NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA
DEI LAVORATORI
INDICE
ONERI E COSTI PER LA
NECESSITA’ DI DPI SPECIFICI PER MOTIVI DI SALUTE
LE
CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.75
Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR
RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne
fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di
lavoro.
Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di
richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire
con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti dei lavoratori.
Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che
hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.
Esse trattano di argomenti vari sulla materia e
possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a
che fare con casi simili o analoghi.
Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza
ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende
coinvolte.
Marco Spezia
QUESITO
Caro
Marco,
la
cooperativa dove lavoro ha fornito scarpe antiscivolo e antinfortunistiche agli
operatori di una struttura per disabili, ma alcuni operatori hanno difficoltà a
calzarle per problemi di conformazione del piede e di salute e hanno chiesto di
poter avere altri modelli che possano tollerare.
La
cooperativa ha fatto una circolare che dice che le persone che hanno rifiutato
la fornitura delle scarpe antiscivolo devono presentare una certificazione
medica da parte di uno specialista ortopedico che motivi la non utilizzabilità
delle scarpe normalmente fornite.
In
tal caso l’operatore potrà acquistare personalmente le scarpe adatte alle sue
esigenze, purché nel rispetto della normativaUNI EN 347 e con marcatura CE.
La
cooperativa rimborserà l’equivalente del costodelle scarpe antiscivolo
normalmente acquistate per il servizio (circa 20 euro) al lavoratore che, a sua
volta, dovrà presentare documentazione dell’avvenuto acquisto con fattura
intestata al lavoratore delle scarpe per lui adatte.
Ti
pare normale che per avere le scarpe adatte al costo di 20 euro il lavoratore
debba spendere per la visita ortopedica molto di più del costo delle scarpe?
Vorremmo
rispondere alla cooperativa che per la dotazione di DPI si deve tener conto
delle problematiche individuali, ci dai qualche suggerimento normativo?
Grazie
RISPOSTA
Ciao,
la
cooperativa sta sbagliando tutto, evidentemente in cattiva fede e in maniera
strumentale, per risparmiare soldi.
La
normativa (il solito D.Lgs. 81/08, “Decreto”) dice tutt’altre cose.
Prima
di entrare nel merito della domanda, mi permetto un’osservazione che dimostra
anche l’incompetenza del RSPP della cooperativa o dei suoi consulenti.
La
norma tecnica citata dalla cooperativa, la UNI EN 347, è stata ritirata, quindi non è più
valida, dall’Ente Italiano di Normazione (UNI) addirittura nel 2008 e
sostituita dalla norma UNI EN ISO 20347 “Dispositivi di protezione individuale
- Calzature da lavoro” edizione del 2004. Quindi è materialmente impossibile
oggi comprare scarpe che rispettino la normativa UNI EN 347, a meno che queste...
non siano fondi di magazzino del 2008 (come forse quelle che fornisce la
cooperativa...).
Vengo
al merito della questione.
MISURE
GENERALI DI TUTELA
Prima
di entrare nell’ambito specifico della parte del Decreto che tratta di DPI, mi
preme ricordare un principio fondamentale, che sta alla base di tutti i
disposti legislativi del Decreto.
L’articolo
15, comma 2 del Decreto stabilisce tra le “Misure generali
di tutela”
che
“Le misure relative alla
sicurezza, all’igiene ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun
caso comportare oneri finanziari per i lavoratori”.
E mi preme mettere in evidenza che in questo disposto il legislatore
ha inserito, per darne particolare enfasi, l’inciso “in nessun caso”.
Quindi, qualunque sia l’evenienza o la causa che comporta oneri
economici per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, questi
oneri non possono essere mai a carico dei lavoratori stessi, ma sempre e
soltanto dell’azienda.
CARATTERISTICHE
ERGONOMICHE DEI DPI
In
merito all’obbligo di fornire ai lavoratori i Dispositivi di Protezione
Individuali (DPI), si applica quanto stabilito dall’articolo 77, comma 3 del
Decreto:
“Il datore di lavoro [...] fornisce ai lavoratori DPI conformi ai
requisiti previsti dall’articolo 76”.
Il mancato adempimento di tale obbligo da parte del datore di lavoro o
del dirigente è sanzionato dall’articolo 87, comma 2 del Decreto con l’arresto da tre a sei mesi
o con l’ammenda da 2.500 a
6.400.
L’articolo 77, comma 3 non impone solo che il datore
di lavoro debba fornire i DPI ai lavoratori (a titolo gratuito, come deriva dal
citato articolo 15, comma 2 del Decreto), ma anche che questi debbano essere
conformi all’articolo 76 del Decreto.
L’articolo 76 (che in forza di quello che stabilisce
l’articolo 77, comma 3 costituisce un obbligo) stabilisce al comma 2, lettera
c) che:
“I DPI [...] devono inoltre tenere conto delle esigenze
ergonomiche o di salute del lavoratore”.
E’ indicativo che il legislatore abbia utilizzato il
termine “del lavoratore” anziché
quello “dei lavoratori”, in quanto ha
voluto specificare che qualunque DPI deve tenere conto delle esigenze
ergonomiche di ogni singolo lavoratore e non, in generale, della media o della
maggior parte dei lavoratori.
Inoltre l’articolo 76, comma 2, lettera c) non
specifica quali origini debbano avere le “esigenze ergonomiche” di cui devono tenere conto i DPI.
Pertanto i DPI da fornire a ogni singolo lavoratore
devono tenere conto delle esigenze ergonomiche peculiari di ogni singolo
lavoratore, sia che derivino da caratteristiche personali (ad esempio, in
questo caso, il numero di scarpa o la forma del piede), sia che derivino da
patologie professionali o meno.
Quindi secondo quanto sopra, è a totale carico
dell’azienda (in quanto obbligo a lei imposto e in virtù del principio generale
di cui all’articolo 15, comma 2 del Decreto) scegliere nella gamma di quelli
disponibili sul mercato, quei DPI che si adattino alle esigenze ergonomiche del
singolo lavoratore, qualunque siano i motivi che richiedono specifiche esigenze
ergonomiche.
E’ ancora a totale carico dell’azienda, stabilire
quali siano i motivi che creano tali esigenze e quali calzature devono essere
adottate. E ciò deve essere fatto dall’unica figura aziendale a cui il Decreto
dà ogni onere e responsabilità in merito alla verifica dell’idoneità fisica del
lavoratore a svolgere una mansione lavorativa (che, in questo caso comporta
l’uso di DPI): il medico competente.
LA
SORVEGLIANZA SANITARIA SULL’UTILIZZO DEI DPI
Nell’ambito della sorveglianza sanitaria di idoneità
alla mansione è obbligo del medico competente verificare se ogni lavoratore è
idoneo a svolgere la mansione specifica alla quale è destinato. Tale verifica
deve comprendere tutti i rischi specifici della mansione lavorativa ai fini di
tutelare la salute del lavoratore. Nell’analisi dei rischi specifici della
mansione rientrano anche la necessità di utilizzo di ogni tipologia di DPI.
A tale proposito vale quanto disposto come obbligo per
il medico competente dall’articolo 25, comma 1, lettera b):
“Il medico
competente programma ed effettua la sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41
attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici e
tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati”.
Il mancato adempimento di tale obbligo da parte del medico competente
è sanzionato dall’articolo 58, comma 1, lettera b) del Decreto con l’arresto
fino a due mesi o con l’ammenda da 300
a 1.200 euro.
Tra i rischi specifici
della mansione devono essere tenuti in considerazione anche quelli aggiuntivi a
quelli della mansione derivanti dall’utilizzo dei DPI.
L’individuazione di quali
siano tali fattori di rischio aggiuntivi derivanti dall’utilizzo dei DPI, è un
obbligo a carico del datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 77, comma 1,
lettera b) del Decreto che impone che:
“Il datore di lavoro ai fini
della scelta dei DPI, individua le caratteristiche dei DPI necessarie affinché
questi siano adeguati ai rischi [...]
tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli
stessi DPI”.
Anche in questo caso è indicativo che il legislatore abbia aggiunto il
periodo “tenendo conto delle eventuali
ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi DPI”, in quanto è
noto, da letteratura tecnica e scientifica, che alcuni DPI possono comportare
fattori aggiuntivi di rischio a seguito del loro utilizzo (rischi che
ovviamente devono essere inferiori a quelli da cui i DPI proteggono i
lavoratori).
Pertanto, nell’ambito dell’obbligo generale di cui agli articoli 17,
comma 1, lettera a), 28 e 29, il datore di lavoro deve inserire all’interno
della valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza, anche quelli
aggiuntivi derivanti dall’uso dei DPI.
A seguito dell’analisi di cui all’articolo 77, comma 1, lettera b) del
Decreto, il datore di lavoro deve comunicare al medico competente quali siano i
rischi aggiuntivi causati dai DPI da utilizzare, in maniera tale che il medico
competente possa effettuare la sorveglianza sanitaria del lavoratore, anche in
funzione di tali rischi aggiuntivi.
La sorveglianza sanitaria, eseguita dal medico competente secondo
l’obbligo di cui all’articolo 25, comma 1, lettera b), deve essere effettuata
dal medico stesso secondo quanto stabilito dall’articolo 41 del Decreto.
In particolare l’articolo 41, comma 4 del Decreto stabilisce che:
“Le visite mediche [...], a cura e spese del datore di lavoro,
comprendono gli esami clinici e biologici e indagini diagnostiche mirati al
rischio ritenuti necessari dal medico competente [...]”.
E’ evidente da questo disposto che le visite mediche eseguite
nell’ambito della sorveglianza sanitaria sono “a cura e spese del datore di lavoro” e che queste possono
comprendere “esami clinici e biologici e
indagini diagnostiche mirati al rischio ritenuti necessari dal medico competente”.
Pertanto, in merito alla sorveglianza sanitaria relativa ai rischi
aggiuntivi derivanti dall’uso del DPI, il medico competente stabilirà quali
accertamenti fare eseguire, compresi “indagini
diagnostiche” (quali ad esempio visite ortopediche). Tali accertamenti non
possono essere a carico del lavoratore, ma solo ed esclusivamente dell’azienda,
come chiaramente specificato dall’articolo 41, comma 4.
IL GIUDIZIO DI IDONEITA’ ALLA MANSIONE E LE PRESCRIZIONI
In esito alla sorveglianza sanitaria eseguita dal medico competente,
anche in merito ai rischi aggiuntivi derivanti dall’utilizzo dei DPI, egli
dovrà esprimere il giudizio di idoneità alla mansione per ogni singolo
lavoratore, compreso il giudizio in merito alla possibilità di utilizzo dei DPI
messi a disposizione dell’azienda, secondo quanto stabilito dall’articolo 41,
comma 6:
“Il medico competente, sulla base
delle risultanze delle visite mediche [...], esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica:
a) idoneità;
b) idoneità parziale,
temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
c) inidoneità temporanea;
d) inidoneità permanente”.
Se il lavoratore, per motivi di natura patologica (temporanea o
permanente) o di altra natura ha necessità di DPI specifici che siano
compatibili alla patologia o alle caratteristiche fisiche accertate dal medico
competente, anche sulla base di indagini diagnostiche mirate, il medico
competente stesso dovrà esprimere un giudizio di idoneità con prescrizioni, le
quali prescrizioni riguarderanno il tipo più idoneo di DPI da utilizzare, in
funzione della patologia o delle caratteristiche accertate.
Il medico competente dovrà
comunicare per iscritto al lavoratore e al datore di lavoro tale giudizio di
idoneità con le prescrizioni del caso (ma non ovviamente l’eventuale patologia
che le hanno definite), ai sensi dell’articolo 41, comma 6-bis del Decreto:
“Nei casi di cui alle
lettere a), b), c) e d) del comma 6 il medico competente esprime il proprio
giudizio per iscritto dando copia del giudizio medesimo al lavoratore e al
datore di lavoro”.
Il mancato adempimento di tale obbligo da parte del medico competente
è sanzionato dall’articolo 58, comma 1, lettera e) del Decreto con la sanzione
amministrativa pecuniaria da 1.000 a
4.000 euro.
A sua volta il datore di lavoro o il dirigente dovrà innanzitutto farsi
carico, ai sensi dell’articolo 18, comma 1, lettera bb) di:
“vigilare
affinché i lavoratori per i quali vige l’obbligo di sorveglianza sanitaria non
siano adibiti alla mansione lavorativa specifica senza il prescritto giudizio
di idoneità”.
Pertanto prima di adibire il lavoratore alla mansione che prevede
l’utilizzo di DPI potenzialmente dannosi per la sua salute, il datore di lavoro
o il dirigente lo dovrà sottoporre a specifica sorveglianza sanitaria da parte
del medico competente, per accertarne la possibilità senza danni di uso dei DPI
necessari alla sua mansione.
Inoltre il datore di lavoro
o il dirigente dovrà adottare le misure indicate dal medico competente in esito
alla sorveglianza sanitaria (e quindi anche le relative prescrizioni), ai sensi
di quanto disposto dall’articolo 42 del Decreto:
“Il datore di lavoro, anche in
considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68 [Norme per il diritto al lavoro dei disabili], in relazione ai giudizi di
cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente
[...]”.
Pertanto, ove l’esito della sorveglianza sanitaria preveda una
prescrizione relativa all’utilizzo dei DPI con richiesta di utilizzo di DPI
specifici e adeguati alle caratteristiche e alle patologie del lavoratore, il
datore di lavoro o il dirigente si dovrà fare carico, a onere totale della azienda,
di fornire al lavoratore i DPI adeguati, come da prescrizione del medico
competente.
Come stabilito dall’articolo 15, comma 2, precedentemente citato, il
costo degli specifici DPI necessari al lavoratore a fronte delle prescrizioni
del medico competente conseguenti a caratteristiche o patologie particolari,
dovranno essere a carico totale dell’azienda e non comportare nessun esborso da
parte del lavoratore, nemmeno come differenza rispetto ai DPI di uso comune.
Se il medico competente nel suo giudizio di idoneità non tiene conto
dei rischi aggiuntivi per la salute derivante dall’utilizzo dei DPI, oppure se
dall’ultima visita di sorveglianza sanitaria subentrano situazioni (cambio del
tipo di DPI, insorgenza di patologie) che ne possono modificare l’esito (e
quindi il giudizio sulla possibilità o meno di utilizzare i DPI), il lavoratore
ha la facoltà di richiedere specifica visita di sorveglianza sanitaria,
relativa alla sua incompatibilità fisica con i DPI, ai sensi dell’articolo 41,
comma 1, lettera a) del Decreto:
“La sorveglianza sanitaria è
effettuata dal medico competente qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la
stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi”.
E’ evidente che una incompatibilità per motivi di salute all’utilizzo
di un DPI da parte di un lavoratore è sicuramente “correlata ai rischi lavorativi”.
CONCLUSIONI
In conclusione:
-
i rischi aggiuntivi derivanti dalla necessità di
utilizzo dei DPI da parte dei lavoratori, devono essere valutati dal datore di
lavoro, anche in funzione delle possibili caratteristiche o patologie di ogni
singolo lavoratore;
-
il datore di lavoro deve comunicare il tipo e
l’entità di tali rischi al medico competente, al fine di potergli permettere di
eseguire la sorveglianza sanitaria per esprimere il giudizio di idoneità alla
mansione, anche relativamente alla necessità di utilizzo dei DPI;
-
il medico competente deve esprimere a seguito di
visita medica e, se necessario, di accertamenti specialistici, il giudizio
sulla idoneità o meno all’utilizzo dei DPI necessari allo svolgimento della
mansione lavorativa da parte del singolo lavoratore e, se necessario, specificare
prescrizioni in merito sul DPI più adeguato al lavoratore;
-
la visita medica e, se necessario, gli
accertamenti specialistici sono a totale carico dell’azienda;
-
se la prescrizione impartita dal medico
competente, comporta la necessità di acquisto di specifici DPI, adeguati alle
caratteristiche o allo stato di salute del lavoratore, l’onere dell’acquisto è
a totale carico dell’azienda;
-
nel caso in particolare quindi, visita medica,
accertamenti diagnostici e specialistici per definire l’idoneità o meno
all’utilizzo di un DPI sono a totale carico dell’azienda;
-
nel caso in particolare poi, l’azienda non dovrà
farsi carico del costo solo del DPI “base”, ma anche della differenza tra il
costo del DPI prescritto dal medico e quello “base”.
THYSSEN-KRUPP: LA CASSAZIONE CONFERMA
LE CONDANNE PER I SEI IMPUTATI
17
maggio 2016
di
Rolando Dubini, avvocato in Milano
Si
spalancano le porte del carcere per datori di lavori, dirigenti, Responsabili
del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) per il tragico rogo di Torino.
L’incidente,
la vicenda giudiziaria, la reazione dei parenti delle vittime e dell’ex
Pubblico Ministero Raffaele Guariniello.
La Corte di Cassazione ha
confermato in via definitiva le condanne nel ricorso bis nei confronti dei sei
imputati per il rogo alla Thyssen-Krupp nel quale, nel dicembre 2007, morirono
7 operai.
Le
vittime del rogo sono Antonio Schiavone (il primo a morire alle 4 del mattino
per le ferite riportate durante l’incidente), Giuseppe Demasi, Angelo Laurino,
Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino (spirati lentamente
dal 7 al 30 dicembre del 2007 per le gravissime ustioni riportate).
La
pena più alta, 9 anni e 8 mesi, è quella inflitta all’ex amministratore
delegato e datore di lavoro Harald Espenhahn. Condannati poi Daniele Moroni,
responsabile investimenti antincendio dell’azienda, a 7 anni e 6 mesi; Raffaele
Salerno, ex direttore dello stabilimento, a 7 anni e 2 mesi; il RSPP Cosimo
Cafueri a 6 anni e 8 mesi.
Pene
di 6 anni e 3 mesi per i manager Marco Pucci (responsabile commerciale e datore
di lavoro, oggi responsabile delle partecipate del gruppo ILVA che si è sospeso
dal proprio incarico) e Gerald Priegnitz responsabile amministrativo e datore
di lavoro.
E’
stato così confermato il verdetto della Corte d’Assise d’Appello di Torino del
29 maggio 2015. La sentenza del maggio scorso era arrivata dopo l’intervento
della Cassazione.
I
giudici della Suprema Corte, dopo la prima condanna in appello, avevano
rimandato a Torino gli atti e avevano chiesto di rimodulare le pene per i reati
considerati.
Nei
due gradi di processo celebrati a Torino, gli inquirenti hanno ricostruito
minuziosamente i minuti dell’incidente, la sequenza di eventi che provocarono
le fiamme e poi il “flash fire”, la nuvola di fuoco generata dalle particelle
di olio presenti nell’aria dopo lo scoppio di un flessibile.
Un’ondata
di fuoco che non lasciò scampo a Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto
Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino e Antonio Schiavone.
Al
centro delle inchieste, prima, e delle sentenze, dopo, ci sono state le gravi
carenze in tema di sicurezza nello stabilimento di Torino, polo che il Gruppo
dell’acciaio aveva deciso di chiudere da lì a qualche mese.
Sono
stati ritenuti responsabili di omicidio colposo, omissioni di cautele
antinfortunistiche e incendio colposo aggravato.
Ora
per gli italiani Pucci, Moroni, Salerno e Cafueri si apriranno le porte in
carcere. Giusto il tempo necessario per il Sostituto Procuratore generale di
Torino Vittorio Corsi di ricevere la sentenza dalla Cassazione e firmare il
provvedimento di esecuzione, anche se pare che i quattro italiani si
presenteranno spontaneamente nei commissariati di polizia o nelle caserme dei
carabinieri per evitare di essere prelevati a casa.
Per
i due manager tedeschi, Harald Espenhahn e Priegnitz, i tempi saranno più
lunghi, ma favorevoli: l’Italia dovrà emettere un mandato di cattura europeo e
poi, in base alle norme di cooperazione giudiziaria, i due tedeschi verranno
incarcerati nella loro nazione, ma solo per un massimo di cinque anni, il
massimo della pena prevista per l’omicidio colposo aggravato. In sostanza, la
pena per l’Amministratore Delegato della Thyssen-Krupp Krupp sarà quasi dimezzata,
vista la condanna a nove anni e dieci mesi.
Il
collegio presieduto da Fausto Izzo hanno quindi respinto la richiesta del
Sostituto Procuratore Generale Paola Filippi che in mattinata aveva chiesto di
annullare la sentenza del 29 maggio 2015 per rimandare gli atti alla Corte
d’Assise d’Appello di Torino affinché i giudici possano rivalutare la pena base
dell’omicidio colposo aggravato e bilanciare le attenuanti.
LA RICOSTRUZIONE
DELLA
TRAGEDIA
Si
chiude dunque con le condanne definitive una vicenda lunga 9 anni.
Nella
notte a cavallo tra il 5 e il 6 dicembre 2007 otto operai al lavoro sulla linea
5 della fabbrica siderurgica Thyssen-Krupp di Torino vengono investiti da una
fuoriuscita di olio bollente che prende fuoco. L’incendio si sviluppa
all’altezza della linea di ricottura e decapaggio. L’intervento dei Vigili del
Fuoco è immediato: i feriti vengono trasportati in ospedale, ma le loro
condizioni sono gravissime. In sette non ce la fanno: il primo operaio, Antonio
Schiavone, muore poche ore dopo. Tra il 7 e il 30 dicembre le altre sei
vittime: Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rocco Marzo, Rosario Rodinò
e Bruno Santino, tra i 26 e i 54 anni. Si salva Antonio Boccuzzi, unico
superstite, che ha seguito il processo accanto ai familiari delle vittime.
Quella
notte di fine 2007 allo scoppio del rogo i sette operai insieme al collega
Antonio Boccuzzi, l’unico sopravvissuto e ora deputato del PD, avevano tentato
di spegnere le fiamme, ma ogni loro sforzo era stato inutile: nonostante i
frequenti incendi sulla linea 5, gli estintori erano quasi vuoti, le manichette
di acqua inutili, l’impianto non era adeguato perché il management sapeva che
lo stabilimento sarebbe stato chiuso.
Una
città di tradizione operaia che viveva già la stagione della crisi FIAT era
scesa in piazza per protestare contro le morti bianche e la risposta della
magistratura era stata rapida.
Dall’indagine
dei Pubblici Ministeri Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso emerse
che quella di limitare le spese nella prevenzione era stata una scelta
aziendale, definita dai giudici della corte d’assise come “sciagurata”, ma consapevole,
motivo per cui avevano condannato gli imputati a pene tra i dieci anni e i
sedici per omicidio volontario con dolo eventuale.
Per
i colleghi della Corte d’Assise d’Appello, invece, non ci fu “dolo”, ma
soltanto imprudenza, un impianto inadeguato dal punto di vista della
prevenzione e protezione antincendio che non ha retto. Un’imprudenza
inescusabile dei dirigenti pagata a carissimo prezzo dai lavoratori.
LA VICENDA
GIUDIZIARIA
Era
la seconda volta che il processo Thyssen-Krupp arrivava in Cassazione, che in
precedenza aveva ordinato alla Corte d’Appello di Torino di ricalcolare il
trattamento sanzionatorio.
Nel
processo d’appello bis le pene erano state lievemente ridotte. In primo grado
il Pubblico Ministero Raffaele Guariniello aveva contestato l’accusa di
omicidio volontario con dolo eventuale e le condanne erano state molto pesanti.
In
appello le pene furono mitigate, con l’esclusione del dolo, e l’ultima
riduzione c’è stata dopo il primo ricorso degli imputati in Cassazione.
L’ultimo verdetto di condanna ha confermato l’omicidio colposo aggravato e
violazione delle norme di sicurezza. In caso di conferma della Sentenza,
quattro imputati si costituiranno subito.
La
vicenda giudiziaria era partita il 15 gennaio 2009, quando si è aperto a Torino
il primo grado di giudizio, che si sarebbe prolungato fino al 15 aprile 2011,
giorno della prima sentenza, arrivata dopo 100 udienze celebrate e la condanna
severa inflitta a sei imputati. Tra loro l’Amministratore Delegato dell’azienda
siderurgica, Harald Espenhahan, condannato in primo grado a 16 anni e mezzo di
reclusione per omicidio volontario. Per i manager Thyssen-Krupp le pene erano
state in primo grado di 13 anni e mezzo per omicidio e incendio colposi (con
colpa cosciente) e omissione di cautele antinfortunistiche.
Le
parti civili avevano avuto 13 milioni di euro su un totale di 17 milioni di
risarcimento. Il 1 luglio 2008 la Thyssen-Krupp, che nel frattempo nel marzo 2008
aveva chiuso i battenti dello stabilimento torinese, ha versato la cifra alle
famiglie dei 7 operai morti nel rogo per non costituirsi parte civile.
Secondo
i giudici di primo grado, fu una “scelta sciagurata” dell’Amministratore
Delegato “di azzerare” - si legge nella motivazione – “ogni scelta di
prevenzione”.
Le
pene erano state lievemente ridotte durante il secondo grado di giudizio,
celebrato tra il 28 novembre 2012 e il 28 febbraio 2013, presso la Corte d’Assise d’Appello di
Torino, presieduta da Giangiacomo Sandrelli, con la clamorosa esclusione per
l’Amministratore Delegato Espenhahan, del dolo.
Dunque
la Corte
d’Assise d’Appello di Torino, nel 2013, aveva però attenuato le pene per tutti
gli imputati riqualificando in omicidio colposo aggravato il reato contestato a
Espenhahn la cui condanna venne ridotta a 10 anni. All’appello è seguito il
ricorso in Cassazione presentato da Raffaele Guariniello, affiancato dai
Pubblici Ministeri Laura Longo e Francesca Traverso, nonché il Procuratore
Generale Ennio Tomaselli, contro la sentenza d’appello, lo stesso fanno le difese
degli imputati con altre motivazioni.
Erano
state poi le Sezioni unite della Cassazione ad annullare con rinvio quella
sentenza, ordinando un nuovo processo di appello e il ricalcolo delle pene, al
termine del quale le pene per gli imputati sono state ulteriormente ridotte con
caduta dell’aggravante per il reato di omicidio colposo plurimo.
PER
I PARENTI DELLE VITTIME, FINALMENTE GIUSTIZIA
“E’
una vittoria, una vittoria per noi e per tutte le vittime morte sul lavoro”.
Così le mamme, le sorelle e le mogli dei sette operai morti a causa del rogo
dello stabilimento Thyssen-Krupp di Torino, hanno accolto il verdetto della
Cassazione. “Oggi ascoltando le richieste del procuratore Generale abbiamo
pianto di rabbia”.
“Ora”
- dicono tutte insieme – “possiamo andare dai nostri ragazzi al cimitero e dire
che finalmente c’è stata giustizia e ci sono pene severe, anche se il nostro
dolore è per sempre”.
PARENTI
DELLE VITTIME E IMPUTATI
Da
una parte, in aula, c’erano i familiari delle vittime, che hanno indossato le
magliette con le foto dei loro cari, dall’altra alcuni degli avvocati degli
imputati. Tra questi ultimi anche Marco Pucci, nominato appena quattro mesi fa
direttore generale dell’ILVA per decisione dei tre commissari straordinari del
gruppo siderurgico, Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba.
Nel
giro di poche ore, però, i sindacati erano insorti e Pucci (che all’epoca della
tragedia Thyssen-Krupp ricopriva un ruolo di primo piano in quella società
siderurgica degli acciai speciali) aveva rinunciato all’incarico, con una
lettera agli stessi commissari, continuando però a svolgere altri compiti
dirigenziali di rilievo.
Dopo
la sentenza definitiva emessa dalla Cassazione, Pucci, attuale Direttore
Centrale dell’ILVA e responsabile delle partecipate, si è sospeso dalla
funzione e dalla retribuzione. Lo ha comunicato lui stesso ai tre commissari.
Parenti
delle vittime e legali degli imputati, a cinquanta metri di distanza gli uni
dagli altri, hanno consumato i minuti davanti all’aula della quarta sezione
penale chiusa a chiave in cui si è tenuta per quasi quattro ore la camera di
consiglio. Più defilati, ma presenti al secondo piano dell’immenso palazzo
della Cassazione, una decina tra carabinieri e agenti di polizia. E’ racchiusa
in questa immagine l’attesa per la sentenza che ha messo la parola fine al
processo per il rogo alla Thyssen-Krupp.
LE
RICHIESTE DELLA PROCURA GENERALE E LE REAZIONI DEI PARENTI DELLE VITTIME
Il
Sostituto Procuratore Generale della Cassazione, Paola Filippi, aveva chiesto di
annullare le condanne per tutti e sei gli imputati del processo Thyssen-Krupp,
rinviare di nuovo il procedimento in Corte d’Appello, per rideterminare le pene
per i reati di omicidio colposo plurimo e per rivalutare il “no” alle
attenuanti per quattro degli imputati, richiedendo un processo ter.
Una
richiesta che aveva fatto infuriare i familiari delle vittime, e in aula subito
era scoppiato il caos: molti familiari delle vittime hanno urlato ai giudici
“venduti, bastardi, vergogna” e abbandonato l’aula della quarta Sezione Penale
della Corte.
I
parenti delle vittime ancora a Roma, ancora in Cassazione, dunque delusi per
quella richiesta del Procuratore Generale che ritengono assurda: un nuovo
processo, ancora pene ulteriormente ridotte.
“Le
richieste della Procura sono per noi tutti un fulmine a ciel sereno e lo stesso
vale per il rischio che i due imputati tedeschi, i principali responsabili del
rogo alla Thyssen-Krupp, possano scontare in Germania una pena dimezzata”, ha
sottolineato Antonio Boccuzzi, l’unico superstite del rogo del 2007.
Arrabbiati,
tanto che quando è chiaro dove vuole andare a parare il Procuratore Generale escono
dall’aula. Poi qualcuno rientra e urla piangendo: “Siete tutti morti, siete
tutti morti”. La madre di Antonio Schiavone non si trattiene: “Mio figlio è
bruciato vivo, spero che muoia bruciata anche la sua famiglia”, grida
rivolgendosi all’ex manager dell’azienda siderurgica, Daniele Moroni.
Laura
è la sorella, di “Saro”, Rosario Rodinò, morto a 26 anni. “Hanno fatto una fine
bruttissima, nemmeno gli animali in un bosco. Mio fratello è al cimitero da 8
anni e mezzo, loro sono fuori e le hanno studiate tutte per pagare il meno
possibile. In tutti i gradi di giudizio gli hanno tolto un pezzo”. “La
richiesta del Procuratore Generale ci aveva buttato giù in un modo indescrivibile,
ma fortunatamente i giudici delle Cassazione hanno fatto i giudici”, dice.
“Li
ringrazio e ringrazio anche i Pubblici Ministeri di Torino Guariniello, Longo e
Traverso. Va bene così, anche se noi continuiamo a ritenere molto di più
attendibili le conclusioni della Sentenza di primo grado che aveva riconosciuto
il dolo eventuale (escluso dai verdetti successivi) a carico dei vertici della
Thyssen-Krupp”.
Poco
prima della lettura del verdetto, Laura Rodinò (che nel rogo della
Thyssen-Krupp ha perso il fratello) ha parlato al telefono con l’ex Pubblico
Ministero Raffaele Guariniello, ora andato in pensione, che ha rassicurato lei
e tutti i familiari delle vittime sul fatto che “non c’erano elementi per
ribaltare le pene dal momento che le condanne dei sei imputati erano già state
diminuite”. Lo ha detto la stessa Laura Rodinò al termine dell’udienza.
“Dovete
avere fiducia nei giudici della Cassazione, ci ha detto Guariniello” - ha detto
Rodinò – “e ci ha consigliato bene, ci ha detto che non c’era nessun elemento
per tornare ad abbassare le pene dal momento che le condanne dei sei imputati
erano già state diminuite”.
Rosina
De Masi è la mamma di Giuseppe, sulla maglietta il volto del figlio, arrivata a
Roma immaginando ancora una salita. “Non ce la facciamo più”, diceva
nell’attesa. La conferma delle condanne non ha cancellato il dolore, ma lo ha
reso più sopportabile. La sentenza della Cassazione ha scritto l’ultimo
capitolo di “una vicenda che, per anni, abbiamo vissuto come un calvario senza
fine ma che, come tutti speravamo, si è finalmente concluso”, spiega Rosina.
“Certo, il nostro dolore non si spegnerà con questo verdetto” - prosegue – “ma
almeno potrò andare sulla tomba di mio figlio e dirgli: Giuseppe, mamma ce l’ha
messa tutta e, alla fine, giustizia è stata fatta. E’ la prima cosa che farò
una volta tornata a Torino”.
Poi
una critica al sistema giudiziario. “Dicevano che sarebbe stato un processo
breve, invece è durato quasi 9 anni, dicevano che sarebbe stato un processo
epocale e, vista la durata, ha rischiato di diventarlo. E’ una liberazione: non
potrò essere mai più felice, ma giustizia è stata fatta”.
“Non
potevano fare diversamente” - ha invece detto Laura Rodinò, sorella di Rosario,
morto a soli 26 anni – “viva Guariniello. Ringrazio i Giudici di Torino”, ha
aggiunto la donna. Un altro dei familiari all’uscita del palazzo mostra la
maglietta con le foto delle vittime e urla al cielo: “Ce l’avete fatta
ragazzi”.
All’uscita
dal palazzo della Cassazione i familiari delle vittime del rogo hanno esultato
mostrando le magliette con le foto degli operai. “Giustizia è stata fatta,
anche se è un peccato che non gli abbiano dato il dolo” - ha esclamato Rosina
De Masi, madre di Giuseppe – “ringrazio i Giudici che hanno avuto cuore”.
La
fine di un incubo anche per Antonio Boccuzzi, l’unico operaio scampato alla
tragedia. “Quando ho sentito la requisitoria del Procuratore Generale mi sono
sentito svuotato, ma poi mi sono detto: la Sentenza non la scrive un Procuratore, ma i
Giudici. E il mio ottimismo alla fine è stato premiato. Questo cielo nero un
po’ si è aperto” - ha detto – “oggi abbiamo avuto tanta paura perché le parole
del Procuratore Generale erano inaspettate. Ma la giustizia, quando vuole, sa
dare le risposte giuste, come è avvenuto stasera. Abbiamo ottenuto quello che volevamo:
un verdetto che per la prima volta in Italia manda in carcere i responsabili di
morti sul lavoro. Lo considero non solo un atto di giustizia per le vittime
della Thyssen-Krupp ma un segnale per il futuro. Un avvertimento per certi
imprenditori senza scrupolo che sacrificano la sicurezza della propria impresa
a favore del profitto”.
THYSSEN-KRUPP
KRUPP: RISPETTIAMO LA
SENTENZA, NON ACCADRA’ PIU’
“Prendiamo
atto con rispetto del dispositivo della sentenza” si legge in una nota della
Thyssen-Krupp che ore dopo la condanna definitiva da parte della Cassazione ha
fatto sapere la sua posizione con una nota.
“I
Tribunali italiani hanno dovuto affrontare il difficile compito di valutare
penalmente il tragico incidente di Torino e le sue terribili conseguenze”
recita ancora il messaggio della società che conclude ribadendo la vicinanza
alle famiglie delle vittime: “Esprimiamo nuovamente il nostro cordoglio alle
vittime e alle loro famiglie. Thyssen-Krupp è profondamente addolorata che in
uno dei suoi stabilimenti si sia verificato un incidente così tragico. Faremo
il possibile affinché tale disgrazia non accada mai più”.
L’EX
PUBBLICO MINISTERO RAFFAELE GUARINIELLO
“Una
splendida notizia”: Sono le parole con cui ha salutato la condanna definitiva
l’ex Magistrato Raffaele Guariniello che, da Procuratore Aggiunto, guidò il
pool che svolse le prime indagini sul caso Thyssen-Krupp. “Sono le condanne più
alte mai inflitte per un incidente sul lavoro”, dice.
“Dalla
notte dell’incendio sono passati nove anni. Un pezzo di vita. La lunghezza del
processo non è dipesa da noi della Procura di Torino. Ma voglio sottolineare
che gli avvocati non c’entrano. E’ giusto che presentino i ricorsi. Fa parte
del gioco. Solo che il gioco dura troppo. Noi” - spiega – “chiudemmo le
indagini in due mesi e 19 giorni. A tempo di record. Eppure il processo è
andato avanti a lungo”.
“Al
di là di quello che sarà l’esito mi viene da dare ragione a Matteo Renzi: lui dice
che aspetta le sentenze, ma anche noi le aspettiamo”. Così Raffaele Guariniello
in merito al caso Thyssen-Krupp. Da procuratore aggiunto a Torino, Guariniello
chiuse le indagini sull’incendio in due mesi e 19 giorni. “Sono i processi” -
commenta - “ad essere lunghi. In questo Renzi coglie un aspetto di verità”.
Poi
un ultimo sassolino dalla scarpa: “Ma la Procura Generale non dovrebbe
sostenere le ragioni dell’accusa? I Giudici sono andati oltre le richieste del
Procuratore Generale. Ed è già capitato in un altro mio processo. Io sostengo
che il Pubblico Ministero di primo grado dovrebbe essere applicato anche in
appello e in Cassazione. Oggi nel caso Thyssen-Krupp è come se si fossero
invertiti i ruoli. Non lo trovate imbarazzante?”.
IL
SINDACO DI TORINO
Il
sindaco di Torino, Pietro Fassino, ha commentato la sentenza a margine di un
evento elettorale con il ministro di Grazia e Giustizia Andrea Orlando: “La
sicurezza sul lavoro è parte di una più generale situazione: garantire al
lavoro dignità. Il lavoro, qualunque esso sia, ha bisogno di essere
riconosciuto nella sua dignità, e in primo luogo ha dignità se è sicuro. Non si
deve morire per lavorare”.
RIFIUTO OD OMISSIONE
D’ATTI DI UFFICIO: LE DIFFERENZE
Da
Studio Cataldi
16
marzo 2016
Riporto
a seguire l’articolo della newsletter dello Studio Castaldi relativa ai reati
di rifiuto o omissione d’atti di ufficio.
Ricordo
che quanto riportato nell’articolo si applica anche agli Ispettori ASL dei
Servivi di prevenzione della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, in
quanto gli Ispettori risultano, ai sensi
dell’articolo 21 della Legge 23 dicembre 1978, n.833, Ufficiali di
Polizia Giudiziaria e quindi Pubblici Ufficiali.
Gli Ispettori ASL, ai quali è stato formalmente
comunicato da un RLS o anche da un singolo lavoratore, da un sindacato o da
un’associazione, un reato relativo alla mancata tutela di salute e sicurezza
sul lavoro, devono intervenire obbligatoriamente ai sensi dell’articolo 55,
comma 1 del Codice di Procedura Penale:
“La polizia giudiziaria deve,
anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano
portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti
necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa
servire per l’applicazione della legge penale”;
al fine di impartire al datore di lavoro la prescrizione per
l’adempimento dell’obbligo di tutela, secondo la procedura fissata
dall’articolo 20 del D.Lgs.758/94.
Pertanto, anche nel caso di loro mancato intervento, a seguito di
denuncia formale effettuata da RLS, lavoratori, sindacati, si configura, a
seconda dei casi il reato di rifiuto od omissione di atti di uffizio, come
riportato nell’articolo.
Marco Spezia
* * * * *
L’articolo
328 del Codice Penale regola il sanzionamento dei reati di rifiuto e omissione
di atti di ufficio, scissi in due reati distinti:
“Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un
pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per
ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene
e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei
mesi a due anni.
Fuori dei casi
previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico
servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non
compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del
ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a
milletrentadue euro. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il
termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa”.
Il
primo comma dell’articolo regola, appunto, il reato di rifiuto d’atto di ufficio
e ne definisce le sanzioni.
Il
secondo comma invece, si occupa di definire il reato di omissione d’atto di
ufficio e regolarne le sanzioni relative.
L’articolo
328 mira a sanzionare l’inerzia dei pubblici uffici, nel momento in cui essi
non rispondono alle richieste effettuate dai cittadini o altri pubblici uffici.
La normativa in oggetto è applicabile sia ai Pubblici Ufficiali che a ogni
pubblico dipendente, che si rifiuti o ometta di esercitare le sue mansioni.
Vediamo
di seguito le specifiche di ogni reato.
Il
rifiuto d’atto di ufficio è un reato che si verifica se un Pubblico Ufficiale o
un dipendente pubblico rifiuta in maniera diretta di esercitare una sua
mansione, sia a seguito di un ordine di un proprio superiore, che a fronte di
una situazione che richiede, per legge, un’immediata reazione.
Il
reato è tale solo a fronte di un rifiuto non adeguatamente motivato. Il rifiuto
d’atti di ufficio è un reato che si verifica contro gli stessi pubblici uffici.
Ad
esempio, un Ufficiale di Polizia che si rifiuti di eseguire un ordine diretto
di un suo superiore incorre nel reato di rifiuto d’atti di ufficio, così come
un geologo che, conscio della situazione di pericolo strutturale di una
particolare zona o edificio, non prenda i dovuti provvedimenti. La sanzione
prevista per questo particolare reato varia da un minimo di 6 mesi sino a 2
anni di detenzione, e sono previste anche sanzioni pecuniarie fino a 1000 euro,
oltre a sanzioni disciplinari sino all’interdizione completa dai pubblici
uffici, in base alla gravità del fatto.
Nel
caso in cui il rifiuto non sia evidente e diretto, il Tribunale provvederà a
valutare le azioni e la condotta dell’imputato, per definire la presenza di
reato.
L’omissione
d’atto di ufficio si configura invece a fronte di una mancata risposta, e non a
fronte di un esplicito e diretto diniego.
Questo
reato è imputabile se, una volta trascorsi 30 giorni da una richiesta, non si
abbia ancora ottenuto alcuna risposta, né delle giustificazioni per il ritardo.
In sostanza, il silenzio è omissione.
La
richiesta di cui sopra deve essere formulata sotto forma di diffida formale: se
ignorata, avrà dunque luogo l’omissione. Questo reato è sia verso altri
pubblici uffici che verso privati cittadini, ed è punibile con reclusione fino
ad un anno e una multa non oltre i 1.032 euro, oltre a sanzioni disciplinari.
La
denuncia di un’eventuale rifiuto od omissione d’atti di ufficio va presentata
alle Forze dell’Ordine, tra cui Carabinieri, Polizia o Guardia di Finanza.
Le
denunce relative al rifiuto o all’omissione d’atto di ufficio possono essere
presentate direttamente anche alla Procura della Repubblica.
VOUCHER LAVORO:
OPPORTUNITA’ O NUOVA FRONTIERA DELLO SFRUTTAMENTO?
Da
Studio Cataldi
16
marzo 2016
di
Dario La Marchesina
VOUCHER
LAVORO: OPPORTUNITA’ O NUOVA FRONTIERA DELLO SFRUTTAMENTO?
GUIDA
LEGALE AL CAPO VI DEL D.LGS. 81/15 CONCERNENTE IL LAVORO ACCESSORIO
L’attuale
Esecutivo si è occupato di riformare alcuni punti nevralgici della materia del
diritto del lavoro con una serie di atti normativi che rientrano nel cosiddetto
Jobs Act.
Nello
specifico in questa sede ci interessa il contenuto del D.Lgs. 81/15, e più
precisamente il Capo VI concernente il lavoro accessorio, istituto in origine
introdotto dalla legge Biagi (D.Lgs. 276/03).
Secondo
l’articolo 48, comma 1 del D.Lgs. 81/15 per lavoro accessorio si intendono
quelle prestazioni lavorative che non possono eccedere i 7.000 euro annui, con
riferimento alla totalità dei committenti (imprenditori o professionisti); in
precedenza la Legge
92/12 (Riforma Fornero) fissava il tetto massimo delle prestazioni di lavoro
accessorio a 5.000 euro annui.
Tuttavia
il lavoratore non può svolgere, nei confronti di ciascun singolo committente,
attività per compensi superiori a 2.000 euro annui; ciò significa che una volta
raggiunta tale soglia, il prestatore potrà svolgere lavoro accessorio solo
presso committenti diversi rispetto al precedente.
Inoltre
qualora il lavoratore accessorio dovesse percepire una qualche prestazione
integrativa del salario o una forma di sostegno al reddito, il suo compenso
annuo ha un limite totale di 3.000 euro (articolo 48, comma 2 del D.Lgs.
81/15).
L’articolo
49 del D.Lgs. 81/15 si occupa della disciplina del lavoro accessorio.
Il
primo comma evidenzia come i committenti imprenditori o professionisti
interessati a ricorrere a prestazioni di lavoro accessorio debbano acquistare
esclusivamente attraverso modalità telematiche uno o più carnet di buoni orari,
numerati progressivamente e datati, il cui valore nominale è fissato con
Decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Per
quanto riguarda invece i committenti non imprenditori l’acquisto dei buoni può
avvenire anche presso le rivendite autorizzate.
I
voucher lavoro sono disponibili in tagli diversi: 10 euro, 20 euro, 50 euro;
tuttavia quello che il lavoratore accessorio incasserà realmente sono 7,50
euro, 15 euro, 37,50 euro in quanto vengono detratti un 13% di contributi INPS,
un 7% di assicurazione INAIL (copertura tragitto casa-lavoro, lavoro-casa) e un
5% sempre all’INPS per il servizio fornito.
Il
terzo comma stabilisce che prima dell’inizio della prestazione occasionale, i
committenti sono tenuti a comunicare alla Direzione Territoriale del Lavoro
competente entro trenta giorni, attraverso modalità telematiche, i dati
anagrafici e il codice fiscale del lavoratore e indicando anche il luogo della
prestazione.
Infine
il quarto comma evidenzia come il lavoratore accessorio percepisca il proprio
compenso dal concessionario autorizzato di cui al comma 7, in seguito all’accredito
dei buoni da parte del beneficiario della prestazione; occorre poi precisare
che il compenso è esente da imposizioni fiscali e non influisce sullo stato di
disoccupato o inoccupato del lavoratore accessorio.
Attualmente
in Italia questa tipologia di lavoro è in aumento soprattutto nel settore
secondario (industrie) ma anche nel commercio e nel turismo, secondo quanto
risulta da report ufficiali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali;
in genere la maggior parte dei prestatori ai quali viene prospettata la
soluzione dei voucher sono giovani in cerca di occupazione o che hanno già
svolto un periodo di tirocinio di 6 mesi presso un certo datore, al quale
spesso però non segue un rinnovo dello stesso.
La
ragione per cui oggi i voucher lavoro vengono utilizzati così frequentemente
risiede nel fatto che economicamente e giuridicamente costituiscono una
soluzione molto meno vincolante per i committenti rispetto alla stipulazione
dei contratti.
Tuttavia
nonostante si tratti pur sempre di un’opportunità per coloro che necessitano di
percepire un qualche compenso, dall’altra parte un eccessivo aumento
nell’utilizzo di questo strumento senza adeguate limitazioni, potrebbe portare
a un vero e proprio sfruttamento della forza lavoro con conseguente aumento del
fenomeno del precariato, ponendo in secondo piano le fattispecie contrattuali
che garantiscono maggiormente il rispetto del diritto al lavoro previsto
dall’articolo 4 della nostra Costituzione.
LE REGOLE VITALI PER
CHI LAVORA SU TETTI E FACCIATE
Da:
PuntoSicuro
13
maggio 2016
Raccolte
da Suva (principale assicuratore in Svizzera nel campo
dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni) le nove regole
vitali per eseguire in sicurezza i lavori in quota su tetti e facciate.
L’elenco delle regole, la realizzazione di accessi sicuri, il pericolo delle
aperture nel tetto scoperte e la resistenza delle superfici di copertura.
Uno
degli infortuni più presenti è sicuramente la caduta dall’alto da opere
provvisionali e coperture. E di conseguenza in questi anni abbiamo cercato di
presentare tutti i validi documenti, anche di non recentissima pubblicazione,
che possono suggerire agli attori della sicurezza e alle aziende utili elementi
di prevenzione per evitare o ridurre le cadute dall’alto.
Ad
esempio Suva (Istituto elvetico per l’assicurazione e la prevenzione degli
infortuni) ha pubblicato nel 2012 un documento, correlato alla campagna
“Visione 250 vite”, dal titolo “Nove regole vitali per chi lavora su tetti e
facciate”. Un documento che benché sconti alcune differenze normative in
materia di sicurezza tra Svizzera e Italia, può ancora fornire utili spunti per
la prevenzione.
E’
stato pubblicato anche un Vademecum che raccoglie, oltre alle nove regole,
approfondimenti e informazioni su come preparare, per ciascuna regola vitale,
una mini-lezione. Chiaramente l’obiettivo è quello di favorire la conoscenza e
il rispetto delle regole e delle buone prassi per eseguire in sicurezza i
lavori su tetti e facciate.
Riportiamo
brevemente l’elenco delle nove regole:
-
Regola1:
Realizzare accessi sicuri;
-
Regola
2: Mettere in sicurezza le zone con rischio caduta;
-
Regola
3: Impedire le cadute verso l’interno dell’edificio;
-
Regola
4: Mettere in sicurezza le aperture nel tetto;
-
Regola
5: Garantire superfici di copertura resistenti alla rottura;
-
Regola
6: Lavorare sulle facciate solo con attrezzature sicure;
-
Regola
7: Ispezionare i ponteggi;
-
Regola
8: Utilizzare correttamente le imbracature anticaduta;
-
Regola
9: Proteggersi dalle polveri di amianto.
Rimandando
a una lettura integrale del documento, ci soffermiamo in particolare su alcuni
approfondimenti correlati a tre diverse regole.
La
prima regola sottolinea l’importanza di realizzare accessi sicuri.
Secondo
il documento elvetico per tutti gli accessi ai ponteggi per facciate si
impongono le seguenti regole:
-
tutti
i livelli del ponteggio devono essere facilmente accessibili in condizioni di
sicurezza: questo vale anche per gli accessi sul lato frontone;
-
gli
accessi devono essere realizzati sotto forma di scale fisse;
-
in
casi eccezionali (fino a un’altezza di caduta di 5 m) è possibile usare delle
scale a pioli.
Inoltre
le postazioni di lavoro sui tetti possono essere raggiunte mediante i seguenti
accessi:
-
ponteggi
per facciate;
-
corpi
scala;
-
accesso
dall’interno dell’edificio;
-
montacarichi
per persone.
E
si segnala che le scale a gradini sono più sicure delle scale a pioli e più
facili da usare. Per questo, se possibile, è bene evitare di usare le scale a
pioli.
Nella
quarta regola il documento di Suva indica che le aperture nel tetto scoperte
sono trappole mortali.
Bisogna
dunque ricordare ai lavoratori che è necessario controllare sempre se tutte le
aperture sono state messe in sicurezza come si deve.
Sono
riportate alcune misure di sicurezza:
-
priorità
all’installazione dal basso di reti di sicurezza portanti: queste reti possono
essere montate prima di ogni altra cosa e offrono sicurezza in ogni fase di
lavoro;
-
griglie
di protezione fisse come protezione permanente per i lucernari;
-
ponteggi
di ritenuta;
-
assiti
di chiusura montati dal basso o dall’alto, portanti, non smontabili;
-
protezione
laterale a tre elementi lungo tutto il perimetro dell’apertura.
E
se il dispositivo anticaduta deve essere eccezionalmente rimosso, tutti gli
addetti ai lavori devono dotarsi di un’imbracatura di sicurezza.
La
quinta regola ricorda che è necessario lavorare solo su superfici di copertura
resistenti alla rottura.
La
scheda, che fa riferimento ad un Ordinanza elvetica sui lavori di costruzione,
indica che è vietato lavorare su superfici di copertura non resistenti alla
rottura. Si può lavorare solo se è stato accertato con sicurezza che si tratta
di coperture resistenti alla rottura. Se la copertura non è totalmente
resistente alla rottura, è necessario adottare adeguate misure di sicurezza.
In
particolare i seguenti materiali non sono considerati resistenti alla rottura:
-
lastre
ondulate in fibrocemento;
-
lucernari
“Shed” o a pannelli in materiale plastico (ad esempio policarbonato);
-
lucernari
a cupola in materiale plastico (ad esempio policarbonato);
-
pannelli
in fibra di legno e pannelli in legno-cemento usati spesso nella sottocopertura
del tetto.
Si
ricordano, infine, anche le misure antisfondamento che possono essere
applicate, ad esempio:
-
montaggio
di reti di sicurezza al di sotto della copertura;
-
realizzazione
di un piano di calpestio portante sulla superficie del tetto con una protezione
laterale totale;
-
passerelle
portanti con parapetto su entrambi i lati.
Il
documento di Suva “Nove regole vitali per chi lavora su tetti e facciate -
Vademecum” edizione maggio 2012 è scaricabile all’indirizzo:
SUL PRINCIPIO DELLA
MASSIMA SICUREZZA TECNOLOGICA FATTIBILE
Da:
PuntoSicuro
16
maggio 2016
di
Gerardo Porreca
Se
lo sviluppo delle conoscenze porta all’individuazione di tecnologie più idonee
a garantire la sicurezza è possibile pretendere che l’imprenditore proceda a
una sostituzione di quelle precedentemente adottate.
Torna
la Corte di
Cassazione in questa Sentenza a occuparsi del principio della migliore tecnologia
fattibile in base al quale l’imprenditore, al fine di garantire la sicurezza
dei lavoratori dipendenti, deve procedere a una sostituzione delle tecnologie
precedentemente adottate con quelle più innovative.
Non
può però pretendersi, ha aggiunto la Suprema Corte, che lo stesso proceda a una sostituzione
immediata delle tecniche precedentemente adottate con quelle più innovative,
dovendosi pur sempre procedere a una complessiva valutazione dei tempi, delle
modalità e dei costi dell’innovazione purché ovviamente i sistemi già adottati
siano comunque idonei ad assicurare un livello elevato di sicurezza.
Nel
caso di cui alla Sentenza, la
Corte di Cassazione ha confermata la condanna inflitta dai precedenti
gradi di giudizio a un amministratore unico di una società perché al momento
dell’evento infortunistico occorso a un lavoratore dipendente era disponibile
un sistema di sicurezza, rispetto a quello già utilizzato, più idoneo a
prevenire la situazione di pericolo che ha portato all’infortunio, sistema che
il datore di lavoro avrebbe quindi dovuto adottare per la tutela della
sicurezza del lavoratore.
La Corte di Appello ha
confermata la Sentenza
di condanna emessa dal Tribunale nei confronti dell’amministratore unico di una
società per il delitto previsto e punito dall’ articolo 589, primo, secondo e
terzo comma del Codice Penale, per avere per colpa specifica, consistita nella
violazione della disciplina antinfortunistica, cagionato l’esplosione di un
compressore a causa della quale un operaio dipendente della stessa società, che
stava provvedendo a operazioni di carico delle autocisterne aziendali con GPL,
ha riportato lesioni personali che lo hanno portato alla morte e un altro
dipendente della stessa società ha riportato lesioni personali guarite oltre il
quarantesimo giorno, con indebolimento permanente dell’organo dell’udito,
nonché del reato previsto e punito dal combinato disposto degli articoli 4,
comma 5, lettera h), 3, comma q, lettera b), 89, comma 3, lettera a) del D.Lgs.
626/94, per avere omesso di adottare le misure di prevenzione essenziali per
garantire la sicurezza dei lavoratori e più precisamente per non avere
aggiornato le misure preventive in relazione al grado di evoluzione delle
tecnica della prevenzione e della protezione, non avendo provveduto alla
predisposizione di dispositivi per evitare l’ingresso della fase liquida
all’interno del compressore che così esplodeva cagionando gli eventi citati.
L’imputato
è stato, pertanto, dichiarato responsabile del reato ascrittogli e, concessegli
le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle aggravanti
contestate, veniva condannato alla pena di mesi 6 di reclusione oltre al
pagamento delle spese processuali con pena sospesa, nonché al risarcimento del
danno in favore delle parti civili, da liquidarsi in separata sede, con una
provvisionale immediatamente esecutiva, pari ad 50.000 euro, per ciascuna
parte.
Avverso
il provvedimento della Corte di Appello l’imputato ha proposto ricorso per
Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia adducendo diverse
motivazioni.
Lo
stesso ha fatto rilevare che la sentenza impugnata aveva dichiarata la sua
responsabilità per aver omesso di adottare le necessarie misure di prevenzione
e per non aver aggiornato le misure preventive, mediante l’adozione di
dispositivi atti ad evitare l’ingresso della fase liquida all’interno del
compressore.
Sarebbe
stata più precisamente valutata negativamente per l’imputato l’omessa adozione
di un meccanismo di sicurezza chiamato “barilotto trappola”, utilizzato in
altre aziende, come accertato dalla ASL nel corso delle indagini e il cui uso
avrebbe impedito l’accaduto.
L’affermazione
della Corte di Appello sull’obbligatorietà di munire il compressore del GPL del
citato dispositivo di sicurezza “barilotto trappola” sarebbe stata, secondo il
ricorrente, priva di qualsiasi valore scientifico e sarebbe derivata unicamente
da una ricerca empirica condotta dalla ASL, che ne avrebbe appurato l’uso in
altre aziende.
Il
ricorrente ha richiamato la
Sentenza della Corte di Cassazione Sezione IV n. 41944 del
19/10/06 riferita alla massima sicurezza tecnologica esigibile dal datore di
lavoro.
L’esatta
applicazione delle prescrizioni tecniche non esimerebbe il datore di lavoro da
responsabilità laddove l’evoluzione tecnologica le abbia di fatto superate.
Nel
caso di specie, però, ha sostenuto l’imputato, il compressore in uso era
perfettamente funzionante, così come il dispositivo di sicurezza, sistema della
stessa natura del “barilotto trappola”, per cui nessun addebito sarebbe stato
configurabile a suo carico in quanto il macchinario era munito di un sistema di
sicurezza del tutto idoneo.
Non
poteva venirgli contestato di non aver adottato un sistema di sicurezza diverso,
ma del tutto analogo nei fini a quello di cui era effettivamente munito il
macchinario oggetto dell’incidente.
Il
ricorrente ha aggiunto, inoltre, che il comportamento del lavoratore, anche
qualora non potesse essere ritenuto abnorme e tale da interrompere il nesso di
causalità e da porsi come causa sufficiente a determinare l’evento, sarebbe
stato nel caso in esame esorbitante e quindi assolutamente imprevedibile per il
datore di lavoro.
Secondo
poi quanto sostenuto dalle parti civili è risultato indubbio nel caso in esame
che il datore di lavoro, sebbene in possesso delle certificazioni di
regolarità, avrebbe dovuto informarsi dei sistemi di sicurezza esistenti sul
mercato e adeguare il proprio impianto con una spesa estremamente contenuta e
ancora che l’applicazione del barilotto avrebbe certamente impedito l’accaduto.
La
condotta del lavoratore, altresì, non poteva essere considerata abnorme e tale
da esonerare il datore di lavoro da responsabilità penali.
La Corte di Cassazione ha
ritenute infondate le motivazioni del ricorso che è stato pertanto rigettato.
La stessa ha messo in evidenza che é vero che il compressore era dotato di un
sistema di sicurezza funzionante, ma è vero anche che dalle dichiarazioni rese
dai periti era emerso chiaramente che lo stesso non era sufficientemente idoneo
per cui il Tribunale prima e poi Corte territoriale avevano maturato il
convincimento secondo il quale la presenza del “barilotto trappola” avrebbe
impedito la causazione dell’infortunio.
A
proposito della “massima sicurezza tecnologica” esigibile dal datore di lavoro,
la Corte di
Cassazione ha ribadito che, in materia di infortuni sul lavoro, è onere
dell’imprenditore adottare nell’impresa tutti i più moderni strumenti che offre
la tecnologia per garantire la sicurezza dei lavoratori e però anche che
“qualora la ricerca e lo sviluppo delle conoscenze portino alla individuazione
di tecnologie più idonee a garantire la sicurezza, non è possibile pretendere
che l’imprenditore proceda a un’immediata sostituzione delle tecniche
precedentemente adottate con quelle più recenti e innovative, dovendosi pur
sempre procedere a una complessiva valutazione sui tempi, modalità e costi
dell’innovazione, purché, ovviamente, i sistemi già adottati siano comunque
idonei a garantire un livello elevato di sicurezza”.
Con
riferimento però al caso in esame la
Corte territoriale aveva posto in evidenza che il sistema di
sicurezza costituito dal così detto “barilotto trappola” non costituiva una
novità, essendo in uso in aziende analoghe secondo il perito e almeno dagli
anni 1990 secondo uno dei testi dedotti dalla parte civile, e quindi avrebbe
potuto essere utilizzato.
Il
datore di lavoro in definitiva, sebbene in possesso delle certificazioni di
regolarità dell’impianto, era tenuto ad aggiornarsi circa i sistemi di
sicurezza esistenti sul mercato e ad adeguare l’impianto stesso con una spesa
tra l’altro estremamente contenuta.
In
merito, infine, alla tesi sostenuta dal ricorrente della interruzione del nesso
di causalità tra l’accertata carenza del sistema di sicurezza e la morte del
lavoratore, dovendo la stessa attribuirsi al comportamento abnorme dei
lavoratori ed essendo l’evento stesso imprevedibile e inevitabile, la Corte di Cassazione ha
ribadito quanto più volte sostenuto e cioè che il comportamento negligente del
lavoratore infortunato che abbia dato occasione ad un evento, quando questo sia
da ricondurre comunque all’insufficienza di quelle cautele che, se adottate,
sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato
comportamento imprudente, non vale a escludere la responsabilità del datore di
lavoro.
La Sentenza n. 3616 del 27
gennaio 2016 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile
all’indirizzo:
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