domenica 15 gennaio 2017

14 gennaio - SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! NEWSLETTER N. 275 DEL 13/01/17




NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI
(a cura di Marco Spezia - sp-mail@libero.it)

INDICE

CARENZE NEI LUOGHI DI LAVORO: DOMANDE E RISPOSTE (SECONDA PARTE)
1
MOBBING, STRAINING, BOSSING: UNA VITA DIFFICILE
5
SICUREZZA E TUTELE PER I LAVORATORI A TERMINE E IN SOMMINISTRAZIONE
8
IMPARARE DAGLI ERRORI: INFORTUNI DURANTE L’USO DELL’ARGANO
11
GUARINIELLO: LA SENTENZA THYSSEN-KRUPP, IL PROCESSO ETERNIT E LE NOVITA’ SULL’AMIANTO
14








CARENZE NEI LUOGHI DI LAVORO: DOMANDE E RISPOSTE (SECONDA PARTE)

Da LavoroInSicurezza

LavoroInSicurezza.org è un’iniziativa di Rete Iside onlus per lavoratori e lavoratrici, delegati sindacali e cittadini.
Uno strumento di intervento per promuovere una nuova cultura della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Un progetto totalmente autofinanziato e indipendente.
Tra le varie sezioni del sito, vi è quella “Domande/Risposte” dedicata appunto a fornire risposte a domande poste da lavoratori sui temi della tutela della salute e sicurezza:
La Sezione è divisa nei seguenti settori:
RISCHI PER LA SALUTE PREVENZIONE-PROTEZIONE
-         esposizione ad agenti chimico-fisici;
-         rischi muscolo-scheletrici;
-         rischi nei lavori ai videoterminali;
-         rischi nella guida dei veicoli;
-         rischi da stress lavoro correlato.
RISCHI PER LA SICUREZZA PREVENZIONE-PROTEZIONE
-         attrezzature di lavoro (macchine, utensili elettrici, attrezzi manuali ecc);
-         apparecchiature per la movimentazione delle merci;
-         carenze nei luoghi di lavoro.
Nel presente numero della mia Newsletter riporto le Domande/Risposte relative al tema “Carenze nei luoghi di lavoro (seconda parte)”.
Marco Spezia

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DOMANDA
Domani devo effettuare un lavoro in una zona della mia azienda isolata in cui non ci sono altri colleghi e non ci sono dispositivi di allerta per eventuali emergenze.
Come mi devo comportare?
RISPOSTA
Il datore di lavoro, ai sensi degli articoli dal 43 al 46 del D.Lgs. 81/08, deve sempre garantire ai lavoratori un’adeguata gestione delle situazioni di emergenza.
Se, ad esempio, si verifica un infortunio è fondamentale la presenza di qualcuno che avvisi un addetto alle emergenze per la gestione adeguata della situazione (intervento di primo soccorso, chiamata del soccorso esterno ecc).
Un lavoratore, quindi, non può lavorare da solo perché se, ad esempio, perde conoscenza, nessuno può effettuare tutte le operazioni di soccorso adeguate.
In teoria, ma di difficile realizzazione, il datore potrebbe dotare il lavoratore di un dispositivo di allarme che, in caso di malore del lavoratore, effettua automaticamente la chiamata di soccorso: in questi casi, però, bisogna garantire che l’intervento di soccorso venga effettuato in 3-4 minuti.
In sintesi, quindi, nei locali di lavoro ci deve essere sempre la presenza di altri lavoratori e di un addetto alle emergenze.

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DOMANDA
Il mio datore di lavoro mi ha chiesto di lavorare in un ambiente chiuso con temperature molto elevate dicendomi che la mia sicurezza è garantita.
Vorrei sapere se c’è un riferimento legislativo e quali diritti ha il lavoratore.
RISPOSTA
Dal punto di vista tecnico-legislativo in caso di locali confinati (intesi come caratterizzati da limitate aperture di accesso e da una ventilazione naturale sfavorevole, ad esempio silos, serbatoi di stoccaggio, ecc.) si applicano degli obblighi specifici, molto più complessi, per il datore di lavoro rispetto a valutazione dei rischi, misure di prevenzione, procedure di sicurezza, misure di primo soccorso ed antincendio, formazione ed addestramento dei lavoratori, ecc.
Quindi per risponderti in modo corretto servono delle informazioni dettagliate.
Rispetto al problema della temperatura dei locali la risposta è più semplice: il datore di lavoro deve garantire, ai sensi dell’articolo 65 e dell’Allegato IV del D.Lgs. 81/08, una temperatura adeguata dei locali di lavoro connessa con la tipologia d’attività ed il consumo energetico (sforzo) del lavoratore: ad esempio per lavoro d’ufficio 21-23 °C oppure per lavoro fisico di media intensità 18-21 °C.
In ogni caso nel periodo estivo la temperatura dei locali non deve superare i 24 gradi.
Nel caso in cui, per la tipologia delle lavorazioni effettuate, non è tecnicamente possibile garantire queste temperature, il datore di lavoro (Allegato IV del D.Lgs. 81/08) deve provvedere alla difesa dei lavoratori contro le temperature troppo alte o troppo basse mediante misure tecniche localizzate o mezzi personali di protezione.
In sintesi per legge il datore di lavoro deve adottare il seguente schema d’azione:
-         verificare se è tecnicamente possibile effettuare queste operazioni, in ambiente confinato, senza l’intervento del lavoratore; se non è tecnicamente possibile:
-         garantire, oltre a tutte le altre misure di sicurezza, una temperatura adeguata dei locali; se non è tecnicamente possibile:
-         adottare misure tecniche localizzate, o Dispositivi di Protezione Individuale, per garantire una temperatura adeguata al lavoratore.

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DOMANDA
Nel caso di lavori nel sottosuolo c’è bisogno di autorizzazioni particolari?
RISPOSTA
In generale è vietato adibire i locali sotterranei per attività lavorative
A questo divieto si può derogare solo se ci sono dei vincoli tecnici di produzione ineliminabili, in sintesi se si tratta di lavorazioni che possono essere effettuate solo in locali sotterranei.
In questi casi, però, il datore di lavoro deve sempre garantire i requisiti adeguati minimi previsti per i locali di lavoro (a livello di aerazione, illuminazione e microclima) e ottenere un’autorizzazione specifica dagli Organi di vigilanza.
Ecco cosa specifica il testo dell’articolo 65 del D.Lgs. 81/08 sui locali sotterranei o semisotterranei:
-         E’ vietato destinare al lavoro locali chiusi sotterranei o semisotterranei.
-         In deroga alle disposizioni di cui sopra, possono essere destinati al lavoro locali chiusi sotterranei o semisotterranei, quando ricorrano particolari esigenze tecniche. In tali casi il datore di lavoro provvede ad assicurare idonee condizioni di aerazione, di illuminazione e di microclima.
-         L’organo di vigilanza può consentire l’uso dei locali chiusi sotterranei o semisotterranei anche per altre lavorazioni per le quali non ricorrono le esigenze tecniche, quando dette lavorazioni non diano luogo a emissioni di agenti nocivi, sempre che siano rispettate le norme del presente Decreto Legislativo e si sia provveduto ad assicurare le condizioni di cui al comma precedente.

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DOMANDA
Per effettuare una lavorazione in un reparto della mia azienda a quali obblighi deve ottemperare il mio datore di lavoro?
RISPOSTA
Il datore di lavoro, ai sensi del D.Lgs. 81/08, deve prima di tutto avere il certificato di usabilità-agibilità dei locali di lavoro, rilasciato dagli organi di vigilanza (ASL), in cui si attesta che i locali sono idonei a essere utilizzati per una specifica tipologia di attività lavorativa. Se l’attività cambia bisogna aggiornare il certificato per verificare se ci sono ancora le condizioni di idoneità rispetto ai rischi per la salute dei lavoratori.
Ad esempio, se si decide di spostare in un locale l’attività di saldatura o verniciatura, bisogna verificare che ci siano le condizioni per garantire la salubrità dell’area, sia a livello di areazione naturale (finestre, ecc.), che di sistemi di aspirazione degli agenti inquinanti (i fumi di saldatura o verniciatura).
Ti consigliamo di procedere in questo modo:
-         scrivere prima una lettera al datore di lavoro in cui denunci il problema e chiedi di visionare il certificato di agibilità dei locali di lavoro per verificare che siano contemplate anche le attività attualmente effettuate; nella lettera ti conviene chiarire che ritieni responsabili il datore di lavoro, e il tuo dirigente di area, dei danni alla salute dei lavoratori che possono essere causati dal mancato rispetto dei requisiti previsti, da leggi e norme, per i locali di lavoro rispetto ai rischi connessi alle lavorazioni effettuate; ti conviene precisare, inoltre, che se il problema non sarà risolto, ti rivolgerai agli organi di vigilanza territoriali (ASL);
-         se il problema non viene risolto puoi fare denuncia alla ASL territoriale; in questo caso gli ispettori ASL verificano la situazione e, se rilevano rischi per la salute, impongono e prescrivono al datore di lavoro di attuare le misure adeguate per risolvere il problema: adeguare i locali di lavoro rispetto ai rischi provocati dalle attività effettuate.
Se ritieni che non abbia senso la lettera al primo punto, puoi partire direttamente con la denuncia alla ASL (secondo punto).
Importante: fatti consegnare una copia controfirmata (dal medico e dal datore di lavoro) della lettera.

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DOMANDA
Che tipi di interventi possono essere intrapresi per i colleghi che soffrono di allergie e devono lavorare in locali scarsamente puliti?
RISPOSTA
Ciao, ti consigliamo di procedere in questo modo.
Scrivi una lettera al medico competente, e al dirigente con delega di “datore di lavoro” ai sensi del D.Lgs. 81/08, in cui denunci il problema e chiedi:
-         al medico di certificare, in forma scritta, che il livello igienico dei locali non può comportare danni alla salute dei lavoratori con problemi di allergie;
-         al datore di lavoro di certificare, in forma scritta, che nella Valutazione dei Rischi è stato analizzato il problema ed è stato valutato come “assente” il livello di rischio per i lavoratori con problemi di allergie.
Ti conviene precisare, inoltre, che se entro un certo periodo (ad esempio una settimana) il problema non sarà risolto, ti rivolgerai agli organi di vigilanza territoriali (ASL).
Se il problema non viene risolto puoi fare denuncia alla ASL territoriale.
In questo caso gli ispettori ASL verificano la situazione e, se rilevano rischi per la salute, impongono o meglio “prescrivono” al datore di lavoro di attuare le misure adeguate per risolvere il problema: migliorare il livello igienico dei locali di lavoro.
Importante: fatti consegnare una copia controfirmata (dal medico e dal datore di lavoro) della lettera.

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DOMANDA
Da alcuni mesi faccio le pulizie della scuola da solo. Non ci sono né colleghi né altro personale scolastico.
Volevo sapere se è previsto che svolga la mia attività da solo?
RISPOSTA
Un lavoratore non può essere solo durante il lavoro perché, se si fa male, non ci sarebbe nessuno per soccorrerlo.
Nel tuo caso, quindi, il datore di lavoro non ha ottemperato agli obblighi di legge previsti per la gestione delle situazioni di emergenza (primo soccorso ed incendi).
Ci possono essere dei casi, ma non mi sembra il tuo, in cui se è previsto che un lavoratore resti da solo viene dotato di dispositivi (chiamati a “uomo presente”) che, in caso di perdita della conoscenza, effettuano automaticamente la chiamata di Pronto Soccorso.
Ti consiglio di chiedere al datore di lavoro, magari tramite il tuo RLS, il Piano per la gestione delle emergenze e verificare cosa è stato previsto per il tuo caso (quando sei da solo).
Ho paura però che non sia stato considerato e, quindi, puoi richiedere che ci sia sempre qualcuno (addetto alla gestione delle emergenze) quando lavori.

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DOMANDA
La porta del montacarichi con cui portiamo la merce dal magazzino alla vendita si apre quando il montacarichi non è al piano.
RISPOSTA
Ciao,
stai ponendo un problema di una gravità molto elevata: in una situazione simile, infatti, si possono verificare infortuni gravi sia per schiacciamento che per caduta dall’alto.
La porta del montacarichi, come per gli ascensori, si deve aprire solo quando la cabina è presente al piano.
Ti conviene segnalare subito la situazione di rischio (al RSPP, responsabile della sicurezza in azienda, ed al datore di lavoro) e interrompere l’attività con il montacarichi fino a quando non viene “messo in sicurezza”.
Il datore di lavoro, dal punto di vista dei suoi obblighi di legge, non può costringere un lavoratore a svolgere attività che comportano gravi rischi per la salute e la sicurezza.



MOBBING, STRAINING, BOSSING: UNA VITA DIFFICILE

Da Studio Cataldi
27/12/16
Avvocato Aldo Maturo

Anche se è difficile provare il nesso di causalità, la vittima ha a disposizione diverse forme di tutela.

Deve essere terribile uscire di casa tutti i giorni per andare al lavoro pensando che le ore trascorreranno in uno stato di conflittualità permanente per i difficili rapporti con colleghi invidiosi, gelosi o prevaricatori. Ancora peggio se un tale rapporto riguarda il superiore gerarchico, capoufficio o caporeparto che sia.
Le giornate lavorative si susseguono in un clima di pressione psicologica che rende la vita impossibile e spinge il lavoratore verso uno stato di depressione sempre più invalidante.
Pare che solo in Italia le vittime del mobbing siano un milione e mezzo con una percentuale del 70% nella pubblica amministrazione.

Quello che gli inglesi, in una accezione ormai consolidata, chiamano mobbing, dal verbo “to mob”, aggredire, è un complesso di violenze morali e psicologiche esercitate su un dipendente nell’ambiente di lavoro. I mobbers (aggressori) possono essere i superiori gerarchici, (mobbing verticale), i colleghi di lavoro (mobbing orizzontale), ma anche i dipendenti (mobbing ascendente).

La Corte di Cassazione (sentenza n.87 del 10/01/12) ha qualificato come mobbing la condotta del datore di lavoro nei confronti del dipendente caratterizzata da sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del lavoratore, con effetto lesivo del suo equilibrio psico-fisico e della sua personalità.

Alcuni esempi di comportamenti ostili, vessatori e discriminatori possono essere ad esempio:
-         atteggiamento palesemente difforme del superiore rispetto agli altri dipendenti;
-         sistematico discredito, calunnia, diffamazione di colleghi verso un altro collega;
-         dequalificazione nel lavoro;
-         diniego immotivato di permessi o ferie;
-         accuse generiche, non supportate da fatti o circostanze;
-         rimproveri alla presenza di colleghi pari grado, inferiori o in pubblico;
-         critiche continue e immotivate, aggressioni verbali;
-         demansionamento e attribuzione di compiti dequalificanti e non adeguati alla propria professionalità (se però le mansioni ritenute dequalificanti possono essere ritenute equivalenti allora questo rientra nel diritto del datore di lavoro di organizzare l’ufficio o l’azienda)
-         desocializzazione con isolamento fisico in uffici decentrati, senza contatti con altri, negando all’interessato le informazioni di lavoro necessarie;
-         richiesta di più controlli medico-fiscali per lo stesso periodo di assenza per malattia, diversamente dalle prassi seguite nei confronti di altri;
-         distacchi illegittimi;
-         minacce continue o immotivate di procedimenti disciplinari.

E’ opportuno evidenziare che non vi è mobbing se non è provato il carattere persecutorio dei comportamenti contestati (Sentenza della Corte di Cassazione n. 19180 del 28/09/16) mentre, d’altra parte, è stato riconosciuto il mobbing anche senza l’evento dannoso essendo sufficiente la condotta avente caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione risultante da una connotazione emulativa e pretestuosa (Corte di Appello di Firenze, Sentenza n.1100 del 17/11/11).

Forme di tutela contro il mobbing possono essere la denunzia al dirigente gerarchicamente sovraordinato all’autore del mobbing, la tutela sindacale, la segnalazione/denunzia al Ministero o Azienda che hanno l’obbligo di proteggere i loro dipendenti (Sentenza della Corte di Cassazione n. 1471 del 09/04/13) e ne rispondono quanto meno ai sensi dell’articolo 2087 del Codice Civile che impone l’obbligo per il datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore.
L’estrema soluzione resta quella della tutela davanti al magistrato, sapendo che bisogna provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi oggettivi e soggettivi costituenti l’azione mobizzante nonché l’intento persecutorio da parte del mobber. (Sentenza della Corte di Cassazione n. 3875 del 26/12/08). E’ chiaro che non c’è mobbing se lo stato psicofisico del denunziante è attribuibile a mania di persecuzione.

Se il ricorso per vie giudiziarie va a buon fine, si può chiedere il risarcimento danni perché è risarcibile ogni danno esistenziale di qualsiasi natura ed entità, purché accertabile (Sentenza della Corte di Cassazione, n.3057 del 2012).

Diversamente dal mobbing, nello “straining” manca la continuità nelle azioni vessatorie che sono invece limitate nel numero e distanziate nel tempo. Il soggetto vive sul posto di lavoro una situazione di stress forzato non per i normali ritmi di lavoro, ma perché è destinatario da parte di un superiore di un’azione volutamente ostile, stressante e discriminante che, pur senza continuità, riflette nel tempo gli effetti dell’azione ingiusta (Sentenza della Corte di Cassazione n.3291 del 2016)

Si pensi ad esempio al trasferimento immotivato in una sede disagiata, all’affidamento di un carico di lavoro insostenibile nel tempo richiesto, alla collocazione in una stanza disadorna, alla privazione del computer di lavoro per un tempo ingiustificato. Anche in questo caso scade la qualità della vita del soggetto che si sente discriminato ingiustamente e può accusare disturbi psicofisici.

Il lavoratore vittima di straining può invocare davanti al giudice la tutela prevista dal D.Lgs. 81/08, perché il Datore di lavoro deve vigilare sul comportamento dei suoi dirigenti e in caso negativo deve risarcire la vittima che abbia prodotto prove sufficienti a dimostrare gli abusi subìti, anche attraverso testimonianze di colleghi, di perizie mediche e di consulenze psicologiche.

Con il termine bossing si è soliti identificare invece una particolare forma di vessazione psicologica operata nell’ambito del luogo di lavoro nei confronti di un dipendente da un superiore gerarchico. A differenza del mobbing, dove la vessazione può essere attuata anche dai colleghi, nel caso specifico di bossing è un superiore gerarchico ad indurre la “vittima” in uno stato tale da preferire le dimissioni spontanee piuttosto che la sopportazione delle pressioni imposte.

La dottrina più attenta tende a configurare il bossing nel più ampio genus del mobbing, di cui rappresenta una species. Il datore di lavoro, o comunque un superiore gerarchico, nel caso che ci occupa, ha intenzione volgarmente di sbarazzarsi di un suo sottoposto, ma non potendolo licenziare (o non volendo) preferisce che sia questi a presentare le proprie dimissioni e ponendo in essere una condotta vessatoria che può assumere forme molteplici, lo induce a poco a poco a preferire detta soluzione.
Le condotte che configurano il bossing possono essere varie, come ad esempio la negazione di determinati benefits o accessori concessi a dipendenti di pari qualifica e grado, l’assegnazione di funzioni degradanti o, molto più genericamente, la funesta pressione operata con il semplice scopo di procurare nella vittima un intollerabile sentimento di vessazione che la induce a preferire l’interruzione del rapporto di lavoro.

Perché viene praticato il bossing?
Più che giuridiche le ragioni che determinano il bossing sono meglio ascrivibili nelle scienze sociologiche.
Il datore di lavoro, secondo alcuni osservatori, talvolta si sente “minacciato” dalla presenza del dipendente, ritenendo che lo stesso sia particolarmente qualificato o meritevole e, come tale, suscettibile di poterlo surclassare, mettere in ombra o rivestire le sue funzioni. Molto più spesso invece, il datore di lavoro o il superiore gerarchico preferiscono questa strada perché non vogliono fare ricorso alle lunghe procedure di licenziamento, accordi sindacali e tutti gli altri strumenti che il diritto del lavoro impone per dirimere questo genere di dispute.

Rimproveri, minacce, ritorsioni o azioni di sabotaggio, sono tra le azioni più comuni che chi pone in essere il bossing utilizza per poter generare nella vittima uno stato di ansia e vessazione che la induce a licenziarsi.

Cosa dice la legge al riguardo?
I rimedi attuati contro il bossing non sono solo di natura legislativa, ma anche sindacale o associazionistica.
Numerose associazioni, non solo sindacali, si battono per affrontare questa condotta che reca nocumento e disagio nei confronti dei dipendenti.
Il Decreto Legislativo 81/08 all’articolo 28, comma 1 così dispone: “La valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi”.
Sul punto, di particolare rilievo è finanche l’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004 dal quale si apprende che l’individuo ha una maggiore difficoltà a sostenere un’esposizione prolungata a un’intensa pressione, chiarendo inoltre che lo stress non è una malattia, ma un’esposizione prolungata ad esso può ridurre l’efficienza nel lavoro causando finanche delle patologie.

Quali possono essere i rimedi al bossing?
Il lavoratore può richiedere in sede giudiziaria un risarcimento danni per essersi licenziato a causa del bossing, ma la prova del danno è a suo esclusivo carico.
Come la Corte di Cassazione ha ammesso in un noto precedente “L’articolo 2087 del Codice Civile non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro e, solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze, sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia de dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi” (Sentenza della Corte di Cassazione Civile Sezione Lavoro n. 2038 del 29 gennaio 2013).

Per approfondimenti, vai alla guida completa sul mobbing, all’indirizzo:



SICUREZZA E TUTELE PER I LAVORATORI A TERMINE E IN SOMMINISTRAZIONE

Da: PuntoSicuro
12 dicembre 2016
di Tiziano Menduto

Un intervento si sofferma sulla tutela della salute e sicurezza nelle tipologie contrattuali flessibili dopo il Jobs Act, con riferimento anche al ruolo del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS). Focus sul lavoro a termine e sul lavoro in somministrazione.

Le ricerche su infortuni e malattie professionali sono chiare: i lavoratori flessibili sono esposti a maggiori rischi proprio in ragione della particolare natura del loro rapporto di lavoro, a prescindere dall’oggettiva pericolosità dell’attività svolta. E a questo proposito si può affermare che la flessibilità lavorativa costituisca dunque un “rischio in sé”.

A raccontare in questi termini i rischi dei lavoratori flessibili è un intervento al convegno “Modelli di rappresentanza e forme di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori”, che si è tenuto a Pesaro il 30 settembre 2016.
Un convegno organizzato da OPRAM (Organismo Paritetico Regionale Artigianato Marche) e coordinato del profesor Paolo Pascucci (Università di Urbino Carlo Bo), che ha offerto diversi spunti di riflessioni sugli RLS e sul tema della rappresentanza in materia di salute e sicurezza.

In “Tutela della salute e sicurezza nelle tipologie contrattuali flessibili dopo il Jobs Act e ruolo del RLS”, a cura di Chiara Lazzari (professore a contratto di Diritto del Lavoro presso l’Università di Urbino Carlo Bo) si ricorda innanzitutto la Direttiva europea 91/383/EE, che “completa le misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute durante il lavoro dei lavoratori aventi un rapporto di lavoro a durata determinata o un rapporto di lavoro interinale” e ci si sofferma su due diversi aspetti.

Da un lato l’impatto del D.Lgs. 81/15 D.Lgs. 151/15 rispetto alle problematiche relative alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori flessibili, e dall’altro il ruolo che il RLS può svolgere nella tutela di tali lavoratori.

La relatrice entra in particolare nei dettagli di alcune tipologie di flessibilità: lavoro a termine, lavoro in somministrazione, collaborazioni autonome e lavoro accessorio.

Ad esempio riguardo al lavoro a termine indica che si conferma (articolo 20, comma 1, lettera d) del D.Lgs. 81/15), così come per la somministrazione di lavoro ed il lavoro intermittente il divieto di stipulazione del contratto a tempo determinato con riferimento a quei datori di lavoro che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi. Il comma 2 dello stesso articolo aggiunge, però, l’importante precisazione giusta la quale la violazione (anche) del divieto in questione è sanzionata ora con la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, conformemente all’orientamento già accolto dalla giurisprudenza e dottrina maggioritarie.

Tuttavia si segnala la mancata riproposizione di quanto disposto dall’articolo 7, comma 1, del D.Lgs. 368/01 (“il lavoratore assunto con contratto a tempo determinato dovrà ricevere una formazione sufficiente e adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggetto del contratto, al fine di prevenire rischi specifici connessi alla esecuzione del lavoro”). E dal punto di vista sostanziale, continua la relatrice, merita ricordare come l’articolo 37 del D.Lgs. 81/08 imponga al datore di lavoro di assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza, con particolare riguardo, tra l’altro, ai rischi riferiti alle mansioni (comma 1, lettera b). E in ogni caso, l’articolo 28, comma 2, lettera f), dispone che il documento di valutazione dei rischi contenga l’individuazione delle mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione ed addestramento.

Ed è dunque necessario comprendere se l’abrogazione dell’articolo 7, comma 1, del D.Lgs. 368/01 possa compromettere la già incerta attuazione nel nostro ordinamento della citata Direttiva 91/383/CE.
Se non sembra che il livello di tutela precedentemente garantito possa dirsi peggiorato, la mancata riproposizione della disposizione pare comunque inserirsi in quel farraginoso, e inadeguato, percorso di recepimento della Direttiva in questione da più parti stigmatizzato. Sicché, nonostante il rimedio interpretativo riesca tutto sommato a soddisfare le esigenze preventive e protettive, restano non poche perplessità per la scarsa sensibilità, che pare emergere dall’abrogazione operata, dimostrata dal legislatore relativamente alle problematiche concernenti la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori flessibili, con il rischio che ciò si traduca altresì in un aggravamento della già dubbia conformità del nostro ordinamento rispetto al diritto comunitario.

Rimandando ad altro articolo l’approfondimento sulle problematiche delle collaborazioni autonome, del lavoro accessorio e del ruolo degli RLS, come contenute nella relazione di Lazzari, ci fermiamo ora alle problematiche rilevate riguardo al lavoro in somministrazione.

Anche in questo caso va segnalata l’abrogazione di quanto statuito dal terzo periodo dell’articolo 23, comma 5, del D.Lgs. 276/03, secondo cui, “nel caso in cui le mansioni cui è adibito il prestatore di lavoro richiedano una sorveglianza medica speciale o comportino rischi specifici, l’utilizzatore ne informa il lavoratore”. E ancora una volta la modifica potrebbe porre qualche problema rispetto al Diritto Comunitario, dal momento che la disposizione costituiva attuazione, già “al minimo”, dell’obbligo d’informazione (cui, secondo l’articolo 3 della Direttiva 91/383/CE, sono tenuti l’impresa o lo stabilimento utilizzatori prima che il lavoratore inizi a svolgere la propria attività) avente ad oggetto “i rischi che (il medesimo) corre”, dovendo riguardare “in particolare l’esigenza di qualifiche o attitudini professionali particolari o di una sorveglianza medica speciale definita dalla legislazione nazionale”, e “gli eventuali rischi aggravati specifici connessi con il posto di lavoro da occupare”. Sicché, continua la relatrice, il legislatore avrebbe semmai dovuto cogliere l’occasione offerta dalla nuova regolamentazione per un intervento in materia, a partire dalla precisazione dell’indefinita nozione di “sorveglianza medica speciale”, piuttosto che procedere radicalmente all’eliminazione dell’obbligo in questione.

Quanto al resto si ribadisce (articolo 35, comma 4, ultimo periodo del D.Lgs. 81/15) che l’utilizzatore osserva nei confronti dei lavoratori somministrati gli obblighi di prevenzione e protezione cui è tenuto, per legge e contratto collettivo, verso i propri dipendenti. E analogamente si riconferma l’obbligo del somministratore d’informare i lavoratori sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive e di formarli ed addestrarli all’uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa per la quale essi vengono assunti; così come si mantiene la possibilità di trasferire detto adempimento all’utilizzatore. Quanto all’inciso, che compariva nel citato articolo 23, comma 5, secondo periodo, “in tale caso ne va fatta indicazione nel contratto con il lavoratore” (riferito proprio all’ipotesi in cui ci si avvalesse della ricordata possibilità di trasferimento) sarebbe stato opportuno che la sua mancata riproposizione fosse coordinata con quanto previsto dall’articolo 33, comma 3, del D.Lgs. 81/15, nel senso d’inserire tale informazione tra quelle che il somministratore deve comunicare per iscritto al lavoratore in ordine al contenuto del contratto di somministrazione, ma così non è stato.

Concludiamo ricordando che la relazione segnala poi come un passo indietro si registri altresì con riferimento ai presidi posti a tutela dell’effettività del divieto di ricorrere alla somministrazione di lavoro in caso di mancata valutazione dei rischi.
Ed infatti in relazione alla relazione trilaterale che caratterizza questa tipologia contrattuale, il ruolo del somministratore era reso corresponsabile, per la corretta osservanza del divieto di cui al vecchio articolo 20, comma 5, lettera c) del D.Lgs. 276/03, dalla previsione di una sanzione amministrativa pecuniaria destinata a colpire entrambi i contraenti (somministratore ed utilizzatore) in caso di sua violazione (articolo 18, comma 3 del D.Lgs. 276/03).
Tuttavia l’articolo 18, comma 3 è stato abrogato (articolo 55, comma 1, lettera d) del D.Lgs. 81/15) e, al suo posto, il nuovo articolo 40, comma 1 del D.Lgs. 81/15 punisce, per la violazione dei divieti posti dall’articolo 32, solo l’utilizzatore, sgravando, quindi, il somministratore di ogni responsabilità in proposito.

Si ricorda, comunque, che l’esibizione del documento di valutazione dei rischi da parte dell’utilizzatore risulta in ogni caso funzionale al corretto assolvimento delle prescrizioni di cui all’articolo 33, comma 3, del D.Lgs. 81/15, che sanciscono, in capo al somministratore, il dovere di comunicare per iscritto al lavoratore, all’atto dell’assunzione o dell’invio in missione, il contenuto del contratto di somministrazione, tra cui va annoverata l’indicazione della presenza di eventuali rischi per la salute e la sicurezza, così come delle misure di prevenzione adottate (articolo 33, comma 1, lettera c) del D.Lgs. 81/15).

Il documento “Tutela della salute e sicurezza nelle tipologie contrattuali flessibili dopo il Jobs Act e ruolo del RLS”, a cura di Chiara Lazzari (professoressa a contratto di Diritto del Lavoro presso l’Università di Urbino Carlo Bo e condirettrice Osservatorio Olympus) è scaricabile all’indirizzo:



IMPARARE DAGLI ERRORI: INFORTUNI DURANTE L’USO DELL’ARGANO

Da: PuntoSicuro
22 dicembre 2016
di Tiziano Menduto

Esempi di infortuni correlati all’utilizzo degli argani nei cantieri. Gli incidenti nelle attività di movimentazione di mattoni e di sollevamento di sacchi di calce. La dinamica degli infortuni, i castelli di carico, la documentazione e la prevenzione.

Nei cantieri edili un’attrezzatura spesso utilizzata per il sollevamento di carichi è l’argano, un’attrezzatura purtroppo correlata, come ricordato anche dalla nostra rubrica “Imparare dagli errori”, a cadute dall’alto e a infortuni dipendenti anche dal mancato rispetto delle procedure di sicurezza nell’utilizzo dell’elevatore.
Per cercare di favorire la prevenzione di questi infortuni, presentiamo alcuni degli incidenti che avvengono nell’utilizzo degli argani/elevatori da cantiere proponendo anche spunti e suggerimenti per migliorare la gestione della sicurezza nei cantieri.

Ricordiamo, come sempre, che le dinamiche degli infortuni presentati sono tratte dalle schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi.

Il primo caso riguarda un infortunio durante la movimentazione di mattoni.
Un lavoratore, titolare della ditta, si trova sul piano di lavoro del castello di tiro a circa 3 metri di altezza e sta movimentando i mattoni mediante l’utilizzo di una carriola agganciata all’argano installato sul castello.
Nell’atto di prendere i mattoni dalla carriola si sbilancia e nel cadere a terra urta la carriola facendone rovesciare il contenuto. Nel piano di lavoro del castello di tiro era presente un parapetto. L’infortunato riporta una frattura cranica.

Il secondo caso riguarda un infortunio durante il sollevamento di sacchi di calce.
Un lavoratore si trova su un castello di carico di un ponteggio privo di protezioni e sta sollevando con un argano una carriola carica di sacchi di calce.
Mentre cerca di fare appoggiare la carriola sul piano di carico dopo averla sganciata, la stessa si sbilancia e il lavoratore per cercare di bloccarla cade nel vuoto insieme ad essa riportando la frattura della coscia sinistra.

Per quanto riguarda la prevenzione, rimandiamo innanzitutto, per quanto riguarda le cadute dall’alto, i rischi dei lavori in quota e la prevenzione correlata, ai molti articoli della rubrica dedicati a questi temi, sia con riferimento alla caduta dei ponteggi che all’utilizzo di protezioni collettive o individuali.

In particolare il tema dei castelli di carico e della documentazione correlata è affrontato dalla guida “Documentazione di Cantiere”, pubblicata sul sito del Comitato Paritetico Territoriale di Bergamo e elaborata dal Coordinamento regionale dei CPT della Lombardia (Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Lecco, Mantova, Milano, Lodi, Monza Brianza, Pavia, Sondrio e Varese). Una guida che offre un quadro riassuntivo della principale documentazione, relativa alla sicurezza, che deve essere tenuta in un cantiere edile.

La guida riporta informazioni sul progetto (disegno esecutivo con relazione di calcolo) che serve prima della realizzazione del ponteggio/castello di carico, come richiesto dal D.Lgs. 81/08 al Titolo IV, articolo 133. E si sottolinea che i ponteggi di altezza superiore ai 20 metri e quelli che non risultano conformi agli schemi di impiego previsti nell’Autorizzazione Ministeriale e nel libretto del fabbricante, devono essere eretti in base ad un progetto comprendente:
-         calcolo di resistenza e stabilità eseguito secondo le istruzioni approvate nell’autorizzazione ministeriale;
-         disegno esecutivo.
Inoltre è vietato l’uso promiscuo di elementi strutturali di ponteggio aventi Autorizzazioni Ministeriali diverse all’interno degli schemi previsti. Negli altri casi (partenze e parapetti di sommità al di fuori degli schemi) occorre un progetto specifico. Senza dimenticare che tutti i castelli di carico non previsti nell’Autorizzazione Ministeriale devono essere allestiti in base ad un progetto.

Per avere invece indicazioni specifiche sugli argani possiamo fare riferimento al documento dell’INAIL “Vademecum per un cantiere etico”, frutto del Protocollo d’Intesa tra la Direzione Regionale INAIL Campania e il Coordinamento regionale dei CPT.

Nel documento si indica che gli argani, apparecchi di sollevamento costituiti da un elevatore e dalla relativa struttura di supporto, sono principalmente di due tipi:
-         argano a cavalletto: l’argano elevatore è fissato alla rotaia, provvista di un dispositivo di arresto di fine corsa ad azione ammortizzante; la rotaia è sostenuta da due cavalletti posti anteriormente e posteriormente alla trave; la portata massima sollevabile varia da 300 kg a 1.000 kg;
-         argano a bandiera: l’argano elevatore è fissato a un supporto a bandiera snodato in modo da poter permettere la rotazione; la portata massima può essere poco superiore ai 200 kg.
Si ricorda che per portata superiore a 200 kg l’argano è soggetto ad omologazione dell’INAIL Settore Ricerca.

Dalle domande contenute nel vademecum, utili per comprendere se sono attuate le indicazioni normative vigenti, si possono ricavare alcune indicazioni per la sicurezza.

Ad esempio l’argano deve essere:
-         munito di targhetta con marchio CE con relativa dichiarazione di conformità e di libretto di istruzione;
-         munito di libretto di omologazione e targhetta di immatricolazione rilasciati dall’INAIL Settore Ricerca (per portata superiore a 200 kg);
-         munito di un libretto di uso e manutenzione;
-         montato secondo il libretto di uso.

Queste, infine, come riportato nel documento, le verifiche da eseguire prima dell’uso di un argano, con riferimento a quanto disposto dall’Allegato V del D.Lgs. 81/08:
-         devono essere esposti, in prossimità dell’argano e alla base del castello di carico, i cartelli indicanti le principali norme d’uso, le segnalazioni per comunicare con il manovratore, le norme di sicurezza, le istruzioni di imbracatura dei carichi e il carico nominale dell’elevatore;
-         la rotaia entro la quale scorre l’argano deve essere provvista all’estremità di un dispositivo di arresto di fine corsa ad azione ammortizzante;
-         le estremità delle funi devono essere provviste di piombatura o di legatura a morsettiera;
-         i ganci devono essere dotati all’imbocco di dispositivo di chiusura funzionante e portare inciso il marchio di conformità e la portata massima ammissibile;
-         il posto di lavoro soggetto al passaggio di carichi sospesi deve essere protetto tramite una robusta tettoia alta non più di 3 m;
-         la zona di azione del sollevatore a terra deve essere transennata;
-         deve essere presente il dispositivo di arresto automatico del carico in caso di interruzione dell’energia elettrica;
-         deve essere presente il dispositivo di frenatura per pronto arresto e la posizione di fermo del carico e del mezzo;
-         le funi metalliche dell’impianto di sollevamento, in rapporto al carico massimo ammissibile, devono essere state dimensionate con un coefficiente di sicurezza almeno pari a 8;
-         devono essere utilizzate per il sollevamento dei carichi brache omologate e conformi all’impianto stesso.

Il sito web di INFOR.MO., di cui nell’articolo abbiamo presentato le schede numero 6299 e 6328 è consultabile all’indirizzo:

Il documento “Documentazione di Cantiere”, pubblicato dal Comitato Paritetico Territoriale di Bergamo ed elaborato dal Coordinamento regionale dei CPT della Lombardia è scaricabile all’indirizzo:

Il documento dell’INAIL “Vademecum per un cantiere etico”, frutto del Protocollo d’Intesa tra la Direzione Regionale INAIL Campania e il Coordinamento regionale dei CPT è scaricabile all’indirizzo:



GUARINIELLO: LA SENTENZA THYSSEN-KRUPP, IL PROCESSO ETERNIT E LE NOVITA’ SULL’AMIANTO

Da: PuntoSicuro
23 dicembre 2016
di Tiziano Menduto

In questi mesi ci sono state importanti novità per i processi Eternit bis e Thyssen-Krupp. E siamo in attesa di rilevanti novità normative in tema di amianto e uranio. Ne parliamo con l’ex magistrato Raffaele Guariniello.

Raffaele Guariniello, ex Sostituto Procuratore e ex coordinatore del pool di magistrati della Procura di Torino, specializzato nei problemi relativi alla sicurezza sul lavoro, si è dimesso, più o meno un anno fa, anticipando il suo pensionamento che era fissato per legge al 31 dicembre 2015.
Tuttavia non solo ancora oggi l’ex magistrato è attivo in materia di sicurezza (ad esempio attraverso la collaborazione a progetti e strumenti di informazione e attraverso il lavoro di consulenza per la Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti dell’utilizzo dell’uranio impoverito), ma molti degli attuali importanti processi in materia di sicurezza sono nati e si sono sviluppati attraverso il lavoro dell’ex magistrato e del pool della Procura torinese.

Per questo motivo parlare oggi con Raffaele Guariniello ci permette di entrare nella cronaca di alcune delle novità inerenti due importanti processi: il processo Eternit bis, che succede al processo Eternit di cui abbiamo più volte parlato nel nostro giornale, e il processo Thyssen-Krupp.

Nel primo caso, relativo alla richiesta di giustizia per tante vittime che hanno respirato polveri d’amianto degli stabilimenti italiani della multinazionale Eternit, a Torino a fine novembre il Giudice dell’Udienza Preliminare (GUP) (la figura preposta a decidere, attraverso l’udienza preliminare, sulla richiesta del Pubblico Ministero di rinvio a giudizio) ha derubricato, per il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, l’accusa da omicidio volontario a omicidio colposo e ha dichiarato la prescrizione per un centinaio di casi, mentre per altri ha rinviato a varie Procure. Una decisione che sembra allontanare ulteriormente il momento in cui per i morti di amianto si potranno finalmente accertare cause e responsabilità.

Nel secondo caso facciamo invece riferimento a una novità che risale solo a poche settimane fa e che riguarda il deposito delle motivazioni della sentenza con cui la Corte di Cassazione, all’udienza del 13 maggio 2016, ha confermato la condanna per l’ex Amministratore Delegato della Thyssen-Krupp, Harald Espenhahn, e altri cinque manager per l’incidente avvenuto nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007.

Ed è su questi temi che inizia la nostra intervista all’ex magistrato Raffaele Guariniello.

Qual è il commento di Guariniello alle decisioni del GUP riguardo il processo Eternit bis?
Ricordiamo che l’ex magistrato fa riferimento, nelle sue risposte, anche al superamento della questione del principio giuridico del “bis in idem”, in virtù del quale non si può essere giudicati due volte per lo stesso fatto.

La derubricazione da omicidio volontario a omicidio colposo non ricorda il precedente non riconoscimento dell’omicidio volontario con dolo eventuale per l’amministratore delegato della Thyssen-Krupp? Quali gli aspetti negativi e positivi di questa nuova evoluzione del processo Eternit?

Guariniello si sofferma poi sul possibile futuro Testo Unico in materia di amianto per riordinare e integrare la complessa normativa correlata (ci sono più di 200 normative con riferimenti diretti o indiretti all’amianto). Quali sono gli aspetti positivi di questo Testo Unico sull’amianto? Cosa tuttavia è ancora necessario per facilitare l’applicazione della legge?

Ed è inevitabile che una risposta faccia riferimento alla sua, più volte caldeggiata, proposta di una Procura o di un’Agenzia specifica in materia di sicurezza sul lavoro.

Nell’intervista si affrontano poi le novità del caso Thyssen-Krupp.
Cosa ne pensa l’ex magistrato delle motivazioni depositate qualche settimana fa?
In relazione alle sue precedenti affermazioni sul valore della nostra giurisprudenza in materia di sicurezza, rivolgiamo a Guariniello alcune domande sul disegno di legge a firma dei senatori Maurizio Sacconi (Presidente Commissione Lavoro) e Serenella Fucksia che in nome della semplificazione vorrebbe ridurrebbe il Testo Unico sulla sicurezza da 306 a 22 articoli.
Cosa ne pensa Guariniello di queste proposte?

L’intervista si conclude con un excursus di alcune attività attuali dell’ex magistrato, partendo dalla Commissione sull’uranio impoverito e dalla proposta di legge correlata che è stata recentemente portata all’attenzione della Camera.

Come sempre diamo ai nostri lettori la possibilità di leggere una trascrizione parziale dell’intervista, realizzata il 20 dicembre, o di ascoltarla integralmente al link:

Punto Sicuro: Il nostro giornale ha seguito in questi anni il percorso del processo Eternit, fino ad arrivare all’Eternit-bis e alla derubricazione, per il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, dell’accusa da omicidio volontario a omicidio colposo, con la prescrizione per un centinaio di casi e il rinvio, per altri, ad altre procure. Non le chiedo solo un giudizio su queste recenti decisioni, ma vorrei anche un commento su questa derubricazione, che ricorda il non riconoscimento dell’omicidio volontario con dolo eventuale per l’amministratore delegato della Thyssen-Krupp...
Raffaele Guariniello: Sì, diciamo che è un po’ sulla stessa linea. Noi ci eravamo praticamente mossi nel solco tracciato dalla Corte di Appello di Torino nel primo processo Eternit. Questo aspetto è indubbiamente importante e potrà essere ancora ridiscusso, magare in sede di ricorso per Cassazione. Però non mi sembra il punto più importante in questo momento.
Ho visto che a seguito di quelle udienze c’è stato un po’ di scoramento da parte dei parenti delle vittime... Sa, io sono sempre abituato ad adeguarmi alle situazioni e, a mio parere, credo che sia comunque molto positivo il fatto che sia stato superato lo scoglio del “bis in idem” che qualcuno riteneva insuperabile.
Molti dicevano che siccome era stato fatto un processo non si poteva fare il processo bis invece, tra la Corte Costituzionale è il Giudice della Udienza Preliminare, si è risposto che questo processo si può invece fare perché non c’è il “bis in idem”. Questo mi pare un dato molto positivo.
E l’altro dato molto positivo è che comunque un processo verrà fatto.
Poi si è detto: “però viene spezzato in più parti”. Peraltro non si può non sottolineare che la maggior parte dei casi si tratterà a Vercelli, sono i casi di Casale Monferrato ... Anche questo mi sembra un po’ un aspetto da valutare non solo criticamente, ma anche in positivo...
E ricordiamoci sempre che siamo l’unico paese in cui un processo per l’Eternit viene fatto. In alcuni paesi in cui c’è stata l’Eternit hanno tentato di fare il processo, ma nessuno è riuscito a portarlo avanti. E invece qui il processo si farà.
Questo mi sembra un dato molto positivo. E con il fatto che è caduto il “bis in idem” si farà un processo che comprenderà i casi già contestati ma anche tutti i casi nuovi che purtroppo si verificheranno via via nel tempo.
Quindi in un momento storico in cui vediamo che, purtroppo, ci sono alcune decisioni che hanno destato un po’ di sconcerto (ad esempio con riferimento alle sentenze su Pirelli, su Fibronit e su altri casi) di una situazione in cui il processo sarà fatto bisogna saper cogliere anche gli aspetti positivi.

Punto Sicuro: L’attenzione verso il tema dell’amianto, anche attraverso i processi, ha contribuito ad avvicinarci sempre più ad un Testo Unico in materia di amianto per riordinare e integrare tutta la complessa normativa correlata. Qual è il suo giudizio su questo Testo Unico?
Raffaele Guariniello: Sì, ho visto. C’è questo Testo Unico che è un dato molto positivo e che naturalmente dovrà essere accompagnato da alcune premesse di carattere organizzativo e procedurale. Perché non basta purtroppo (noi lo stiamo vedendo sotto vari aspetti) fare una nuova legge. E’ importante, ma bisogna anche creare le premesse di carattere organizzativo, quindi una organizzazione che poi metta mano alle leggi. Se no poi queste leggi restano disapplicate...


Punto Sicuro: La proposta di Testo Unico prevede anche di raddoppiare i termini delle indagini preliminari e della prescrizione in caso di processi per i reati di disastro, lesioni e morti per malattie asbesto derivate.
Raffaele Guariniello: Sì, questo va tutto bene. Però lei capisce che non basta allungare i termini di prescrizione... Bisogna anche accelerare i processi. E’ giusto evitare le prescrizioni, ma bisogna anche accelerare i processi.
Il messaggio che noi avevamo avuto dal processo Thyssen-Krupp è significativo.
E’ stata un’esperienza eccezionale. Siamo riusciti a evitare la prescrizione del reato e le pene sono in corso di esecuzione. E questo perché? Perché le indagini preliminari sono state fatte in due mesi e mezzo. Non perché i Pubblici Ministeri erano più bravi degli altri, ma perché c’era una organizzazione e questa organizzazione consente di fare le indagini in tempi molto più rapidi.
E’ questo che bisogna porsi come problema: chi applica, chi fa applicare queste norme? E quindi la mia risposta è quantomeno un “Agenzia nazionale sulla sicurezza del lavoro”...

Punto Sicuro: Questo è un tema che abbiamo affrontato spesso. Secondo lei oggi una Procura nazionale in materia di sicurezza potrebbe essere più facilmente realizzabile rispetto a 10 anni fa?
Raffaele Guariniello: Se non una procura, quantomeno un’agenzia che abbia compiti di polizia giudiziaria.

Punto Sicuro: Le chiedo un commento in riferimento alla pubblicazione delle motivazioni del verdetto del 13 maggio 2016 riguardo al processo Thyssen-Krupp.
Raffaele Guariniello: Beh, insomma sembra che sia stata un’esperienza eccezionale. C’è chi dice che non c’è il dolo, ma arrivare a 9 anni e 8 mesi di reclusione, non era mai successo. Quindi mi pare che sia un dato positivo. E soprattutto che il processo non sia incorso in prescrizione.
Quindi devo dire che questa motivazione della sentenza della Cassazione accoglie tutte le nostre impostazioni, di fatto.

Punto Sicuro: E si riconosce nelle motivazioni, per l’amministratore delegato Harald Espenhahn, una “colpa imponente”?
Raffaele Guariniello: Sì, è una bellissima sentenza che chiude il processo.
A questo punto resta solo da fare opera di giustizia, nel senso di dare esecuzione alle pene non solo nei confronti degli imputati italiani ma anche nei confronti degli imputati stranieri.

Punto Sicuro: Parlerei ora di Testo Unico in materia di sicurezza.
Un disegno di legge, a firma dei senatori Maurizio Sacconi e Serenella Fucksia, in nome della semplificazione vorrebbe ridurrebbe il Testo Unico sulla sicurezza da 306 a 22 articoli. Cosa ne pensa di queste proposte?
Raffaele Guariniello: Devo dire che ho avuto occasione di parlarne anche con il senatore Sacconi. E’ ancora una proposta allo stato iniziale. Poi ci sono una serie di tematiche che occorre affrontare perché sono tematiche pressanti, tipo la tutela dei lavoratori distaccati, i modelli di organizzazione e gestione nelle piccole e medie imprese... Insomma c’è una serie di temi e che sono nati dalla applicazione concreta del Testo Unico e che invece bisognerà affrontare...

Punto Sicuro: Sappiamo che lei, benché si sia dimesso dalla magistratura, ha continuato e continua ad occuparsi di sicurezza. So che lei collabora con una Commissione sull’uranio impoverito.
Raffaele Guariniello: Lì si sta facendo un lavoro di eccellenza. Perché c’è una proposta di legge che è stata portata adesso all’attenzione della Camera e che dovrebbe essere discussa. Noi dobbiamo trasformare i militari in lavoratori. I militari anche loro devono essere tutelati così come i lavoratori di tutte le altre imprese pubbliche e private. E poi dobbiamo creare una organizzazione di vigilanza che non sia di giurisdizione domestica, ma che sia esterna alle Forze Armate...

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