Con
profondo dolore annunciamo che il compagno Bepo (nella foto) con cui
abbiamo combattuto tante battaglie ci ha lasciato. Riportiamo il
saluto delle compagne e dei compagni di Bassano del Grappa facendolo
nostro.
Per
il Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel
Territorio, Michele Michelino.
Giovedì 30 abbiamo salutato Bepo all’obitorio dell’ospedale di
Castelfranco Veneto.
Oltre a noi, una decina, c’erano parecchie persone. La loro età
era piuttosto avanzata, ma abbiamo visto anche bambini e giovani.
Persone che non conoscevamo, molti di Castel di Godego, il suo paese,
parenti, amici….
Il nostro obiettivo era di salutarlo nel modo migliore, da compagni,
mettendo una bandiera rossa con falce e martello sulla bara,
dedicandogli un breve ricordo. Ma avrebbe capito quella gente cosa
intendevamo, o meglio chi era Bepo per noi? Dovevamo spiegarlo.
Proprio quella bandiera poteva aiutarci a spiegare: quei simboli,
falce e martello, a rappresentare il riscatto operaio dalla fatica e
dallo sfruttamento sul lavoro. Lui con quei simboli aveva molto a che
fare. Da quando lo abbiamo conosciuto, all’inizio degli ’80,
qualcuno di noi, da subito, lo battezzò: era Bepo “l’operaio”.
Niente da dire, un soggetto difficile, del quale si narravano le
epiche gesta di pugni e sbronze. Se I primi, potenzialmente
letali, diventavano ricordo, le seconde erano attualissime e
frequenti. Beveva, e avrebbe sempre bevuto. Ma questo è un tema che
riprenderemo. Di mestiere faceva il tubista: una specie di idraulico,
saldatore per grandi impianti industriali, con un curriculum di tutto
rispetto. Il Superphenix, di Cray-Melville, in Francia, la centrale
più potente dell’epoca, e le centrali, pure nucleari, di Montalto
di Castro e Caorso, il petrolchimico di Marghera, raffinerie di mezzo
mondo, nelle sue amate Russie, come nei Paesi Arabi, in Libia,
com’era capitato, a mettere in sicurezza i pozzi di estrazione del
petrolio, poco prima dei bombardamenti Nato, o dove capitava. Lo si
vedeva poco, era spesso all’estero. Negli intervalli tra questi
lavori, era sempre con noi; alla Riva, l’osteria, ritrovo
dell’epoca, e poi allo Stella Rossa, il centro sociale occupato, e
soprattutto davanti ai tribunali a difendere la causa degli operai
morti di cromo esavalente alla Tricom (non mancò ad una sola
udienza), e nelle manifestazioni, quelle che lui sentiva come sue,
quelle operaie, con i compagni di Sesto, i nostri compagni, come gli
piaceva dire, ma anche antifasciste, lui che andava giustamente fiero
del babbo, con quelli di Masaccio, il capo partigiano.
Questo della
lotta partigiana era un altro dei suoi marchi di fabbrica, che curò
negli anni, attraverso una lettura assidua di testi storici sulla
Resistenza, soprattutto locale, che si sciroppava senza paura per lo
spessore in cm del testo. Insomma, operaio e antifascista. Due
circostanze di base per la sua immedesimazione nella classe, quella
operaia e storica, fosse a Reggio Emilia o a Sesto S. Giovanni.
L’istinto proletario e antifascista innato e l’amore per i suoi
simboli, il rosso della Bandiera e dell’URSS, formavano il suo
comunismo. Niente di teorico o di spessore politico, come si dice,
no, ma tutto cuore ed esperienza vissuta. Quella del lavoro nei
cantieri, a saldare e sudare. Con sempre più evidenti i segni di
quel lavoro e dell’usura che comportava e dell’alcol col quale
sosteneva quella fatica, che era anche fatica di vivere. Ora ci
dicono che la classe operaia non c’è più. Siamo nell’epoca del
digitale, dobbiamo aggiornarci, insistono. Saremo tutti imprenditori
di noi stessi, e giù a parlare di lavoro e lavoro e lavoro. Ma di
lavoratori mai. Sembra che il lavoro si produca da solo, che le merci
appaiano all’improvviso e misteriosamente nelle nostre case. Ciò
che ha valore è la merce, non chi la produce, la cui attività non
ha alcun significato. Il senso del lavoro, dicono, lo trova solo il
padrone, che non a caso si chiama anche datore di lavoro. I
lavoratori in quanto tali sono fantasmi che possono apparire solo per
svolgere la loro funzione, il lavoro. Bella roba! E come si traduce?
Semplice: l’unico diritto riconosciuto è quello al profitto, del
padrone. Gli operai, i lavoratori, la forza-lavoro può anche
schiattare ed infatti è quello che succede sempre più spesso. Non
altrove, da qualche parte nei paesi del terzo mondo. No, qui, in
questa terra che scompare sommersa dal cemento a livelli da primato.
Dove le condizioni del lavoro generano infortuni e malattie
professionali, morti sul lavoro, in quantità record. E niente e
nessuno ci potrà distogliere dall’idea, dal chiodo fisso che Bepo
sia stato uno di loro e che ne fosse perfettamente cosciente. Certo
di malattie ne aveva, l’usura lo aveva consumato. I padroni lo
prosciugavano di energie, lui compensava col rosso. Si tirava dietro
la sua cirrosi, come le gambe sempre più stanche. Però, alla fine,
ad ammazzarlo è stato un tumore ai polmoni: preso come? dove?
Quando? Non era un fumatore, circostanza che i padroni agitano per
dimostrare la loro innocenza, quando sono chiamati in giudizio, ogni
qualvolta degli operai muoiono di amianto, cromo esavalente, cvm. O
schiacciati da una pressa. Niente ci impedisce di credere e di dire
che lui è morto di malattia professionale, contratta nel luogo di
lavoro, come tanti suoi colleghi che l’hanno preceduto, una
malattia che non farà testo, che non rientrerà nella casistica
nazionale, come per tanti altri operai. Si sa, i padroni, gli
imprenditori, i datori di lavoro o come vogliamo chiamarli, non sono
mai responsabili e, se lo sono, dura poco, basta aspettare la
prescrizione. Questa è la legge ferrea dei nostri tribunali. Ecco, a
noi bastava dire questo, cogliere anche questa occasione per la
nostra denuncia contro il sistema capitalista, il potere dei padroni,
corrotti e assassini, nocivi allo stesso modo per gli uomini e
l’ambiente. Lui sarebbe stato sicuramente d’accordo. Dopo di noi
hanno parlato due signore, una barista e sua cugina, che lo
conoscevano bene. Ne hanno parlato come di una persona buona e mite,
premurosa e amica, che mai aveva dato loro un qualsiasi problema. Ne
hanno parlato in modo semplice e diretto, ci siamo sentiti in
sintonia e i dubbi che avevamo nutrito all’inizio per la possibile
incomprensione delle nostre parole si sono sciolti. Eravamo a casa.
Ciao compagno. Ci mancheranno il tuo baffo cattivo e i tuoi racconti
di cantiere e di officina. Il tuo repertorio di battute glaciali non
ci mancherà, no, quello lo portiamo inciso nella corteccia
cerebrale, resterà nei secoli. Ci conforta la certezza di essere
riusciti a farti bere, almeno un’unica volta, un bicchiere di acqua
minerale.
Compagne e compagni di Bassano
2 settembre 2018
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