NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
IN TEMA DI VALORE
ETICO DELLA SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO
Da:
PuntoSicuro
14
gennaio 2016
di
Pietro Ferrari
Dalla
Costituzione al Decreto 81: quale deve essere il valore etico attribuibile alla
sicurezza sul lavoro.
Di
fronte al profilarsi di pericolose involuzioni (anche in sede di Commissione
europea) rispetto alle politiche di prevenzione e protezione in ambito
lavorativo, forse non è inutile fermarsi a considerare quello che deve essere
il valore etico attribuibile alla sicurezza sul lavoro (altri ha detto, e dirà,
sul valore propriamente economico).
Se
davvero vogliamo ragionare, oggi, intorno al tema del valore etico della
sicurezza sul lavoro, non possiamo esimerci dallo sforzo di individuare, di “ricostruire”
la traccia storica che ci consenta di articolare il discorso.
E’
una traccia antica e di straordinaria importanza quella che si vuole
considerare: essa rappresenta il solco tracciato molti anni fa dalla
Costituzione della Repubblica per regolare il nostro vivere civile e
democratico.
Perché
dunque partire dalla Costituzione? E cosa rappresenta la nostra Costituzione?
Le
Costituzioni, in generale, rappresentano le regole fondamentali che una
organizzazione sociale complessa, qual è lo stato democratico moderno, adotta
per regolare il proprio funzionamento.
Ma
la nostra Costituzione ha, in più, una caratteristica: essa è nata, alla fine
della tragica esperienza della seconda guerra mondiale, dalla lotta di
resistenza.
In
questa lotta, i lavoratori (operai e contadini) hanno svolto, con le proprie
organizzazioni, un ruolo fondamentale ed hanno pagato un grave prezzo per
giungere al giorno della Liberazione.
Con
questa lunga lotta, alfine vittoriosa, la classe dei lavoratori si è emancipata
definitivamente dalla condizione di subalternità, ponendo la dignità ed il
valore del suo ruolo quale base fondante della convivenza sociale.
E’
per questo che nel primo articolo dei Principi Fondamentali la Carta Costituzionale
stabilisce che “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”.
A
differenza di quanto stabilito nel previgente “Statuto Albertino”, all’interno
del quale il cardine del sistema dei diritti statutari era costituito dal
diritto di proprietà.
Ma
facciamo ora un passo indietro e torniamo a quella fase storica denominata “Periodo
costituzionale transitorio” che è compresa tra il 25 luglio 1943 (caduta del
governo fascista, arresto di Mussolini e nomina del generale Badoglio quale
capo del Governo) ed il 1 gennaio 1948 (entrata in vigore della Costituzione).
Nel
periodo compreso tra la caduta del governo fascista e l’ingresso a Roma delle
truppe alleate (4 giugno 1944) si affermò un nuovo soggetto politico unitario,
il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) il quale raggruppava i partiti e le
forze che dalla clandestinità avevano combattuto prima il regime fascista, e
poi l’occupazione nazi-fascista.
Dopo
la liberazione di Roma il CLN entrò a far parte del nuovo governo e il suo
presidente, Ivanoe Bonomi, fu nominato Presidente del Consiglio. Nel frattempo
continuavano però l’occupazione nazifascista e la lotta partigiana nel nord
dell’Italia laddove operava, in clandestinità, il CLN Alta Italia.
L’anno
successivo, conclusa vittoriosamente la lotta di liberazione (25 aprile 1945),
gran parte del territorio nazionale veniva ricondotto sotto l’autorità formale
del governo “romano” e la sovranità formale del Re.
Nuovo
Presidente del Consiglio venne nominato Ferruccio Parri, comandante partigiano
del Partito d’Azione, il quale provvide a istituire il Ministero per la Costituente con il
compito di raccogliere e coordinare i materiali necessari per il lavoro di
elaborazione e stesura che l’Assemblea Costituente sarebbe stata chiamata a
svolgere.
Le
elezioni del 2 giugno 1946 che chiamavano i cittadini (e per la prima volta le
donne) al voto, li impegnavano a effettuare la scelta tra monarchia e
repubblica e, altresì, a scegliere i componenti dell’Assemblea Costituente:
vinse la scelta repubblicana (con 12.717.923 voti contro 10.719.284) e venne
eletta l’Assemblea, con l’assegnazione dei 556 seggi alle diverse parti politiche.
L’Assemblea
Costituente della Repubblica Italiana cominciò i suoi lavori il 25 giugno 1946 in quanto organo
preposto alla stesura di una Carta Costituzionale per la nuova forma dello
Stato italiano: la Repubblica Democratica.
La Commissione (la cosiddetta “Commissione
dei 75”)
incaricata di stendere il progetto generale concluse i suoi lavori nel gennaio
1947. Dopodiché (marzo ‘47) iniziò il dibattito sul testo in sessione plenaria.
Qual
è dunque il compito che si poneva ai costituenti?
E
come lo affrontarono?
In
primo luogo si poneva il difficile compito di ricostituire il tessuto sociale e
identitario, dopo le tragiche lacerazioni prodotte dalla guerra. Si trattava,
perciò, anche di portare a compimento il difficile processo di riconciliazione
nazionale; condizione, questa, necessaria non soltanto per giungere a sentirsi
tutti “cittadini della stessa nazione” ma, altresì, per poter avviare il
faticoso percorso della ricostruzione materiale ed economica.
Per
giungere a ciò i padri costituenti compresero che avrebbero dovuto formulare,
nel testo costituzionale, “i diritti inalienabili e imprescrittibili della
persona umana come presupposto e limite legale permanente all’esercizio di ogni
pubblico potere”, prima ancora che le parti relative ai rapporti civili,
economici e di ordinamento della Repubblica.
E
compresero (nonostante l’ultima lacerazione nel frattempo intervenuta con la
rottura del Patto di unità nazionale) che questo obiettivo generale si sarebbe
potuto raggiungere soltanto tramite lo strumento del compromesso, utilizzato
per mediare e comporre le diverse posizioni.
C’è
però compromesso e compromesso!
Nel
caso dei costituenti si trattò di un compromesso alto. Perché essi si sentirono
pienamente investiti del compito straordinario al quale venivano chiamati in
quel preciso frangente storico e lo affrontarono con un atteggiamento che non è
retorico definire sacrale. Come ebbe a dire uno di essi “La Costituzione è
veramente una cosa sacra. La
Costituzione è per il popolo la legge propria che lo
garantisce e lo tutela; è la legge che esso primieramente si dà e che
scaturisce dalla sua situazione storica, dalle sue esigenze morali e religiose
e da tutto quell’insieme che forma il popolo stesso. Noi dobbiamo dare a questa
Costituzione un prestigio di fronte al paese che la renda veramente sacra.”
La Costituzione della Repubblica
Italiana entrò in vigore il 1 gennaio 1948.
Se
torniamo ora a cercare di stabilire le connessioni rispetto a quello che è il
nostro argomento (cioè che cosa si voglia e si debba intendere per valore etico
della sicurezza sul lavoro), dobbiamo subito verificare il dettato
costituzionale nelle formulazioni dettate nei suoi “Principi Fondamentali” (articoli
da 1 a
12), e poi le parti in cui definisce i diritti e i doveri dei cittadini (articoli
da 13 a
54).
Articolo
1
“L’Italia
è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
La
sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione”.
Articolo
2
“La Repubblica riconosce e
garantisce i diritti inviolabili dell’uomo [...]”.
Articolo
3
“Tutti
i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge [...] E’
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale
che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono
il pieno sviluppo della persona umana [...]”.
Articolo
4
“La Repubblica riconosce a
tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano
effettivo questo diritto.
Ogni
cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria
scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o
spirituale della società”.
Articolo
32
“La Repubblica tutela la
salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività,
e garantisce cure gratuite agli indigenti [...]”.
Articolo
35
“La Repubblica tutela il
lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni e [...] cura la formazione e l’elevazione
professionale dei lavoratori”.
Articolo
37
“La
donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse
retribuzioni che spettano al lavoratore.
Le
condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale
funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata
protezione”.
Articolo
41
“L’iniziativa
economica è libera.
Non
può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Vediamo
dunque come la nostra Costituzione stabilisca qui (per quanto di interesse al
nostro ragionamento) alcuni diritti fondamentali e, in quanto tali,
inalienabili e garantiti (Articolo 2). Vale a dire, diritti cosiddetti indisponibili.
Essi
sono: il diritto alla salute (articoli 2, 32, 35, 37, 41), il diritto al lavoro
(articoli 1, 2, 4, 35, 37, 41), la pari dignità sociale di tutti i cittadini
(articoli 3, 4).
Non
è difficile notare quanto già accennato all’inizio rispetto alla nuova dignità
conquistata dal ruolo del lavoratore. Notare cioè come il complesso degli
articoli citati vada a reticolare una sorta di “combinato disposto” che
concorre a definire il principio, riconosciuto e garantito dalla Repubblica
Italiana su decisione del Legislatore costituzionale (articolo 2), ad avere un
lavoro che sia sano, sicuro e dignitoso.
La
stessa importantissima iniziativa economica/imprenditoriale è sottoposta al
limite di non potersi svolgere in contrasto con l’utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza e alla dignità del lavoratore (articolo 41). Sotto
questo aspetto, decisivo risulta quanto dettato dall’articolo 2087 del Codice Civile;
articolo ormai considerato universalmente come “norma di chiusura” rispetto
alla legislazione e alle politiche di prevenzione in materia di salute e sicurezza
sul lavoro.
Articolo
2087 - Tutela delle condizioni di lavoro
“L’imprenditore
è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la
particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare
l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Ma
il dettato costituzionale dice un’altra cosa ancora, anch’essa decisiva: dice
che non solo la salute (e dunque la salute e sicurezza sul lavoro) è un diritto
fondamentale dell’individuo ma che, nel contempo, essa è un interesse
fondamentale della collettività (articolo 32). Dunque la condizione di salute
del singolo lavoratore (come di qualunque cittadino) è un problema per tutta la
collettività e ha perciò diritto alla tutela più alta prevista dalla norma
superprimaria, la
Costituzione appunto.
E’
su queste fondamenta che nel decennio successivo alla entrata in vigore della
Costituzione si svilupperà una legislazione (molto avanzata per quel tempo) in
materia di prevenzione e protezione dei lavoratori nell’ambiente di lavoro (la
cosiddetta “legislazione tecnica” della metà degli anni ‘50) sotto forma
prevalentemente di D.P.R. (Decreto del Presidente della Repubblica).
Fondamentali
il D.P.R. 547/55 “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”, il D.P.R.
164/56 “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni”
e il D.P.R. 303/56 “Norme generali per l’igiene del lavoro”.
Caratteristica
di questo tipo di legislazione era quella di essere di tipo impositivo. Essa
imponeva cioè al datore di lavoro una serie puntuale di obblighi da rispettare
e/o di misure da adottare, ad esempio con riguardo alle protezioni nei
macchinari o all’igiene degli ambienti, la cui violazione costituiva violazione
di legge diversamente sanzionata, anche con sanzioni penali. Il lavoratore, per
suo conto, doveva limitarsi a ubbidire alle eventuali disposizioni impartite
dal datore di lavoro. E comunque a rispettare gli apprestamenti protettivi
adottati.
In
generale è da riconoscere che questo sistema di normative ha rappresentato, in
qualche misura, un elemento di protezione che ha mantenuto la sua validità
praticamente fino ai nostri giorni. L’abrogazione di quel sistema avverrà solo
con l’emanazione del D.Lgs.81/08 (ma consistenti tracce “tecniche” sono ancora
rinvenibili nei suoi Allegati).
Si
dovranno attendere circa 40 anni perché, con il Decreto Legislativo n.626 del
19 settembre 1994, questa logica venisse capovolta in positivo. Anche se, per
il vero, la Legge
300/70 (cosiddetto Statuto dei Lavoratori) col suo articolo 9 aveva in certa
misura prefigurato e anticipato la futura direttrice comunitaria.
Articolo
9 - Tutela della salute e dell’integrità fisica
I
lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione
delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e
di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure
idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.
Il
D.Lgs. 626/94 venne emanato in (tardo) come accoglimento della Direttiva della
Comunità Economica Europea n.391 del giugno 1989 “Direttiva del Consiglio
concernente l’attuazione di misure volte al miglioramento della sicurezza e
della salute dei lavoratori durante il lavoro”. La norma comunitaria obbliga
infatti gli Stati membri a recepire nelle rispettive legislazioni le Direttive
europee.
Naturalmente,
rispetto alle diverse materie, la Direttiva Comunitaria
si limita a dettare le condizioni generali minime e inderogabili rispetto alle
quali gli Stati membri sono chiamati al recepimento, adeguandole alle
normazioni nazionali. Senza dunque poter trascurare o stravolgere le
indicazioni generali dettate dalla Direttiva. Vale infatti il divieto espresso
all’abbassamento delle tutele.
Il
D.Lgs. 626/94 ha capovolto il modo di concepire la problematica della
prevenzione e protezione in materia di salute e sicurezza sul lavoro (avrebbe
anzi dovuto cambiarne radicalmente l’approccio).
Questa,
infatti, non è più relegata al solo rispetto, da parte del datore di lavoro, di
una serie di norme a carattere “tecnico” (e al conseguente obbligo di
disciplina da parte dei lavoratori) ma si espande a tutti gli attori (nuovi)
della prevenzione nei luoghi di lavoro e a tutti i rischi individuabili in ogni
specifica realtà.
Anzi
proprio questa “partecipazione equilibrata” (per usare il linguaggio della
Direttiva 89/391/CEE) è la condizione essenziale perché il sistema della
prevenzione possa operare correttamente.
Tra
le nuove figure previste dal D.Lgs. 626/94 si segnalano il Responsabile del
Servizio di Prevenzione e Protezione aziendale (RSPP), con il compito di
collaborare con il datore di lavoro nella valutazione dei rischi e nella
elaborazione del Documento di Valutazione dei Rischi e di coordinare il Servizio
di Prevenzione e Protezione nelle figure degli Addetti (ASPP); il Medico Competente
(MC), che partecipa alla valutazione dei rischi e provvede alla sorveglianza
sanitaria nei casi previsti dalla normativa vigente; il Rappresentante dei
Lavoratori per la Sicurezza
(RLS), il quale deve ricevere, a cura del datore di lavoro, una adeguata e
specifica formazione, venire consultato rispetto alla valutazione dei rischi e
ai programmi della prevenzione e che, più in generale, ha il compito di
verificare che le condizioni di tutela vengano adottate e costantemente
rispettate.
Per
la prima volta, il D.Lgs. 626\/94 prevede anche l’obbligo per il datore di
lavoro di fornire ai lavoratori una informazione e formazione sufficienti,
adeguate e non episodiche.
Nei
suoi circa 14 anni di vigenza, il D.Lgs. 626/94 (con le modifiche e
integrazioni successivamente intervenute sul testo originario) ha offerto
grandi possibilità per il miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
nei luoghi di lavoro e suscitato negli RLS sensibili aspettative in questo
senso.
Purtroppo,
pur riconoscendo al Decreto una funzione protettiva e (grazie all’apparato
sanzionatorio) deterrente rispetto alle ipotesi di violazione, pur riconoscendo
agli enti istituzionalmente preposti alla vigilanza (in primo luogo i Servizi
di Prevenzione delle ASL) un impegno significativo, ciò che è venuto a mancare
è stato proprio lo spirito collaborativo che informava la legge e, prima
ancora, la direttiva comunitaria, la quale rappresenta fonte primaria e
inderogabile.
In
via generale non è stata cioè superata, da parte delle imprese, la diffidenza
nel far partecipare i lavoratori e le loro rappresentanze alla organizzazione
della prevenzione; anche perché, non di rado, quest’ultima risultava ignorata,
o percepita come costo “non sostenibile” e inutile aggravio burocratico. (non
pare inutile richiamare, in questo contesto, l’inattuata previsione
costituzionale dell’articolo 46 secondo cui “Ai fini della elevazione economica
e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il
diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle
leggi, alla gestione delle aziende”).
A
ciò si aggiunga che, permanendo in vigore tutta la complessa decretazione degli
anni ‘50 e quella via via succedutasi, s’era venuta a determinare una sorta di “iperfetazione”
di leggi e regolamenti che rendevano la materia di difficile accessibilità e
interpretazione.
Il
problema che, a quest’altezza, si poneva al legislatore, era quello di accorpare,
armonizzandola e integrandola, una legislazione/normazione vasta e complessa;
per di più soggetta, a progressive rivisitazioni e modifiche.
Tale
problema, a dire il vero, era già stato posto dalla Legge di riforma sanitaria
del 1978 (la 833/78 “Istituzione del servizio sanitario nazionale”) nella parte
in cui sollecitava il legislatore a procedere ad un riassetto e a una
rivisitazione della materia.
A
partire da allora, si succedettero diverse prefigurazioni di “riforma” e una
proposta organica (ma scellerata) di Testo Unico che il governo del 2005 fu poi
costretto a ritirare, sostanzialmente in conseguenza della pronuncia
sfavorevole del Consiglio di Stato e del parere negativo delle Regioni.
Quella
esigenza, posta già dalla legge del 1978, venne finalmente risolta dal
legislatore del 2008 con l’emanazione del Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n.
81.
Il
D.Lgs. 81/08, che si presentava fattualmente come Testo Unico in materia di
salute e sicurezza sul lavoro pur non avendone qualificazione formale,
soddisfaceva alla delega formulata un anno prima dall’articolo 1 della Legge
123/07 “Misure in tema di salute e sicurezza e delega al Governo per il
riassetto e la riforma della normativa in materia”.
Articolo
1
“Il
Governo è delegato ad adottare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore
della presente legge, uno o più decreti legislativi per il riassetto e la
riforma delle disposizioni vigenti in materia di salute e sicurezza dei
lavoratori nei luoghi di lavoro [...]”.
Cosa
fa il D.Lgs. 81/08, modificato dal Decreto integrativo e correttivo n. 106 del
2009?
Esso
adempie al compito di rendere omogenea e aggiornata (rispetto alle Direttive
comunitarie, alla normazione tecnica internazionale e alla giurisprudenza
consolidata) tutta la materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Dunque anche abolendo grandissima parte della precedente legislazione di
riferimento o, per certa parte, incorporandola.
Non
è qui compito di addentrarci in specifiche valutazioni dei contenuti del Testo
Unico.
Nostro
compito è invece quello di individuare gli elementi di tali contenuti che
possano riconnetterci al ragionamento su che cosa debba intendersi per “valore
etico della sicurezza”.
Tali
elementi sono quelli che “riassumono” e richiamano il dettato (e lo spirito)
costituzionale, saldando (soprattutto) gli articoli 35 e 41 della Costituzione
con la norma generale stabilita dall’articolo 2087 del codice civile.
Richiamiamoli
brevemente:
-
la Repubblica tutela la salute
come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività;
-
l’iniziativa
economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da
recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana;
-
l’imprenditore
è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la
particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare
l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Ecco
dunque che l’articolo 15 del D.Lgs. 81/08 elencando diffusamente le misure di
tutela definisce il sovraordinato obbligo generale di sicurezza posto a carico
del datore di lavoro dall’articolo 2087 del Codice Civile. In primo luogo nei
confronti dei lavoratori; e però anche nei confronti di terzi (presenti sul
luogo di lavoro) e dell’ambiente esterno (si pensi solo ai danni da emissioni
nocive o da smaltimento di rifiuti tossici).
E
tuttavia anche il lavoratore è sottoposto all’obbligo di sicurezza: nei
confronti di sé stesso, come nei confronti dei colleghi di lavoro, come nei
confronti di terzi, ad esempio lavoratori di altre imprese che si trovino a
operare su quel luogo di lavoro, visitatori, clienti ecc. .
Ciò
proprio perché la salute, che è un bene indisponibile (cioè non riducibile, né
contrattabile) non rappresenta soltanto un diritto fondamentale dell’individuo
(si parla, giuridicamente, di diritto soggettivo perfetto) ma, nel contempo,
rappresenta un interesse altrettanto fondamentale per la collettività; basti
pensare agli altissimi costi umani, sociali ed economici degli infortuni e
delle malattie professionali.
E’
per questo che l’articolo 20 del Dlgs. 81/08 procede a definire gli obblighi
dei lavoratori, indicando nel primo comma l’obbligo generale:
Articolo
20, comma 1
“Ogni
lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella
delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti
delle sue azioni od omissioni, conformemente alla sua formazione, alle
istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”.
Vediamo
dunque come il cerchio del ragionamento vada a chiudersi.
Abbiamo
percorso e considerato, sia pure in modo estremamente sintetico, una “lunga
storia”.
E’
la nostra storia. Quella dei nostri padri e dei “padri” costituenti.
Storia
fatta dalle donne e dagli uomini di questa Repubblica (res publica) democratica
(démos cràtos), dalle loro intelligenze e dalla loro passione, per una società
progressiva.
Certamente
di faticoso avanzamento sociale, del tutto diverso dalle “magnifiche sorti e
progressive” della celebre critica leopardiana.
In
questo senso, dobbiamo intendere l’etica, sul piano socio-politico, come il
complesso delle leggi più nobili delle quali una società si dota per regolare
il proprio svolgimento.
E
invece, sul piano morale, essa deve intendersi (secondo le parole di Antigone
nella grande tragedia di Sofocle) come le “eterne leggi non scritte”.
Pietro
Ferrari
Commissione
salute e sicurezza sul lavoro – FILCAMS CGIL Brescia
AMIANTO, CONTINUA LA STRAGE DI LAVORATORI
Da
Il Pane e le Rose
19
Gennaio 2016
Amianto,
continua la strage di lavoratori.
4.000
mila morti ogni anno, mille morti solo per mesotelioma.
Articolo
pubblicato dalla rivista “Nuova Unità”, gennaio 2016
A
23 anni dalla messa al bando dell’amianto, con la Legge 257 del 1992, ci sono
in Italia ancora 32 milioni di tonnellate di amianto e le bonifiche sono
tuttora da fare. Chi sperava che dopo l’approvazione della legge, l’amianto
sarebbe stato rimosso dalle nostre vite deve ricredersi: la decontaminazione
dalla fibra è fallita.
A
oggi ci sono oltre 400 norme regionali e nazionali sull’amianto, un labirinto
legislativo che fa comodo a molti che per i propri interessi speculano sulla
vita delle persone.
Istituzioni,
padroni, governi, giocano scaricando le responsabilità su altri.
Il
profitto viene prima di qualsiasi diritto alla salute e alla sicurezza e si
realizza sulla pelle dei lavoratori e cittadini.
L’amianto
è un problema sociale, sanitario, medico, una bomba ecologica non ancora disinnescata,
che prima ha ucciso i lavoratori esposti alla fibra killer e oggi avvelena la
popolazione.
Nonostante
la Legge 257/92
che metteva al bando l’amianto lo preveda, a tutt’oggi manca una mappatura
completa dei siti contaminati da amianto e da bonificare e molto spesso le
mappature sono datate o inattendibili. L’articolo 10 della Legge 257/92
stabilisce che le regioni in mancanza di adozione dei Piani Regionali amianto,
possono essere commissariate, ma nonostante ciò diverse regioni non lo hanno
ancora adottato e molte non lo hanno ancora rinnovato (come Lombardia, Toscana
ed Emilia Romagna, ad esempio).
In
Italia come sempre fatta la legge si trova subito l’inganno. La legge ha
bandito l’utilizzo del minerale killer ma non ha obbligato lo smaltimento, e la
polvere d’amianto continua a uccidere almeno 8 italiani al giorno e avvelenarne
altre migliaia.
In
Italia esistono tuttora oltre 300 mila edifici (di cui almeno 3.000,
rappresentano un grave rischio di contaminazione per tutta la popolazione,
uomini, e donne, bambini e anziani, e più di 2.400 sono scuole italiane)
tuttora contaminati dall’amianto e come ha riconosciuto la presidente della
Commissione di Inchiesta sugli infortuni sul lavoro del Senato Camilla Fabbri, “di
questo passo ci vogliano 85 anni per smaltirlo e eliminarlo dalle nostre vite”.
Tutti
conosciamo la storia di Casale Monferrato grazie alle lotte condotte dagli ex
lavoratori dell’Eternit e dai cittadini, ma lo sviluppo industriale, il “progresso”
di questo paese si fonda sul sangue di decine di migliaia di proletari e i
cittadini, spesso dimenticati.
La
stessa Unione Europea nel quadro strategico per la sicurezza sul lavoro dal
2007 al 2011 afferma che anche se in Europa si assiste a una diminuzione degli
infortuni del 28%, i morti per amianto sono in continuo aumento.
Il
mesotelioma, il tipico tumore maligno continua a colpire e uccidere senza
pietà, in tutto il paese, dal nord al sud, ma l’amianto provoca anche molti
altri tumori maligni di cui si parla poco nei mass-media.
Secondo
recenti dichiarazioni del presidente di INAIL, Massimo De Felice, i lavoratori
vittime dell’asbesto decedute assicurate all’INAIL sono state 17.428 e oltre 21.000
i casi di mesotelioma tra il 1993 e il 2014.
I
numeri ci dicono che l’amianto continua a uccidere oggi come nel passato e
purtroppo senza bonifiche dei siti industriali e del territorio la lista dei
morti e malati continuerà a crescere ancora per molti anni. Tutti sono a
rischio, nessuno è esente dal pericolo.
Anche
nel tempio della musica, il Teatro della Scala di Milano (dove abbiamo
manifestato in occasione della prima) l’amianto ha fatto delle vittime, e per
le morti sospette per amianto alla Scala sono indagati quattro ex sindaci di
Milano, Carlo Tognoli, Gian Paolo Pillitteri, Giampiero Borghini e Marco
Formentini. Indagato anche l’ex sovrintendente Carlo Fontana indagati, con
altre persone, per omicidio colposo e lesioni colpose per sette decessi e altri
casi di malattia dovuti all’amianto presente al Teatro alla Scala.
In
questo le denunce dei lavoratori e comitati sono servite.
La
procura contesta agli indagati di non essersi adoperati per rimuovere in
passato l’amianto dai manufatti nei vari locali, soprattutto tecnici, ma anche
dal famoso lampadario all’interno del teatro. Per l’accusa non sarebbe stato
fatto il censimento dell’amianto previsto dalla legge del 1992, e il minerale
avrebbe provocando la morte dei lavoratori. Tra le persone morte per
esposizione alla sostanza cancerogena dagli anni ‘70-80, ci sono un siparista,
un macchinista, un vigile del fuoco, un falegname, un addetto al trasporto
delle scene e anche una cantante lirica. Questo dramma è solo uno dei tanti.
Anni
di omertà e complicità da parte di tutte le istituzioni hanno finora garantito
l’impunità a padroni e manager colpevoli di aver mandato consapevolmente a
morte migliaia di lavoratori nelle fabbriche pur di realizzare i massimi
profitti. In questi anni molti processi sono stati esempi d’ingiustizia per le
vittime e i loro famigliari assolvendo i padroni nel merito o per prescrizione.
In ogni caso la mobilitazione dei lavoratori e delle vittime organizzate in
comitati è servita per portare sul banco degli accusati i padroni e manager
assassini di tanti operai. Anche se la giustizia per le vittime dell’amianto
non arriva quasi mai e quando arriva è tardiva come dimostra il processo
Eternit di Casale Monferrato, le vittime, i comitati e le associazioni
continuano a lottare: oggi in Italia sono in corso più di 50 processi per
amianto.
Michele
Michelino
Presidente
del “Comitato per la Difesa
della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio”
IL MOBBING: GUIDA
GIURIDICA
Da
Studio Cataldi
18
gennaio 2016
COSA
E’ IL MOBBING
Con
il termine “mobbing” si fa riferimento, in generale, all’insieme dei
comportamenti che tendono a emarginare un soggetto dalla società di cui esso fa
parte, tramite violenza psichica protratta nel tempo e in grado di causare seri
danni alla vittima.
Non
esiste un criterio specifico per individuare tali atti, nei quali rientra
quindi ogni forma di angheria perpetrata da una o più persone nei confronti
dell’individuo più debole: ostracismo, umiliazioni pubbliche e diffusione di
notizie non veritierie.
ETIMOLOGIA
DEL TERMINE
La
parola mobbing è stata coniata ufficialmente da un etologo austriaco, Konrad
Lorenz.
Il
significato iniziale si riferiva, infatti, a tutti quegli atteggiamenti animali
perpetrati da uno o più membri di un gruppo nei confronti di quello che
potrebbe essere definito come l’anello debole dell’insieme, al fine di
estraniare il soggetto dal resto branco e allontanarlo.
Più
specificamente, il termine mobbing non è altro che una forma di gerundio
sostantivato del verbo “to mob”, coniato, nella lingua inglese, nel corso del
XVII secolo e diretto derivato di una comune espressione latina, mobile vulgus,
con la quale ci si riferiva ai folti gruppi tipici di una parata o di un evento
locale, che avevano la cattiva abitudine di muoversi in modo disordinato
seminando il caos nei dintorni.
Con
il termine “to mob”, in sostanza, si intende letteralmente: accalcarsi intorno
a qualcuno, affollarsi, assalire tumultuando.
Oggi,
tuttavia, l’accezione del termine si è sviluppata sino ad indicare, in
generale, le persecuzioni psicologiche perpetrate da parte di uno o più
individui nei confronti di un altro, nel contesto lavorativo e non solo.
RILEVANZA
GIURIDICA
Come
accennato, dunque, oggi con il termine mobbing si intende quella forma di
terrore psicologico, esercitato, con modalità e tempistiche ben precise, in
danno di un collega di lavoro, di un subordinato, di un individuo più debole,
con il chiaro intento di danneggiarlo ed emarginarlo.
Affinché
il mobbing assuma rilevanza sul piano giuridico è più in particolare necessario
che il terrore psicologico si estrinsechi in comportamenti aggressivi e
vessatori, che si protraggano nel tempo in maniera ripetitiva, regolare e
frequente.
MOBBING
E LAVORO
Il
contesto principale con riferimento al quale si è iniziato a far riferimento al
mobbing come a un comportamento illecito, giuridicamente rilevante, è quello
lavorativo.
In
tal contesto, sostanzialmente, il mobbing si estrinseca in tutti quei
comportamenti che il datore di lavoro o i colleghi pongono in essere, per
svariate ragioni, al fine di emarginare e allontanare un determinato
lavoratore.
Da
tale definizione è possibile far discendere una prima forma di classificazione
del mobbing: quella che distingue il mobbing verticale dal mobbing orizzontale.
Il
mobbing verticale (o bossing) è la classica forma nella quale si estrinseca il
mobbing e consiste negli abusi e nelle vessazioni perpetrati ai danni di uno o
più dipendenti da un loro diretto superiore gerarchico. In questi casi le
possibilità di ribellarsi a tali atteggiamenti sono spesso molto limitate e di
non facile attuazione, in ragione dei rapporti di forza sbilanciati tra mobber
e mobbizzato.
Per
mobbing orizzontale, invece, si intende l’insieme di atti persecutori messi in
atto da uno o più colleghi nei confronti di un altro, spesso finalizzati a
screditare la reputazione di un lavoratore mettendo in crisi la sua posizione
lavorativa. Si tratta di comportamenti difficili da fronteggiare e denunciare
soprattutto se attuati da un gruppo.
Per
quanto esse siano del tutto inusuali, talvolta possono comunque verificarsi
anche ipotesi di mobbing dal basso o low mobbing.
Si
tratta di una serie di azioni che mirano a ledere la reputazione delle figure
di spicco aziendali, magari a seguito di un loro comportamento ritenuto non
idoneo da parte di un buon numero di dipendenti oppure per motivi semplici
quanto futili, come antipatia o invidia per il potere mostrato o per la
posizione raggiunta.
E’
una situazione che, ad esempio, può verificarsi in ipotesi di crisi economica
aziendale. In questi casi, infatti, non è raro che la figura del capo sia
considerata alla base della crisi e di ogni altra problematica come
disorganizzazione, cattiva reputazione dell’azienda, incapacità di essere
competitivi.
IN
PARTICOLARE: IL BOSSING
Tra
le diverse tipologie di mobbing che possono estrinsecarsi nel mondo del lavoro,
di certo quella più diffusa è il bossing.
Su
di esso, quindi, è il caso di soffermarsi qualche riga in più.
Innanzitutto
occorre chiarire che questa pratica combina, in maniera premeditata, azioni a
scopo intimidatorio con veri e propri atti di violenza psico-fisica e di
esclusione dai privilegi aziendali solitamente riservati in forma equa ai vari
dipendenti.
Tali
provvedimenti riguardano spesso l’assegnazione d’incarichi lavorativi specifici,
l’esclusione dai meeting del personale dipendente e il tenere nascoste solo ad
alcuni dipendenti le informazioni che usualmente vengono diffuse tra tutti.
Tra
gli altri atteggiamenti che caratterizzano il comportamento mobbizzante vi è
poi, ad esempio, il fenomeno del ridimensionamento di ruolo nella comunità
aziendale, che vede brillanti dipendenti (ritenuti potenzialmente pericolosi
per lo status di alcuni alti membri del comitato direttivo a rischio)
incaricati di mansioni di poco conto, come quella di fare fotocopie o gestire
la posta di altri dipendenti di pari rango, che li demotivano e limitano l’espressione
delle proprie capacità e conoscenze.
L’intento
è quello di creare nella vittima, per varie ragioni, un senso di emarginazione
e di cagionarle frustrazione e un’ansia sempre crescente e spesso
insopportabile.
CAUSE
ALLA BASE DEL MOBBING
Se
i comportamenti individuati come mobbing hanno assunto rilevanza nei vari
ordinamenti giuridici principalmente in relazione agli ambienti di lavoro, ciò
è derivato dalle particolari caratteristiche che connotano il relativo ramo del
diritto.
Il
mobbing, non a caso, riguarda spesso grandi aziende, le quali lo utilizzano per
aggirare la normativa a tutela dei licenziamenti cagionando nel lavoratore “sgradito”
una condizione di stress psico-fisico, idonea a determinarlo ad abbandonare di
sua “spontanea volontà” il luogo di lavoro.
Tuttavia
le motivazioni che possono celarsi dietro gli atti mobbizzanti sono molteplici.
Talvolta,
ad esempio, l’intento dei mobber è quello di riversare su un “capro espiatorio”
alcune problematiche interne di vario genere.
Altre
volte il mobbing è dettato da motivazioni di carattere strettamente personale.
Esso
può anche essere la conseguenza del rifiuto, da parte della vittima, delle avances
del superiore o del collega poi divenuto mobber.
Da
tutto ciò emerge chiaramente che le conseguenze dannose del mobbing non sono
necessariamente connesse alla perdita del posto di lavoro che esso può
illecitamente e indirettamente cagionare. Essere vittima di ripetute
vessazioni, attacchi e umiliazioni può, infatti, indurre nel lavoratore paure e
insicurezze, idonee ad incidere in maniera anche rilevante sulla sua salute
psico-fisica.
MOBBING
SOCIALE
Sino
ad ora, nel parlare di mobbing si è fatto riferimento esclusivo al mondo del
lavoro.
Tuttavia,
nonostante questo sia il contesto in cui il fenomeno assume la rilevanza
maggiore, il mobbing riguarda anche altri contesti.
Un
individuo, infatti, può essere “preso di mira” e può divenire vittima di ripetute
vessazioni in qualsiasi contesto sociale.
Ciò
accade, ad esempio, all’interno dell’ambiente scolastico, in cui i ragazzi
possono divenire vittime del mobbing operato sia da altri studenti che dagli
insegnanti.
Si
pensi ai casi di disapprovazione infondata di alcune abitudini o idee dello
studente o, ancora peggio, ai casi di pregiudizio nei suoi confronti derivante
dalle origini, dalle tradizioni o dalla diversa etnia.
Anche
nel caso di “mobbing scolastico” non sono da sottovalutare, seppur rari, i casi
di mobbing dal basso che riguardano gruppi coalizzati di studenti che mirano a
ledere le capacità organizzative e di dialogo di uno o più insegnanti ritenuti
particolarmente deboli.
Un
altro contesto sociale in cui il mobbing può estrinsecarsi è quello familiare.
Esso,
ad esempio, riguarda i casi in cui un coniuge vuole ottenere il monopolio delle
attenzioni della prole e, a tal fine, cerca di estromettere il partner dalle
questioni familiari.
E’
chiaro che questo tipo di mobbing è nocivo non solo della stabilità del nucleo
familiare e della salute della vittima diretta ma anche di quella dei figli e
di tutto il nucleo familiare.
TUTELA
GIURIDICA CONTRO IL MOBBING
Nel
nostro ordinamento possono rinvenirsi diverse norme che permettono alle vittime
di tutelarsi rispetto a fenomeni di mobbing.
LA COSTITUZIONE
La
prima fondamentale tutela può essere rinvenuta nella Costituzione.
La
carta fondamentale del nostro ordinamento, infatti, all’articolo 32 riconosce e
tutela la salute come un diritto fondamentale dell’uomo, all’articolo 35 tutela
il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni e all’articolo 41 vieta lo
svolgimento delle attività economiche private che possano arrecare danno alla
sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
IL
CODICE CIVILE E LE LEGGI SPECIALI
Spostandoci
dal piano dei principi a quello pratico, nel nostro codice civile è possibile
rinvenire due fondamentali norme in grado di aiutare le vittime di
comportamenti mobbizzanti a trovare tutela rispetto alle lesioni subite.
Si
tratta, innanzitutto, dell’articolo 2043 che prevede l’obbligo di risarcimento
in capo a chiunque cagioni ad altri un danno ingiusto con qualunque fatto
doloso o colposo.
Si
tratta poi dell’articolo 2087 che impone all’imprenditore di adottare tutte le
misure idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale di
lavoratori.
Con
riferimento alle leggi speciali, una tutela contro comportamenti mobbizzanti
può essere ravvisata innanzitutto nello Statuto dei lavoratori, nella parte in
cui pone una specifica procedura per le contestazioni disciplinari a carico dei
lavoratori e laddove punisce i comportamenti discriminatori del datore di
lavoro.
Un’ulteriore
tutela, di carattere più generale, è ravvisabile, infine, nel Testo unico in
materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
IL
CODICE PENALE
Il
mobbing, nel nostro ordinamento può talvolta assumere rilevanza anche da un
punto di vista penale, sebbene non esista una specifica figura di reato.
I
comportamenti mobbizzanti, infatti, a determinate condizioni possono cagionare
delle conseguenze riconducibili al reato di lesioni personali di cui all’articolo
590 del codice penale.
TUTELA
CIVILISTICA
Le
vittime di mobbing, quindi, trovano la loro principale fonte di tutela nella
possibilità di esperire i tradizionali rimedi civilistici offerti dal nostro
ordinamento.
Esse
potranno insomma citare in giudizio il loro mobber nelle forme del rito
ordinario al fine di vederne accertata la responsabilità per il danno che hanno
cagionato nei loro confronti, ovverosia non solo il danno biologico ma anche il
danno morale.
ONERE
DELLA PROVA
Affinché
possa essere risarcito del danno subito, tuttavia, è necessario che il
mobbizzato fornisca una prova precisa e adeguata del mobbing.
Innanzitutto
egli dovrà provare che, nei suoi confronti, è stata perpetrata una serie di
comportamenti persecutori, con intento vessatorio.
Costituiscono
esempi di tali comportamenti, si ricorda, le critiche continue e immotivate, la
dequalificazione, l’emarginazione, le molestie.
Il
mobbizzato dovrà provare, poi, che tali comportamenti non sono sfociati in un
unico, isolato, evento, ma sono stati reiterati lungo un arco temporale
medio-lungo, ovverosia per un periodo di tempo tale da rendere invivibile il
contesto di riferimento.
Un’ulteriore
fondamentale prova da fornire è quella relativa al danno subito. Essa potrà
essere data con dichiarazioni testimoniali e, ancor più efficacemente, con
perizie e certificati medici che attestino lo stato di depressione e
frustrazione.
Infine,
ed è questa la prova più delicata da fornire, dovrà essere accertato lo stretto
rapporto causale tra la condotta denunciata e il danno subito.
MASSIME
DELLA CASSAZIONE
Cassazione
Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 13693 del 03/07/15
“Il
lavoratore vittima di mobbing non è tenuto a dimostrare la colpa del datore di
lavoro ma è sempre tenuto a dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche
le regole di condotta che assume siano state violate”.
Cassazione
Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 11547 del 04/06/15
“Ai
fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono,
pertanto, rilevanti:
-
la
molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche
leciti se considerati singolarmente, che siano posti in essere in modo
miratamene sistematico e prolungato contro il dipendente con intento
vessatorio;
-
l’evento
lesivo della salute o della personalità del dipendente;
-
il
nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il
pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
-
la
prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio”.
Cassazione
Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 10037 del 15/05/15
“Il
fatto che le condotte persecutorie integranti la fattispecie di mobbing sino
opera di un altro dipendente, superiore gerarchico della vittima, non esclude
la responsabilità del datore di lavoro se questi è rimasto colpevolmente inerte
alla rimozione del fatto lesivo. Nella specie la durata e le modalità con cui è
stata posta in essere la condotta mobbizzante, quale risulta anche dalle prove
testimoniali, sono tali da far ritenere la sua conoscenza anche da parte del
datore di lavoro, nonché organo politico, che l’ha comunque tollerata”.
Cassazione
Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 1258 del 23/01/15
“Ai
fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ravvisarsi da parte
del datore di lavoro comportamenti, anche protratti nel tempo, rivelatori (in
modo inequivoco, di un’esplicita volontà di quest’ultimo di emarginazione del
dipendente, occorrendo, pertanto dedurre e provare la ricorrenza di una
pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte dirette (oggettivamente)
all’espulsione dal contesto lavorativo, o comunque connotate da un alto tasso
di vessatori età e prevaricazione, nonché sorrette (soggettivamente) da un
intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall’unico fine
intenzionale di isolare il dipendente”.
Cassazione
Civile Sezione Lavoro Sentenza n. 1262 del 23/01/2015
“Per
potersi parlare di mobbing è necessaria una pluralità di condotte ostili,
protrattesi nel tempo, tese ad emarginare il singolo lavoratore. Per l’esattezza,
secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte affinché sia configurabile un
mobbing devono ricorrere:
-
una
serie di comportamenti di carattere persecutorio (illeciti o anche leciti se
considerati singolarmente) che, con intento vessatorio, siano posti in essere
contro la vittima in modo sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da
parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri
dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
-
l’evento
lesivo della salute, della personalità e/o della dignità del dipendente;
-
il
nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla
vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
-
l’elemento
soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti
lesivi”.
IL RISCHIO CHIMICO
E LA RELAZIONE SULLA
SICUREZZA CHIMICA
Da:
PuntoSicuro
05
gennaio 2016
di
Tiziano Menduto
Un
intervento si sofferma sui regolamenti europei REACH e CLP in materia di
sostanze chimiche. Focus sulla relazione sulla sicurezza chimica (CSR), sulla
valutazione della sicurezza chimica (CSA) e sugli obblighi dell’utilizzatore a
valle.
Proprio
per la complessità della disciplina europea relativa alla sicurezza delle
sostanze chimiche e, più in generale, della tutela dal rischio chimico nei
luoghi di lavoro, torniamo spesso a presentare documenti in grado di
approfondire e chiarire eventuali dubbi su questo tema.
Proprio
sul rischio chimico si sono soffermati alcuni interventi ad un recente Convegno
che si è tenuto a Imola il 3 novembre 2015 nell’ambito delle Settimane della
Sicurezza 2015 organizzate dall’ Associazione Tavolo 81 Imola.
Stiamo
parlando del convegno “Rischio chimico e amianto: facciamo il punto” in cui è
stato possibile fornire alle aziende un quadro sul tema delle sostanze chimiche
e materie prime, prodotti o semplicemente sostanze usate per il funzionamento
di macchinari o processi dal punto di vista dei Regolamenti europei, della
tutela dei lavoratori e con riferimento particolare agli ambienti sospetti di
inquinamento e alla normativa correlata (D.Lgs.177/11).
Possiamo
avere alcune indicazioni sul regolamento REACH e sul regolamento CLP (ricordando
che dal primo giugno 2015 è diventato obbligatorio seguire il Regolamento CLP
nella classificazione delle miscele) attraverso uno degli atti pubblicati sul
proprio sito dall’Associazione Tavolo 81 Imola e relativo a un intervento di
Bruno Marchesini (Chem-Consulting) sulle “Novità in materia di gestione dei
prodotti chimici”.
Nell’intervento
vengono presentati diversi aspetti sia del Regolamento 1907/06 (REACH) che del
Regolamento 1272/08 (CLP).
Ad
esempio si ricorda che il Regolamento REACH si basa sul principio che ai
fabbricanti, agli importatori e agli utilizzatori a valle spetta l’obbligo di
fabbricare, immettere sul mercato o utilizzare sostanze che non arrecano danno
alla salute umana o all’ambiente.
In
breve gli elementi chiave del Regolamento REACH sono:
-
registrazione:
le sostanze fabbricate e importate nello SEE vengono registrate presso l’ECHA;
l’informazione sull’uso sicuro vengono comunicate nella catena di
approvvigionamento;
-
valutazione:
esame delle proposte di test del registrante; verifica di conformità dei
dossier, valutazione delle sostanze;
-
gestione
del rischio: autorizzazione; restrizione; classificazione armonizzata.
L’intervento
ricorda che, fatto salvo l’articolo 4 della Direttiva 98/24/CE (articolo 223 del
D.Lgs.81/08), va effettuata una valutazione della sicurezza chimica e va
compilata una relazione sulla sicurezza chimica per tutte le sostanze soggette
a registrazione in forza del presente capo in quantitativi pari o superiori a
10 tonnellate all’anno per dichiarante.
Attenzione
che, come già accennato, tale valutazione del rischio che deriva dagli obblighi
del Regolamento REACH non è sostitutiva di quella che deve essere attuata ai
sensi del D.Lgs.81/08.
La
relazione sulla sicurezza chimica include dunque anche la valutazione della
sicurezza chimica che deve contenere:
-
valutazione
dei pericoli per la salute umana;
-
valutazione
dei pericoli per la salute umana dovuti alle proprietà fisico-chimiche;
-
valutazione
dei pericoli per l’ambiente;
-
valutazione PBT
(Persistent, Bioaccumulative and Toxic) e VPVB (Very Persistent, Very Bioaccumulative).
La
sostanza deve dunque essere valutata ancor prima di arrivare nell’ambiente di
lavoro. E nel caso in cui si identifichi un pericolo (sostanza classificata
pericolosa oppure PBT o VPVB), si deve procedere anche con:
-
l’individuazione
degli scenari di esposizione e la relativa valutazione dell’esposizione;
-
la
caratterizzazione del rischio.
E
gli scenari di esposizione, valutazione e caratterizzazione dei rischi tengono
conto di tutti gli usi identificati.
In
definitiva la relazione sulla sicurezza chimica indica le misure di gestione
del rischio che devono essere adottate. Tali misure, se del caso, devono essere
indicate nelle Schede di Dati di Sicurezza (SDS).
Senza
dimenticare che (come indicato dall’ Helpdesk Reach) l’utilizzatore a valle (persona
fisica o giuridica diversa dal fabbricante e dall’importatore che utilizza una
sostanza, in quanto tale o in quanto componente di una miscela, nell’esercizio
delle sue attività industriali o professionali) deve:
-
informare
il proprio fornitore su un uso quando la sostanza non è ancora registrata;
-
informare
il proprio fornitore su un uso non contemplato nella SDS della sostanza registrata;
-
intraprendere
azioni appropriate quando si riceve una SDS (individuare e mettere in atto
misure adeguate per controllare i rischi derivanti dall’uso della particolare
sostanza; comunicare al fornitore se le misure di gestione del rischio sono inadeguate
o si rendano note nuove informazioni sui pericoli di una sostanza; verificare
se gli scenari di esposizione allegati alla SDS coprano l’uso della sostanza e
le condizioni d’uso e se l’uso non è coperto informare il fornitore);
-
comunicare
informazioni riguardanti l’uso sicuro ai propri clienti mediante fornitura
della propria SDS;
-
preparare
una relazione sulla sicurezza chimica dell’utilizzatore a valle se il proprio
uso non è coperto dalla SDS fornita.
La
relazione ricorda poi in particolare che se l’utilizzatore finale utilizza la
sostanza al di fuori dello scenario descritto dal suo fornitore e preferisce
che tali utilizzi rimangono sconosciuti al fornitore, deve provvedere in
proprio a redigere una relazione sulla sicurezza chimica (in questo caso la
soglia quantitativa è di 1 ton/anno).
Tale
obbligo decade se:
-
si
tratta di una sostanza non pericolosa;
-
si
tratta di casi in cui il produttore o importatore non deve eseguire la
valutazione della sicurezza chimica (esenzioni);
-
si
usa la sostanza o il preparato in quantitativi totali inferiori a 1 tonnellata
all’anno;
-
se
la sostanza è contenuta in un preparato a concentrazione inferiore a limiti
definiti;
-
si
usano misure di gestione del rischio più rigide di quelle raccomandate dal
produttore/importatore;
-
se
l’uso è nell’ambito delle attività di ricerca e sviluppo orientate ai prodotti
e ai processi e il rischio è adeguatamente controllato.
Concludiamo
ricordando che, a proposito degli obblighi degli utilizzatori finali la “Guida
per gli utilizzatori a valle” fornisce suggerimenti per verificare se gli usi e
le condizioni d’uso di una sostanza chimica sono coperti dagli scenari di
esposizione delineati dai fornitori con la scheda di sicurezza. E la guida
fornisce una panoramica dei principali compiti degli utilizzatori a valle per
quanto riguarda gli scenari di esposizione in ambito REACH.
Il
documento “Le novità in materia di gestione dei prodotti chimici”, a cura di
Bruno Marchesini è scaricabile all’indirizzo:
Il
Regolamento (CE) n.1907/06 concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione
e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH) è scaricabile all’indirizzo:
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