- marco santopadre-contropiano
Sviluppo,
progresso, modernizzazione…tumori, morti, bugie, impunità. E’ un cazzotto nello
stomaco lungo 50 minuti il documentario di Laura Pesino ed Elena Ganelli
presentato ieri pomeriggio nella Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati
alla presenza delle autrici, del produttore Adriano Chiarelli e di alcune
esponenti del parlamento e del governo.
“La chiamavamo ‘mamma Goodyear’ perché ci dava lavoro, ci dava da mangiare” racconta un operaio della fabbrica di Cisterna di Latina, uno dei tanti che non ce l’ha fatta e che è morto nel corso della lavorazione del documentario. Un lavoro sensibile e duro al tempo stesso che dà voce alle vittime di una fabbrica che per decenni ha rappresentato la (apparente) fortuna di un territorio strappato all’agricoltura grazie ai fondi elargiti senza tanti controlli dalla Cassa del Mezzogiorno a partire dagli anni ’60 del secolo scorso. Ma ad un certo punto ‘mamma Goodyear’ ha cominciato a rivelarsi una feroce matrigna che consapevolmente, in nome del massimo profitto, ha assassinato e fatto ammalare molti dei suoi ‘figli’.
‘Happy Goodyear’ – un titolo amaro e ambivalente, quanto mai azzeccato – ricostruisce la storia di una delle tante fabbriche di morte sparse sul suolo italiano, che continua a seminare disperazione in un territorio dal quale, nel 2000, ha deciso di scappare. Quando le prime denunce e le prime inchieste rivelarono le colpe dei manager e dei dirigenti - la mancanza assoluta di misure di sicurezza e prevenzione che ha condannato a morte lenta e dolorosa centinaia di lavoratori - la multinazionale decise infatti di smantellare tutto e delocalizzare la produzione degli pneumatici in Europa dell’Est.
Il documentario accompagna lo spettatore in una sorta di via crucis nei luoghi della produzione di morte e di sofferenza. Nei capannoni dove invece delle sei presse autorizzate ce ne stavano ben 60 e dove gli operai lavoravano immersi nella polvere d’amianto, nel nerofumo, nei solventi e nelle vernici senza guanti, senza tute protettive, senza mascherine; nella mensa dove gli operai mangiavano senza neanche cambiarsi d’abito. E poi nelle loro case dove, a più di un decennio dalla chiusura dello stabilimento, raccontano di cicli interminabili di chemioterapia, di operazioni allo stomaco, di metastasi ai polmoni. E di tanti colleghi che non ci sono più, che se ne sono andati. Un lungo elenco, che conta oltre duecento morti di tumore e decine di malati di patologie neoplastiche, linfomi, leucemie. Le centinaia di sostanza chimiche cancerogene respirate, ingerite e assorbite per venti o anche trent’anni senza nessuna protezione non perdonano. Una lista di lutti destinata nei prossimi anni a crescere rapidamente, visto che il periodo di latenza dei tumori provocati dall’amianto e dalle altre sostanze killer impiegate nella produzione degli pneumatici è di decine di anni.
Il lavoro delle due giornaliste, premiato come miglior documentario al Rome Independent Film Festival di quest’anno, lascia parlare i protagonisti di questa tragica vicenda di cui la grande stampa non ha saputo né, a volte, voluto occuparsi più di tanto. Eppure, come ha detto una delle autrici, Laura Pesino, “quella della Goodyear non è una piccola storia di provincia, visto il numero enorme delle vittime oltretutto finora calcolato per difetto”.
Protagonista del documentario è Agostino Campagna, operaio e rappresentante sindacale, che comincia ad annotare su un’agenda rossa i nomi dei colleghi e amici che si ammalano uno dopo l’altro, poi a raccogliere casa per casa le cartelle cliniche. In un primo tempo i casi documentati clinicamente sembrano essere ‘solo’ 40, ma poi in poco tempo arriva una valanga di cartelle cliniche, che diventano ben 200.
Nel 2000 il “Comitato familiari e vittime della Goodyear” deposita una denuncia contro la multinazionale presso la Procura di Latina, proprio mentre la fabbrica decide di chiudere i battenti e spostare la produzione ad est. Le accuse ipotizzate per nove ex dirigenti dello stabilimento - alcuni dei quali stranieri - sono omicidio colposo plurimo e lesioni plurime aggravate. Una tesi accolta dal Tribunale di Latina nel processo di primo grado, concluso con una sentenza di condanna a 21 anni complessivi di reclusione nei confronti di tutti gli imputati. Una condanna tenue ma ribaltata al termine del processo davanti alla Corte d’Appello di Roma, che ha invece assolto la maggior parte degli operai accogliendo l’assurda tesi difensiva dei legali dei manager – legali dello Studio Severino, gestito dalla famiglia del Ministro della Giustizia durante il governo Monti (!) – secondo i quali le morti degli operai della fabbrica di Cisterna potrebbero essere la conseguenza del fumo delle sigarette o dalle loro cattive abitudini alimentari. D’altronde anche il commissario straordinario Clini affermò che i lavoratori ammazzati dall’Ilva di Taranto erano in realtà vittime delle sigarette che avevano fumato…
Eppure la Goodyear non ha mai adottato neanche quelle minime misure di sicurezza che già negli anni ’70 fabbriche simili di pneumatici di altri paesi prevedevano per tutelare la salute dei lavoratori impiegati nei propri stabilimenti. Costava troppo, evidentemente, investire in sicurezza e in prevenzione e il profitto non poteva essere ridotto in nome del diritto alla vita di semplici operai.
E così per molti anni i manager e addirittura i medici hanno mentito agli operai, negando che ai sintomi che questi denunciavano con sempre maggiore frequenza corrispondesse alcuna grave patologia. La vicenda raccontata dal documentario prodotto dalla Soulcrime – che ha già all’attivo “Nei secoli fedele – Il caso di Giuseppe Uva” – mostra un vero e proprio sistema di omertà e complicità costruito dalla multinazionale: medici compiacenti che procastinavano gli esami clinici e ne falsificavano i risultati, i controlli degli ispettori dell’Asl preannunciati in modo che la fabbrica potesse essere momentaneamente ripulita, i politici e i sindacalisti che giravano gli occhi dall’altra parte…
Nel frattempo è in corso un secondo processo nel capoluogo pontino per altri morti e altri malati. Questa volta gli imputati sono undici, rinviati a giudizio nel maggio del 2012 con accuse simili a quelle alla base del processo precedente.
Intanto però la scia di morte della multinazionale continua a seminare lutti, gli ex operai continuano ad ammalarsi e a morire. E ‘mamma Goodyear’ non c’è più, al suo posto ha lasciato un deserto. Umano, oltre che economico e ambientale.
“La chiamavamo ‘mamma Goodyear’ perché ci dava lavoro, ci dava da mangiare” racconta un operaio della fabbrica di Cisterna di Latina, uno dei tanti che non ce l’ha fatta e che è morto nel corso della lavorazione del documentario. Un lavoro sensibile e duro al tempo stesso che dà voce alle vittime di una fabbrica che per decenni ha rappresentato la (apparente) fortuna di un territorio strappato all’agricoltura grazie ai fondi elargiti senza tanti controlli dalla Cassa del Mezzogiorno a partire dagli anni ’60 del secolo scorso. Ma ad un certo punto ‘mamma Goodyear’ ha cominciato a rivelarsi una feroce matrigna che consapevolmente, in nome del massimo profitto, ha assassinato e fatto ammalare molti dei suoi ‘figli’.
‘Happy Goodyear’ – un titolo amaro e ambivalente, quanto mai azzeccato – ricostruisce la storia di una delle tante fabbriche di morte sparse sul suolo italiano, che continua a seminare disperazione in un territorio dal quale, nel 2000, ha deciso di scappare. Quando le prime denunce e le prime inchieste rivelarono le colpe dei manager e dei dirigenti - la mancanza assoluta di misure di sicurezza e prevenzione che ha condannato a morte lenta e dolorosa centinaia di lavoratori - la multinazionale decise infatti di smantellare tutto e delocalizzare la produzione degli pneumatici in Europa dell’Est.
Il documentario accompagna lo spettatore in una sorta di via crucis nei luoghi della produzione di morte e di sofferenza. Nei capannoni dove invece delle sei presse autorizzate ce ne stavano ben 60 e dove gli operai lavoravano immersi nella polvere d’amianto, nel nerofumo, nei solventi e nelle vernici senza guanti, senza tute protettive, senza mascherine; nella mensa dove gli operai mangiavano senza neanche cambiarsi d’abito. E poi nelle loro case dove, a più di un decennio dalla chiusura dello stabilimento, raccontano di cicli interminabili di chemioterapia, di operazioni allo stomaco, di metastasi ai polmoni. E di tanti colleghi che non ci sono più, che se ne sono andati. Un lungo elenco, che conta oltre duecento morti di tumore e decine di malati di patologie neoplastiche, linfomi, leucemie. Le centinaia di sostanza chimiche cancerogene respirate, ingerite e assorbite per venti o anche trent’anni senza nessuna protezione non perdonano. Una lista di lutti destinata nei prossimi anni a crescere rapidamente, visto che il periodo di latenza dei tumori provocati dall’amianto e dalle altre sostanze killer impiegate nella produzione degli pneumatici è di decine di anni.
Il lavoro delle due giornaliste, premiato come miglior documentario al Rome Independent Film Festival di quest’anno, lascia parlare i protagonisti di questa tragica vicenda di cui la grande stampa non ha saputo né, a volte, voluto occuparsi più di tanto. Eppure, come ha detto una delle autrici, Laura Pesino, “quella della Goodyear non è una piccola storia di provincia, visto il numero enorme delle vittime oltretutto finora calcolato per difetto”.
Protagonista del documentario è Agostino Campagna, operaio e rappresentante sindacale, che comincia ad annotare su un’agenda rossa i nomi dei colleghi e amici che si ammalano uno dopo l’altro, poi a raccogliere casa per casa le cartelle cliniche. In un primo tempo i casi documentati clinicamente sembrano essere ‘solo’ 40, ma poi in poco tempo arriva una valanga di cartelle cliniche, che diventano ben 200.
Nel 2000 il “Comitato familiari e vittime della Goodyear” deposita una denuncia contro la multinazionale presso la Procura di Latina, proprio mentre la fabbrica decide di chiudere i battenti e spostare la produzione ad est. Le accuse ipotizzate per nove ex dirigenti dello stabilimento - alcuni dei quali stranieri - sono omicidio colposo plurimo e lesioni plurime aggravate. Una tesi accolta dal Tribunale di Latina nel processo di primo grado, concluso con una sentenza di condanna a 21 anni complessivi di reclusione nei confronti di tutti gli imputati. Una condanna tenue ma ribaltata al termine del processo davanti alla Corte d’Appello di Roma, che ha invece assolto la maggior parte degli operai accogliendo l’assurda tesi difensiva dei legali dei manager – legali dello Studio Severino, gestito dalla famiglia del Ministro della Giustizia durante il governo Monti (!) – secondo i quali le morti degli operai della fabbrica di Cisterna potrebbero essere la conseguenza del fumo delle sigarette o dalle loro cattive abitudini alimentari. D’altronde anche il commissario straordinario Clini affermò che i lavoratori ammazzati dall’Ilva di Taranto erano in realtà vittime delle sigarette che avevano fumato…
Eppure la Goodyear non ha mai adottato neanche quelle minime misure di sicurezza che già negli anni ’70 fabbriche simili di pneumatici di altri paesi prevedevano per tutelare la salute dei lavoratori impiegati nei propri stabilimenti. Costava troppo, evidentemente, investire in sicurezza e in prevenzione e il profitto non poteva essere ridotto in nome del diritto alla vita di semplici operai.
E così per molti anni i manager e addirittura i medici hanno mentito agli operai, negando che ai sintomi che questi denunciavano con sempre maggiore frequenza corrispondesse alcuna grave patologia. La vicenda raccontata dal documentario prodotto dalla Soulcrime – che ha già all’attivo “Nei secoli fedele – Il caso di Giuseppe Uva” – mostra un vero e proprio sistema di omertà e complicità costruito dalla multinazionale: medici compiacenti che procastinavano gli esami clinici e ne falsificavano i risultati, i controlli degli ispettori dell’Asl preannunciati in modo che la fabbrica potesse essere momentaneamente ripulita, i politici e i sindacalisti che giravano gli occhi dall’altra parte…
Nel frattempo è in corso un secondo processo nel capoluogo pontino per altri morti e altri malati. Questa volta gli imputati sono undici, rinviati a giudizio nel maggio del 2012 con accuse simili a quelle alla base del processo precedente.
Intanto però la scia di morte della multinazionale continua a seminare lutti, gli ex operai continuano ad ammalarsi e a morire. E ‘mamma Goodyear’ non c’è più, al suo posto ha lasciato un deserto. Umano, oltre che economico e ambientale.
U
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