lunedì 20 febbraio 2017

18 febbraio - da M. Spezia: SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! “LETTERE DAL FRONTE” DEL 17/02/17



INDICE

COORDINAMENTO AUTORGANIZZATO TRASPORTI: VIAREGGIO GIUSTIZIA DI PRIMO GRADO

Clash City Workers cityworkers@gmail.com

SCRIVERE LA CULTURA OPERAIA: IL LAVORO DI SISIFO



Clash City Workers cityworkers@gmail.com
WELFARE AZIENDALE: LA FINE DELLO “STATO SOCIALE” A DANNO DEL TUO SALARIO!

LA LOTTA DEI DISOCCUPATI CONTRO LA MISERIA E LA DIVISIONE DI CLASSE

NotizieInMARCIA ! redazione@ancorainmarcia.it
STRAGE DI VIAREGGIO, IN DETTAGLIO LE CONDANNE, LE ASSOLUZIONI E IL NEO DELLA SENTENZA

Carlo Soricelli carlo.soricelli@gmail.com
FINALMENTE TANTI MORTI SUL LAVORO RESUSCITANO (ALMENO PER LE STATISTICHE)

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Invio a seguire e/o in allegato le “Lettere dal fronte”, cioè una raccolta di mail o messaggi in rete che, tra i tanti che ricevo, hanno come tema comune la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e dei cittadini e la tutela del diritto e della dignità del lavoro.
Il mio vuole essere un contributo a diffondere commenti, iniziative, appelli relativamente ai temi del diritto a un lavoro dignitoso, sicuro e salubre.
Invito tutti i compagni e gli amici della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

Marco Spezia
ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro
Progetto “Sicurezza sul lavoro: Know Your Rights!”
Medicina Democratica - Movimento di lotta per la salute onlus

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From: Maria Nanni mariananni1@gmail.com
To:
Sent: Tuesday, February 07, 2017 12:16 AM
Subject: COORDINAMENTO AUTORGANIZZATO TRASPORTI: VIAREGGIO GIUSTIZIA DI PRIMO GRADO

COMUNICATO STAMPA
Dopo 7 anni e 7 mesi, il 31 gennaio, la sentenza di 1° grado del processo sulla strage di Viareggio.
Il 29 giugno 2009 l’asse di un carrello di un treno merci trasportante GPL si rompe all’entrata della stazione di Viareggio, esplodendo e incendiando tutto quello che il fuoco ha incontrato.
Sul suo cammino, purtroppo, c’erano 32 persone ignare di quanto stava accadendo. Strappate alla vita nella sicurezza delle loro case o per le strada che costeggiano la ferrovia. Vite e famiglie spezzate nel posto in cui ognuno si sente più al sicuro.
Ed è proprio la sicurezza, quella del trasporto merci ferroviario, che è stata messa per questi lunghi anni sul banco degli imputati. La sicurezza che rappresenta un diritto inalienabile del lavoratore e ancor prima dell’essere umano. Perché mai, come in questo caso, è evidente quanto le lotte per la sicurezza nei luoghi di lavoro siano non solo legate ai lavoratori ma rappresentino un bene per tutta la società.
Ma sul banco degli imputati insieme all’astratta sicurezza vi erano persone in carne ed ossa, vertici del gruppo FS, che dopo oltre 140 udienze e 250.000 carte prodotte durante il dibattimento, perizie e controperizie, sono stati considerati colpevoli, a vario titolo, di aver deliberatamente messo in secondo piano il diritto primario della sicurezza a vantaggio del profitto.
Il grande assente in questo processo è lo Stato che ha accettato i risarcimenti delle assicurazioni. L’assenza non è stata totale, ma quando è intervenuto lo ha fatto a beneficio del più forte e non delle vittime. Uno Stato che ha permesso che il principale indagato, poi condannato il 31 gennaio a 7 anni, potesse continuare a ricoprire i suoi incarichi nel gruppo FS, per poi passare a dirigere un’altra importante azienda a partecipazione statale e che venisse addirittura insignito del titolo di cavaliere del lavoro.
Questo ultimo fatto, al di fuori di calcoli e opportunità politiche, è arrivato come una pugnalata dello Stato a chi invece in questi anni, accompagnato dal dolore lacerante per la perdita dei suoi cari, ha dovuto assistere all’assoluzione degli imputati da parte della politica. Perché se è vero che nessun imputato è colpevole prima della sentenza è anche vero che finché la magistratura non si pronuncia, per rispetto delle vittime e della morale, certe prese di posizione andrebbero evitate. D’altra parte la politica, dopo nomine, rinomine e promozioni, è intervenuta anche pochi giorni prima della sentenza, quando il Ministro delle Infrastrutture, Del Rio, interferendo a procedimento in corso tacciando le richieste dei Pubblici Ministeri “enormemente sproporzionate”.
A essere condannato non è stato solo Moretti ma anche altre figure di vertice, da Elia a Soprano passando per Margarita che nel frattempo, in un paradosso senza fine, ricopre posizione di vertice di ANSF, l’Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria.
A mettere i bastoni tra le ruote degli intoccabili le vittime della strage e i loro familiari che con una tenacia, devozione e forza senza eguali, hanno preteso verità e giustizia e solo grazie a loro, alla mobilitazione popolare di questi anni, è stato possibile arrivare a sentenza prima che su alcuni reati (incendio colposo e lesioni gravi!) piombi l a prescrizione, contro cui i familiari si battono.
Persone straordinarie, che in questo paese invece di ricevere il supporto delle istituzioni dopo una tragedia del genere hanno dovuto combattere con una dignità e un rispetto encomiabili anche nei confronti della stessa magistratura.
Il risultato non era per niente scontato. Le condanne, seppur dimezzate rispetto alle richieste dei Pubblici Ministeri, ci sono state e, in una nazione in cui questo genere di tragedie non trovano mai colpevoli, questo rappresenta un passo avanti.
Abbiamo tanto da imparare da queste persone. In primo luogo dobbiamo imparare che non si deve mai smettere di lottare per la verità e la giustizia, neanche in un’Italia dove sembra che questi siano termini sconosciuti. E, soprattutto, non si scherza sulla sicurezza e noi come lavoratori siamo i primi a dover lottare per conquistarla e rafforzarla.
Con forza chiediamo quindi il reintegro di Riccardo Antonini, licenziato, per essersi messo a disposizione dei familiari delle vittime nella ricerca della verità, e degli altri compagni di lavoro licenziati in questi anni per essersi battuti sulla sicurezza e la salute per ferrovieri, viaggiatori, cittadini.
Coordinamento Autorganizzato Trasporti
via dei Campani, 43
00185 Roma
telefono: 329 45 55 203
fax: 010 89 35 794

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From: Clash City Workers cityworkers@gmail.com
To:
Sent: Tuesday, February 07, 2017 3:47 PM

Subject: SCRIVERE LA CULTURA OPERAIA: IL LAVORO DI SISIFO


A fine dicembre, a Napoli, abbiamo avuto il piacere di organizzare un’iniziativa pubblica con Alberto Prunetti. Ci interessava andare oltre i suoi libri, che abbiamo letto e che ci hanno commosso, appassionato e spinto a essere ancora più determinati nel lavoro politico.
Allora gli abbiamo chiesto: “Alberto, visto che al centro dei tuoi scritti ci sono figure operaie, rappresentative di una condizione che è al contempo individuale e collettiva, che ne dici se partiamo da queste storie per parlare di cultura operaia? Esiste? Ha ancora senso? E come possiamo contribuire alla costruzione di un immaginario di emancipazione?”
Ecco, così nascono queste pagine che Alberto ha voluto mettere nero su bianco.
Per noi sono pagine importanti, perché permettono di alimentare un dibattito che stiamo cercando di portare avanti da anni. Quando sosteniamo lavoratori e lavoratrici in lotta, quando siamo con loro a un picchetto, quando organizziamo una manifestazione o un volantinaggio o anche quando semplicemente diamo spazio a queste storie sui nostri canali, non lo facciamo con lo spirito del giornalista. E nemmeno semplicemente con quello del propagandista o dell’organizzatore.
Dalle migliaia di storie che incontriamo e che viviamo tutti i giorni cerchiamo di tirar fuori qualcosa in più degli aspetti vertenziali. Ognuna di queste lotte, per quanto piccola o grande che sia, è infatti fatta di cuore e sudore, di ansia, insonnia, paura, dignità, determinazione, speranza nel futuro.
Elementi che però non troviamo nella “cultura” mainstream, a meno che non servano a svolgere un ruolo di conservazione dell’esistente. E mai che i lavoratori siano soggetto, al massimo oggetto su cui i benpensanti possono esercitare il loro odioso pietismo. Queste pagine di Alberto, e il dibattito avviato con lui, che va oltre queste parole, vogliono invece delineare una storia diversa.
Buona lettura!
P.S.
Vorremmo che questo fosse tema di dibattito, aperto ai contributi di tutti. Perché se dobbiamo costruire un immaginario diverso serviranno la creatività, l’impegno e la dedizione di tante e tanti. Scriveteci, commentate, domandate, dite. Non siate assenti. Si parla del nostro futuro…
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PROBLEMATICITA? NELLA DEFINIZIONE DI “CULTURA OPERAIA”
E’ difficile parlare di cultura operaia per diverse ragioni. In questo campo l’errore più grosso è quello di fornire definizioni essenzialiste, identitarie, rigide, prive di sfumature. È quello che accade quando si parla per esempio di “cultura islamica”, “cultura meridionale”, “cultura italiana”, ecc., associando tutta una ragnatela semantica di stereotipi. Ultimamente ci troviamo di fronte a frequenti “eccessi di culture”, per citare il felice titolo di un libro dell’antropologo Marco Aime. Le culture sono diventate oggetti identitari e tutto (soprattutto gli stereotipi) viene culturalizzato.
In realtà la cultura è un campo poroso di relazioni in continua evoluzione, in tensione dialettica, tutt’altro che statico. E le culture (intese come ambiti simbolici e materiali in cui si riproducono sistemi di sapere, capacità, percezioni di sé, degli altri, punti di vista sul mondo) sono elementi che evolvono e risulta difficile schiacciarli su due assi cartesiani e rappresentarli univocamente.
Quanto agli operai, oggi assistiamo a una vulgata che li dà per morti e sepolti, salvo riesumarli ogni qual volta ci sia bisogno di ripulire i panni sudici della borghesia: per esempio, nonostante i dati elaborati dalla CNN dicessero il contrario, i giornali hanno parlato di un Trump eletto coi voti della working class, quando le statistiche indicavano un voto repubblicano costruito sui redditi medio-alti.
Pertanto la classe operaia non esisterebbe più, ma c’è eccome quando serve: quando c’è da sfruttarla. Piuttosto, è cambiata la sua struttura sociologica ed è venuta meno la sua centralità, la sua forza egemonica. Oggi l’operaio non lavora solo nella grande industria (o almeno non più come prima), ma anche nei servizi e nella logistica. Invece di un italiano dialettale, può darsi che la lingua che usa per comunicare coi suoi compagni sia il bengalese o l’arabo.
La classe operaia in Italia non c’è più? C’è, eccome, è solo che non capite la sua lingua mentre lavora. O non avete orecchi per intendere o occhi per vederla. (Al riguardo, si veda l’inchiesta operaia realizzata da Clash City Workers, “Dove sono i nostri? Lavoro, classe, movimenti”).
Pertanto, ammessa la problematicità dell’espressione “cultura operaia”, quello che posso dire è che la cultura ha anche a che fare con la consapevolezza ossia con la coscienza di classe. E quella che abbiamo oggi è una classe operaia in trasformazione, sotto assalto, divisa, segmentata e iper-sfruttata, una nuova working class che nella notte delle trasformazioni imposte dal capitale cerca di trovare una forma dialettica in cui riconoscersi, manifestarsi, esprimersi, per rimettersi in cammino in un nuovo ciclo di lotte.
Dov’è questa classe? E’ dispersa. L’astuzia del capitale la fa lavorare al buio, in grandi magazzini lontani dalle città; è una classe di lavoratori dei servizi che possono spostarsi tra Berlino e Londra, facendo caffè e pizze, al di fuori del canone della ristorazione artigianale di un tempo. Un lavoro massificato, di trasformazione di prodotti alimentari preparati e congelati che si muovono come blocchi inerti sulla catena di montaggio. Non come un barista ma come un operaio, ormai si lavora da Starbucks o da McDonald’s. E la stessa routine si impone quando si viene assunti da Amazon come magazziniere o si fa il commesso in una grande libreria italiana di catena.
Parlo di una working class che può offrire un tetto ai precari provenienti dai ceti medi impoveriti. A questi lavoratori è necessario fornire dei mezzi per storicizzare la propria condizione, per riconoscerla come un fatto sociologico con un proprio percorso, per orientarsi nel lavoro e nelle rivendicazioni su coordinate di classe invece di percepire la propria condizione come una manifestazione di un’occasionale e privata “sfiga” esistenziale. Per salvarsi tutti assieme, perché un torto fatto a uno è un torto fatto a tutti.
Ecco, perché questa nuova classe sociale si riconosca, bisogna vincere le strategie che vorrebbero segmentarla grazie al razzismo (“prima gli italiani”), distinguendo tra lavoratori italiani e immigrati, quando la classe operaia da sempre è migrante. Bisogna lavorare sull’immaginario e sulla prassi, facendo cose che sono assieme simboliche e pratiche. Perché l’immaginario forma la prassi e la prassi costruisce l’immaginario.
Bisogna rivendicare diritti e ripartire dal lavoro di base, nel quartiere, ma prima ancora sui luoghi di lavoro. Costruire dal basso piccole camere del lavoro precario che funzionino da sportello per i lavoratori precari, italiani o immigrati. E’ un lavoro fondamentale. Ma da solo non basta.
Dobbiamo anche lavorare sulla scuola, ripartire dalla formazione permanente, fornire servizi di doposcuola per aiutare i ragazzi delle famiglie operaie e immigrate, oggi a rischio di nuove esclusioni. Ma anche questo non basta.
Bisogna ricostruire un immaginario. Perché l’immaginario fa la cultura. Un immaginario alternativo si costruisce soprattutto coi libri, coi romanzi, coi film, con le canzoni, con le fotografie. Con le manifestazioni, con i volantini (non lasciamo, per la miseria, i muri alla destra).
Quello che sto provando a fare, come scrittore, con la mia trilogia working class in corso d’opera, è contribuire alla costruzione di un immaginario per la nuova working class, legando ponti tra la vecchia classe operaia di fabbrica e la nuova classe operaia dei servizi e dei lavori di pulizia, e i lavoratori dei call center e i lavoratori migranti e i lavoratori dell’editoria a collaborazione e i precari della cultura e i voucher e tutta la filiera dei lavori precari, esternalizzati, dispersi a rete. Non c’è più una fabbrica davanti alla quale andare a volantinare come un tempo, è ancora più difficile, ma l’immaginario soffia dove vuole e raggiunge i lavoratori più dispersi.
ALCUNE DIMENSIONI DELL’IMMAGINARIO OPERAIO DEL PASSATO
Provo a ragionare di “cultura operaia” in maniera meno astratta, sulla base di un caso specifico che conosco bene, quello delle due piccole città operaie in cui sono nato e sono cresciuto: Piombino e Follonica. Non importa se non sapete trovarle sulla cartina: servono solo come esempio per coordinate valide universalmente, a Bagnoli come a Sesto San Giovanni.
FOTO DI GRUPPO E CONVIVIALITA’: L’ICONOGRAFIA OPERAIA DEL PASSATO
Mi sono imbattuto in alcune fotografie del passato, pubblicate in appendice a opere sulla classe operaia dell’Alta Maremma. La bibliografia sta in coda a queste note, comunque mi riferisco a un’inchiesta prodotta a caldo sulla classe operaia follonichese nel ‘77 dall’Università degli studi di Siena, un memoriale di un’insegnante che lavorava con studenti figli di operai, un’inchiesta scritta con sguardo retrospettivo su una comunità di base di cattolici del dissenso a Piombino (sempre negli anni Settanta) e un libro fotografico di un comitato di quartiere del rione operaio dei Diaccioni di Piombino. In questi scatti emerge un elemento che mi colpisce e che fa entrare in tensione il passato con il presente. Che siano collettivi politici, gruppi di giovani cattolici di sinistra o classi scolastiche di figli di operai, sono tutte foto di gruppo. Foto di gruppi e di collettivi che si pensavano in chiave conviviale, che mangiavano e studiavano assieme, che giocavano e facevano politica assieme, in gruppo.
Se l’iconografia del passato è conviviale e comunitaria, quella del presente è ben rappresentata dal selfie: non solo la fotografia di un singolo, ma di un singolo che riflette se stesso. Oltre l’autoscatto, che ti poneva di fronte a l’obiettivo, che ti obbligava almeno a muovere i piedi rapidamente per porti di fronte all’otturatore: il selfie si produce con la torsione solipsistica del polso ripiegato su se stesso in un egotismo onanistico, del monitor che ormai ha doppiato la realtà e non riflette altro che un simulacro, un sembiante di un utente che poi diventa un avatar e viene immesso in rete nei flussi digitali. E’ una comunità di utenti spersonalizzati, privi di relazione, quella che ci fa utenti/amici/consumatori di social network dove non c’è classe ma c’è “gente”.
Al riguardo si veda il mio articolo sul fascismo social pubblicato da Letteraria e Giap:
Il selfie insomma è la sintesi dell’iconografia post-thatcherista: “la società non esiste, esistono solo individui (...)”. E gli individui sono soli, rancorosi e in balia delle passioni tristi. Il miglior brodo di cultura per la crescita di nuovi fascismi. Ricominciamo a farci foto di gruppo, allora, a formare collettivi di persone che mangiano assieme il pane. “Compagni”, sono coloro che mangiano assieme il pane. Cum Panis. “Cospiratori”, sono coloro che respirano assieme. Teniamolo a mente.
ALTRE DIMENSIONI IMPORTANTI DELLA CONDIZIONE OPERAIA
LA SOLIDARIETA’ DI CLASSE (contro le comunità fittizie cementate del rancore del presente). Da qui si arriva alla solidarietà. Il nemico non è il povero, ma il padrone; questo era il senso comune del passato. Oggi l’immaginario del senso comune insegna, nella logica aziendale del Grande Fratello, che fare le scarpe al prossimo è il miglior modo per stare al mondo.
L’ATTIVISMO CULTURALE: si prenda come esempio l’attivismo, negli anni Cinquanta, dell’Ente Culturale Cooperativistico dei minatori di Massa Marittima, che portò registi come Germi e Lizzani a fare le prime dei propri film davanti a un pubblico di minatori maremmani; che portò Vasco Pratolini a leggere inediti di Metello davanti a un pubblico di 200 lavoratori (150 comprarono il suo romanzo “Cronache di poveri amanti” in copia autografata). E Luciano Bianciardi era spesso invitato a parlare su quel palco. Pensiamo anche che nelle acciaierie di Piombino gli operai, ancora negli anni Ottanta, riuscirono a ottenere dalla proprietà un punto biblioteca con un bibliotecario-operaio regolarmente salariato. Altri spunti interessanti di cultura operaia: l’argentino Roberto Arlt, in un suo reportage di viaggio in Spagna nei mesi che precedettero la rivoluzione del ‘36, racconta delle letture ad alta voce che gli operai asturiani facevano dei romanzi popolari d’appendice. Letture che permettevano sia la comprensione per gli analfabeti che una fruizione collettiva: spesso il tempo dedicato ai commenti degli operai sulla vicenda superava quello della lettura. Un altro scrittore latinoamericano, il cubano Lezama Lima, nel suo “Paradiso” racconta che nelle manifatture di tabacchi, dove lavoravano soprattutto le donne, un’operaia leggeva ad alta voce, per gli altri dipendenti dell’opificio, opere di poesia o di narrativa, per vincere la noia del lavoro meccanico.
IL TEMPO LIBERO: era quasi inesistente, ma non era colonizzato dalla società dello spettacolo (e dalle tecnologie digitali) come adesso. Ai ritmi dei tre turni in fabbrica, si alternava il lavoro nelle campagne, o il dopolavorismo o il garagismo. E poi le attività sindacali. Forse il tempo libero non c’era, perché non c’erano tempi morti. Oggi il tempo morto colonizza ogni dimensione temporale, del lavoro, del divertimento, delle vacanze. Senza il presente della lotta e della convivialità, rimane solo il tempo morto del lavoro e il suo surrogato, il tempo libero delle ferie, per chi ancora ce l’ha, o quello della disoccupazione, intesa come lavoro alla ricerca di un lavoro.
Da qui si arriva a un ultimo punto: L’OPEROSITA’. L’operosità era l’elemento fondamentale che definiva la condizione operaia di un tempo. L’operosità era il lavoro gioioso alla Fourier che si contrapponeva al lavoro morto della fabbrica. I nostri vecchi non avevano mai tempo libero, al contrario dei borghesi che andavano in vacanza, perché, finito il tempo morto del lavoro sfruttato, iniziava il tempo creativo della manualità operosa. Facevano l’orto, riparavano motorini, stuccavano mobili, costruivano pollai. Quei “lavoretti” da metal-mezzadri erano lavoro comunitario, non separato, spesso creativo. Con queste attività rimettevano in discussione la divisione del lavoro, sia come divisione tra lavoratori che come divisione tra lavoro manuale e intellettuale. Quell’operosità nasceva da una spiccata manualità, che era poi una manualità creativa e cognitiva. Erano lavori creativi, in cui si escogitavano (nei garage o negli orti, nelle piccole officine o nelle falegnamerie dei seminterrati) soluzioni creative per risolvere i problemi della vita quotidiana senza rivolgersi a specialisti o al mercato. Si lavorava tra amici, tra vicini, scambiandosi competenze, senza l’uso dell’equivalente generale. Non si buttava via nulla, come dicevano i vecchi, perché dal nulla si creava ogni cosa, rigenerando la società mercantile in un sistema che soddisfaceva a basso prezzo le necessità delle famiglie operaie. Non da soli, ma collaborando tra compagni. Lavorando e divertendosi, alla Fourier. Per questo non servivano le vacanze al mare o le settimane bianche in montagna, perché lavorare con le mani e con i compagni era bellissimo.
INFINE
Un’amica mi racconta un episodio curioso: entrata in una grande libreria di catena, chiede una copia di “Amianto” per fare un regalo. La indirizzano al reparto sociologia. Lei domanda perché non sia in narrativa. E il commesso risponde: perché c’è scritto “una storia operaia”.
Quando ho raccontato questo aneddoto alla ricercatrice Marta Fana, mi ha scritto una sola riga di commento: “dobbiamo rifare tutto Alberto, tutto”.
Sono d’accordo. È il lavoro di Sisifo.
BIBLIOGRAFIA SUL CASO DELLA CLASSE OPERAIA PRESA IN ESAME:
-         Massimo Squillacciotti (a cura di), “Ricerca universitaria e scuola dell’obbligo: Indagini socio-culturali sulla classe operaia a Follonica”, Università degli studi di Siena, Siena, 1977 (con estratti dalla tesi di laurea di Carboncini e Cei sulla condizione della donna a Follonica e con un saggio che rielabora l’inchiesta di Bambagini sulla classe operaia del quartiere Cassarello);
-         Tiziana Noce e altri “Movimenti cattolici e sociali a Piombino e Follonica nel dopo concilio Vaticano II”, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 2006;
-         Iolanda Raspollini “Una scuola sul mare, Follonica” Editrice Leopoldo II;
-         Autori Vari “Villaggio Diaccioni Piombino. Fisionomia e memorie di un villaggio modello”, Piombino, 2013, tipografia Bandecchi e Vivaldi.
Alberto Prunetti
2 Febbraio 2017

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From: Clash City Workers cityworkers@gmail.com
To:
Sent: Tuesday, February 07, 2017 3:47 PM
Subject: WELFARE AZIENDALE: LA FINE DELLO “STATO SOCIALE” A DANNO DEL TUO SALARIO!

Pubblichiamo un ottimo contributo di Cortocircuito sul welfare aziendale, elemento che ritroviamo in tutti gli ultimi rinnovi contrattuali (dalle singole aziende, vedi Eataly o FCA, alle categorie, vedi igiene ambientale, commercio, metalmeccanici). E’ forse l’unico elemento che mette d’accordo padroni e sindacati, e che rischia di passare inosservato (e benaccetto) dalla maggioranza dei lavoratori. L’articolo che segue ha il merito di svelare il segreto di questa convergenza: a beneficiarne saranno sicuramente imprese e burocrazie sindacali, meno che mai i lavoratori, per i quali si tratta dell’ennesima truffa ai danni del loro salario!
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Improvvisamente, nel bel mezzo della crisi, Governo, direzioni sindacali e aziende sembrano aver trovato la pentola magica: un modo per dare a tutti senza scontentare nessuno. 
E’ il welfare aziendale. Il Governo defiscalizza, il lavoratore incassa, l’azienda concede. E’ veramente così? Tutto il contrario. Il welfare aziendale è una tappa ulteriore nello smantellamento dello stato sociale. Non solo, è anche un attacco al tuo salario. Lentamente, ma inesorabilmente, le quote di welfare aziendale saranno considerate sostitutive degli aumenti salariali. Invece di soldi, riceverai fondi in “benefits”. Non solo si torna al pagamento in natura degli anni ‘50, ma vieni legato a doppio filo all’azienda: se perdi il lavoro, perdi quote di servizi e assistenza.
Il welfare aziendale è un vero e proprio mercato dove operano grandi aziende, assicurazioni, una serie di soggetti che riescono a guadagnare da servizi come sanità, scuola, assistenza agli anziani. Com’è possibile che forme di stato sociale diventino improvvisamente così profittevoli? La risposta è semplice. Se c’è qualcuno che riesce a lucrare su queste voci, c’è qualcuno che ci perde. Questo qualcuno sei tu.
La legge di stabilità 2016 del Governo Renzi ha dato ulteriore spinta a questo sistema: “la Legge ha potenziato le agevolazioni fiscali per le aziende che concedono servizi [...], permette l’erogazione di premi di risultato in forma di servizi e welfare [...]. Le aziende inoltre hanno compreso che il welfare sussidiario [...] è fonte di numerose opportunità [...], contiene i costi [...], fidelizza i dipendenti” (Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2016).
Poco importa che oggi il welfare venga contrattato con sindacati o RSU e RSA. A lungo andare questo sistema mina la sindacalizzazione stessa. Il lavoratore può accedere a forme di welfare solo in un rapporto di collaborazione con l’azienda e tale collaborazione presuppone l’abbandono di ogni forma di conflittualità. In ultima analisi prevede l’abbandono del sindacato come strumento di organizzazione delle rivendicazioni dei lavoratori a favore di un rapporto corporativo con il proprio datore di lavoro.
COS’È IL WELFARE AZIENDALE? 
Per welfare aziendale si intende tutto quel pacchetto di servizi e agevolazioni che un’azienda offre ai propri dipendenti teoricamente “in aggiunta” o a volte in sostituzione del pagamento monetario di stipendio o premi di produzione. Si tratta di misure come la copertura sanitaria o le spese d’istruzione, che negli ultimi anni hanno vissuto una vera e propria espansione, sia nel settore pubblico ma in special modo in quello privato. Non solo, il welfare aziendale si è già evoluto abbracciando nuovi settori di impiego, come shopping, cultura e benessere, trasformandosi in un vero e proprio investimento delle aziende nella fidelizzazione del dipendente.
COME SI E’ EVOLUTO?
Siamo passati dal buono pasto per la pausa pranzo, al buono spesa per il supermercato, fino ad arrivare al voucher per pagare rette scolastiche, libri di testo o servizi di baby sitting. Nelle aziende dove il welfare aziendale è una realtà consolidata, vengono istituiti nidi aziendali, campus estivi per i figli dei dipendenti e figure come il maggiordomo, che svolge commissioni in posta o lavanderia al posto dell’interessato. L’ultima novità del settore è il “flexible benefit”, un pacchetto retributivo “in natura” nel quale ogni singolo lavoratore può scegliere l’agevolazione che più gli è congeniale fino al raggiungimento del plafond stabilito.
QUALI SONO I SETTORI IN CUI E’ PIÙ SVILUPPATO?
Nell’ambito sanitario, il welfare aziendale ha addirittura superato sé stesso diventando un vero e proprio obbligo: le convenzioni con cliniche e ambulatori privati ad opera della singola impresa sono state scavalcate in favore di una gestione nazionale da parte degli enti bilaterali, composti pariteticamente da associazioni padronali e sindacati confederali. In questo modo il welfare aziendale ha guadagnato un posto fisso nella contrattazione collettiva, come nel caso della copertura sanitaria Fondo Est/Unisalute, pagato dai dipendenti del settore del Commercio direttamente in busta paga. A integrazione dei fondi di categoria, poi, esistono anche coperture assicurative che vanno a colmare le prestazioni non rimborsate: un vero e proprio business costruito sulla malattia.
IL WELFARE AZIENDALE E’ UN’OPPORTUNITA’ PER I LAVORATORI?
A una prima occhiata sembrerebbe così. Le cose stanno diversamente: se analizziamo da dove provengono i fondi che defiscalizzano il welfare aziendale e ne immaginiamo le conseguenze, capiamo che non è tutto oro quel che luccica. La scorsa finanziaria del governo Renzi, infatti, ha eliminato tutte le tasse previste sui fondi destinati a questo tipo di benefit, rinunciando a un notevole introito fiscale. Stiamo parlando di un risparmio che per il dipendente si aggira intorno al 10%, ma per il datore di lavoro oltrepassa il 40%.
QUINDI CI GUADAGNANO TUTTI?
E’ vero che il lavoratore risparmia il 10% di trattenute se decide di destinare il proprio premio al welfare aziendale, ma si tratta solo di una partita di giro. Lo Stato, avendo meno entrate fiscali, a sua volta destinerà meno fondi a sanità, istruzione e pensioni pubbliche, perché integrate privatamente dai dipendenti che hanno accesso al welfare aziendale. Nei fatti è un falso regalo: invece di destinare i nostri soldi alla fiscalità generale ci stanno incentivando a indirizzarli verso strutture private per poter smantellare lo stato sociale pubblico. In realtà stiamo pagando due volte per lo stesso servizio. Il welfare aziendale è funzionale al disfacimento dei servizi pubblici fondamentali, un apripista alla loro privatizzazione mascherata da riforma progressista.

CHI CI GUADAGNA REALMENTE?
A spartirsi la torta del welfare aziendale sono in tanti. Innanzitutto lo Stato, che rinunciando a una parte degli introiti fiscali può giustificare la riduzione dello stato sociale. In secondo luogo ci sono le aziende che vendono reti welfare, società in espansione che vivono dei fondi regalati dallo Stato alle imprese. A fianco di queste aziende ci sono anche fondi pensionistici integrativi, casse assicurative, scuole private: tutte realtà che come parassiti si nutrono sulla distruzione dello stato sociale, accaparrandosi parte delle nostre trattenute.
IN COSA CONSISTE LA FIDELIZZAZIONE?
Studi recenti mostrano come le aziende dove il welfare è più sviluppato presentano tassi inferiori di assenteismo, maggiore produttività e una combattività inferiore. Non è che nelle aziende dove c’è il welfare aziendale non ci si ammala, ma è che si viene portati verso il “presenzialismo”. L’azienda le pensa tutte pur di farti lavorare di più, quindi se tuo figlio sta male ti paga la baby sitter, se devi ritirare una raccomandata manda il maggiordomo, se vuoi lamentarti ci pensi due volte perché il datore di lavoro è lo stesso soggetto che ti consente di avere questi servizi. Il prezzo che paghiamo non sono solo le tasse, ma è il nostro tempo, un pezzo in più della nostra vita che trascorreremo al lavoro.
QUALI SONO I RISCHI A BREVE TERMINE?
A breve assisteremo a una pressione da parte delle aziende per tramutare quote sempre maggiori dello stipendio in fondi destinati al welfare aziendale. Non solo: gli aumenti contrattuali verranno vincolati sempre di più all’accesso al welfare aziendale. Se non accedi ai fondi integrativi, perdi anche gli aumenti contrattuali. Fiat (FCA) sta già spianando la strada. Si tratta di un risparmio notevole per le aziende, perché di fatto abbassano gli stipendi integrandoli con benefit pagati dagli stessi lavoratori con la fiscalità generale. Alla pressione delle imprese si somma anche quella del sindacato, che gestendo quote di welfare attraverso gli enti bilaterali, possiede veri e propri interessi economici nella sua diffusione. Non è un caso che il welfare aziendale sia ormai il protagonista di molti rinnovi contrattuali.
QUALI SONO I RISCHI NEL LUNGO PERIODO? 
Con l’espansione del welfare aziendale, il nostro modello sociale somiglierà sempre di più a quello degli USA. Senza copertura assicurativa non potremo accedere alle cure sanitarie, senza pensione integrativa non avremo redditi durante la vecchiaia. Tutto questo ci sarà consentito solo se avremo un posto di lavoro, quindi faremo di tutto per non essere licenziati: orari e turni massacranti per uno stipendio ridotto, perché l’esclusione dal ciclo produttivo diventerà l’esclusione da ogni tipo di assistenza. Il welfare aziendale può sostituire lo stato sociale? Può sostituire ad esempio la sanità pubblica? Per quanto si possa estendere il welfare aziendale, questo non riguarderà mai la totalità dei lavoratori in misura eguale. Le aziende e gli istituti privati che si sostituiscono al welfare non hanno alcuna intenzione di soddisfare “un diritto”, hanno semplicemente intenzione di guadagnarci. Appena una voce risulterà in perdita verrà scansata dal welfare aziendale, facendola ricadere sulla spesa pubblica. Il risultato? Pagherai la sanità integrativa, ma dovrai comunque pagarti le prestazioni sanitarie più onerose, preparando uno scenario da incubo per milioni di persone che scopriranno di non poter accedere alle cure mediche.
QUAL E’ L’EFFETTO SUI SINDACATI?
Il modo migliore per contrastare enti bilaterali e welfare aziendale è lottare per aumenti salariali e per uno stato sociale universale. Questa lotta spetterebbe a un sindacato degno di questo nome, ma come può avvenire se lo stesso sindacato inizia a trarre convenienza dalla bilateralità? Non abbiamo cifre chiare a riguardo, ma quelle poche che ci sono dimostrano come gli enti bilaterali e la cogestione del welfare aziendale costituiscano una fetta importante dei bilanci sindacali. Nel 2013 è uscito un rapporto su previdenza integrativa e Enti Biliaterali: già allora si contavano 536 fondi previdenziali con un giro di 104 miliardi di Euro (6% del PIL) e 260 fondi di sanità integrativa. Si tratti di fondi “aperti” o di categoria, si parla comunque di enti privati, difficilmente controllabili. Sempre nel 2013, 10.000 persone risultavano impiegate da questo settore. Tra questi molti sono sindacalisti o ex sindacalisti. Il sindacato incassa i gettoni di presenza per la partecipazione ai Consigli D’Amministrazione o di Gestione. Grossa parte dei contributi versati dagli stessi lavoratori finisce proprio nelle spese di gestione. Guardando i dati del 2013, si nota che le spese per l’erogazione dei servizi difficilmente superano il 50% del bilancio di un fondo. Il resto sono costi gestionali. Fonchim (Fondo previdenziale dei Chimici) ha ­destinato nel 2013 588.000 Euro annui agli organi statutari e 1,2 milioni di Euro ai costi di gestione. Il Fondo Cometa ha speso per i suoi “organi” 250.000 Euro annui più 1,1 milioni per il personale. La defiscalizzazione del welfare aziendale, quindi, contribuisce anche al “mantenimento” dei sindacati e non solo delle aziende.
CHE FARE QUINDI?
Se ti stai domandando se destinare il tuo premio di produttività al welfare aziendale o riceverlo in busta paga, ti avvisiamo che in entrambi i casi a pagare sarai sempre tu. Dal nostro punto di vista boicottare il sistema partendo dall’ultimo anello della catena, ovvero la somma percepita dal dipendente, non servirà a far retrocedere il governo sulla privatizzazione dello stato sociale. Gli strumenti che dobbiamo mettere in campo sono ben altri. Il punto è comprendere che questa impostazione va contestata in tutti i rinnovi contrattuali e fare pressioni sul nostro sindacato perché il welfare aziendale non venga fatto passare come una misura progressista, perché così non è. Non possiamo accettare la logica del baratto dei nostri aumenti salariali in cambio di fondi da destinare al welfare, così come non vogliamo rinunciare a ore di ROL o Ferie in cambio di servizi che riducano l’assenteismo, soprattutto se questi riguardano il tempo libero che impieghiamo con la nostra famiglia. Va preteso che le organizzazioni dei lavoratori tornino a lottare per uno stato sociale universale, a cui possano accedere tutti, lavoratori e disoccupati, pensionati e studenti. Uno stato sociale che garantisca a tutti servizi fondamentali di qualità e in larga quantità, a partire dall’offerta sanitaria e da quella scolastica, basato su tasse dirette fortemente progressive dove chi meno ha, meno paga.
CortocircuitO

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Sent: Thursday, February 09, 2017 8:31 AM
Subject: LA LOTTA DEI DISOCCUPATI CONTRO LA MISERIA E LA DIVISIONE DI CLASSE

Dal primo di gennaio, ai licenziati per crisi o maggior profitto aziendale spetta la nuova indennità di disoccupazione universale, la “Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego” (NASpI).
Non sono i risultati della nuova beneficenza quelli che devono interessare i lavoratori, perché essi già sanno quanto scarsi ne siano i frutti.
La NASpI viene presentata come l’assicurazione contro la disoccupazione estesa a tutto il lavoro dipendente, pur se in verità ne vengono esclusi oltre ai dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni, gli operai agricoli a tempo determinato e indeterminato e i lavoratori extracomunitari con permesso di soggiorno per lavoro stagionale.
La NASpI lusinga con i requisiti contributivi e lavorativi ammorbiditi, ma la durata dell’erogazione del sussidio potrà essere al massimo pari alla metà delle settimane contributive dei 4 anni precedenti (quindi 2 anni), e a regime, dal 2017, non potrà superare le 78 settimane (un po’ più di 19 mesi). L’importo, parametrizzato al 75% del salario medio degli ultimi 4 anni (falcidiato dai vari ammortizzatori sociali) per i primi tre mesi, poi scalerà del 3% ogni mese.
Ma la NASpI pone per il suo ottenimento la condizione che il rapporto di lavoro si sia concluso senza contenzioso.
La particolarità più significativa di questa NASpI è dunque l’estensione della platea di beneficiari e l’introduzione della clausola della risoluzione senza contenzioso: sono questi i due aspetti che la collegano alla possibilità di licenziare con indennizzo e all’estensione di questa nuova disciplina anche ai licenziamenti collettivi.
La NASpI non è solo l’ennesima arma a disposizione dei capitalisti e degli sfruttatori, i quali minacceranno i lavoratori di non ricorrere contro il proprio licenziamento perché, a fronte di un indennizzo misero, perderebbero il sussidio.
Con la NASpI è la funzione del sindacato come istituzione proletaria ad essere ancora più compromessa agli occhi dei lavoratori.
La NASpI sottrae all’azione sindacale i campi sui quali poteva esercitare la sua attività più generale: i lavoratori saranno costretti ad accettare singolarmente risoluzioni “consensuali” del rapporto per presentare la loro domanda per accedere alla NASpI.
I lavoratori sindacalizzati si troveranno presto a dover fare i conti, nonostante tutta la prosopopea e l’arroganza dei capi sindacali, con l’infradiciamento delle radici del sindacato, che conduce alla sua più rovinosa caduta.
I capitalisti continueranno nello stillicidio dei sussidi insignificanti, con la volontà di avere a propria disposizione una manodopera assolutamente indifesa, e quindi in loro completa balia.
Ma non ci si illuda: anche un sistema prolungato di sussidi finisce per rinviare solo di poco quella condizione di esaurimento, di disperazione in cui i capitalisti vogliono trascinare i lavoratori per far precipitare le condizioni del mercato del lavoro.
La classe dei capitalisti ha sempre perseguito con chiarezza uno scopo: impedire il collegamento tra disoccupati e quelli che non lo sono, cercare che sul terreno dell’offerta della forza-lavoro si combatta solo una serie di tenzoni tra il singolo disperato e la fame, privare di forza l’organo tradizionale della difesa degli interessi dei lavoratori, il sindacato.
Il fenomeno della disoccupazione è strettamente connesso alla crisi del regime capitalistico, nell’economia capitalista le oscillazioni della produzione e le crisi continueranno sempre e ad esse corrisponderà un nuovo fluire di disoccupati.
E’ necessario affermare con insistenza, instancabilmente, che il problema della disoccupazione non ha soluzione nell’ambito dell’economia capitalista e tale considerazione deve ispirare l’azione concreta quotidiana sospingendola verso il suo sbocco logico rivoluzionario.
I capitalisti preparano licenziamenti di massa, nuovi attacchi alle condizioni di lavoro della classe operaia occupata e disoccupata.
Rinunziare a portare l’azione sul terreno concreto della difesa dell’operaio disoccupato vorrebbe dire perdere il contatto con la vita operaia per quello che oggi ne è l’aspetto più espressivo, più tragico, più sentito.
La richiesta di portare il sussidio verso il limite del salario integrale, a spese dei padroni e dello Stato borghese, deve figurare di buon diritto tra le parole d’ordine lanciate dal fronte unito sindacale e deve trovare i suoi sostenitori in tutti gli organismi e le sedi della lotta proletaria, contro ogni resistenza alla sua diffusione tra le fila dei lavoratori.
L’assistenza ai disoccupati e l’azione in loro difesa è squisitamente classista, poiché tende a impedire l’isolamento dell’operaio e del salariato, il suo allontanamento dai compagni che hanno la fortuna di lavorare. Inserire il diritto alla vita dell’operaio nel bilancio dell’economia borghese significa portarvi un elemento contraddittorio insanabile, significa lavorare per creare una situazione rivoluzionaria, poiché nella società capitalista, quando si inasprisce la lotta di classe, che costituisce la sua base, non vi può essere nessuna via di mezzo: o la dittatura della borghesia o la dittatura del proletariato.
Inoltre, poiché la disoccupazione colpisce non più i singoli, ma gli stessi lavoratori organizzati nei sindacati, la ripresa di un’attività generale su questo terreno porrà i lavoratori di fronte ai risultati più insopportabili dell’unione dei capi sindacali con la borghesia capitalista.
L’accusa che occorre muovere ai capi sindacali espressione dell’aristocrazia operaia e della piccola borghesia è di impedire con la forza lo sviluppo dell’iniziativa sindacale di classe per un’azione di più vasta portata.
Il disoccupato per questi capi riformisti e socialdemocratici non è altro che l’operaio “povero” che non può pagare le quote al sindacato.
I capi dell’aristocrazia operaia vogliono ridurre il disoccupato all’oggetto di un’azione di assistenza, di conseguenza impediscono che venga considerato come soggetto di azione politica sindacale. Il riformismo, con la democrazia piccolo borghese, vuole ridurlo a materia di provvedimenti legislativi, per impedirgli di diventare attore, propulsore di un movimento che partecipa alla lotta per l’affermazione dell’ordinamento socialista che lo liberi dalla sua triste situazione.
L’unica garanzia che i disoccupati hanno oggi di non cadere in preda ai capitalisti non è nei sussidi o in questo o quel provvedimento di carattere particolare, ma nella forza del movimento di massa che svolge la sua azione per strappare i provvedimenti stessi, quando è la sua forza ad imporli, a controllarli, a far sentire la sua presenza dietro di essi.

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From: NotizieInMARCIA ! redazione@ancorainmarcia.it
To:
Sent: Thursday, February 09, 2017 11:35 AM
Subject: STRAGE DI VIAREGGIO, IN DETTAGLIO LE CONDANNE, LE ASSOLUZIONI E IL NEO DELLA SENTENZA

In un aula gremitissima e silenziosa, alla presenza dei familiari delle 32 vittime e di moltissimi cittadini, è stato letto il dispositivo della Sentenza. Fra 90 giorni sarà pubblicato l’intero provvedimento con le motivazioni.
Il Tribunale di Lucca, dopo un processo durato oltre sette anni, ha emesso la sentenza sulla strage di Viareggio del 29 giugno 2009. Nel disastro ferroviario morirono 32 persone a causa delle esplosioni e delle fiamme che avvolsero l’intero quartiere di via Ponchielli, adiacente alla stazione. La causa fu la rottura di un asse, il conseguente ribaltamento e la fuoriuscita di circa 30.000 litri di GPL da una delle 14 cisterne squarciate nell’urto.
LA SENTENZA
In un’aula gremita di persone all’inverosimile, ma in un silenzio assoluto e quasi irreale, alle 15 in punto il Presidente del Collegio Gerardo Boragine, ha letto il verdetto che ha condannato 23 imputati tra 5 e 9 anni, tra loro Mauro Moretti (7 anni), Michele Elia (7 anni e 6 mesi), Vincenzo Soprano (7 anni e 6 mesi) e Giulio Margarita (6 anni e 6 mesi) e assolto gli altri dieci. Condannate pure cinque società per responsabilità amministrative.
CONFERMATA LA SOSTANZA DELLE ACCUSE
Pur riducendo la maggior parte delle pene richieste, salvo che per alcuni imputati per i quali sono state aumentate (e una condanna per un imputato che la procura chiedeva di assolvere), la Sentenza ha confermato l’impianto accusatorio e l’individuazione delle responsabilità anche per gli amministratori, sebbene per Mauro Moretti e Vincenzo Soprano siano stati giudicati non pertinenti alcuni capi d’imputazione. Dalle scarne righe del dispositivo si rileva che per il primo Il Tribunale ha ritenuto non sussistente la parte di accusa relativa al suo ruolo alla guida del Gruppo FS SpA, mentre per il secondo quella relativa alla carica di Presidente della società FS Logistica SpA. Riconosciuti i risarcimenti per tutte le parti civili costituite, oltre ai numerosi familiari, le Istituzioni, Comune, Provincia e Regione, le Associazioni, i sindacati e gli RLS.
MINUZIOSA DIFFERENZIAZIONE DELLE RESPONSABILITA’
Per la pubblicazione della Sentenza, completa occorrerà attendere tre mesi e solo allora si potranno comprendere le motivazioni che hanno guidato il Tribunale nelle scelte ma appare già evidente una minuziosa e capillare analisi per l’individuazione dei singoli profili di colpa.
IL NEO DELLA SENTENZA
Un neo della sentenza, che per questo aspetto mostra una visione miope della realtà e delle dinamiche in atto nei luoghi di lavoro, lo rileviamo dalla pesante condanna dell’operaio Uwe Kriebel, l’esecutore manuale del controllo ad ultrasuoni, ovvero l’ultimo anello della catena, estraneo a ruoli di comando e di responsabilità. E’ stato condannato a otto anni di carcere presumibilmente per un errore materiale o una svista nell’esecuzione delle prove; sostanzialmente al pari di tutti i suoi superiori gerarchici, amministratori e dirigenti dell’Officina (8, 9 e 9 anni e mezzo), responsabili delle scelte delle decisioni, dei tempi e degli strumenti utilizzati, nonché dell’organizzazione dei controlli.
L’OPERAIO E IL PADRONE, NESSUNA DIFFERENZA
Un operatore può senz’altro sbagliare ed essere per questo sanzionato, anche penalmente, ma riteniamo ingiusto non discernere la differenza tra chi può commettere un errore manuale e chi pur avendone il potere, i mezzi e l’obbligo giuridico e morale (trattandosi di manutenzioni delicatissime e ad alto impatto sulla sicurezza) non predispone tutte le misure idonee a “filtrare” e “correggere” tutti i possibili errori o le imprecisioni in cui l’operatore può incappare. Una domanda è d’obbligo: se è vero che egli manipolando quel “pezzo” aveva nelle mani una così grande responsabilità perché non disponeva di strumenti idonei e tempi adeguati per evitare anche la più remota possibilità di errore? Oppure dobbiamo pensare che tutta la “sicurezza ferroviaria europea” è riposta nelle mani callose di un operaio a 1.900 euro al mese e che deve solo obbedire agli ordini di servizio che gli vengono imposti? Nel nostro Ordinamento è consolidato il principio (anche di buon senso) secondo cui l’imprenditore deve prevedere e prevenire in ogni caso gli effetti degli errori dei lavoratori, conseguenti a distrazioni imperizia e finanche in caso di negligenza. Tanto più quando si tratti di lavorazioni da cui possono derivare rischi altissimi.

CONDANNA “INGIUSTAMENTE EGUALITARIA”
Le scala delle profonde differenze di ruoli gerarchici, di potere, di mansioni e di salario su cui si regge l’intero sistema economico occidentale, sembra scomparire all’improvviso di fronte alla legge al momento di graduare le responsabilità e comminare le pene. L’imposizione dei ritmi di lavoro e di strumenti non adeguati, pongono l’operaio in una condizione di subordinazione gerarchica e psicologica data dalla natura stessa del rapporto di lavoro dipendente, alla quale dovrebbe corrispondere una proporzionalità delle sanzioni. Due secoli di lotte politiche e sindacali tra il “padrone e l’operaio” e per ottenere maggiore uguaglianza e diritti, simbolicamente risolti con due righe di sentenza: una giustizia “ingiustamente egualitaria” che abbatte (a scapito del soggetto debole) secoli di differenze sociali e le caratteristiche intrinseche del sistema capitalista occidentale. Il salario, i poteri in azienda, le condizioni di lavoro e il prestigio sociale restano abissalmente diverse ma gli anni di carcere sono distribuiti “equamente” tra operaio e amministratore delegato.
ORA IL SISTEMA FERROVIARIO DEVE CAMBIARE
Questa sentenza ha messo sotto accusa l’intero sistema ferroviario internazionale, nelle sue articolazioni industriali e finanziarie e il condizionamento politico economico operato verso le istituzioni preposte ai controlli, a partire dall’Agenzia Ferroviaria Europea (ERA). Sono venute tragicamente alla luce ampie zone grigie di incertezza tecnica e normativa, divenute intollerabili nel nuovo regime di liberalizzazione che ha sostituito i controlli “statali”, prima gestiti dalle singole ferrovie nazionali pubbliche, con scelte di soggetti privati orientate al profitto. Una giungla ferroviaria sempre più rassomigliante a quella del trasporto autostradale, con una crescente parcellizzazione degli operatori e la micidiale rincorsa al risparmio per sostenere una impossibile competizione con il trasporto su gomma e tra le stesse imprese ferroviarie. Il sistema regolatorio ferroviario deve essere trasparente e orientato alla massima sicurezza tecnicamente possibile e non lasciato alle valutazioni “commerciali” delle imprese (e degli organismi tecnocratici comunitari) sulla compatibilità e convenienza economica dei risarcimenti alle vittime rispetto agli investimenti in sicurezza.
LA NOSTRA BATTAGLIA PER LA SICUREZZA CONTINUA
In attesa delle motivazioni della sentenza, è necessaria una vera e propria “campagna d’opinione”, per correggere e modificare le normative europee sul trasporto di merci pericolose, iniziando dal mettere in discussione l’ERA, le sue regole e (presumibilmente) i suoi stessi membri. Nessuno deve dimenticare che quell’organismo tecnocratico, solo 40 giorni prima del 29 giugno 2009, aveva scelto di non rendere obbligatorio il rilevatore di svio (che avrebbe attenuato gli effetti del deragliamento ed evitato molti altri incidenti), perché più “costoso” dei risarcimenti per le eventuali vittime previste per gli anni successivi. Avevano dato un prezzo alle vite umane, che si sarebbero perse negli anni successivi. Un calcolo cinico e crudele, rivelatosi oltretutto sbagliato perché dopo solo 40 giorni da quella decisione, la tragica realtà di Viareggio ha dimostrato che l’ERA non solo “non ha cuore”, ma neanche le capacità tecniche di previsione.
A FIANCO AI FAMILIARI DELLE VITTIME
La sentenza pur segnando un punto fermo sulle responsabilità, ha lasciato parzialmente insoddisfatto chi ha perso tra le fiamme una o più persone care. La nostra rivista proseguirà nell’impegno profuso fino a oggi per sostenere i familiari, i cittadini di Viareggio ed i ferrovieri organizzati nell’Assemblea 29 giugno. Saremo al loro fianco, come ferrovieri, nel proseguimento di questa battaglia offrendo tutto il sostegno possibile. La partecipazione costante, qualificata e consapevole dei familiari, non soltanto a tutte le fasi del processo ma soprattutto alla mobilitazione permanente per la divulgazione delle conoscenze tecniche e il coinvolgimento dell’opinione pubblica e delle Istituzioni, ha dimostrato a tutti quanto sia importante l’impegno civile e sociale ai fini del miglioramento delle condizioni di sicurezza del trasporto ferroviario, che non dimentichiamolo mai, vuol dire sicurezza per tutti.
Il Dispositivo della Sentenza è scaricabile al link:
Le condanne nel dettaglio sono riportate al link:

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From: Carlo Soricelli carlo.soricelli@gmail.com
To:
Sent: Friday, February 10, 2017 10:44 AM
Subject: FINALMENTE TANTI MORTI SUL LAVORO RESUSCITANO (ALMENO PER LE STATISTICHE)

Si, come curatore dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro sono contento, dopo questa grande inchiesta di Repubblica sui morti che spariscono dalle statistiche. Finalmente tutti sono stati costretti a prendere posizione.
La sparizione di tanti morti sul lavoro l’avevo vista già al primo anno di monitoraggio delle vittime, era il 2009, avevo già raccolto in appositi file i morti del 2008, quando vennero fuori quelli dell’INAIL per quell’anno mi accorsi di questa anomalia. Come mai i morti che avevo registrato io erano molti di più? E da allora che cominciai a domandare a destra e manca delle ragioni di questa differenza. Ma nessuno mi ascoltava. Del resto ero solo un metalmeccanico che si era messo in testa di far comprendere le dimensioni del fenomeno in tempo reale agli italiani. Avevo nomi e cognomi delle vittime, mica erano fantasmi.
Prima le notizie più recenti del fenomeno avevano sei mesi o addirittura un anno. Ma questa discrepanza tra le statistiche che facevo io con l’aiuto dei miei figli e di qualche amico come Marco Bazzoni, anche lui metalmeccanico, addetto alla Sicurezza, che avevo conosciuto fin da subito per il suo costante impegno contro questo fenomeno degli infortuni anche mortali erano enormi, erano centinaia i morti che “sparivano”.
Anche un grande giornalista come Santo della Volpe s’interessava costantemente del fenomeno. Rimasi stupito quando vidi su Facebook la sua richiesta d’amicizia, avemmo numerosi contatti, venne anche a intervistarmi a casa mia. Ma anche lui, non riusciva a rompere quel muro d’indifferenza, di menefreghismo e di omertà che c’era sul fenomeno morti sul lavoro. Come mai i morti sui luoghi di lavoro dell’Osservatorio erano molti di più?
Guai a chi tocca la stampa e le televisioni e vuole intimorire i giornalisti. Si sono interessati del fenomeno tantissimi giornali, direi quasi tutti, pur sapendo come la pensavo e quel che scrivevo. Anche le televisioni pubbliche di tutti e tre i canali facevano ottimi servizi denunciando la differenza sul numero complessivo delle morti sul lavoro. Mentre le televisioni commerciali mai si sono occupate, se non in modo occasionale del fenomeno. Il TG3 per esempio ha fatto una campagna durata mesi su queste tragedie.
Ma niente la politica non ci sentiva. Mail tutti i mesi ai principali partiti e protagonisti della politica, li mettevo al corrente della situazione che denunciavo con l’Osservatorio, ma verso la vita di chi lavoro e delle denunce di un fenomeno che doveva far rizzare i capelli in testa niente.
Anche i sindacati avevano lo stesso atteggiamento della politica. La stessa indifferenza. Anche alla Camusso ho scritto diverse volte, con mail alla sua segreteria. Ma mai un interessamento. Del resto ho mandato mail alla segretaria Cantone dello stesso SPI CGIL a cui sono iscritto facendo le stesse denunce. La stessa indifferenza, probabilmente le loro segreterie neppure le informavano delle mail (almeno lo spero). Poi quando ieri ho letto che la segretaria della CISL Furlan parlava di un “pugno nello stomaco” dopo aver appreso dall’articolo di Repubblica della sparizione di tanti morti sul lavoro dalle statistiche, sono rimasto basito. Eppure i contatti con tanti funzionari di questo sindacato ci sono stati. Com’è possibile che non comunichino tra di loro su fenomeni che a un sindacato avrebbe dovuto avere tra le priorità?
Insomma un cittadino che attraverso un lavoro volontario vuole dare un contributo per problemi del Paese non conta niente. Ma una cosa ho sentito come gravissima; la grande lontananza che c’è tra le Istituzioni, di qualsiasi tipo al resto dei cittadini. Una superiorità che si manifesta con l’indifferenza, con l’ostracismo, con l’ironia, con la difesa della loro “superiorità”.
Di questo si dovrebbe occupare il Presidente Mattarella “della distanza tra cittadini e istituzioni” che sta diventando patologica. Mi ha colpito molto recentemente la mia cancellazione tra gli amici di Facebook di un sindacalista che occupa un posto di primo piano sulla Sicurezza, di cui per carità di patria non faccio il nome. Conosceva i miei dati da anni, spesso condivideva quello che scrivevo, poi lo vedo in televisione a un incontro con giornalisti, esponenti governativi e di quella che era la sua naturale controparte. Praticamente dava ragione agli altri su quasi tutto. Anche che i morti sul lavoro calavano, quando invece dal 2008 sui luoghi di lavoro non sono mai calati e lui lo sapeva bene. Davvero un colpo allo stomaco. Ovviamente gli ho scritto quello che pensavo, e lui invece di rispondere in merito, mi ha cancellato dagli amici. Mi risulta che anche con altri abbia fatto così. Lesa maestà anche dei sindacalisti? Insomma un ottimo rappresentante del sindacato che rinuncia al suo ruolo.
Ho accolto con molta soddisfazione la notizia del Disegno di Legge “sull’omicidio sul lavoro” che ha come prima firma, non a caso un altro metalmeccanico, il Senatore Barozzino, Finalmente la politica s’interesserà concretamente del fenomeno? Rinuncerà a fare leggi per diminuire ulteriormente la sicurezza sui luoghi di lavoro come hanno fatto in questi anni? Ricomincerà a considerare la vita di chi lavora come tra le cose più importanti che deve tutelare? Considererà i voucher, il precariato (che fa suicidare i giovani), il lavoro nero, e leggi come il Jobs Act come violenze contro i lavoratori? Ho forti dubbi per il semplice fatto che in parlamento sono pochissimi gli eletti che vengono dal lavoro dipendente. Sarà un Parlamento veramente democratico quando ci saranno in queste Istituzioni anche la rappresentanza equa di venticinque milioni di lavoratori dipendenti.
Ma noi metalmeccanici, anche se in pensione abbiamo la testa dura. Questa sarà la prossima battaglia, sarà lunga, sarà dura. Ma sarà restituita la rappresentatività politica e parlamentare al mondo del lavoro.

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