NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
REQUISITI DI SICUREZZA DELLE MACCHINE E NORME TECNICHE DI RIFERIMENTO
LE
CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.71
Come
sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche
quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su
tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire
che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a
fare chiarezza sui diritti dei lavoratori.
Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di
leggere le mie newsletters, queste consulenze.
Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire
un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi
simili o analoghi.
Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle
persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.
Marco Spezia
QUESITO
Ciao
Marco,
come
sempre grazie per le informazioni che ricevo puntuali e che danno spunti di
riflessione sull’andamento della sicurezza e salute.
Ti
scrivo per porti un paio di quesiti che non trovano risposta, se non nei
manuali tecnici difficilmente raggiungibili almeno per me: spero tu possa darmi
una mano.
Ci
legge in copia sempre il mio RSU di riferimento il quale mi segnala
tempestivamente ogni situazione anomala.
Il
quesito primo riguarda il piano di carico di un veicolo per la raccolta dei
rifiuti del tipo a vaschetta la cui apertura laterale supera i 152 cm da terra.
Vorrei sapere se questa misura corrisponde alla normativa UNI EN 1501-2,
sempre per la questione della movimentazione Manuale dei carichi.
Leggendo
alcuni tuoi articoli si menzionava una altezza di cm 140, ma questo con vani
carico posteriore: non so se questa misura si applica anche a quelli laterali.
Un
secondo quesito è sul tubo dei gas di scarico dei mezzi per la raccolta dei
rifiuti compattatori, con uso delle pedane posteriori, il quale risulta a
livello quasi stradale e non come prevede la normativa UNI EN 1501-1, la
quale indica che i gas devo essere convogliati verso l’alto.
In
questo sorgono anche a me dei dubbi sulla norma UNI, cioè se sia cogente o
meno al fine di una eventuale segnalazione all’organo competente.
Ringraziandoti
come sempre della tua disponibilità ti saluto cordialmente.
RISPOSTA
Ciao,
occorre
premettere che le norme da te citate e in generale quelle relative ai veicoli
per la raccolta dei rifiuti (VRR), cioè
-
UNI EN 1501-1:2015 “Veicoli raccolta rifiuti - Requisiti generali e di sicurezza - Parte 1:
Veicoli raccolta rifiuti a caricamento posteriore”;
-
UNI EN 1501-2:2010 “Veicoli raccolta rifiuti e relativi dispositivi di sollevamento -
Requisiti generali e di sicurezza - Parte 2: Veicoli raccolta rifiuti a
caricamento laterale”;
-
UNI EN 1501-3:2008 “Veicoli raccolta rifiuti e relativi dispositivi di sollevamento -
Requisiti generali e di sicurezza - Parte 3: Veicoli raccolta rifiuti a
caricamento frontale”;
-
UNI EN 1501-4:2008 “Veicoli raccolta rifiuti e relativi dispositivi di sollevamento -
Requisiti generali e di sicurezza - Parte 4: Codice di prova dell’emissione
acustica per veicoli raccolta rifiuti”;
-
UNI EN 1501-5:2011 “Veicoli raccolta rifiuti - Requisiti generali e di sicurezza - Parte 5:
Dispositivi di sollevamento per veicoli raccolta rifiuti”;
sono norme armonizzate, così come definite
dall’articolo 2, comma 1, lettera n) del D.Lgs.17/10 (recepimento italiano
della Direttiva Macchine Europea 2006/42/CE):
“specifica tecnica adottata da un organismo di normalizzazione, ovvero
il Comitato europeo di normalizzazione (CEN), il Comitato europeo di
normalizzazione elettrotecnica (CENELEC) o l’Istituto europeo per le norme di
telecomunicazione (ETSI), nel quadro di un mandato rilasciato dalla Commissione
europea conformemente alle procedure istituite dalla direttiva 98/34/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 giugno 1998, che prevede un
procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni
tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione, e
non avente carattere vincolante”.
Tali norme, come
specificato nella definizione non sono vincolanti per il costruttore di
macchine, ma, come si suol dire danno la “presunzione di conformità” ai
requisiti di sicurezza dell’Allegato I della Direttiva Macchine che invece sono
obbligatori.
Infatti, secondo
l’articolo 4, comma 2 del D.Lgs.17/10:
“Le macchine costruite in conformità di una norma armonizzata, il cui
riferimento è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, si
presumono conformi ai requisiti essenziali di sicurezza e di tutela della
salute coperti da tale norma armonizzata”.
Ciò significa che se
il costruttore segue integralmente una norma armonizzata (anche se non è
obbligato a farlo) ha la sicurezza legislativa che la macchina costruita sia
conforme anche ai requisiti obbligatori di salute e sicurezza contenuti
nell’Allegato I della Direttiva Macchine e quindi possa essere immessa sul
mercato, secondo gli adempimenti stabiliti dalla Direttiva stessa.
Se il costruttore
invece non rispetta uno o più punti della norma armonizzata dovrà dimostrare
formalmente all’organismo di certificazione (privato) del VRR o all’organismo
di vigilanza (pubblico, cioè l’ASL) che ha adottato soluzioni tecniche
equivalenti o migliori rispetto a quelle contenute nella norma armonizzata e
che consentano comunque il rispetto dei requisiti obbligatori stabiliti
dall’Allegato I della Direttiva Macchine.
Per quanto riguarda
il primo aspetto che citi, sia la norma 1501-1 (per i VRR a caricamento
posteriore) sia la 1501-2 (per i VRR a caricamento laterale) pongono dei limiti
all’altezza della soglia di carico della tramoggia di raccolta dei rifiuti.
Le due norme dividono
tale requisiti tra sistemi di “tipo aperto” per i quali il movimento del
meccanismo di compattazione dei rifiuti interno alla tramoggia di carico può
avvenire solo manualmente con comandi ad azione di mantenimento (cioè che
devono essere mantenuti azionati per permettere il movimento) e sistemi di
“tipo chiuso” per il quali il movimento di compattazione può avvenire anche in
maniera automatica o semiautomatica, quindi con pulsanti ad azione diretta e
non mantenuta.
In particolare la
1501-1 impone un’altezza minima di 1.000 mm per l’altezza della soglia di
carico per sistemi di tipo aperto e di 1.400 mm per sistemi di tipo chiuso.
Se l’altezza è
variabile a causa di una spondina incernierata che permette l’apertura parziale
della tramoggia di carico, a sponda abbassata (sistema di tipo aperto)
l’altezza deve essere maggiore di 1.000 mm e la compattazione automatica o
semiautomatica deve essere impedita da un sensore di sicurezza che legga la
posizione della spondina, mentre a sponda alzata (sistema di tipo chiuso)
l’altezza deve essere maggiore di 1.400 mm e può essere permessa la
compattazione automatica o semiautomatica.
Analogo discorso vale
per i VRR a caricamento laterale, dove ancora l’altezza minima della soglia di
carico per i sistemi di tipo aperto deve essere di 1.000 mm e quella per i
sistemi di tipo chiuso deve essere di 1.400 mm.
Ovviamente se il VRR
(posteriore o laterale) non ha meccanismo di compattazione rifiuti interno alla
tramoggia, non ci sono vincoli per l’altezza minima della soglia di carico.
Le altezze minime
sopra citate non sono state però pensate, dai comitati tecnici che hanno
definito le norme armonizzate di cui sopra, in termini di ergonomia del carico
manuale dei rifiuti, ma solo in termini di protezione dell’operatore dai rischi
di cesoiamento o schiacciamento degli arti superiori da parte del meccanismo di
compattazione.
Di conseguenza i
costruttori non hanno vincoli sull’altezza massima della soglia di carico,
indipendentemente da considerazioni di carattere ergonomico o di movimentazione
manuale dei carichi.
Spetta al datore di
lavoro della azienda di raccolta rifiuti eseguire una specifica valutazione del
rischio da movimentazione manuale dei carichi (ai sensi dell’articolo 17, comma
1, lettera a) e dell’articolo 169 del D.Lgs. 81/08), tenendo conto non solo dei
vincoli tecnici imposti dalle norme 1501 e di conseguenza dell’altezza di
conferimento dei rifiuti, ma anche di altri fattori quali la durata del
compito, la frequenza di sollevamento, il peso dei carichi da movimentare.
A seguito di tale
valutazione il datore di lavoro dovrà individuare misure di prevenzione e protezione
tecniche o organizzative per ridurre il fattore di rischio (ad esempio
equipaggio composto da due persone che alternativamente guidano il veicolo e
caricano i rifiuti).
Su tale aspetto
quindi la segnalazione all’autorità competente non può essere fatta nei
confronti del costruttore del VRR, ma semmai deve essere fatta nei confronti
del datore di lavoro dell’azienda utilizzatrice.
Per quanto riguarda
il secondo aspetto le norme 1501 pongono dei vincoli ben precisi alla
configurazione della tubazione di scarico.
Per quanto riguarda i VRR a caricamento posteriore, il punto 5.16.1 “Tubo di
scarico” della norma 1501-1 specifica chiaramente che:
“Il flusso dello scarico del
motore deve essere diretto lontano dagli spazi di lavoro e dalle pedane se
presenti. E’ preferibile un sistema di scarico verticale. Il sistema di scarico
deve essere opportunamente montato e/o protetto per prevenire ogni ustione alla
pelle”.
Per quanto riguarda i VRR a caricamento laterale il punto 6.13.1
“Tubo di scarico” della norma 1501-2 specifica chiaramente che:
“Il flusso di scarico del motore deve essere
allontanato dalle postazioni di lavoro. Il tubo di scarico deve essere montato
o protetto in modo da evitare il rischio di ustioni secondo la norma EN ISO
13732-1:2006”.
Tali
requisiti sono definiti dalle norme per evitare ustioni alla pelle degli
operatori, come chiaramente specificato.
Essi
garantiscono il rispetto del requisito di sicurezza definito dall’Allegato I
della Direttiva Macchine, che al punto 1.5.5 “Temperature estreme” impone che:
“Devono
essere prese opportune disposizioni per evitare qualsiasi rischio di lesioni
causate dal contatto o dalla vicinanza con parti della macchina o materiali a
temperatura elevata o molto bassa”.
Come
ho detto prima i requisiti di cui sopra specificati nella norma armonizzate non
sono obbligatori, purché il costruttore del VRR dimostri formalmente (nel
documento “analisi dei rischi” che è parte integrante del Fascicolo Tecnico di
costruzione della macchina e che deve essere custodito dal fabbricante e reso
disponibile all’autorità competente) che ha adottato misure alternative di
prevenzione o protezione dei rischi, analoghe o migliori di quelle richieste
dalle norme armonizzate e che comunque permettano il rispetto del punto sopra
citato del D.Lgs.17/10 (Direttiva Macchine) che è invece un requisito
obbligatorio e non derogabile.
Tieni
conto che i costruttori di VRR non realizzano l’autotelaio sul quale montano il
cassone di raccolta rifiuti e quindi non hanno la possibilità di progettare la
tubazione di scarico secondo quanto richiesto dalle norme 1501. In ogni caso
essi devono introdurre delle misure progettuali (ad esempio protezioni isolanti
dal calore) per eliminare i rischi (da ustione in questo caso) derivanti dalla
non conformità alle norme armonizzate.
Dalle
tue informazioni risulta che questo non è stato assolutamente fatto, pertanto,
in questo caso potete rivolgervi all’autorità di vigilanza per segnalare la
mancata osservanza (da parte del costruttore in questo caso) della norma
tecnica e della mancata applicazione di soluzioni progettuali alternative a
quelle indicate dalla norma, ma che abbiano la stessa efficacia in termini di
protezione dalle ustioni e che rispettino comunque il requisito citato della
Direttiva Macchine.
A
disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco
TRANQUILLI, IL
LAVORO UCCIDE COME AL SOLITO!
Da
La Città Futura
19
febbraio 2016
di
Carmine Tomeo
Scusate
la provocazione. Però, capirete che fa rabbia leggere allarmi sulle morti nei
luoghi di lavoro solo quando ci sono incidenti mortali eclatanti che
coinvolgono più lavoratori nello stesso cantiere o quando, come in questi
giorni, qualcuno fa notare un aumento dei casi nell’arco di un anno rispetto a
quello precedente. Nel 2015, in rapporto alle ore lavorate, sono morti tanti
lavoratori quanti nel 2014. E ogni anno sono molti di più dei militari morti
nelle “missioni di pace”. A non fare notizia è la condizione dei lavoratori:
precari, sotto ricatto, sfruttati, che svolgono lavori poco sicuri.
L’Osservatorio
Vega Engineering di Mestre, con un lavoro molto apprezzabile, da anni diffonde
mensilmente i dati sulle morti che avvengono nei luoghi di lavoro;
l’Osservatorio indipendente di Bologna fa un lavoro encomiabile con il
monitoraggio degli incidenti mortali sul lavoro, in tempo reale. Sono due
esempi di rilevazione sulla strage quotidiana nei luoghi di lavoro, che
dovrebbero far sobbalzare dalla sedia ogni volta che se ne leggono i dati. E
invece, troppo spesso, si attende la fine dell’anno per stracciarsi le vesti
perché c’è stato un X% di morti in più sul lavoro. Come se nel 2014 l’Italia
potesse considerarsi un Paese che conosce la civiltà del lavoro perché ci sono
stati “solo” 1.107 lavoratori morti e non 1.172, come nel 2015.
Sia
chiaro: ogni volta che si registrano morti in più siamo di fronte a una
tragedia che si aggrava. Ma c’è da chiedersi: oltre 1.000 lavoratori ammazzati
dal lavoro a causa di incidenti, sono accettabili? No, certo. E allora, di
grazia, perché non ci si è allarmati per i 1.107 morti del 2014, per i 1.215
del 2013, per i 1.347 del 2012, per i 1.387 del 2011? Perché negli ultimi anni
i morti sul lavoro erano in calo e ora sono tornati ad aumentare, si dirà. Ma
ne siamo sicuri? A leggere i dati, non sembra ci fosse una tendenza alla
riduzione di infortuni e morti sul lavoro così sostanziosa da far pensare che
si fosse sulla strada giusta.
Ha
senso considerare i numeri assoluti? Ovviamente, no. Dire che un chilo di pasta
è una quantità eccessiva da mangiare, non ha senso senza dire in quanti pasti
viene consumato o da quante persone. Lo stesso vale nel caso di infortuni e
morti sul lavoro. Il rapporto minimo da considerare è quello tra numero di
infortuni e incidenti mortali rispetto al numero dei lavoratori. Se
consideriamo i dati INAIL, allora occorre rapportarli con il numero degli
assicurati all’ente, che sono circa il 70% degli occupati rilevati dall’ISTAT.
Un rapporto del genere mostra davvero un calo di infortuni in generale e di
quelli mortali: dal 2011 al 2015, si è registrato un infortunio in meno ogni
100 lavoratori e un morto in meno ogni 100.000 lavoratori. Positivo, certo, ma
tanto da restare praticamente indifferenti in questi anni di fronte a quei numeri!
E questi dati ancora non raccontano la realtà in maniera esaustiva. Un dato più
corretto è quello che mette in rapporto gli infortuni con le ore lavorate.
Perché è chiaro che, a parità di pericolo al quale è soggetto, un lavoratore
avrà tanta più probabilità di infortunarsi o ammalarsi quanto più tempo è
esposto al rischio, cioè quante più ore di lavoro svolge.
L’ISTAT
fa sapere che, mediamente, le ore settimanali effettivamente lavorate
pro-capite sono state 37 nel 2011, e 36 dal 2012 al 2014. Con questi dati
possiamo calcolare che ogni 10.000 ore lavorate si verificavano 14 infortuni
nel 2011 e 12 nel 2014; allo stesso modo, ogni 10 milioni di ore lavorate, sono
morti: 23 lavoratori nel 2011, 24 nel 2012, 22 nel 2013 e 20 nel 2014.
Quest’ultimo dato è uguale a quello del 2015 (ipotizzando 36 ore lavorate
pro-capite). Perché i 20 lavoratori morti nel 2015 allarmano più dei 20 del
2014? Dovrebbe destare allarme il fatto che sistematicamente la maggioranza
delle denunce di infortunio mortale riguarda i lavoratori più anziani (la metà
sia nel 2014 che nel 2015); e invece sistematicamente si alza l’età
pensionabile. Dovrebbero impressionare le oltre 60.000 denunce di infortunio
l’anno che riguardano lavoratori meno che quattordicenni, che qualche volta, poco
più che bambini, muoiono sul lavoro (5 casi solo nel 2014), e invece il
ministro Poletti parla di ridurre le vacanze, così che i “nostri giovani fanno
un’esperienza formativa nel mondo del lavoro”.
E
perché non ci si allarma per altre morti provocate dal lavoro, quali sono
quelle che avvengono per malattia professionale? Eppure nel 2014 sono decedute
quasi 1.000 persone per aver contratto una malattia a causa del lavoro. Ogni
milione di ore lavorate, dal 2011 al 2014 l’INAIL ha riconosciuto la malattia
professionale a 30 lavoratori, e di questi, due hanno contratto una malattia
che li ha lentamente uccisi.
Eppure
questi numeri, che nascondono la tragedia di vite spezzate da un lavoro
insicuro, dovrebbero fare notizia, sempre. Perché raccontano di un modo di
lavorare, spesso così rischioso da essere mortale. Sicuramente più rischioso di
una “missione di pace”, visto che negli stessi anni (2011-2014) sono morti in
quelle missioni 21 militari a fronte di oltre 5.000 lavoratori nelle fabbriche,
nei cantieri, nelle strade. Tutti quei morti parlano di lavoratori esposti a
rischi per la propria salute, la propria integrità fisica e la propria vita. Ed
esposti a un ricatto sempre maggiore, sempre più ossessivo, che impone sempre
maggiori sacrifici che, ci dicono, sono necessari per far ripartire la
crescita. Quella crescita misurata con PIL da zero-virgola, di cui Renzi ed il
suo governo si rallegrano ma che è prodotto, evidentemente, molto spesso con
lavoro di bassa qualità, scarsa specializzazione, che compete solo sul costo
del lavoro che viene ridotto anche sottraendo le spese per garantire condizioni
di lavoro sicuro.
La
riforma Fornero del lavoro, quella sulle pensioni, il Jobs Act, la
destrutturazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, gli accordi che
sacrificano diritti sull’altare della produttività, sono presupposti
esattamente opposti a ciò che sarebbe necessario per contrastare la strage
quotidiana sui luoghi di lavoro. Gli appelli per ridurre infortuni e morti sul
lavoro, come le chiacchiere, stanno a zero. Alla loro riduzione servono
controlli e processi più rapidi; ma soprattutto, il lavoro che uccide va
contrastato con la riduzione delle forme di precarietà, ricatto, sfruttamento
dei lavoratori e con un’estensione dei diritti e della democrazia nei luoghi di
lavoro.
SE FATE IL TURNO DI
NOTTE, LA VOSTRA SALUTE E’ A RISCHIO
da
La Stampa
14/01/2015
di
Nicla Panciera
SE
FATE IL TURNO DI NOTTE, LA VOSTRA SALUTE E’ A RISCHIO
UNO
STUDIO AMERICANO MISURA LE CONSEGUENZE NEGATIVE SULL’ALTERAZIONE DEL RITMO
SONNO-VEGLIA: AUMENTANO RISCHI CARDIOVASCOLARI E ONCOLOGICI
LE
REGOLE PER MINIMIZZARE I DANNI
Lavorare
nelle ore notturne non fa bene alla salute. Le alterazioni del ciclo sonno-veglia
hanno degli effetti negativi di lungo periodo sull’organismo dei lavoratori,
come un maggior rischio di malattie cardiovascolari e oncologiche, che aumenta
in modo proporzionale al numero di anni spesi adottando ritmi sfasati.
Lo
dice uno studio condotto da un team internazionale, il più grande finora mai
realizzato quanto a numero di soggetti analizzati (ben 75.000 infermiere) e al
periodo di tempo considerato (22 anni).
I
risultati, appena pubblicati sull’American Journal of Preventive Medicine, dicono
che un’alterazione dei regolari ritmi del sonno, anche se per un periodo
limitato di cinque anni, accresce il rischio di cancro al polmone e di malattie
cardiovascolari con un aumento complessivo della mortalità del 11%. Nel
dettaglio, i ricercatori hanno visto che le donne che avevano lavorato con
turni per un periodo dai 6 ai 14 anni, avevano un rischio di morte per malattie
cardiovascolari maggiore del 19%, che arrivava al 23% per periodi lavorativi
più lunghi di 15 anni.
Parte
di un più ampio progetto partito nel 1976, l’indagine ha analizzato per un
ventennio la salute di un gruppo di 75.000 infermiere americane.
Secondo
gli autori, ciò non costituirebbe un limite ma, al contrario, il riferirsi a
una sola professione, permettendo così di escludere le variabili legate alla
diversità di occupazione, rafforzerebbe i risultati ottenuti, comunque
considerati estendibili alla popolazione generale.
Oggi,
infatti, oltre agli operatori sanitari, sono molti i lavoratori costretti a
lavorare con turni, dai call center a chi deve fare i conti con i fusi orari
nello svolgimento delle proprie mansioni.
IL
LEGAME TRA RITMI CIRCADIANI E MALATTIE
Per
spiegare i meccanismi alla base della maggior vulnerabilità alle malattie
oncologiche e cardiovascolari dei turnisti bisogna fare riferimento alla
melatonina, ormone dalla funzione protettiva per l’organismo e coinvolto nella
regolazione del ciclo sonno veglia. “Alterare il ritmo circadiano riduce i
livelli di melatonina secreti dall’organismo, la cui funzione oncoprotettrice è
confermata da decenni di studi sull’uomo e sull’animale; la melatonina è un
antiossidante che contrasta quei fenomeni di danneggiamento del DNA che possono
portare allo sviluppo dei tumori”, spiega il dottor Giovanni de Vito,
ricercatore di medicina del lavoro all’Università di Milano Bicocca.
Per
quanto riguarda l’aumento della mortalità cardiovascolare emersa dallo studio,
“la melatonina avrebbe un effetto stabilizzante sulla membrana dei vasi; ciò
determina una riduzione della reazione infiammatoria alla base della produzione
delle cosiddette placche endovasali, tra cui quelle coronariche che portano
alle patologie ischemiche cardiache”.
LAVORO
NOTTURNO E MALATTIE NEOPLASTICHE
Il
rischio di sviluppare certe malattie in seguito a turni di lavoro notturni è un
sorvegliato speciale da tempo, tanto che già dal 2007 l’International Agency
for Research on Cancer (lo IARC) di Lione ha inserito il “lavoro su turni che
comporta un’alterazione dei ritmi circadiani” fra i possibili fattori che
agevolano la carcinogenesi. Nel suo rapporto (Monografia IARC sulla valutazione
del rischio cancerogeno per l’essere umano n. 9) del 2010 ha classificato il
rischio di tumore legato al turno notturno come “possibile 2A” (probabile
cancerogeno per l’uomo).
CANCRO
AL POLMONE
“I
dati sul cancro al polmone dello studio sulle infermiere sono piuttosto nuovi,
esistendo una sola altra ricerca relativa agli effetti del lavoro sul rischio
di sviluppare la neoplasia”, commenta il dottor De Vito, non coinvolto nello
studio. “Sembra che la mortalità per tumore del polmone sia elevata sia nei
fumatori che nei non fumatori, questi ultimi con incidenza inferiore. Vale la
pena ricordare che i turnisti mangiano di più e fumano di più”.
CANCRO
ALLA MAMMELLA
Quanto
al tumore alla mammella, “questo studio indica un aumento non significativo,
per il numero limitato di casi osservati (meno di 100)”. “Tuttavia”, continua
De Vito, “precedenti studi confermano il rapporto tra alterazione del ritmo
circadiano e tumore della mammella dopo circa 20-30 anni di turni. In questo
caso, il meccanismo è basato sul fatto che alcuni tumori della mammella sono
estrogeni-dipendenti, in altre parole il loro sviluppo e la loro crescita sono
promossi da alti livelli di estrogeni. La melatonina contrasta l’estradiolo,
uno degli estrogeni più importanti. Così si spiega il danno creato da una sua
diminuzione”.
L’IMPATTO
SULLE FACOLTA’ COGNITIVE
Anche
il nostro cervello risente del lavoro notturno, in particolare con un
peggioramento nelle prestazioni delle principali facoltà cognitive, come
memoria, attenzione, velocità di reazione.
Lo
ha dimostrato uno studio franco-britannico che ha seguito per dieci anni 3.000
lavoratori nel sud della Francia fra i 32 e i 62 anni, impiegati nei più
diversi settori, ma con almeno 50 giorni all’anno con orari notturni. I
risultati sono chiari: dieci o più anni da turnisti portano a un’accelerazione
del declino cognitivo. L’impatto negativo, inoltre, pur reversibile, persiste
per almeno cinque anni dopo la fine del lavoro a turni.
LE
REGOLE D’ORO PER MINIMIZZARE I DANNI
Quando
cambiare lavoro non è una strada perseguibile, si devono adottare delle
strategie che riguardano l’organizzazione del lavoro volte a minimizzare il
danno. Il dottor De Vito, che dirige la Struttura Complessa di Medicina del
Lavoro dell’Azienda Ospedaliera della Provincia di Lecco, ne suggerisce alcune
basandosi sulla letteratura scientifica esistente.
Pianificare
correttamente il sistema di rotazione del turno notturno in accordo con criteri
ergonomici:
-
preferire
rotazioni in senso orario piuttosto che antiorario (mattina, pomeriggio, notte
piuttosto che mattina, notte, pomeriggio);
-
evitare
che i turni della mattina inizino eccessivamente presto;
-
evitare
turni molto lunghi (di 9-12 ore), se non adeguatamente strutturati, con pause e
interruzioni per evitare l’accumulo eccessivo di fatica o l’esposizione a
sostanze tossiche;
-
programmare
turni il più possibile regolari, lasciando libero il fine settimana;
-
lavorare
di notte in modo permanente è accettabile solo in situazione lavorative
particolari e comunque l’inversione del ciclo sonno-veglia va mantenuta anche
nelle giornate non lavorative e l’esposizione alla luce del sole va evitata
quando si stacca e nel viaggio verso casa (indossare occhiali da sole mentre si
rientra a casa);
-
lasciare
tra un turno e l’altro un tempo sufficiente al recupero delle ore di sonno e
dalla fatica, evitando due turni nelle 24 ore e inserendo il giorno di pausa
dopo un turno di notte;
-
lasciare
ai lavoratori una certa flessibilità di orario per permettere loro di gestire
al meglio impegni personali, famigliari e sociali.
Ridurre
i fattori di rischio che favoriscono lo sviluppo della patologia:
-
per
il tumore al polmone: dire basta al fumo e no all’esposizione a cancerogeni
polmonari certi (amianto, idrocarburi policiclici aromatici, cromo esavalente,
nickel, arsenico, berillio, cadmio, silice, radon);
-
per
le malattie cardiovascolari: dire basta al fumo, obesità, ipertensione e
adottare abitudini di vita salutari (attività fisica, dieta).
CASSAZIONE: NO AL
LICENZIAMENTO PER SOPRAVVENUTA INCAPACITA’ TOTALE DI SVOLGERE LE PRECEDENTI
MANSIONI
Da
Studio Cataldi
22
febbraio 2016
di
Annalisa Sassaro
CASSAZIONE:
NO AL LICENZIAMENTO PER SOPRAVVENUTA INCAPACITA’ TOTALE DI SVOLGERE LE
PRECEDENTI MANSIONI
IN
CAPO AL DATORE DI LAVORO GRAVA L’ONERE DI RICOLLOCAZIONE DEL LAVORATORE
Con
la sentenza n. 12489 del 17/06/15, la Suprema Corte afferma come la
sopravvenuta inabilità totale del prestatore di lavoro alle mansioni
precedentemente svolte non sia causa sufficiente, autonomamente considerata,
per ricorrere al licenziamento.
Il
fatto che ha dato luogo alla pronuncia è stato il caso di un’ausiliaria
socio-sanitaria licenziata dalla Casa di Cura datrice di lavoro per
sopravvenuta totale inabilità alle mansioni alle quali era adibita. Nel 2005 il
Tribunale di Roma ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato
dalla Casa di Cura ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro, così come
stabilito dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, nonché la condanna al
risarcimento dei danni.
Per
contro, la società ha impugnato la sentenza dinanzi alla Corte d’Appello di
Roma, la quale ha rigettato il gravame interposto contro la pronuncia emessa in
prima istanza.
La
Casa di Cura è ricorsa alla Suprema Corte per la cassazione della sentenza di
secondo grado.
La
società ricorrente ritiene che il licenziamento è stato correttamente intimato
sulla base di un giudizio reso da un organismo pubblico, ovvero dalla
Commissione medica ospedaliera, che al tempo aveva giudicato la donna
totalmente e permanentemente inabile alle prestazioni lavorative alle quali era
adibita precedentemente. La Casa di Cura sostiene quindi come la sopravvenuta
incapacità totale della dipendente fosse causa ostativa alla positiva
prosecuzione del rapporto lavorativo, giustificando il recesso senza la
necessità di provvedere ad accertamenti circa la possibilità di assegnare alla
dipendente altre mansioni equivalenti, o in via residuale, inferiori.
La
Suprema Corte considera infondato il motivo addotto dalla parte ricorrente.
In
primis, la Corte afferma come il giudizio d’inidoneità della Commissione
ospedaliera, formulato sulla base di quanto disposto all’articolo 5 dello
Statuto dei Lavoratori, non sia vincolante né per il datore né per il Giudice,
il quale può provvedere discrezionalmente a un ulteriore controllo avvalendosi,
se ritenuto necessario, dell’ausilio di un consulente tecnico.
Di
conseguenza, in caso di contrasto tra l’accertamento sanitario e la consulenza
prevista durante il processo, il Giudice del merito è tenuto a confrontare le
diverse risultanze allo scopo di stabilire quale sia maggiormente attendibile e
convincente.
In
subordine, il giudizio di totale inabilità alle mansioni precedentemente svolte
non integra né un caso di impossibilità sopravvenuta tale da risolvere il
contratto, né tanto meno risulta essere condizione sufficiente per il
licenziamento in quanto in capo al datore di lavoro grava l’onere di dimostrare
l’inesistenza di altre mansioni (equivalenti o, in extremis, deteriori)
compatibili con la situazione di salute del lavoratore a condizione che
quest’ultimo non abbia già manifestato, “ab origine”, il rifiuto di qualsiasi
diversa assegnazione (nel caso esaminato, questa ipotesi non sussiste) e che
l’attribuzione non comporti un’alterazione dell’organizzazione produttiva.
Si
profila dunque l’onere di ricollocazione del lavoratore, individuando nel
licenziamento una “extrema ratio”.
Alla
luce di quanto detto, la Corte ha respinto il ricorso presentato dalla Casa di
Cura.
COME E QUANDO
AVVENGONO I CONTROLLI NELLE AZIENDE?
Da:
PuntoSicuro
di
Tiziano Menduto
Indicazioni
per aumentare la trasparenza delle attività ispettive in un documento dell’ULSS
9 di Treviso.
Come
e quando avvengono in controlli? Come sono scelte le aziende e i cantieri? Come
si svolge il controllo? Quali sono i possibili esiti?
Parlare
di vigilanza e dell’attività ispettiva in materia di salute e sicurezza sul
lavoro (vigilanza esercitata specialmente, ma non solo, dalle Aziende Sanitarie
Locali competenti per territorio e, secondo le competenze riportate nel Testo
Unico, dal personale ispettivo del Ministero del Lavoro) non è mai semplice.
E’
un tema delicato, destinato spesso a suscitare opinioni e riflessioni
divergenti sulla quantità, sull’efficacia, sui risultati delle ispezioni
realizzate. E su quelle che si sarebbero potute realizzare se fossero maggiori
le risorse disponibili, se aumentasse il coordinamento e uniformità di
strategie e metodi, se si superasse l’attuale frammentazione dell’attività
ispettiva.
Proprio
per la delicatezza del tema e la necessità di far conoscere, con semplicità e
chiarezza, le caratteristiche dell’attività di vigilanza, è da sostenere il
tentativo di alcune Aziende Sanitarie di aumentare la trasparenza in questo
ambito attraverso la pubblicazione in rete di utili documenti.
E’
il caso ad esempio dell’Azienda ULSS 9 di Treviso che ha creato uno spazio web
destinato a chi vuole:
-
conoscere
le modalità con cui il Servizio Prevenzione Igiene e Sicurezza in Ambienti di
Lavoro (SPISAL) effettua i controlli durante la vigilanza negli ambienti di
lavoro;
-
conoscere
le norme che devono essere rispettate da parte dei datori di lavoro;
-
autovalutare
il grado di conformità alla normativa.
Un
documento reso disponibile riguarda, ad esempio, le “Modalità di effettuazione
dei controlli durante l’attività Ispettiva dello SPISAL negli ambienti di
lavoro”.
La
nota informativa è utile per comunicare alle aziende le modalità con cui
vengono effettuati i controlli miranti a verificare l’ottemperanza alla
normativa sulla sicurezza sul lavoro e agevolarle nel compito di attuare le
misure di prevenzione conoscendo le modalità con cui sarà effettuato l’accesso
ispettivo.
COME
AVVENGONO I CONTROLLI?
Si
ricorda in particolare che l’attività di controllo e vigilanza prevede
l’effettuazione di sopralluoghi ispettivi al fine di individuare e accertare la
presenza di fattori di rischio per la salute dei lavoratori, di verificare
l’adozione delle cautele necessarie e di promuovere, in caso di carenze in tema
di igiene e sicurezza del lavoro, l’attuazione di misure di prevenzione e
protezione in modo da eliminare o ridurre il rischio di infortuni e malattie
professionali. E se vengono evidenziate violazioni alla normativa sulla
sicurezza il personale ha l’obbligo, stabilito da norme penali, di sanzionare
le violazioni e prescrivere il ripristino delle condizioni di sicurezza e
salubrità.
QUANTI
CONTROLLI VENGONO OPERATI?
Il
documento indica che il volume di attività di controllo è stabilito a livello
nazionale e modulato a livello regionale (chiaramente per l’ULSS9 si fa
riferimento alla Regione Veneto) dalla Direzione Regionale Prevenzione e dal
Comitato Regionale di Coordinamento di cui all’articolo 7 del D.Lgs. 81/08. E
il numero di aziende da ispezionare è calcolato nella misura del 5% delle
posizioni assicurative INAIL che abbiano almeno un dipendente o equiparato; per
la ULSS 9 l’obiettivo si traduce in circa 1.000 aziende all’anno da ispezionare
(compresi cantieri e lavoratori autonomi). La selezione delle aziende avviene,
conformemente alle indicazioni di priorità del Comitato per l’Indirizzo di cui
all’articolo 5 del D.Lgs. 81/08, sulla base del rischio evidenziato con criteri
oggettivi e delle direttive regionali che individuano i comparti produttivi a
maggior rischio. E l’edilizia e l’agricoltura rappresentano i due settori in
cui sono più concentrati gli infortuni gravi e mortali e per questo motivo sono
oggetto di piani nazionali di prevenzione; la regione fissa un numero minimo di
cantieri e di aziende agricole da ispezionare nel territorio di ciascuna ULSS.
COME
SONO SCELTE LE AZIENDE E I CANTIERI DA CONTROLLARE?
Lo
SPISAL indica che la selezione dei cantieri per i controlli avviene:
-
sulla
base di indicatori di possibile rischio rilevati dalla notifica preliminare
effettuata dal committente ai sensi dell’articolo 99 del D.Lgs 81/08;
-
a
vista, in quanto già dall’esterno sono visibili palesi violazioni alla
normativa sulla sicurezza;
-
a
campione, in base alla distribuzione delle attività nel territorio;
-
per
esposto da parte di cittadini, lavoratori o altri soggetti interessati.
Mentre
la selezione delle aziende per i controlli avviene (oltre che per
esposto/denuncia da parte di cittadini, lavoratori, Autorità Giudiziaria e
altri Enti con funzioni di vigilanza) per iniziativa del Servizio (in base
anche ai criteri già indicati nel documento):
-
per
la particolare incidenza di infortuni, anche se non gravi;
-
per
la presenza di infortuni con modalità particolarmente pericolose (eventi
sentinella);
-
per
infortuni ripetitivi con le stesse modalità;
-
per
comparto produttivo (ad esempio agricoltura);
-
per
progetti mirati a prevenire alcuni rischi di danno grave o mortale (verifica
impianti elettrici e attrezzature, sorveglianza sanitaria assenza
tossicodipendenza, attrezzature pericolose, muletti ecc.);
-
a
campione, anche su attività non particolarmente rischiose, in funzione della
distribuzione nel territorio e del numero di addetti.
Senza
dimenticare che lo SPISAL, per accertare eventuali violazioni alla normativa
sulla sicurezza e quindi eventuali responsabilità, effettua anche interventi di
polizia giudiziaria in azienda a seguito di:
-
infortunio
sul lavoro con lesioni personali gravi o gravissime o morte;
-
malattia
professionale con lesioni personali gravi o gravissime o morte.
E
inoltre possono essere eseguiti interventi di promozione dell’adozione di
sistemi di gestione della sicurezza e di modelli organizzativi di cui
all’articolo 30 del D.Lgs. 81/08, con o senza concomitante attività ispettiva.
QUALI
SONO LE MODALITA’ DI INTERVENTO?
Si
segnala che se l’ispezione viene effettuata dal personale SPISAL, che può avere
diversi profili e competenze professionali (dirigenti medici del lavoro,
laureati dirigenti non medici, tecnici della prevenzione, infermieri,
assistenti sanitari, ecc.), all’accesso partecipa sempre almeno un Ufficiale di
Polizia Giudiziaria (UPG) che, ai sensi del D.P.R. 520/55, ha potere di accesso
nei luoghi di lavoro.
Si
sottolinea che per nessun motivo le aziende possono essere preavvertite
dell’accesso ispettivo; soltanto se necessario per verificare lavorazioni
discontinue, possono essere presi accordi per sopralluoghi successivi al primo
accesso.
Il
personale inoltre richiede la presenza del Datore di Lavoro o di un suo
delegato, del Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione e, se
necessario per la tipologia di intervento, del Rappresentante dei Lavoratori
per la Sicurezza. Il Datore di Lavoro ha facoltà di far presenziare i propri
consulenti, fermo restando che si procede anche in attesa del loro arrivo.
Tuttavia, anche in assenza dei soggetti sopra menzionati, il controllo procede,
fatta salva la facoltà per l’azienda di fornire successivamente documentazione
o quanto altro ritenga opportuno per documentare la propria attività in tema di
prevenzione.
Il
documento citato si sofferma anche nel dettaglio sulla documentazione richiesta
(fermo restando che, per esigenze specifiche o per quanto emerso nel corso
dell’ispezione, possono essere visionati o richiesti anche tutti gli altri
documenti che l’azienda è tenuta ad esibire), sul processo di ispezione (che si
conclude con la compilazione del verbale di accesso) e sull’esito dell’attività
ispettiva.
Riguardo
a quest’ultimo aspetto sono riportati i possibili esiti dell’ispezione:
-
se
non sono state rilevate violazioni penali o amministrative e non sono
necessarie disposizioni per il miglioramento della salute e sicurezza, il
controllo si chiude; il personale relazionerà al direttore del servizio che
archivierà il procedimento;
-
se,
in assenza di violazioni, emerge la necessità di migliorare le condizioni di
salute e sicurezza su argomenti che presentano margini di discrezionalità,
possono essere impartite delle disposizioni; in questo caso è possibile che
pervenga all’azienda il successivo verbale di disposizioni che specifica le
cautele da adottare; il verbale indica i tempi entro cui ottemperare e le
modalità per effettuare eventuale ricorso in via amministrativa se l’azienda
intende opporsi alla disposizione; una forma particolare di disposizione è
quella prevista dall’articolo 302-bis del D.Lgs. 81/08 in caso di adozione
volontaria di norme tecniche e di buone prassi;
-
se
vengono riscontrate violazioni di natura amministrativa, l’azienda riceverà il
verbale di accertamento dell’illecito amministrativo che riporterà i tempi e i
modi per la regolarizzazione, gli adempimenti conseguenti, e l’indicazione
sulle modalità per effettuare eventuale ricorso in via amministrativa se
l’azienda intende opporsi; se l’azienda ottempera, dopo nuovo sopralluogo di
verifica, potrà essere ammessa al pagamento in misura minima della sanzione
amministrativa, estinguendo così l’illecito;
-
se
vengono riscontrate violazioni di natura penale, l’azienda riceverà il verbale
di contravvenzione e prescrizione ai sensi del D.Lgs. 758/94 (salvo il caso dei
reati istantanei) ai fini della depenalizzazione; la norma prevede che sia data
Notizia di Reato alla Procura della Repubblica, ma il procedimento penale resta
sospeso in attesa della conclusione dell’iter di cui al D.Lgs. 758/94; il
verbale di prescrizione contiene le indicazioni sullo svolgimento della
procedura, tempi e modi di regolarizzazione; l’azienda ha la possibilità di
richiedere proroghe motivate dei tempi concessi per la regolarizzazione (che
devono comunque essere congrue dal punto di vista tecnico e non dovute a
negligenza del contravventore); trascorso il termine, verrà effettuato il
sopralluogo di verifica e, in caso di ottemperanza, il contravventore sarà
ammesso al pagamento di una sanzione amministrativa in misura ridotta e a
pagamento avvenuto, lo SPISAL comunica alla Procura che il contravventore ha
ottemperato nei tempi e nei modi previsti e ha pagato la sanzione
amministrativa entro i termini, determinando così l’estinzione del reato; in
caso contrario, cioè se non ha ottemperato nei modi e nei tempi indicati e non
ha pagato entro i termini, il procedimento penale riprende il suo corso.
Lo
SPISAL ricorda infine che altre disposizioni in materia penale sono contenute
nel titolo XII del D.Lgs. 81/08.
Il
documento della ULSS 9 Treviso “Modalità di effettuazione dei controlli durante
l’attività Ispettiva dello SPISAL negli ambienti di lavoro” è scaricabile
all’indirizzo:
GUIDA ALLA
COLLABORAZIONE COL MEDICO COMPETENTE
Da:
PuntoSicuro
18
febbraio 2016
Un
piano di prevenzione dell’ATS Brianza si sofferma sul contributo del sistema
prevenzionistico aziendale all’attività del medico competente. La guida per le
imprese, la definizione e i compiti del medico competente.
I
Piani Mirati di Prevenzione (PMP) elaborati dal Comitato Provinciale (ex
articolo 7 del D.Lgs. 81/08) dell’Azienda sanitaria locale della provincia di
Monza e Brianza (dal primo gennaio 2016 ATS Brianza) hanno sempre avuto il
merito in questi anni di centrare alcune delle problematiche, degli aspetti
centrali e, a volte, delle carenze nelle strategie di prevenzione aziendali.
E’
stato così per il PMP sulla formazione dei lavoratori ed è così anche per il
nuovo PMP che affronta il ruolo del medico competente nelle aziende.
Sappiamo
che il medico competente dovrebbe rivestire all’interno del sistema
prevenzionistico aziendale un ruolo molto importante. Un ruolo che non si ferma
alla sorveglianza sanitaria e ai giudizi di idoneità, ma che dovrebbe
riguardare anche (come ricordato nella presentazione ufficiale del nuovo PMP) a
una collaborazione a tutto campo per la valutazione dei rischi, la
predisposizione e attuazione delle misure per la tutela della salute e
dell’integrità psicofisica dei lavoratori, la loro formazione e informazione,
l’organizzazione del primo soccorso e la valorizzazione di programmi di promozione
della salute.
Ma
tutto questo avviene effettivamente nelle aziende? E il datore di lavoro e gli
altri attori della sicurezza (ad esempio i componenti del servizio di
prevenzione e protezione e il rappresentante dei lavoratori) forniscono un
adeguato supporto e stimolo all’attività del medico competente per garantirgli
una partecipazione attiva ed efficace al sistema di prevenzione aziendale?
Per
rimarcare l’importanza e le funzioni del medico competente il citato Comitato
Provinciale ha dunque attivato il PMP dal titolo “Contributo del sistema
prevenzionistico aziendale all’attività del medico competente”.
Un
piano che si è concretizzato anche in una lettera alle aziende del territorio,
in una scheda di autovalutazione, in un incontro pubblico che si è tenuto il 15
dicembre 2015 e nell’elaborazione della guida “Contributo del sistema
prevenzionistico aziendale all’attività del medico competente. Guida per le
imprese”.
Ci
soffermiamo oggi su questa guida che rappresenta la sintesi condivisa del
lavoro svolto dal gruppo “Contributo del sistema prevenzionistico aziendale
all’attività del medico competente” costituito nell’ambito del Comitato di
Coordinamento Provinciale di Monza e Brianza.
Analizziamo
oggi due domande di base.
CHI
E’ IL MEDICO COMPETENTE?
La
guida, con riferimento a quanto contenuto nel D.Lgs. 81/08 all’articolo 2,
comma 1, lettera h), indica che il medico competente è un medico in possesso di
uno dei titoli e dei requisiti formativi e professionali di cui all’articolo
38, che collabora, secondo quanto previsto all’articolo 29, comma 1, con il
datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi ed è nominato dallo
stesso per effettuare la sorveglianza sanitaria e per tutti gli altri compiti
di cui al D.Lgs. 81/08.
Riportiamo
per chiarezza l’articolo 38:
“Per
svolgere le funzioni di medico competente è necessario possedere uno dei
seguenti titoli o requisiti:
-
specializzazione
in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica;
-
docenza
in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o
in tossicologia industriale o in igiene industriale o in fisiologia e igiene
del lavoro o in clinica del lavoro;
-
autorizzazione
di cui all’articolo 55 del Decreto Legislativo n,277 del 15 agosto 1991;
-
specializzazione
in igiene e medicina preventiva o in medicina legale;
-
con
esclusivo riferimento al ruolo dei sanitari delle Forze Armate, compresa l’Arma
dei carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza, svolgimento
di attività di medico nel settore del lavoro per almeno quattro anni.
I
medici in possesso dei titoli di cui al comma 1, lettera d), sono tenuti a
frequentare appositi percorsi formativi universitari da definire con apposito
decreto del Ministero dell’Università e della ricerca di concerto con il
Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali. I soggetti di cui
al precedente periodo i quali, alla data di entrata in vigore del presente
decreto, svolgano le attività di medico competente o dimostrino di avere svolto
tali attività per almeno un anno nell’arco dei tre anni anteriori all’entrata
in vigore del presente decreto legislativo, sono abilitati a svolgere le
medesime funzioni. A tal fine sono tenuti a produrre alla Regione attestazione
del datore di lavoro comprovante l’espletamento di tale attività.
Per
lo svolgimento delle funzioni di medico competente è altresì necessario
partecipare al programma di educazione continua in medicina ai sensi del
Decreto Legislativo n.228 del 19 giugno 1999 e successive modificazioni e
integrazioni, a partire dal programma triennale successivo all’entrata in
vigore del presente decreto legislativo. I crediti previsti dal programma
triennale dovranno essere conseguiti nella misura non inferiore al 70 per cento
del totale nella disciplina medicina del lavoro e sicurezza degli ambienti di
lavoro.
I
medici in possesso dei titoli e dei requisiti di cui al presente articolo sono
iscritti nell’elenco dei medici competenti istituito presso il Ministero del
lavoro, della salute e delle politiche sociali”.
La
guida ricorda inoltre che:
-
ai
sensi dell’articolo 39, comma 1 del D.Lgs. 81/08, l’attività di medico
competente è svolta secondo i principi della medicina del lavoro e del codice
etico della Commissione internazionale di salute occupazionale (ICOH);
-
ai
sensi dell’articolo 39, comma 3 del D.Lgs. 81/08,il dipendente di una struttura
pubblica, che svolge attività di vigilanza, non può prestare, ad alcun titolo e
in alcuna parte del territorio nazionale, attività di medico competente;
-
ai
sensi dell’articolo 39, comma 4 del D.Lgs. 81/08, il datore di lavoro assicura
al medico competente le condizioni necessarie per lo svolgimento di tutti i
suoi compiti garantendone l’autonomia.
La
seconda domanda a cui è necessario preventivamente rispondere riguarda invece
la funzione del medico competente.
QUALI
SONO GLI OBBLIGHI DEL MEDICO COMPETENTE?
La
guida, sempre con riferimento al contenuto del Testo Unico in materia di tutela
della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (articolo 25), riporta gli
obblighi del medico competente.
Innanzitutto
il medico competente collabora con il datore di lavoro e il servizio di
prevenzione e protezione alla:
-
valutazione
dei rischi, anche ai fini della programmazione, ove necessario, della
sorveglianza sanitaria;
-
alla
predisposizione dell’attuazione delle misure per la tutela della salute e
dell’integrità psico-fisica dei lavoratori;
-
all’
attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori, per la
parte di competenza;
-
all’organizzazione
del servizio di primo soccorso considerando i particolari tipi di lavorazione
ed esposizione e le peculiari modalità organizzative;
-
all’attuazione
e valorizzazione di programmi volontari di ‘promozione della salute’, secondo i
principi della responsabilità sociale.
Inoltre
il medico competente:
-
programma
ed effettua la sorveglianza sanitaria attraverso protocolli sanitari definiti
in funzione dei rischi specifici;
-
istituisce,
aggiorna e custodisce, sotto la propria responsabilità, una cartella sanitaria
e di rischio, per ogni lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria;
-
consegna
al datore di lavoro, alla cessazione dell’incarico, la documentazione sanitaria
in suo possesso, nel rispetto delle disposizioni di cui al D.Lgs 196/03 (Codice
in materia di protezione dei dati personali) e con salvaguardia del segreto
professionale;
-
consegna
al lavoratore, alla cessazione del rapporto di lavoro, copia della cartella
sanitaria e di rischio, e gli fornisce le informazioni necessarie relative alla
conservazione della medesima;
-
fornisce
informazioni ai lavoratori sul significato della sorveglianza sanitaria cui
sono sottoposti e, nel caso di esposizione ad agenti con effetti a lungo
termine, sulla necessità di sottoporsi ad accertamenti sanitari anche dopo la
cessazione della attività che comporta l’esposizione a tali agenti;
-
informa
ogni lavoratore interessato dei risultati della sorveglianza sanitaria e, a
richiesta dello stesso, gli rilascia copia della documentazione sanitaria;
-
comunica
per iscritto, in occasione delle riunioni annuali, al datore di lavoro, al
RSPP, ai RLS, i risultati anonimi collettivi della sorveglianza sanitaria
effettuata e fornisce indicazioni sul significato di detti risultati ai fini
dell’attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità
psico-fisica dei lavoratori;
-
visita
gli ambienti di lavoro almeno una volta all’anno o a cadenza diversa che
stabilisce in base alla valutazione dei rischi (l’indicazione di una
periodicità diversa dall’annuale deve essere comunicata al datore di lavoro ai
fini della sua annotazione nel documento di valutazione dei rischi);
-
partecipa
alla programmazione del controllo dell’esposizione dei lavoratori i cui
risultati gli sono forniti con tempestività ai fini della valutazione del
rischio e della sorveglianza sanitaria.
-
comunica,
mediante autocertificazione, il possesso dei propri titoli e requisiti al
Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali.
Concludiamo
questa prima presentazione generale della figura e del ruolo del medico
competente ricordando che la sorveglianza sanitaria è un’attività clinica
complessa e articolata effettuata dal medico competente, specialista in
medicina del lavoro (o in discipline equipollenti), finalizzata alla tutela
della salute dei lavoratori. Essa consiste nella valutazione dell’idoneità del
lavoratore alla mansione lavorativa specifica attraverso visita medica e
accertamenti ematochimici e strumentali, identificati sulla base dei rischi
lavorativi. Inoltre la sorveglianza sanitaria è effettuata dal medico
competente nei casi previsti dalla normativa vigente, dalle indicazioni fornite
dalla Commissione Consultiva Permanente.
Ricordiamo
poi che l’obbligo di sorveglianza sanitaria non dipende dal numero di
lavoratori occupati, ma dai fattori di rischio presenti nell’attività svolta.
Segnaliamo
infine che la sorveglianza sanitaria può essere effettuata anche qualora il
lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente
correlata ai rischi lavorativi.
Il
documento della Azienda sanitaria locale della provincia di Monza e Brianza
“Contributo del sistema prevenzionistico aziendale all’attività del medico
competente. Guida per le imprese” è scaricabile all’indirizzo:
LE NOVITA’ RELATIVE
ALLA VALUTAZIONE DEL RISCHIO CHIMICO
Da:
PuntoSicuro
19
febbraio 2016
di
Tiziano Menduto
La
norma tecnica UNI EN 689:1997 è in via di aggiornamento. Qual è la funzione di
questa norma? Come cambierà? E quali saranno le conseguenze per le aziende?
Ne
parliamo con Maria Ilaria Barra della CONTARP dell’INAIL.
Se
pensiamo all’importanza per la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori
della valutazione del rischio chimico nelle aziende, alla complessità della
misurazione degli agenti chimici e al nostro tessuto produttivo, in gran parte
costituito da piccole e medie aziende, si comprende la necessità di informare
costantemente sugli obblighi e sulle buone prassi in materia chimica. E la
necessità anche, quando possibile, di informare su quelli che sono gli sviluppi
della normativa tecnica e gli scenari futuri possibili relativi alla
valutazione del rischio.
E’
per questo motivo che abbiamo deciso di raccogliere informazioni sulle novità
della norma tecnica UNI EN 689:1997 “Atmosfera nell’ambiente di lavoro. Guida
alla valutazione dell’esposizione per inalazione a composti chimici ai fini del
confronto con i valori limite e strategia di misurazione”. Norma in vigore, ma
in via di aggiornamento, che fornisce indicazioni per la valutazione della
esposizione ad agenti chimici nelle atmosfere dei posti di lavoro. E che descrive
una strategia per confrontare l’esposizione per inalazione degli addetti con i
rispettivi valori limite per agenti chimici nel posto di lavoro e la strategia
di misurazione.
Ricordiamo
che la norma UNI EN 689 deve la sua importanza anche al fatto che è una delle
metodiche standardizzate citate espressamente nell’Allegato XLI (Metodiche
standardizzate di misurazione degli agenti) del Testo Unico in materia di
tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/08).
Per
avere informazioni sulle possibili novità future di questa norma abbiamo
intervistato Maria Ilaria Barra (CONTARP dell’INAIL) che fa parte del gruppo di
lavoro incaricato della revisione della Norma.
Qual
è la funzione di questa norma? Come cambierà? E quali saranno le conseguenze
dell’aggiornamento della norma per le aziende che hanno valutato e/o devono
valutare il rischio chimico?
PUNTO
SICURO
Riguardo
al rischio chimico da mesi si sta lavorando all’aggiornamento di un importante
norma, la UNI EN 689. Cominciamo raccontando qual è la funzione e l’importanza
di questa norma e come può e deve essere utilizzata nelle aziende.
MARIA
ILARIA BARRA
Il
D.lgs. 81/08 impone al datore di lavoro di determinare preliminarmente
l’eventuale presenza di agenti chimici pericolosi sul luogo di lavoro e
valutare anche i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori derivanti
dalla presenza di tali agenti. Inoltre l’articolo 225 prevede che nel caso il
datore di lavoro non possa dimostrare con altri mezzi il conseguimento di un adeguato
livello di prevenzione e di protezione, periodicamente e ogni qualvolta sono
modificate le condizioni che possono influire sull’esposizione, provvede a
effettuare la misurazione degli agenti che possono presentare un rischio per la
salute, con metodiche standardizzate di cui è riportato un elenco meramente
indicativo nell’Allegato XLI o in loro assenza, con metodiche appropriate e con
particolare riferimento ai valori limite di esposizione professionale e per
periodi rappresentativi dell’esposizione in termini spazio temporali.
Dalle
misurazioni il datore di lavoro deve essere in grado di valutare il superamento
o meno del valore limite di esposizione professionale in modo tale da
identificare e rimuovere le cause che hanno portato a tale superamento,
adottando immediatamente le misure appropriate di prevenzione e protezione.
Tra
le metodiche standardizzate riportate nell’Allegato XLI vi è la UNI EN 689:1997
“Atmosfera nell’ambiente di lavoro. Guida alla valutazione dell’esposizione per
inalazione a composti chimici ai fini del confronto con i valori limite e
strategia di misurazione”.
Dall’inquadramento
di tale norma all’interno del panorama legislativo italiano, emerge
l’importanza della stessa per i datori di lavoro e per tutti coloro che si
occupano di salute e sicurezza sul lavoro.
PS
Lei
sta partecipando ai lavori di aggiornamento della norma. Quali sono i punti
qualificanti e le criticità su cui si sta lavorando in questi mesi? Quali sono
i motivi che hanno spinto a rivedere la norma? Quali gli aspetti importanti che
rimarranno nella versione finale della norma che, ricordiamo, è ancora in fase
di aggiornamento?
MIB
All’interno
dell’Ente di standardizzazione europeo (CEN), opera la Commissione Tecnica TC
137 che si occupa di “Assessment of workplace exposure to chemical and
biological agents” dove un gruppo di esperti provenienti dai diversi Paesi
europei, si incontrano e sviluppano progetti che possono diventare degli
standard futuri.
L’esigenza
dei diversi Paesi di modificare la Norma EN 689, risalente ormai al 1997, ha
portato nel 2013 alla creazione all’interno del CEN/TC 137 di un gruppo
dedicato alla valutazione della fattibilità di tale revisione: il gruppo AHG2
(Ad Hoc Group 2). La creazione di questo primo gruppo di lavoro si è resa necessaria
poiché molti stati membri richiamano la Norma all’interno del proprio sistema
legislativo nazionale adattandola alle esigenze caratteristiche della realtà
produttiva del paese stesso; da ciò ne deriva che le strategie di campionamento
e valutazione del rispetto di un limite di esposizione professionale non sono
sempre omogenee in tutti gli stati.
L’AHG2
ha individuato una possibile condivisione di vedute e si è pertanto proceduto,
nel 2015, alla formalizzazione del gruppo di lavoro incaricato alla revisione
della Norma: il WG1.
L’interesse
per la nuova norma ha portato inoltre, anche sul fronte Nazionale, alla
creazione di un gruppo di lavoro all’interno dell’UNI con il fine di dare la
possibilità ai diversi interessati di partecipare in maniera fattiva e
costruttiva ai lavori.
La
Norma ha subito numerosi cambiamenti rispetto alla versione precedente. In essa
viene definito uno schema di flusso relativo alla strategia di campionamento e
misurazione che prevede una serie di step dalla caratterizzazione di base, alla
costituzione dei gruppi omogenei di esposizione, alla effettuazione dei
campionamenti, alle misure periodiche. La strategia di misurazione prevede una
procedura semplificata di screening che consente di effettuare un numero
limitato di misure qualora i risultati delle stesse siano cautelativamente
inferiori al limite di esposizione professionale, in caso contrario il numero
di campionamenti aumenta in funzione della deviazione standard delle misure e
del loro scostamento dal limite di esposizione stesso.
Inoltre
la Norma è molto più corposa della precedente avendo elaborato una serie di
allegati tecnici che hanno lo scopo di costituire un utile riferimento per
affrontare diverse problematiche, quali la classificazione degli ambienti di
lavoro con esposizione costante o variabile, l’individuazione del tempo di
campionamento in funzione della variabilità dell’esposizione nell’arco di un
turno di lavoro, l’esposizione multipla, la valutazione della distribuzione
log-normale dei dati all’interno di un gruppo omogeneo di distribuzione, ecc.
PS
A
che punto sono i lavori della norma? Potrebbe cambiare molto rispetto alla
versione a cui avete lavorato?
MIB
Il
gruppo di lavoro ha attualmente completato la stesura del documento, entro
qualche mese i Paesi membri hanno la possibilità di inviare delle osservazioni
o proposte di modifica al gruppo di lavoro, quest’ultimo si riunirà per
valutarle e rispondere puntualmente ad ognuna di esse. Il documento così
modificato sarà sottoposto a votazione per la sua approvazione o meno come
norma.
PS
E
dunque per quando è prevista?
MIB
Orientativamente
l’iter dovrebbe essere ultimato entro la fine di quest’anno.
PS
I
cambiamenti in materia di regolamenti Reach e CLP hanno in qualche modo
influito sull’aggiornamento della norma?
MIB
I
cambiamenti conseguenti il recepimento dei suddetti regolamenti hanno
sicuramente influenzato la valutazione del rischio chimico nei luoghi di
lavoro.
Questi
regolamenti non hanno un impatto diretto con la norma EN 689 che riguarda più in
particolare le strategie di misurazione degli agenti chimici per il confronto
con un limite di esposizione professionale, anche se uno degli step della norma
prevede l’individuazione e la caratterizzazione degli agenti chimici presenti
nel luogo di lavoro ed è pertanto imprescindibile dall’applicazione del REACH e
del CLP.
PS
Concludiamo
parlando delle conseguenze di queste novità. Quando l’aggiornamento della norma
sarà pubblicato, costringerà le aziende a rifare le valutazioni dei rischi?
MIB
La
Norma ha sempre carattere volontario, tuttavia ritengo che qualora la nuova
norma venga approvata, le aziende che da quel momento dovranno effettuare le
misurazioni degli agenti chimici per la valutazione del superamento del limite
di esposizione professionale faranno riferimento ad essa.
PS
E
come è, a suo parere, la situazione della consapevolezza e tutela dei rischi
chimici nelle aziende italiane in rapporto alle aziende degli altri paesi
europei?
MIB
La
Normativa italiana sulla salute e sicurezza sul lavoro è sicuramente in linea,
e in alcuni casi anche più stringente, rispetto agli altri Paesi europei,
tuttavia la peculiarità del nostro sistema produttivo caratterizzato
principalmente da piccole e medie imprese, non rende sempre facile per
l’imprenditore assolvere a tutti gli obblighi legislativi e comprendere
l’importanza di una attenta politica prevenzionale.
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