo il ricorrente ha censurata la sentenza impugnata per violazione
di legge e vizio di motivazione, avendo la Corte territoriale omesso di rilevare (in
contrasto con le risultanze emerse dagli elementi di prova tecnica acquisiti al
giudizio) la illegittimità della circolazione del veicolo condotto dalla
persona offesa in assenza di apposita autorizzazione amministrativa, trattandosi
di mezzo capace di raggiungere l’altezza di ben 4,5 metri, idonea a
qualificarlo come “mezzo eccezionale”.
Come terzo
motivo, il ricorrente si è lamentato per la violazione di legge in cui sarebbe
incorsa la corte territoriale nell’applicare erroneamente il disposto di cui
all’articolo 118 del regolamento del Codice della Strada, nella parte in cui
impone l’apposizione del segnale di transito vietato ai veicoli aventi altezza
complessiva superiore a una certa misura nei soli casi in cui l’altezza
ammissibile sulla strada sia inferiore all’altezza dei veicoli definita
dall’articolo 61 del Codice stesso, atteso che, nella specie, la luce del
portale di ingresso nel piazzale aziendale non era inferiore all’altezza del
veicolo condotto dalla persona offesa.
Infine come
ultimo motivo il ricorrente ha censurata la Sentenza impugnata per vizio di motivazione,
avendo la Corte
territoriale trascurato di considerare adeguatamente la circostanza relativa
all’esclusività o, quantomeno, alla concorrenza della responsabilità della
persona offesa nella causazione del sinistro, con la conseguente adozione degli
opportuni provvedimenti sul piano dell’accertamento istruttorio, con
particolare riguardo alla gestione del dispositivo di regolazione dell’altezza
del mezzo (cosiddetta ralla) o alla condotta di guida tenuta immediatamente
dopo l’impatto tra la sommità del cassone e la traversa del portale.
La Corte di Cassazione ha rigettato il
ricorso dell’imputato.
Con
riferimento in particolare al principio di corrispondenza tra accusa e sentenza
la Sezione IV
ha ribadito che del tutto correttamente la Corte territoriale aveva rilevato la sua mancata
violazione avendo osservato come il riferimento alla qualità di datore di
lavoro dell’imputato fosse chiaramente riferito alla posizione di garanzia in
relazione alla sicurezza dei luoghi e degli ambienti di lavoro rivestita dal
ricorrente, tanto più che nello stesso sviluppo descrittivo del capo di
imputazione era chiaramente indicato che il lavoratore infortunato era dipendente
di una ditta per conto della quale si era recato presso lo stabilimento al fine
di caricare della merce.
Al riguardo
è appena il caso di richiamare, ha precisato la Suprema Corte, il
consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, al quale ha fatto
riferimento anche il Giudice di Appello, ai sensi del quale “in tema di
prevenzione nei luoghi di lavoro, le norme antinfortunistiche sono dettate a
tutela non soltanto dei lavoratori nell’esercizio della loro attività, ma anche
dei terzi che si trovino nell’ambiente di lavoro, indipendentemente
dall’esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell’impresa, di
talché ove in tali luoghi si verifichino eventuali fatti lesivi a danno del
terzo, è configurabile l’ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme
dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, di cui agli articoli 589, comma
secondo, e 590, comma terzo, del Codice Penale, sempre che sussista tra
siffatta violazione e l’evento dannoso un legame causale e la norma violata
miri a prevenire l’incidente verificatosi” per cui è stato pienamente
rispettato nel caso in esame il principio di correlazione tra accusa e sentenza
di cui all’articolo 521 del Codice di Procedura Penale con la definitiva
attestazione della radicale infondatezza del motivo d’impugnazione sollevato
sul punto dal ricorrente.
Con
riferimento alle restanti lamentele avanzate dal ricorrente la Sezione IV ha fatto
osservare come la Corte
territoriale, in relazione al punto concernente l’altezza del mezzo condotto
dalla persona offesa, richiamandosi agli accertamenti tecnici eseguiti nel
corso del giudizio, abbia correttamente escluso, sulla base di una motivazione
del tutto congruente sul piano argomentativo e immune da vizi d’indole logica o
giuridica, che detto mezzo presentasse caratteristiche tali da giustificarne la
qualificazione alla stregua di un “mezzo eccezionale”, atteso che l’altezza
complessiva del punto più alto del cassone montato sul semirimorchio, rispetto
al suolo, era di 4,3 metri
e cioè uguale alla luce netta di passaggio sotto il portale di accesso all’area
dell’azienda dell’imputato, con la conseguente esclusione che il veicolo in
questione dovesse essere dotato di autorizzazione amministrativa alla
circolazione.
La Corte territoriale ha correttamente
evidenziato, altresì, secondo la
Sezione IV, in relazione agli aspetti di colpa specifica
contestati e accertati a carico dell’imputato, “come l’imputato si fosse
colpevolmente sottratto al rispetto delle prescrizioni di cui all’articolo 163
del D.Lgs.81/08 la dove lo stesso impone al datore di lavoro, al fine di
regolare il traffico all’interno dell’impresa o dell’unità produttiva, il
ricorso, se del caso, alla segnaletica prevista dalla legislazione vigente in
relazione al traffico stradale (e dunque alla prevista cartellonistica
indicante l’altezza massima di ingresso dei veicoli e degli autoarticolati
all’interno del piazzale in esame)”, a nulla rilevando il richiamo
dell’imputato alla sola specifica situazione richiamata in seno al testo
dell’articolo 118 del regolamento del Codice della Strada, attesa l’ampiezza
della formulazione della norma cautelare, funzionale alla copertura di tutte le
possibili situazioni di rischio, non altrimenti ovviabile che attraverso
l’apposizione di idonea cartellonistica e atteso che l’astratta conformità
delle misure del mezzo condotto dalla persona offesa, rispetto alla luce del
portale di ingresso nel piazzale aziendale, non escludeva l’eventualità di
prevedibili rischi di danno nella specie puntualmente concretizzatisi.
Ciò posto,
ha così concluso la Corte Suprema,
del tutto correttamente la Corte
territoriale ha escluso il ricorso della concorrente responsabilità della
persona offesa nella causazione del sinistro, essendo quest’ultimo transitato a
bassissima velocità in corrispondenza del portale d’ingresso all’area
aziendale, non potendosi rendere conto (in assenza di segnalazione di pericolo
attraverso apposito cartello) dell’insidia rappresentata dall’altezza della
pensilina (perfettamente uguale a quella del container), tanto più che il
transito doveva avvenire attraverso il passo carraio di una ditta, dove, per
sua conoscenza diretta, venivano usualmente movimentati mezzi pesanti e
container.
La Sentenza della Corte di Cassazione Penale
Sezione IV n. 31230 del 17 luglio 2015 è visionabile all’indirizzo:
CLASSIFICAZIONE E USO DEI
DISPOSITIVI DI PROTEZIONE DELLE VIE RESPIRATORIE
Da:
PuntoSicuro
12 ottobre
2015
Informazioni
sui Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) delle vie respiratorie tratte
dal progetto “Impresa Sicura”.
Le tipologie
dei DPI, i fattori da valutare per la scelta, le indicazioni sull’utilizzo e la
manutenzione dei DPI.
I DPI delle
vie respiratorie sono DPI di terza categoria, la categoria che, come indicato
dal D.Lgs.475/92, comprende i DPI di progettazione complessa destinati a
salvaguardare da rischi di morte o di lesioni gravi e di carattere permanente.
E per permettere il loro uso corretto sono obbligatorie l’informazione, la
formazione e l’addestramento dei lavoratori.
Per cercare
di migliorare la conoscenza di questi importanti DPI riprendiamo ad occuparci
del progetto multimediale Impresa Sicura, un progetto elaborato da Regione
Marche, Regione Emilia-Romagna e INAIL, che è stato validato dalla Commissione
Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come buona prassi nella
seduta del 27 novembre 2013.
Nel
documento “Impresa Sicura DPI”, correlato al progetto, viene presentata una
raccolta dettagliata di informazioni sui DPI e un capitolo di quasi 200 pagine
è dedicato ai DPI a protezione delle vie respiratorie che sono chiamati anche
APVR (Apparecchi Protezione Vie Respiratorie).
Questi mezzi
di protezione delle vie di respirazione, che servono a evitare l’inalazione di
sostanze nocive quali aerosol e aeriformi e a fornire ossigeno in quantità
sufficiente alla respirazione, devono essere impiegati quando i rischi non
possono essere evitati o sufficientemente ridotti da misure tecniche di
prevenzione, da mezzi di protezione collettiva quali impianti di aspirazione,
metodi o procedimenti di riorganizzazione del lavoro, dopo analisi e
valutazione del rischio.
Il documento
ricorda che per fare una scelta corretta per la protezione delle vie
respiratorie, si devono considerare almeno i seguenti fattori:
-
tipo di
sostanza: corretta scelta del tipo di filtro; necessità/opportunità di
proteggere altre parti del volto (occhi/viso);
-
concentrazioni:
capacità del filtro in relazione al tempo di esposizione;
-
visibilità:
riduzione della protezione;
-
libertà
movimento: riduzione del peso e del disagio;
-
anatomia del
viso: adeguatezza maschera;
-
condizioni
ambientali.
Dopo aver
riportato le indicazioni del D.Lgs.81/08 sugli ulteriori criteri di sicurezza e
prestazionali per la scelta del dispositivo e le norme tecniche sulla
protezione delle vie respiratorie, il documento ricorda che i DPI di protezione
delle vie respiratorie, a seconda che dipendano o meno dall’atmosfera ambiente,
si distinguono in:
-
respiratori
isolanti;
-
respiratori
a filtro;
-
respiratori
a barriera d’aria con filtro.
I
respiratori isolanti sono dispositivi di protezione delle vie respiratorie che
consentono di respirare indipendentemente dall’atmosfera circostante. Il
dispositivo infatti impedisce il contatto con l’atmosfera esterna e fornisce
ossigeno o aria da una sorgente autonoma non inquinata. In particolare devono
essere utilizzati quando:
-
la
percentuale di ossigeno è inferiore al 17%;
-
la
concentrazione dei contaminanti è superiore ai limiti di utilizzo dei
respiratori a filtro;
-
non si
conosce la natura e/o la concentrazione dei contaminanti;
-
in presenza
di gas/vapori con scarse proprietà di avvertimento (es.: il contaminante ha soglia
olfattiva superiore al valore limite di esposizione professionale).
Inoltre a
seconda che la sorgente di aria possa o meno spostarsi insieme
all’utilizzatore, i respiratori isolanti si suddividono in:
-
respiratori
isolanti autonomi (autorespiratori): possono essere utilizzati ad esempio,
nella pulizia, verniciatura e trattamento a pennello/rullo o spruzzo delle
parti interne di strutture dimensionalmente consistenti, concave; sono
costituiti da maschere intere o semimaschere con erogatori a domanda alimentati
con gas respirabile contenuto in un recipiente a pressione (il sistema è dotato
di riduttore di pressione per consentire la respirazione) e offrono una
maggiore libertà di movimento rispetto ai sistemi isolanti non autonomi, ma
essendo sistemi piuttosto complessi richiedono una formazione di livello
elevato e una manutenzione rigorosa; sono di autonomia ridotta rispetto ai
sistemi isolanti non autonomi e possono essere a circuito aperto (l’aria
espirata viene rilasciata all’esterno) oppure a circuito chiuso; particolari
respiratori isolanti autonomi sono le attrezzature per uso subacqueo come gli autorespiratori
per uso subacqueo a circuito chiuso e gli autorespiratori per uso subacqueo a
circuito aperto ad aria compressa, mentre gli scafandri per sommozzatori sono
dei particolari respiratori isolanti non autonomi;
-
respiratori
isolanti non autonomi: sono riforniti di aria respirabile esterna all’ambiente
di lavorazione (solitamente si tratta di aria compressa in linea) e hanno lo
svantaggio della ridotta libertà di movimento, ma sono di autonomia superiore
agli autorespiratori; pertanto sono indicati per le attività che implicano la
stazione fissa e lunghe durate.
Oltre agli
autorespiratori per l’esecuzione normale delle lavorazioni, vi sono anche
autorespiratori per la fuga (di autonomia ridotta), ovviamente per l’uso in
situazioni di emergenza.
Veniamo ai
respiratori a filtro che sono dispositivi di protezione delle vie respiratorie
nei quali l’aria inspirata passa attraverso un materiale filtrante (filtri) in
grado di trattenere gli agenti inquinanti. I filtri si classificano in base al
tipo, alla classe e al livello di protezione.
In
particolare i respiratori a filtro possono essere:
-
non
assistiti (l’aria passa all’interno del facciale solo mediante l’azione dei
polmoni);
-
a ventilazione
assistita (l’aria passa all’interno del facciale costituito da una maschera mediante
un elettroventilatore normalmente trasportato dallo stesso utilizzatore; questi
dispositivi forniscono una certa protezione anche a motore spento);
-
a ventilazione
forzata (l’aria passa all’interno del facciale costituito da un cappuccio o da
un elmetto mediante un elettroventilatore normalmente trasportato dallo stesso
utilizzatore; questi dispositivi non sono concepiti per fornire protezione
anche a motore spento).
Chiaramente
laddove si utilizzino respiratori a filtro a ventilazione forzata o assistita
dovrà essere prestata particolare attenzione alla manutenzione dei motori e
delle batterie.
Inoltre i
respiratori a filtro sono classificati in base al tipo di inquinante dal quale
i lavoratori devono essere protetti:
-
respiratori
con filtri antipolvere: sono costituiti da materiale filtrante di varia natura
in grado di trattenere le particelle di diametro variabile, in funzione della
porosità; i filtri antipolvere (da montare su maschere o semimaschere) e i
respiratori con filtro antipolvere (facciali filtranti, elettrorespiratori con
cappuccio, elettrorespiratori con maschera) sono suddivisi in tre classi in
base alla diversa efficienza di filtrazione;
-
respiratori
con filtri antigas che proteggono da gas e vapori: i filtri antigas hanno
filtri a carbone attivo che, per assorbimento fisico o chimico, trattengono
l’inquinante; non vengono suddivisi in base all’efficienza filtrante (che deve
essere sempre del 100%), ma sono classificati in base alla capacità intesa come
durata a parità di altre condizioni e in base al tipo di inquinante dal quale
proteggere i lavoratori;
-
respiratori
con filtri combinati che proteggono da aerosol e aeriformi: i filtri combinati
trattengono oltre ai gas anche particelle in sospensione solide e/o liquide; la
combinazione deve essere realizzata in modo che l’aria di inspirazione
attraversi prima il filtro antipolvere;
-
respiratori
a barriera d’aria con filtri.
I
respiratori a barriera d’aria con filtro sono, infine, DPI delle vie
respiratorie che consentono di eseguire un lavaggio delle prime vie aeree
mediante una visiera, ancorata alla parte superiore del capo, che copre tutto
il volto, e un flusso di aria laminare che viene fatto scorrere sul lato
interno di essa, a pressione, dall’alto verso il basso. La visiera non aderisce
alla faccia e fa defluire l’aria immessa in modo naturale. Non si ha quindi
isolamento dall’ambiente circostante, ma una diluizione dell’inquinante
presente a livello del naso e della bocca dell’utilizzatore. L’aria compressa
viene filtrata e successivamente regolata in base alle esigenze operative: la
compressione avviene mediante collegamento di questo dispositivo a un impianto
di compressione locale, mentre vengono utilizzate cartucce in carbone attivo,
alloggiate nella cintura dell’operatore, per la decontaminazione dell’aria.
Inoltre la
presenza della visiera permette non solo la protezione da inalazione di agenti
tossici, ma anche il riparo del viso e in particolar modo degli occhi da
schizzi e contatti accidentali.
Questa
tipologia di DPI ha il vantaggio di essere di peso e ingombro limitato e
andrebbe utilizzato, in sostituzione alla più classica mascherina filtrante,
quando l’atmosfera circostante contiene elevate concentrazioni di inquinanti
pericolosi per la salute, soprattutto se si opera in spazi di lavoro confinati
o se, per la conformazione/dimensione del manufatto, l’aspirazione localizzata
non è sufficientemente efficace. Rientrano in questa categoria gli apparecchi
respiratori con maschera per saldatura amovibile.
Concludiamo
dando, infine, qualche indicazione sull’utilizzo e la manutenzione degli APVR.
Innanzitutto
è necessario verificare la tenuta del respiratore prima di entrare nell’area di
lavoro, ricordando che la presenza di basette lunghe oppure di barba, baffi o
una rasatura non curata, può pregiudicare la tenuta sul viso del respiratore. E
non bisogna mai dimenticare che i respiratori vanno indossati e/o tolti in
atmosfera non inquinata.
Inoltre dopo
ogni utilizzo, la semimaschera, la maschera pieno facciale o
l’elettrorespiratore utilizzati con regolarità devono essere puliti e
disinfettati, poiché eventuali residui di saliva o di traspirazione possono
solidificarsi sulle valvole, impedendone il corretto funzionamento.
L’integrità
del respiratore va sempre controllata, anche nel caso di maschere tenute a
disposizione per i casi di emergenza. E nelle istruzioni per l’uso è sempre
indicato se il respiratore necessita di manutenzione (sostituzione periodica
delle valvole e delle parti usurabili) e come questa deve essere effettuata.
Riportiamo,
infine, ulteriori indicazioni sulla manutenzione di questi DPI:
-
la presenza
di fori, abrasioni può modificare il grado di protezione del respiratore;
-
la maschera
deve essere disinfettata prima dell’uso da parte di altro utilizzatore;
-
i facciali
filtranti hanno una perdita di tenuta nel tempo, di cui bisogna tener conto;
-
le norme
tecniche prevedono, in generale, che il facciale sia sostituito ad ogni turno
di lavoro, e qualora il facciale abbia bordo di tenuta, al massimo dopo tre
turni lavorativi: bisogna, in ogni caso, considerare le risultanze della
valutazione del rischio, quindi la natura del contaminante e la sua
concentrazione;
-
la durata
del filtro dipende da una serie di fattori diversi, quali concentrazione e
natura del contaminante, temperatura, umidità, nonché capacità polmonare e
ritmo respiratorio dell’utilizzatore: la durata del filtro non è pertanto
definibile a priori;
-
in generale
il filtro antipolvere è da sostituire quando aumenta la resistenza di
respirazione (inalazione) e il filtro antigas è da sostituire quando il carbone
attivo ha esaurito la sua capacita di assorbimento, cioè quando l’utilizzatore
avverte il sapore o l’odore della sostanza.
DIFFERENZE DI GENERE: I RISCHI
DERIVANTI DALL’ORGANIZZAZIONE LAVORATIVA
Da:
PuntoSicuro
15 ottobre
2015
Informazioni
sulle differenze di genere nella risposta alle infezioni, nelle conseguenze dei
rischi da fattori inerenti l’organizzazione del lavoro e nell’esposizione a
rischi ergonomici e a patologie muscolo scheletriche lavoro-correlate.
Molti
documenti in questi ultimi anni, in Italia e in Europa, hanno sottolineato come
uomini e donne, lavoratori e lavoratrici, tendano ad essere colpiti dalle
patologie professionali in maniera diversa. E se l’uomo e la donna hanno
peculiari caratteristiche che possono determinare effetti biologicamente
diversi anche a parità di esposizione, di queste differenze (a partire dalla
valutazione dei rischi) non si può non tener conto nelle strategie e nelle
misure di prevenzione aziendali.
Per favorire
l’adozione nei luoghi di lavoro di meccanismi, processi e azioni per
contrastare le disuguaglianze di genere nella tutela della salute e sicurezza
sul lavoro, torniamo a sfogliare un documento INAIL “Salute e sicurezza sul
lavoro, una questione anche di genere. Rischi lavorativi. Un approccio
multidisciplinare” che segue la pubblicazione di altri tre volumi INAIL sul tema
delle differenze correlate all’appartenenza al genere maschile o femminile.
Nel
documento in relazione alla differente esposizione tra uomini e donne in
relazione a rischi chimici e biologici e ai rischi di natura infortunistica, vengono
presentati anche esempi specifici relativi alle differenze di sesso nella
risposta alle infezioni.
Ad esempio
le recenti acquisizioni in tema di Sindrome da Immunodeficienza Acquisita
(AIDS) mostrano con chiarezza come una differenza di genere possa associarsi a
peculiarità di decorso clinico. Infatti le donne hanno patterns clinici e
viro-immunologici più favorevoli nella fase precoce dell’infezione, sebbene
mostrino in un secondo tempo, con più alta probabilità, una veloce progressione
verso l’AIDS conclamato rispetto agli uomini, a parità di carica virale. E
altre differenze significative di genere si possono notare per le infezioni da
HBV (epatite B) e HCV (epatite C).
Vi sono poi
anche fattori di natura fisica nell’attività lavorativa che possono essere
pericolosi per entrambi i sessi (radiazioni ionizzanti per le cellule
germinali) e altri soprattutto per i lavoratori maschi (agenti fisici quali le
alte temperature) o soprattutto per le lavoratrici o per il feto.
In relazione
poi ai rischi da fattori inerenti l’organizzazione del lavoro, il documento
segnala che un lavoro faticoso e stressante può alterare il ciclo mestruale
provocando, amenorrea, dismenorrea, cicli anovulatori e riduzione della
fertilità. Il lavoro a turni, caratteristico del settore sanitario e di alcuni
altri servizi (ad esempio assistenti di volo), può interferire con il sistema
endocrino-riproduttivo delle donne, causando alterazioni del ciclo mestruale,
endometriosi, oltre che altre patologie quali disturbi dell’umore e malattie
cardiovascolari.
Ed è stata
evidenziata anche una correlazione tra lavoro notturno e aumentato rischio di
tumore al seno femminile, senza dimenticare che la stessa Agenzia Europea per la Ricerca sul Cancro (IARC)
ha classificato il lavoro a turni in gruppo 2A, vale a dire probabilmente
cancerogeno.
Si
sottolinea che il rischio attribuibile al lavoro notturno aumenta
significativamente quando effettuato per periodi duraturi di diversi anni
(soprattutto periodi superiori a 20 anni), con oltre due notti consecutive
durante il turno. Il lavoro a turni notturni sembra essere associato anche a un
incremento del rischio per cancro prostatico, del colon e dell’endometrio anche
se gli studi finora condotti per valutare queste associazioni sono relativamente
pochi.
Ci
soffermiamo poi sul rischio ergonomico, ricordando come uomini e donne abbiano
mediamente una diversa struttura fisica.
Quando una
postazione lavorativa non è in grado di adattarsi alla estrema variabilità
della forza lavoro in termini di struttura fisica, viene a incrementarsi il
rischio di patologie muscolo-scheletriche e in questo senso la componente
femminile è in genere maggiormente penalizzata dovendosi adattare a postazioni
o strumenti di lavoro, spesso progettati per il “lavoratore maschio medio”.
Se le
patologie muscolo scheletriche lavoro-correlate sono condizioni multifattoriali
dove la componente causale occupazionale è attribuibile a diversi fattori di
volta in volta implicati da soli o in associazione (vibrazioni trasmesse da strumenti
e macchinari, microclima inadeguato, movimentazione manuale dei carichi,
movimenti ripetitivi, posture incongrue, ecc.), molti fattori concausali
extraprofessionali sono pressoché di prerogativa femminile, in alcuni casi perché
legati alla fisiologia della sfera riproduttiva femminile (ad esempio la
multiparità e la menopausa) e in altri per il ruolo sociale che la donna occupa
nelle attività di assistenza e cura familiare. E una quota significativa di
stress biomeccanico alle strutture muscolo-scheletriche deriva proprio dalle
attività di pulizia domestiche o di accudimento di bambini o anziani malati e
con difficoltà di movimento e di deambulazione.
Inoltre uno
studio sui tassi di Sindrome del Tunnel Carpale ha mostrato una netta
prevalenza nei cosiddetti “colletti blu” rispetto ai “colletti bianchi” e ha
evidenziato anche un alto tasso tra le casalinghe, suggerendo che i lavori
domestici siano un importante fattore di rischio per la Sindrome del Tunnel
Carpale.
E altri
studi hanno evidenziato una maggiore prevalenza nel genere femminile di
patologie a carico della colonna vertebrale e delle articolazioni (in
particolare la sindrome del tunnel carpale ed epicondilite laterale) degli arti
superiori, di patologie delle vene degli arti inferiori al pari dell’attività
lavorativa svolta.
Sempre in
relazione ai rischi ergonomici e per favorire nelle aziende una valutazione del
rischio in ottica di genere, concludiamo segnalando che durante lo stato di
gravidanza nelle lavoratrici si ha una maggior prevalenza di tendiniti e
disturbi muscoloscheletrici per ritenzione idrica e aumento ponderale con
conseguente ridistribuzione e alterazione della postura e per il particolare
assetto ormonale.
Il documento
di INAIL “Salute e sicurezza sul lavoro, una questione anche di genere. Rischi
lavorativi. Un approccio multidisciplinare” è scaricabile all’indirizzo:
LA CONTINUITA’ NORMATIVA FRA VECCHIE
E NUOVE DIPOSIZIONI DI PREVENZIONE
Da:
PuntoSicuro
19 ottobre
2015
Di Gerardo
Porreca
Ribadita,
con riferimento ai rischi legati all’uso delle attrezzature di lavoro, la
sussistenza di una continuità normativa fra vecchie disposizioni in materia di
sicurezza di cui al D.P.R.547/55 e quelle nuove di cui al D.Lgs.81/08.
E’ un
principio quello che emerge dalla lettura di questa sentenza della Corte di
Cassazione penale che è stato più volte espresso in passato dalla suprema Corte
ma che appare comunque del tutto attuale considerato che all’esame della
suprema Corte vengono ancora sottoposti dei casi di contravvenzione ancora alle
vecchie disposizioni di cui al D.P.R.547/55, contenente le norme di prevenzione
degli infortuni sul lavoro, abrogato ormai da più di otto anni dal D.Lgs.81/08
entrato in vigore il 15/05/08.
Non c’è
soluzione di continuità, ha affermato la Corte di Cassazione, tra la
regolamentazione entrata in vigore con il Testo Unico in materia di salute e di
sicurezza sul lavoro di cui al D.Lgs.81/08 e la precedente normativa regolante
la materia della prevenzione degli infortuni sul lavoro di cui al D.P.R.547/55.
Riguardando il caso sottoposto alla Corte suprema una contravvenzione relativa
all’esercizio di un ascensore non c’è dubbio, ha aggiungo in particolare la
stessa Corte, che la norma abrogata posta a tutela del rischio legato all’uso
di ascensori e montacarichi nei luoghi di lavoro (articolo 198 del
D.P.R.547/55), sia stata sostituita senza soluzione di continuità dalla
disciplina di cui al citato Testo Unico del 2008, conclusione del resto questa
unanime nella giurisprudenza di legittimità.
Il Tribunale
ha condannato il titolare di un supermercato alla pena sospesa di due mesi di reclusione,
nonché al risarcimento del danno in favore della parte civile per il reato di
lesioni personali colpose gravi ai danni di una lavoratrice dipendente che,
mentre si accingeva ad utilizzare il montacarichi aziendale, è precipitata
nella “tromba” dello stesso, procurandosi trauma cranico commotivo, trattato
chirurgicamente, esitato in postumi permanenti severi, lesioni della milza,
trattate chirurgicamente con l’asportazione della stessa e lussazione al terzo
dito della mano sinistra.
All’imputato,
in particolare, si rimproverava sia la colpa generica, che quella specifica per
avere violato l’articolo 198 del D.P.R.547/55. La Corte di Appello ha successivamente
confermate le decisioni del Tribunale per cui il titolare del supermercato ha
proposto ricorso per Cassazione corredato da alcuni motivi di censura.
Con un primo
motivo il ricorrente ha sostenuto che la violazione di legge contestata
(articolo 198 del D.P.R.547/55) al momento del fatto non era più previsto dalla
legge come reato in quanto le richiamate norme erano state abrogate dal
D.Lgs.81/08 e che non sussisteva continuità normativa fra esse in quanto non
poteva ragionevolmente affermarsi che le disposizioni di cui agli articoli dal
69 al 71 del predetto Decreto avessero preso il posto di quelle abrogate.
Come altra
motivazione l’imputato ha escluso che nell’istruttoria fosse stato provato che
il fatto fosse stato compiuto alla luce del principio del ragionevole dubbio.
L’unico addebito allo stesso mosso dal principale teste d’accusa, cioè
dall’ispettore dell’organo di vigilanza, ha sostenuto ancora l’imputato, è
stato costituito dall’ipotizzata violazione dell’articolo 198 da tempo abrogato
come sopra detto. L’ ascensore inoltre, secondo lo stesso, era munito di tutte
le autorizzazioni del caso e aveva superato tutti i controlli previsti dalla
legge e in più i lavoratori dipendenti escussi avevano confermato che le porte
non si aprivano se l’ascensore non era al piano.
Il ricorso è
stato rigettato dalla Corte di Cassazione la quale ha ribadito che, pur a non
volere considerare, per ragioni di comodità argomentativa, la contestata e ben
sussistente colpa generica, non sussiste, così come correttamente evidenziato
nei due gradi di merito, l’affermata soluzione di continuità tra la
regolamentazione entrata in vigore con il Testo Unico approvato con il
D.Lgs.81/08 e la normativa che regolava, al momento dell’accaduto, la materia
della prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Da un esame
infatti del contenuto del corpo normativo approvato nel 2008 è apparso chiaro,
secondo la Sezione IV, che le situazioni di rischio derivanti dall’uso delle
attrezzature di lavoro risultano essere state individuate omnicomprensivamente,
privilegiando il profilo funzionale e individuando, appunto, la generale
categoria di rischio che il garante della sicurezza è tenuto a prevenire
mediante l’approntamento dei necessari presidi e delle necessarie cautele
(articoli da 69 a 71). “Pertanto, non par dubbio” - ha proseguito la Suprema
Corte - “che la norma, ora abrogata, posta a tutela del rischio da uso di
ascensori e montacarichi nei luoghi di lavoro (articolo 198 del D.P.R.547/55),
sia stata sostituita (in quanto la fattispecie rientra fra quelle ridefinite,
in relazione alla categoria del rischio), senza soluzione di continuità, dalla
disciplina di cui al citato Testo Unico del 2008 (trattasi di una conclusione
univoca nella giurisprudenza di legittimità)”.
Anche
l’osservazione fatta in merito al principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio
non è stata condivisa dalla Sezione IV. Secondo la stessa, infatti, la Corte di
Appello aveva chiarito come, escluso con certezza che fosse stata la vittima a
forzare le porte del montacarichi, lo stesso, a motivo dell’assenza di un
meccanismo di blocco o di un suo malfunzionamento o, eventualmente,
dell’esistenza di un meccanismo di protezione non a norma, ebbe a presentare le
porte aperte sebbene la cabina non fosse presente al piano. La certificazione
di conformità, peraltro, era risultata risalente nel tempo e l’inadeguatezza
del sistema confermata dalla decisone dello stesso imputato il quale, dopo
l’infortunio, ha provveduto a sostituire l’intero impianto.
Tenuto
conto, infine, che il lavoratore deve fidarsi della sicurezza degli strumenti e
degli impianti di lavoro, ad assicurare la quale il datore di lavoro è chiamato
a garanzia, è apparso del tutto evidente, secondo la Corte di Cassazione, che
ove l’imputato avesse tenuto la condotta che gli era imposta dal ruolo (assidua
e costante verifica del puntuale funzionamento dei presidi di sicurezza in
specifica relazione all’impianto del montacarichi) il grave infortunio non si sarebbe
verificato.
La Sentenza
n.34706 del 10 agosto 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è visionabile
all’indirizzo:
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