Un operaio FCA di Melfi
di Massimo Brancati
Saranno in trecento,
tutti giovani e forti. Così li vuole Fiat Chrysler Automobiles (Fca):
diplomati, under 30, carichi di entusiasmo e animati da spirito di sacrificio.
Bando a quelli che guardano l’orario, a chi spende energie più per i diritti
che per i doveri. “Vade retro” aspirante sindacalista, peggio se della specie
Fiom – scomparsa dai radar dell’ex Lingotto dopo la mancata firma sul contratto
aziendale – Farneticante, Intransigente, Ottusa e Miscredente. Ci sarà da
lavorare. E tanto. Magari dedicandosi alla catena di montaggio anche durante
qualche week-end e di notte. Domani trecento operai entreranno per la prima
volta nello stabilimento Fca di San Nicola di Melfi (Potenza), facendo da
apripista ai mille nuovi lavoratori che la casa automobilistica assumerà, con
contratto a tempo determinato, grazie al successo sul mercato delle due auto
prodotte proprio in Basilicata, la Jeep Renegade e la 500X. La platea di chi
ambisce a vestire la tuta blu è sconfinata, dal momento che non sono previsti
steccati geografici (i lucani non hanno la priorità rispetto a candidati di
altre regioni) e la carenza di opportunità occupazionali è tale che anche solo
tre mesi di impiego (e di reddito) costituiscono una manna dal cielo. Come sono
lontani i 21 giorni della rivolta del 2004, i tempi della lotta operaia sui
turni, sulle condizioni di lavoro, sull’allineamento degli stipendi rispetto
agli altri stabilimenti del gruppo. Laddove ribollivano, fino a poco tempo fa,
rivendicazioni di operai avviluppati nei contrasti con il “padrone”, oggi
campeggia un clima di ritrovato entusiasmo sulla cenere di un lungo periodo di
cassa integrazione e di prospettive funeree. I balletti e i sorrisi su Youtube
dei dipendenti Sata, a cui va la paternità mediatica del tormentone “Happy”, hanno
esorcizzato la paura spalancando le porte all’ottimismo. Prima forzato, ora
spontaneo.
I lavoratori non saranno al massimo della felicità, come canta
Pharrell Williams, ma l’apertura di uno spiraglio di futuro sul solco tracciato
dal nuovo corso Fiat è un’iniezione di fiducia per chi già lavora in fabbrica e
per chi ambisce ad entrarci. L’attuale scenario è profondamente cambiato
rispetto a dieci anni fa, ma paradossalmente stiamo assistendo ad un ritorno al
passato: l’annuncio sulle assunzioni ha messo in moto un meccanismo che ha il
sapore del deja vu, con centinaia di giovani – come negli anni ’90, quando aprì
lo stabilimento Sata a Melfi – pronti a candidarsi per un lavoro nella
casa-madre o nell’indotto. Lunghe file davanti alle agenzie interinali in una
riedizione dell’assalto all’”astronave” dell’Avvocato, atterrata sulla piana di
San Nicola con un carico di speranza per il Sud del Sud. Oggi come allora,
nella terra del familismo amorale teorizzato da Edward C. Banfield (Bloomfield,
1916 – Vermont, 1999), aleggia lo spettro della raccomandazione, del
clientelismo, con il curriculum vitae dei candidati da leggere in controluce
per scorgere la filigrana del padrino politico. La corsa allo sponsor pare sia
già in atto, così come il tentativo, spesso goffo, di salire sul carro di
Marchionne da parte di amministratori pubblici e affini. In tutto questo
pullulare di commenti, dichiarazioni, dati sulle assunzioni future, proiezioni
sull’indotto e teorie sulle possibili entrature c’è il rischio di mandare fuori
giri il motore delle aspettative. Che sono già alte, alimentate dalle
dichiarazioni del manager italo-canadese: “Le 1.000 persone porteremo nette a
Melfi si trascineranno un numero moltiplicatore da sette a dieci di altri posti
di lavoro. Quindi parliamo di un numero elevato di famiglie e di persone che ne
beneficeranno”. Discorso che non riguarda solo la Basilicata – dove il tasso di
disoccupazione ha raggiunto quota 16,6 per cento per un totale di 36mila senza
lavoro – ma anche i territori confinanti, a partire dalla Capitanata, uno dei
principali bacini di operai all’alba lucana della Fiat. Un’alba che si ripete.
Era il 21 ottobre del 1989 quando, in una villa della collina torinese, Cesare
Romiti e Gianni Agnelli parlarono del progetto dello stabilimento lucano che si
concretizzò grazie ad un investimento di 6.000 miliardi delle vecchie lire, di
cui 1.400 stanziati dallo Stato. Melfi doveva nascere per salvare l’azienda a
cui gli economisti avevano predetto morte certa. Cambiano i tempi e i protagonisti,
ma l’azienda si aggrappa di nuovo a Melfi per risollevarsi, alla gente del Sud
sobria, laboriosa che, negli anni ’90, contribuì a rendere la fabbrica lucana
un modello conquistando primati su primati: seconda in Europa per produttività,
dopo la Ford di Russelsheim in Germania, la più efficiente del gruppo con un
tempo di lavoro attivo di oltre il 93 per cento rispetto all’86 degli altri
stabilimenti, produttività per addetto di una settantina di auto l’anno,
quattro-cinque volte Mirafiori. Standard raggiunti con un livello di
partecipazione intenso dei lavoratori. Quell’intensità che oggi Marchionne
chiede soprattutto ai nuovi arrivati per vincere la sfida del mercato globale.
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