NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
“SMART WORKING”: SFRUTTAMENTO ILLIMITATO DELLA COSTRIZIONE AL LAVORO
Da
Cortocircuito
08
febbraio 2016
di Carla Filosa
“In realtà, il dominio dei capitalisti sugli operai
non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi
contro e di fronte al lavoratore [...] cioè i mezzi di
produzione [...] e i mezzi d sussistenza [...], benché tale rapporto si realizzi soltanto nel processo
di produzione reale, che è essenzialmente processo di produzione di
plusvalore; processo di autovalorizzazione del capitale
anticipato”.
Karl Marx “Il
Capitale” Libro I, Capitolo VI
Mediaticamente
coinvolti in questi ultimi tempi solo dai cosiddetti diritti civili, forse non
ricordiamo nemmeno più quella proposta effettuata nel dicembre scorso dal
Ministro Poletti, sull’abolizione “tecnologica” della misurazione temporale
della giornata lavorativa.
Dopo l’impegno, in
settembre, ad abbassare le pensioni a chi ne avesse anticipato la fruizione,
l’ineffabile Ministro del Lavoro si è messo all’opera per rosicchiare, non solo
il salario differito sui binari della riforma Fornero, ma anche quello diretto,
angustamente percepito solo come busta paga, ma in realtà di natura sociale.
I diritti fondamentali,
quelli conquistati entro il rapporto lavorativo vessatorio e fraudolento, sono
così scivolati nell’inavvertita prassi governativa abile nell’elargire una
progressiva dimenticanza da spargere su tutto il piano del reale. Sublimati su
battaglie giuridiche, i conflitti sono stati spostati su piani
ideologico-religiosi con altri soggetti di diritto, dal piano economico a
quello sociale, più permeabile a compromessi. Il capitale rimane pertanto nel
cono d’ombra, libero di far erodere anche il salario indiretto con il taglio
delle spese sociali e i favori fiscali alle imprese.
Quando poi le
“innovazioni” politiche non si vogliono far capire bene agli interessati, ormai
si usa la lingua dominante sul mercato mondiale. Il titolo apparso (“Smart Working”) sul Sole 24ore (01/12/15)
a proposito della geniale proposta del Ministro Poletti di abolire il criterio
temporale applicato al lavoro (altrui, si sarebbe
completato in altri tempi), non fa eccezione. Nell’articolo citato, rispondono
poi i metalmeccanici CISL, senza avvedersi della portata del problema.
L’inimitabile
trovata, non del suddetto Ministro, che non ci sarebbe mai arrivato da solo, ma
del suo “think tank” (cordata di pensatoi), merita quindi di andare a fondo in
questa ennesima obsoleta “innovazione”.
“L’ora-lavoro è un
attrezzo vecchio che non permette l’innovazione” – scrive la Repubblica del
28/11/15, in prima pagina – “Dovremmo immaginare contratti che non abbiano come
unico riferimento la retribuzione oraria”. La citazione del quotidiano continua
perché l’espediente si sposta su “un tema culturale su cui lavorare”, da
inserire naturalmente nell’apposito scrigno del Jobs Act approntato all’uopo. Il Ministro è andato a
spiegare alla Luiss che “Il lavoro oggi è un po’ meno cessione di energia meccanica
ad ore e sempre più risultato. Per molti anni i ritmi biologici e di vita si
sono piegati agli orari fissi, ma con la tecnologia possiamo guadagnare qualche
metro di libertà”. Le suadenti e alate motivazioni puntavano poi a rinverdire
le vetuste “forme di partecipazione dei lavoratori all’impresa”, di cui in
seguito tecnici deputati, cioè “economisti e giuslavoristi”, dovranno
“immaginare il futuro su questo tema”. In altri termini, tecnici organici al
sistema (a sostituzione dei lavoratori titolari dell’erogazione lavorativa e
destinatari della modifica delle condizioni lavorative) manovreranno queste
ultime a favore dei datori di lavoro!
Dallo stesso
quotidiano si apprende ancora che Maurizio Del Conte, docente alla Bocconi di diritto
del lavoro, consulente di Palazzo Chigi e coautore del Jobs Act, presidente dell’ANPAL (nuova agenzia di
collocamento) ha incentivato poi, a supporto del Ministro, il “lavoro agile” riferendosi
all’attuale Legge di Stabilità.
In questa “ci sono
norme per la contrattazione di produttività, premiata con l’aliquota secca del
10% fino a un tetto di 2.000 euro per la produttività partecipata che non è la
partecipazione agli utili ma organizzativa. I lavoratori decidono con l’azienda
come ottenere incrementi di produttività, quando e quanto premiarli. Una novità
che vogliamo estendere anche al lavoro agile”...
Il lavoro agile non
è un altro tipo di contratto. Ma un modo nuovo di organizzare il vecchio contratto
subordinato che però non va archiviato, ma aggiornato e organizzato in modo
diverso. Le aziende devono uscire dallo schema classico delle 40 ore. E’ un
problema culturale più che sindacale. Cambia il modo di retribuire, perché
cambia il modo di lavorare. E se ho lavoratori contenti perché passano più
tempo a casa o all’aperto o allungano il weekend, si incentiva la
fidelizzazione, dunque la produttività, e i salari crescono. Un cambio di
paradigma rispetto alla retribuzione piatta: una quota del lavoro si svolge
fuori dallo spazio e dal tempo classici. E i parametri per misurare e
retribuire questa quota vengono fissati dall’azienda con i lavoratori. Ma ci
arriveremo per gradi.
Adesso proviamo a
decodificare questo linguaggio fascinoso e mistificante. Innanzitutto tutti i
significati di smart vengono
racchiusi entro un concetto di “agilità” che non è chiaro se si riferisce ai
datori di lavoro (in vista di maggiori profitti!), o ai lavoratori
flessibilizzati, si ipotizza, “a loro piacimento”. Non si parla più (pare sia
superfluo) dei rapporti di proprietà, ovvero dell’inestinto rapporto di
“comando sul lavoro altrui”, ancorché dissimulato ma assolutamente presente
nelle forme del ricatto esplicitato o dell’imbonimento occultato nei confronti
di un lavoro perennemente dipendente dalle
condizioni lavorative, unilateralmente gestite dai datori di lavoro.
L’apparente
cogestione remunerativa viene legittimata tecnicamente. Si evitano così i
termini storici e sociali di un tuttora dominante comando
capitalistico, modificabile da un’indifferente tecnologia avanzata,
che però l’uso capitalistico rende sempre funzionale allo sfruttamento
aumentato della forza-lavoro. Obiettivo cui tutto il panegirico precedente
tende senza parere.
Al fattore
“risultato” il sistema di capitale ha sempre teso. Già nel Capitale di Marx
(1867) viene chiaramente detto che per il capitale il salario a tempo è meno
vantaggioso di quello a cottimo, cioè a “risultato”, perché quest’ultimo,
“forma mutata del salario a tempo” (Capitolo I) “tende da un lato a sviluppare
l’individualità e con ciò il sentimento della libertà, l’autonomia e
l’autocontrollo degli operai, dall’altro a sviluppare la concorrenza fra di loro e degli uni contro gli altri.
Esso ha perciò la tendenza ad abbassare il livello medio dei salari mediante
l’aumento dei salari individuali al di sopra del livello stesso [...] il
capitale non può estendere la giornata lavorativa altro che aumentando
l’intensità del lavoro [...]. Variando la produttività del lavoro, una stessa
quantità di prodotti rappresenta un tempo di lavoro vario. Quindi varia anche
il salario a cottimo, perché esso è l’espressione del prezzo di un determinato
tempo di lavoro. Il salario a cottimo viene abbassato nella stessa proporzione
in cui cresce il numero degli articoli prodotto durante lo stesso tempo, e
quindi diminuisce il tempo di lavoro impiegato per lo stesso articolo. Questo
variare del salario a cottimo, in quanto è puramente
nominale, provoca costanti lotte tra capitalista e operaio. O
perché il capitalista si serve di questo pretesto per abbassare realmente il
prezzo del lavoro, o perché l’aumento della forza produttiva del lavoro è
accompagnato da un’accresciuta intensità di
quest’ultimo. O perché l’operaio prende sul serio l’apparenza del
salario a cottimo e crede che gli venga pagato il suo prodotto e non la sua forza-lavoro
e quindi si oppone a una riduzione del salario alla quale non corrisponde la
riduzione del prezzo di vendita della merce”.
“Il salario a
cottimo” - continua Marx - “diventa fonte fecondissima di detrazioni sul
salario e di truffe capitalistiche. Esso offre al capitalista una misura ben
definita dell’intensità del lavoro [...]. Se l’operaio non possiede la capacità
media di rendimento (in termini di tempo di lavoro socialmente
necessario), se quindi non è in grado di fornire un
determinato minimo di opera giornaliera,
lo si licenzia [...]. Questa forma costituisce quindi la base tanto del moderno lavoro domestico, quanto di un sistema di
sfruttamento e di oppressione gerarchicamente articolato [...]. Da una parte il
salario a cottimo facilita l’inserimento di parassiti fra
capitalista e operaio salariato, cioè il subaffitto del lavoro. Il guadagno
degli intermediari deriva esclusivamente dalla differenza fra
il prezzo del lavoro pagato dal capitalista e quella parte di questo prezzo che
essi lasciano realmente pervenire all’operaio. Questo sistema si chiama in
Inghilterra lo sweating system (sistema del
sudore). Dall’altra parte, il salario a cottimo permette al capitalista di
concludere con il capo operaio [...]. un contratto per tanti e tanti articoli a
un prezzo (e qui probabilmente si instaura la partecipazione organizzativa
attuale, con suggerimenti premiabili), per il quale il capo operaio stesso si
assume l’arruolamento e il pagamento dei suoi operai ausiliari. Lo sfruttamento
degli operai da parte del capitale si attua qui mediante lo sfruttamento
dell’operaio da parte dell’operaio.”
Altre testimonianze
agli albori del lavoro a cottimo riferiscono che “il lavoro dei garzoni artigiani
sarà regolato a giornata o a pezzo [...]. I mastri artigiani sanno all’incirca
quanto lavoro gli operai possono compiere in ogni mestiere, e quindi li pagano
spesso in proporzione al lavoro che compiono; in tal modo questi garzoni
lavorano, nel proprio interesse, quanto più possono, senza alcuna
sorveglianza”. (Cantillon ”Essai sur la nature du commerce
en général” Amsterdam 1756).
“Spesso si assumono
operai in previsione di un lavoro incerto, talvolta anche immaginario: siccome
sono pagati a cottimo, si dice che non si rischia nulla, giacché tutte le
perdite di tempo saranno a carico
degli operai che non lavorano” (Grégoir ”Les
typographes devant le tribunal correctionnel de Bruxelles”
Bruxelles 1865).
Se non si
fraintende, il lavoro misurato sul tempo non scompare (nella fraudolenta
“innovazione” da immettere nella legge della regolazione lavorativa) ma viene
affiancato, fors’anche con parziali modifiche, da una quantità di lavoro “fuori
dal tempo e dallo spazio”.
Già qui è
necessario chiedere aiuto alla logica (quella del “futuro”, evidentemente) per
capire come misurare una quantità senza categorie spazio-temporali. E’ come
chiedere un pezzo di stoffa per un vestito senza disporre di metri o altre
unità di misura. Se ne può prendere quanta se ne vuole, fino, si spera, allo
stop irato del venditore che se la vede sottrarre tutta.
Dunque, quella
forma (in quanto “forma”) lavoro salariato (lohnarbeit, non solo arbeit, cioè lavoro) risponde adeguatamente al contenuto
del rapporto di capitale. Si fa così giustizia di ogni altro pseudo-criterio,
dalla remunerazione del rendimento e dalla partecipazione del lavoratore al
risultato dell’impresa, fino alla fruizione di una quota di reddito nazionale,
e via armonizzando.
A proposito
dell’esigenza che è stata prospettata recentemente [“recentemente” (!) lo
scriveva già Marx più di un secolo e mezzo fa nei “Lineamenti”] “talvolta con
autocompiacimento, di dare ai lavoratori una certa partecipazione al profitto,
non può trattarsi che di un premio speciale, che può raggiungere il suo scopo
solo in quanto eccezione alla regola; e in effetti nella prassi normale si
limita a una incetta di singoli sorveglianti ecc., nell’interesse del padrone
contro l’interesse della sua classe; oppure di impiegati ecc., ossia, in breve,
non più al semplice salariato, e quindi nemmeno al rapporto generale; oppure si
tratta di una particolare maniera di truffare i salariati trattenendo una parte
del loro salario sotto la forma precaria di un profitto che dipende dalla
situazione dell’azienda. Ma che questa pretesa contraddica il rapporto stesso
risulta dalla semplice riflessione che, se il risparmio del salariato non deve
rimanere un semplice prodotto della circolazione (denaro risparmiato che può
essere realizzato solo convertendolo prima o poi nel contenuto sostanziale
della ricchezza, ossia in godimenti) il denaro accumulato stesso dovrebbe
diventare capitale, ossia dovrebbe comprare lavoro, riferirsi al lavoro come
valore d’uso. Il risparmio del lavoratore presuppone dunque a sua volta
lavoro-che-non-è-capitale, e presuppone che il lavoro sia diventato il suo
contrario, cioè non-lavoro. Per diventare capitale, esso presuppone già il
lavoro-come-non-capitale di fronte al capitale; insomma, il ristabilimento
dell’antitesi, che deve essere soppressa in un punto, in un altro punto. Se dunque
già nel rapporto originario l’oggetto e il prodotto dello scambio del
lavoratore (come prodotto dello scambio semplice esso non può essere altro
prodotto che questo) non fossero il valore d’uso, i mezzi di sussistenza, la
soddisfazione del bisogno immediato, la sottrazione dalla circolazione
dell’equivalente in essa introdotto per distruggerlo mediante il consumo,
allora il lavoro si contrapporrebbe al capitale non come lavoro, non come
non-capitale, ma come capitale. Ma anche il capitale non può contrapporsi al
capitale se al capitale non si contrappone il lavoro, giacché il capitale è
capitale solo in quanto non-lavoro; in questa relazione antitetica. Ossia,
verrebbe negato il concetto e il rapporto del capitale stesso”.
E’ bene perciò
chiarire che il lavoro (o, più correttamente, l’uso della forza-lavoro, di
questa merce venduta ad altri) è divenuto organicamente dipendente per tutto il
tempo stabilito, senza altri limiti o eccezioni, da colui che lo ha acquistato,
cioè il padrone (qui il borghese capitalista, l’imprenditore...) e pertanto non
ha nulla a che vedere con la supposta “partecipazione azionaria” dei
dipendenti, tanto di moda e diffusa nella socialdemocrazia tedesca e sancita
definitivamente nel congresso di Bad Godesberg del 1959 con quell’abbandono del
marxismo che, dopo il programma di Erfurt del 1891, segnò l’instancabile
assillante cammino intrapreso per primo da Eduard Bernstein con il suo
revisionismo, sempre perdente a parole nel suo partito, di rincorsa al sistema
capitalistico borghese fino a riuscire ad arrivare comunque al tracollo del
marxismo nei partiti socialisti europei con la resa di Bad Godesberg. Si
capisce, dunque, come si sia giunti all’annichilimento della classe
lavoratrice.
Annichilimento
realizzatosi, ora è quasi due secoli, mediante mezzi di produzione di proprietà
capitalistica a tecnologia costantemente rinnovatasi, che utilizzano
maggiormente il lavoratore in modo sempre più invisibilmente raffinato. Il
lavoro vivo, ovvero la forza-lavoro in generale dei lavoratori utilizzati, viene
risucchiato entro il valore in generale appropriato dal capitale, ed in esso si
trasforma senza più apparire come in origine. Così incorporata al capitale che
si “autovalorizza”, l’energia vitale dei lavoratori scompare anche nei tempi
della sua erogazione essendo divenuta, per il solo arbitrio del “diritto
proprietario” del capitale, valore conservato e maggiorato nell’oggettivazione
alienata del capitale.
Realtà già in atto
di fabbriche digitali si trovano presso Vodafone Italia, alla FCA di Pomigliano,
alla Sevel (produce il Ducato), alla ZF Padova, ecc. dove si lavora con margini
di autonomia, anche a distanza, con flessibilità orarie in entrate e uscite,
ecc. Le modifiche funzionali alle innovazioni sono forme di un progresso
produttivo sollecitato dal sistema di capitale, tale progresso oggettivo non
necessita però, in prospettiva, della direzione capitalistica che ne aliena e
distorce l’utilità sociale. Il lavoro è sempre quello socialmente necessario, cioè calcolabile in base ai tempi
di una tecnologia generalmente affermatasi come più conveniente per chi l’ha
promossa. Il tempo quindi non può essere abolito in nessuna alchimia politica,
essendo la misura dell’intensità lavorativa
richiesta. Si vuole solo sottintendere, o non mostrare, che il tempo di lavoro
tende sempre più a coincidere con il tempo di vita, e che quest’ultima deve
essere funzionale solo al bene lavoro nella sua crescente rarefazione.
La specificità
della merce forza-lavoro è che anche se venduta, appropriata, trasformata e apparentemente
perduta, rimane comunque attaccata al suo portatore, come una malattia incurabile
(per il capitale!). Questo portatore è anche portatore di bisogni materiali
inestinguibili strutturalmente antitetici a quelli capitalistici,
tendenzialmente infiniti rispetto alla concentrazione limitata dei capitali. Di
fronte al bisogno estremo della vita di una classe marginalizzata o resa
superflua, ma che nell’esproprio si ingrandisce in termini planetari,
l’autonomia da questo potere dialetticamente distruttivo sempre localizzato,
nazionalizzato, regionalizzato, ecc. potrebbe configurarsi con la necessità di
uno tsunami incontenibile e senza appuntamento.
MORTI BIANCHE IN
ITALIA: BILANCIO SIMILE AD UN SANGUINOSO CONFLITTO
Da
Vega Engineering
15
gennaio 2016
Mauro
Rossato
1.000
MORTI SUL LAVORO: IL BILANCIO DELLE VITTIME PIU’ SIMILE A QUELLO DI UN SANGUINOSO
CONFLITTO CHE ALLA QUOTIDIANITA’ LAVORATIVA DI UN PAESE CIVILE.
A
FINE NOVEMBRE 2015 PIU’ DI 1.000 MORTI SUL LAVORO. 800 QUELLE AVVENUTE IN OCCASIONE
DI LAVORO IN AUMENTO DEL 17 PER CENTO RISPETTO AL 2014 E SONO 280 QUELLE
REGISTRATE IN ITINERE (+ 19 PER CENTO ).
Sembra
il tragico bilancio di un sanguinoso conflitto, mentre è il drammatico
resoconto della quotidianità lavorativa nel nostro Paese: più di mille morti in
11 mesi nel 2015 (1.080 per la precisione).
E
sono 800 le vittime che hanno perso la vita in occasione di lavoro da gennaio a
novembre 2015 (+ 17 per cento rispetto al 2014) e 280 quelle decedute a causa
di un infortunio in itinere (+ 19 per cento).
Un
incremento significativo quello evidenziato dall’Osservatorio Sicurezza sul
Lavoro Vega Engineering (sulla base di dati INAIL) che non lascia spazio a
speranze di risoluzione per un fenomeno che pone l’Italia in cima alla
graduatoria europea (fonte Eurostat) degli infortuni mortali nei luoghi di
lavoro.
“Una
maglia nera tragica per un Paese che evidentemente non è abbastanza civile da
intervenire con i giusti mezzi per invertire la tragica tendenza all’aumento
delle morti sul lavoro” – sottolinea Mauro Rossato, Presidente
dell’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro Vega Engineering di Mestre – “Le
istituzioni devono essere più visibili e presenti. Servono più controlli, pene certe
e processi più veloci per gli evasori della sicurezza sul lavoro. Perché senza
tali premesse nessuna inversione di rotta o di tendenza sarà possibile”.
E
nel frattempo è sempre la
Lombardia a far registrare il più elevato numero di vittime
in occasione di lavoro (115); seguono: la Campania (78), la Toscana (74), il Lazio
(71), il Veneto (64), l’Emilia Romagna (62), il Piemonte (60), la Sicilia (55), la Puglia (52). E poi ancora:
le Marche (26), l’Abruzzo (25), l’Umbria (22), il Trentino Alto Adige (18), la Liguria (17), la Calabria (16), il Friuli
Venezia Giulia (13), la
Sardegna (12), il Molise e la Basilicata (10). Mentre
l’indice di rischio più elevato rispetto alla popolazione lavorativa viene
registrato in Molise (100,5 contro una media nazionale di 35,7). Seguono Umbria
(61,4) e Basilicata (55,5).
Il
settore più colpito dalle morti sul lavoro è quello delle Costruzioni con 117
vittime pari al 14,6 per cento del totale degli infortuni mortali sul lavoro.
Seguito dalle Attività manifatturiere (98 decessi) e dal Trasporto e
magazzinaggio (83).
Più
della metà delle vittime rilevate in occasione di lavoro aveva un’età compresa
tra i 45 e i 64 anni (485 morti).
Le
donne che hanno perso la vita nei primi 11 mesi dell’anno in occasione di
lavoro sono state 42. Gli stranieri deceduti sul lavoro sono 125 pari al 15,6
per cento del totale.
La
provincia in cui si conta il maggior numero di infortuni mortali è Roma (44)
seguita da Milano (34), Napoli (30), Bari (22), Torino (21), Brescia (20),
Perugia (17).
Cosa
stiamo aspettando?!
Le
statistiche delle morti sul lavoro dell’Osservatorio Sicurezza Lavoro Vega
Engineering aggiornate al 30 novembre 2015 sono scaricabili all’indirizzo:
I
dati relativi all’incidenza delle morti sul lavoro sulla popolazione occupata
delle Province dell’Osservatorio Sicurezza Lavoro Vega Engineering aggiornati
al 30 novembre 2015 sono scaricabili all’indirizzo:
CASSAZIONE: SE LA SICUREZZA NON E’ GARANTITA, IL DIPENDENTE PUO’ RIFIUTARSI DI LAVORARE E DEVE ESSERE PAGATO
Da
Studio Cataldi
01
febbraio 2016
di Sestilio Staffieri
Quando il datore di lavoro è inadempiente agli
obblighi di sicurezza sul lavoro, è legittimo il rifiuto della prestazione
lavorativa e si conserva il diritto alla retribuzione
Il datore di lavoro
è obbligato, a mente dell’articolo 2087 del Codice Civile, ad assicurare condizioni
di lavoro idonee a garantire la
sicurezza delle lavorazioni ed è tenuto ad adottare nell’esercizio
dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e
la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità
morale dei prestatori di lavoro.
Per la
giurisprudenza della Suprema Corte (vedi la recentissima Sentenza n. 836/2016
del 19/01/16), la violazione di tale
obbligo legittima i lavoratori a non eseguire la prestazione, eccependo
l’inadempimento altrui.
La protezione,
anche di rilievo costituzionale, dei beni presidiati dall’articolo 2087 del
Codice Civile postula meccanismi di tutela delle situazioni soggettive
potenzialmente lese in tutte le forme che l’ordinamento conosce.
Dunque, per
garantire l’effettività della tutela in ambito civile, si può ricorrere non
solo alle azioni volte all’adempimento dell’obbligo di sicurezza o alla
cessazione del comportamento lesivo ovvero a riparare il danno subito, ma anche
al potere di autotutela contrattuale
rappresentato dall’eccezione di inadempimento, rifiutando l’esecuzione
della prestazione in ambiente nocivo soggetto al dominio dell’imprenditore.
E’ stato altresì
statuito che in caso di violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo
di sicurezza di cui all’articolo 2087 del Codice Civile, non solo è legittimo,
a fronte dell’inadempimento altrui, il rifiuto del lavoratore di eseguire la
propria prestazione, ma costui conserva,
al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto non possono
derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del
datore.
La Sentenza n. 836/2016 del
19/01/16 della Corte di Cassazione è scaricabile all’indirizzo:
QUALI SONO I
DIRITTI E GLI OBBLIGHI DEI LAVORATORI?
Da:
PuntoSicuro
28 gennaio
2016
Informazioni sui diritti e obblighi dei lavoratori con particolare riferimento alla sicurezza sul lavoro.
Gli obblighi
e i diritti personali, patrimoniali, sindacali e alla sicurezza. Gli obblighi
normati dagli articolo 20 e 21 del D.Lgs. 81/08.
L’articolo
2 del D.Lgs. 81/08 definisce il “lavoratore” come persona che, indipendentemente
dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito
dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza
retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una
professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari. E, sempre nell’articolo 2, sono
indicate le altre figure (socio lavoratore di cooperativa o di società,
soggetti beneficiari delle iniziative di tirocini formativi, ecc.) equiparabili
al lavoratore così definito.
Al di là
della definizione della normativa quali sono tuttavia i diritti e gli obblighi
dei lavoratori?
Per
rispondere a questa domanda possiamo sfogliare la guida prodotta dall’Ente
Bilaterale Nazionale del settore Terziario (EBINTER), dal titolo “Datori di
lavoro e lavoratori. Guida pratica agli adempimenti di sicurezza e all’apparato
sanzionatorio”, una guida che fa riferimento non solo al Testo Unico in materia
di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, ma anche al
contenuto di diversi Accordi/Intese (Confindustria, settore artigiano, pubblica
amministrazione, commercio, ecc.).
Dopo
aver riportato la definizione di lavoratore, il documento ricorda i quattro principali gruppi di diritti che spettano al
lavoratore.
Il
primo gruppo affrontato è il diritto alla sicurezza:
Infatti
i lavoratori hanno il diritto:
-
di
astenersi (salvo casi eccezionali e su motivata richiesta) dal riprendere
l’attività lavorativa nelle situazioni in cui persista un pericolo grave ed
immediato;
-
di
allontanarsi (in caso di pericolo grave ed immediato e che non può essere
evitato) dal posto di lavoro o da una zona pericolosa, senza subire pregiudizi
o conseguenze per il loro comportamento;
-
di
prendere, in caso di pericolo grave ed immediato nella impossibilità di
contattare un superiore gerarchico o un idoneo referente aziendale, misure atte
a scongiurarne le conseguenze, senza subire pregiudizi per tale comportamento,
salvo che questo sia viziato da gravi negligenze;
-
di
essere sottoposti a visite mediche personali qualora la relativa richiesta sia
giustificata da una connessione, documentabile, con rischi professionali.
Il
documento si sofferma poi anche su altri tre gruppi di diritti:
diritti
patrimoniali:
sono quelli che riguardano gli aspetti economici della retribuzione e del
trattamento di fine rapporto; la retribuzione è un diritto inscindibile
dall’attività lavorativa prestata, essa deve avvenire secondo predeterminate
scadenze ed inderogabilmente e il salario dev’essere proporzionale al lavoro
svolto, sufficiente da garantire la sussistenza al lavoratore e alla sua
famiglia, e uguale tra uomini e donne;
diritti
personali che
riguardano l’integrità fisica e la salute: il datore di lavoro deve infatti garantire
un ambiente sicuro e periodicamente controllato; spettano al lavoratore periodi
di riposo, quotidiano, settimanale e festivo; è essenziale che il lavoratore
sia adibito a mansioni per le quali ha sufficienti competenze, in modo tale che
non corra rischi per inesperienza; il lvoratore ha inoltre il diritto di
conservare il proprio posto di lavoro in caso di malattia, infortunio, servizio
militare, gravidanza e puerperio; è garantita al lavoratore l’assoluta liberà
d’opinione, la possibilità di adempiere a funzioni pubbliche, attività
ricreative ed assistenziali;
diritti
sindacali:
ogni lavoratore può, se lo ritiene opportuno, esercitare l’attività sindacale e
parteciparvi sul luogo di lavoro; può scioperare e affiggere in locali
aziendali qualsivoglia manifesto per lo svolgimento dell’attività sindacale;
tra questi diritti rientra certamente quello di nominare un rappresentante per
la sicurezza (RLS).
Il
documento si sofferma ampiamente sulla normativa e sulle regole relative alle
elezioni dei RLS, sia con riferimento alle aziende, o unità produttive, che
occupano sino a 15 lavoratori, sia alle aziende o unità produttive con più di
15 lavoratori. Vengono poi presentati nel dettaglio i compiti e i diritti dei
RLS.
Veniamo
ora agli obblighi dei lavoratori che,
in questo caso, possono essere classificati in cinque
distinti gruppi:
-
prestare la propria attività lavorativa: il lavoratore è
tenuto ad adempiere unicamente a quanto sia previsto nel suo contratto
individuale, mansioni extra non sono accettabili; qualora esse siano svolte lo
saranno a discrezione e scelta del lavoratore; qualora esso si rifiuti non sono
tollerabili rivalse da parte del datore di lavoro; se esse dovessero
verificarsi, il lavoratore dipendente può tranquillamente rivolgersi alle
autorità competenti; inoltre va precisato che l’attività lavorativa può essere
svolta unicamente dalla persona intestataria del contratto, non è possibile
delegare altre persone affinché adempiano ai propri compiti; il contratto di
lavoro può avere come unico fine quello di essere suscettibile di valutazione
economica, ossia che disponga a seguito dell’attività un giusto corrispettivo
in denaro; il lavoro può essere svolto unicamente nel luogo stabilito dal
contratto, nel sito ove l’attività per sua natura debba essere esplicata;
-
obbligo di diligenza: consiste in tutte le dovute accortezze
che ogni persona corretta deve far proprie; la prestazione lavorativa deve
essere per contratto adempiuta con la necessaria attenzione e precisione;
maggiori saranno le responsabilità dell’attività richiesta dall’impresa e
maggiore sarà il peso della diligenza; si pensi per esempio a un dottore, una
mancanza di attenzione compiuta da esso causerebbe gravi danni al paziente; si
comprende bene in tal caso quanto sia importante quest’obbligo contrattuale;
-
obbligo d’obbedienza: consiste nel dover compiere quanto dispone
il datore di lavoro o chi ne fa le veci; è importante osservare le direttive
date ed esplicarne nel modo migliore possibile;
-
obbligo di fedeltà: si tratta di un dovere che si perpetua
per un tempo ragionevole anche a seguito della conclusione della dipendenza per
l’attività lavorativa; consiste sostanzialmente nel dover tenere un
comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne gli interessi; si
parla in tal caso di divieto di concorrenza ed obbligo di riservatezza;
-
obblighi di sicurezza: ogni lavoratore deve prendersi cura della
propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo
di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni,
conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal
datore di lavoro; in aggiunta, è prescritto espressamente ai lavoratori di
usare correttamente, in conformità alle istruzioni e alla formazione ricevute,
i dispositivi di sicurezza, tanto collettivi che individuali, e gli altri mezzi
di protezione, di segnalazione e di controllo; tale obbligo si estende anche
all’uso di macchinari, apparecchiature, utensili, sostanze e preparati
pericolosi al fine di evitare che una loro utilizzazione inappropriata possa
arrecare pregiudizi per la salute e la sicurezza degli altri dipendenti e delle
persone eventualmente presenti nel luogo di lavoro.
Concludiamo
riportando il contenuto di una scheda di sintesi del documento relativa agli obblighi del lavoratore con riferimento esclusivo all’articolo 20 e 21 del D.Lgs. 81/08:
-
prendersi
cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti
sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni,
conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore
di lavoro (articolo 20, comma 1);
-
contribuire,
insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli
obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro
(articolo 20, comma 2, lettera a));
-
osservare
le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e
dai preposti, ai fini della protezione collettiva e individuale (articolo 20,
comma 2, lettera b));
-
utilizzare
correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i preparati pericolosi,
i mezzi di trasporto, nonché i dispositivi di sicurezza (articolo 20, comma 2,
lettera c));
-
utilizzare
in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione
(articolo 20, comma 2, lettera d));
-
segnalare
immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze
dei mezzi e dei dispositivi, nonché qualsiasi eventuale condizione di pericolo
di cui vengano a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza,
nell’ambito delle proprie competenze e possibilità per eliminare o ridurre le
situazioni di pericolo grave e incombente, dandone notizia al rappresentante
dei lavoratori per la sicurezza (articolo 20, comma 2, lettera e));
-
non
rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di
segnalazione o di controllo (articolo 20, comma 2, lettera f));
-
non
compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro
competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri
lavoratori (articolo 20, comma 2, lettera g));
-
partecipare
ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro
(articolo 20, comma 2, lettera h));
-
sottoporsi
ai controlli sanitari previsti dal D.Lgs. 81/08 o comunque disposti dal medico
competente (articolo 20, comma 2, lettera i));
-
esporre
(nel caso che svolgano attività in regime di appalto o subappalto) apposita
tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, contenente le generalità
del lavoratore e l’indicazione del datore di lavoro; tale obbligo grava anche
in capo ai lavoratori autonomi che esercitano direttamente la propria attività
nel medesimo luogo di lavoro, i quali sono tenuti a provvedervi per proprio
conto (articolo 20, comma 3);
-
utilizzare
attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di cui al titolo III del
D.Lgs. 81/08;
-
per
i lavoratori autonomi, munirsi di dispositivi di protezione individuale e
utilizzarli conformemente alle disposizioni di cui al titolo III del D.Lgs.
81/08 (articolo 21, comma 1, lettera b)).
Il
documento dell’Ente Bilaterale Nazionale del settore Terziario “Datori di
lavoro e lavoratori. Guida pratica agli adempimenti di sicurezza e all’apparato
sanzionatorio” è scaricabile all’indirizzo:
LA GESTIONE DELLA SICUREZZA ANTINCENDIO SECONDO IL NUOVO CODICE
Da:
PuntoSicuro
28 gennaio
2016
Il nuovo Codice di prevenzione incendi riporta precise indicazioni sulla gestione della sicurezza antincendio.
La
prevenzione degli incendi, il registro dei controlli, il piano per il
mantenimento del livello di sicurezza e la preparazione all’emergenza.
Alla Gestione della Sicurezza Antincendio (GSA), una
misura antincendio organizzativa e gestionale che deve garantire, nel tempo, un
adeguato livello di sicurezza dell’attività in caso di incendio, è dedicato un
capitolo del documento “Norme tecniche di prevenzione
incendi” allegato al nuovo “Codice di prevenzione Incendi”, il
Decreto del Ministero dell’Interno del 3 agosto 2015 recante “Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi
dell’articolo 15 del decreto legislativo 8 marzo 2006, n. 139” (entrato in vigore il 18 novembre 2015).
Presentiamo
quindi le indicazioni relative alla gestione della sicurezza
nell’attività in esercizio.
Dopo
aver ricordato che una corretta gestione della sicurezza antincendio durante
l’esercizio dell’attività contribuisce all’efficacia delle altre misure
antincendio adottate, il Codice indica che tale gestione della sicurezza deve prevedere almeno:
-
la
riduzione della probabilità di insorgenza di un incendio e la riduzione dei
suoi effetti, adottando misure di prevenzione incendi, buona pratica
nell’esercizio, manutenzione, e inoltre: informazioni per la salvaguardia degli
occupanti; se si tratta di attività lavorativa, formazione ed informazione del
personale (secondo quanto riportato nel paragrafo S.5.6.1 dell’allegato);
-
il
controllo e manutenzione di impianti e attrezzature antincendio (secondo quanto
riportato nei paragrafi S.5.6.2, S.5.6.3 e S.5.6.4 dell’allegato);
-
la
preparazione alla gestione dell’emergenza, tramite l’elaborazione della
pianificazione d’emergenza, esercitazioni antincendio e prove d’evacuazione
periodiche (secondo quanto riportato nel paragrafo S.5.6.5 dell’allegato).
Inoltre
in relazione alla prevenzione degli incendi,
la riduzione della probabilità di incendio deve essere svolta in funzione delle
risultanze dell’analisi del rischio incendio condotta durante la fase
progettuale.
Si
riportano, a titolo esemplificativo, alcune azioni
elementari per la prevenzione degli incendi:
-
pulizia
dei luoghi e ordine ai fini della riduzione sostanziale della probabilità di
innesco di incendi (ad esempio riduzione delle polveri, dei materiali stoccati
scorrettamente o al di fuori dei locali deputati, ecc.) e della velocità di
crescita dei focolari (ad esempio la stessa quantità di carta correttamente
archiviata in armadi metallici riduce la velocità di propagazione
dell’incendio);
-
verifica
della disponibilità di vie d’esodo sgombre e sicuramente fruibili;
-
verifica
della corretta chiusura delle porte tagliafuoco nei varchi tra compartimenti;
-
riduzione
degli inneschi (una nota nel documento indica che siano identificate e
controllate le potenziali sorgenti di innesco, quali ad esempio uso di fiamme
libere non autorizzato, fumo in aree ove sia vietato, apparecchiature
elettriche malfunzionanti o impropriamente impiegate, ecc.);
-
riduzione
del carico di incendio (una nota ricorda che le conseguenze di un eventuale incendio
possono essere ridotte limitando le quantità di materiali combustibili presenti
nell’attività al minimo indispensabile per l’esercizio);
-
sostituzione
di materiali combustibili con velocità di propagazione dell’incendio rapida,
con altri con velocità d’incendio più lenta (una nota segnala che a parità di
qualità dei fumi prodotti, ciò consente di allungare il tempo disponibile per
l’esodo degli occupanti;
-
controllo
e manutenzione regolare dei sistemi, dispositivi, attrezzature e degli impianti
rilevanti ai fini antincendi;
-
contrasto
degli incendi dolosi, migliorando il controllo degli accessi e la sorveglianza,
senza che ciò possa limitare la disponibilità del sistema d’esodo;
-
gestione
dei lavori di manutenzione; il rischio d’incendio aumenta notevolmente quando
si effettuano lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria, in quanto
possono essere: condotte operazioni pericolose (ad esempio lavori a caldo),
temporaneamente disattivati impianti di sicurezza, temporaneamente sospesa la
continuità di compartimentazione, impiegate sostanze o miscele pericolose (ad
esempio solventi, colle, ecc.): tali sorgenti di rischio aggiuntive,
generalmente non considerate nella progettazione antincendio iniziale, devono
essere specificamente affrontate (ad esempio se previsto nel DUVRI di cui al
D.Lgs. 81/08);
-
in
attività lavorative, formazione e informazione del personale ai rischi
specifici dell’attività, secondo la normativa vigente;
-
mantenimento
delle vie d’esodo delle attività sgombre e sicuramente fruibili.
Veniamo
ora a quanto indicato relativamente al registro dei controlli.
Secondo
il nuovo Codice ove previsto dalla soluzione progettuale individuata, il
responsabile dell’attività deve predisporre, con le modalità previste dalla
normativa vigente, un registro dei controlli periodici
dove siano annotati:
-
i
controlli, le verifiche, gli interventi di manutenzione su sistemi,
dispositivi, attrezzature e le altre misure antincendio adottate;
-
le
attività di informazione, formazione e addestramento, ai sensi della normativa
vigente per le attività lavorative;
-
le
prove di evacuazione.
Questo
registro deve essere mantenuto costantemente aggiornato e disponibile per i
controllo da parte degli organi di vigilanza.
Sono
fornite anche indicazioni sul piano per il mantenimento del
livello di sicurezza antincendio.
Si
indica che ove previsto dalla soluzione progettuale individuata, il
responsabile dell’attività deve curare la predisposizione di un piano
finalizzato al mantenimento delle condizioni di sicurezza, al rispetto dei
divieti, delle limitazioni e delle condizioni di esercizio. E sulla base del profilo
di rischio dell’attività e delle risultanze della progettazione, il piano deve prevedere:
-
le
attività di controllo per prevenire gli incendi secondo le disposizioni
vigenti;
-
la
programmazione dell’attività di informazione, formazione e addestramento del
personale addetto alla struttura, comprese le esercitazioni all’uso dei mezzi
antincendio e di evacuazione in caso di emergenza, tenendo conto dello
specifico profilo di rischio dell’attività;
-
la
specifica informazione agli occupanti;
-
i
controlli delle vie di esodo, per garantirne la fruibilità, e della segnaletica
di sicurezza;
-
la
programmazione della manutenzione, secondo le disposizioni vigenti, dei sistemi
e impianti ed attrezzature antincendio;
-
la
pianificazione della turnazione degli addetti antincendio in maniera tale da
garantire l’attuazione del piano di emergenza in ogni momento.
Si
ricorda poi che il controllo e la manutenzione
degli impianti e delle attrezzature antincendio devono essere
effettuati nel rispetto delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti,
secondo la regola dell’arte in accordo alle norme e documenti tecnici
pertinenti e al manuale di uso e manutenzione dell’impianto e
dell’attrezzatura. E il manuale di uso e manutenzione dell’impianto e delle
attrezzature antincendio è predisposto secondo la vigente normativa ed è
fornito al responsabile dell’attività.
Si
ricorda, a questo proposito, che la manutenzione sugli impianti e sulle
attrezzature antincendio è svolta da personale esperto in materia, sulla base
della regola dell’arte, che garantisce la corretta esecuzione delle operazioni
svolte.
Infine
si affronta il tema delle emergenze.
In
particolare la preparazione all’emergenza,
nell’ambito della gestione della sicurezza antincendio, si esplica tramite:
-
pianificazione
delle procedure da eseguire in caso d’emergenza, in risposta agli scenari incidentali
ipotizzati;
-
nelle
attività lavorative con la formazione e addestramento periodico del personale
all’attuazione del piano d’emergenza, prove di evacuazione; la frequenza delle
prove di attuazione del piano di emergenza deve tenere conto della complessità
dell’attività e dell’eventuale sostituzione del personale impiegato.
Il
Decreto del Ministero dell’Interno 3 agosto 2015 “Approvazione di norme
tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del Decreto
Legislativo 8 marzo 2006, n. 139”
è scaricabile all’indirizzo:
ABROGAZIONE DEL REGISTRO
INFORTUNI: RAGIONIAMOCI
Da:
PuntoSicuro
02 febbraio 2016
di
Pietro Ferrari
Commissione
salute e sicurezza sul lavoro CGIL FILCAMS-Brescia
Il registro era uno strumento fondamentale di verifica sull’efficacia della politica aziendale di prevenzione. Come sostituirlo?
Il
D.Lgs. 151/15, l’ultimo dei quattro Decreti attuativi del Jobs Act (cosiddetto
“Decreto semplificazione”), col suo articolo 21, comma 4, ha abrogato il registro degli
infortuni:
“A decorrere dal novantesimo
giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente Decreto, è
abolito l’obbligo di tenuta del registro infortuni”.
Il
Decreto, del 14 settembre 2015, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.221
del 23 settembre; l’abrogazione dell’obbligo è perciò operante dal 23 dicembre
2015.
La
storia dell’istituto, da ripercorrere qui brevemente, è abbastanza nota.
Esso
è posto per la prima volta con l’articolo 403 del D.P.R. 547/55 (“Norme per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro”):
“Le aziende soggette al presente
Decreto devono tenere un registro, nel quale siano annotati cronologicamente
tutti gli infortuni occorsi ai lavoratori dipendenti, che comportino una assenza
dal lavoro superiore ai tre giorni compreso quello dell’evento.
Su detto registro, che deve
essere conforme al modello stabilito con decreto del Ministro per il lavoro e
la previdenza sociale, sentita la Commissione di cui all’articolo 393, devono
essere indicati oltre al nome, cognome e qualifica professionale
dell’infortunato, la causa e le circostanze dell’infortunio, nonché la data di
abbandono e di ripresa del lavoro.
Il registro infortuni deve essere
tenuto a disposizione degli Ispettori del lavoro sul luogo di lavoro”.
Successivamente,
l’articolo 4, comma 5, lettera o) del D.Lgs. 626/94 confermerà l’obbligo; pur
all’interno della problematica titolazione che poneva tale obbligo in capo
anche al dirigente e al preposto:
“Il datore di lavoro, il
dirigente e il preposto che esercitano,
dirigono o sovraintendono le attività indicate all’articolo 1,
nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, adottano le misure
necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori ed in particolare [...]
tengono un registro nel quale sono annotati cronologicamente gli infortuni sul
lavoro che comportano un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni, compreso
quello dell’evento [...]”.
L’incongruenza
verrà superata con l’articolo 3, comma 5, del D.Lgs. 242/96 (“Modifiche ed integrazioni
al Decreto Legislativo 19 settembre 1994, n. 626, recante attuazione di
direttive comunitarie riguardanti il miglioramento della sicurezza e della
salute dei lavoratori sul luogo di lavoro”):
“L’articolo 4 del Decreto
Legislativo n. 626/1994, è sostituito dal seguente:
Il datore di lavoro adotta le misure necessarie per la sicurezza e la
salute dei lavoratori, e in particolare [...] tiene un registro nel quale sono
annotati cronologicamente gli infortuni sul lavoro che comportano un’assenza
dal lavoro di almeno un giorno [...]”.
Frattanto
la sanzione, di natura penale nel D.P.R. 547/55 (reato contravvenzionale,
punito secondo l’articolo 389, lettera c), con l’ammenda da lire 59.000 a lire 100.000) era
stata trasformata in illecito amministrativo dal D.Lgs. 626/94.
Il
D.Lgs. 626 esce il 19 settembre 1994 (in Gazzetta Ufficiale n.265 del 12
novembre). Non passano tre mesi e, con mirabilia coordinatoria non estranea al
nostro legislatore, il D.Lgs. 758/94 del 19 dicembre 1994 (“Modificazioni alla
disciplina sanzionatoria in materia di lavoro”; in Gazzetta Ufficiale n.21 del
26 gennaio 1995) interviene a stabilire che:
“Il primo comma dell’articolo 389
[Contravvenzioni
commesse dai datori di lavoro e dai dirigenti] del
Decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1955, n. 547, è così
modificato:
c) nella lettera c) [che interessava
anche l’articolo 403, ovvero la tenuta del registro degli infortuni], le parole: ‘con l’ammenda da lire 250.000 a lire 500.000’ sono sostituite
con le seguenti: ‘con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda da lire
cinquecentomila a lire due milioni’”.
Da
allora trascorrono una quindicina di mesi prima che il sopra citato D.Lgs.
242/96, nell’allargare l’obbligo di registrazione agli “infortuni sul lavoro che comportano un’assenza dal lavoro di almeno un
giorno.”, ri-confermi tranquillamente la sanzione (sanzione
amministrativa pecuniaria da lire un milione a lire sei milioni) stabilita nel
D.Lgs. 626/94, all’articolo 89 (“Contravvenzioni commesse dai datori di lavoro
e dai dirigenti”).
Il
D.Lgs. 81/08, all’articolo 18 (Obblighi del datore di lavoro e del dirigente),
comma 1, lettera r), mantiene implicitamente l’obbligo del Registro infortuni,
riconoscendone al comma 1-bis la natura transitoria:
“L’obbligo [nuovo] di cui alla lettera r) del comma 1, relativo alla comunicazione a fini
statistici e informativi dei dati relativi agli infortuni che comportano
l’assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell’evento, decorre
dalla scadenza del termine di sei mesi dall’adozione del Decreto di cui
all’articolo 8, comma 4. [istituzione del SINP]”.
Dove
l’articolo 8 (Sistema informativo
nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro) specifica che:
“E’ istituito il Sistema
informativo nazionale per la prevenzione (SINP) nei luoghi di lavoro [...].
Con decreto del Ministro del
lavoro, [...] da adottarsi entro 180 giorni dalla data dell’entrata in vigore
del presente Decreto Legislativo, vengono definite le regole tecniche per la
realizzazione ed il funzionamento del SINP, nonché le regole per il trattamento
dei dati [...]”.
Ne
conferma invece l’attualità insieme alla natura transitoria l’articolo 53,
comma 6:
“Fino ai sei mesi successivi
all’adozione del Decreto interministeriale di cui all’articolo 8 comma 4, [SINP] del presente Decreto restano in vigore le disposizioni relative al
registro infortuni”.
Con
l’articolo 55 (Sanzioni per il datore di lavoro e il dirigente), comma 5, il
D.Lgs. 81/08 torna ad applicare la sanzione amministrativa.
Avendo
stabilito i diversi fini della comunicazione (statistico quello relativo
all’assenza per almeno un giorno, escluso quello dell’evento; assicurativo
quello relativo “agli infortuni sul lavoro che comportino
un’assenza al lavoro superiore a tre giorni”), applica le diverse
sanzioni:
“Il datore di lavoro e il
dirigente sono puniti:
[...];
con la sanzione amministrativa
pecuniaria da 1.096,00 a
4.932,00 euro per la violazione dell’articolo 18, comma 1, lettere r), con
riferimento agli infortuni superiori ai tre giorni [...];
h) con la sanzione amministrativa
pecuniaria da 548,00 a
1.972.80 euro per la violazione dell’articolo 18, comma 1, lettera r), con
riferimento agli infortuni superiori ad un giorno [...]”.
A
quasi otto anni di distanza, il SINP non è ancora stato costituito, anche se
operativamente già sono attivi una serie di canali intercomunicativi che esso
doveva assicurare.
Ricordiamo
che, ai sensi dell’articolo 8 del D.Lgs. 81/08, il SINP doveva essere istituito “al fine di fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare
e valutare l’efficacia della attività di prevenzione degli infortuni e delle
malattie professionali [...] e per indirizzare le attività di vigilanza,
attraverso l’utilizzo integrato delle informazioni disponibili negli attuali
sistemi informativi, anche tramite l’integrazione di specifici archivi e la
creazione di banche dati unificate”.
A
conclusione di questo rapido excursus, e di specifica importanza al prosieguo
del ragionamento, va ricordato che il D.Lgs. 626/94 stabiliva esplicitamente
all’articolo 19 (Attribuzioni del
rappresentante per la sicurezza), comma 5, il diritto del RLS alla
consultazione del registro:
“Il rappresentante per la
sicurezza ha accesso, per l’espletamento della sua funzione, al documento di
cui all’articolo 4, commi 2 e 3, nonché al registro degli infortuni sul
lavoro”.
E
al comma 1, lettera e) del medesimo articolo, stabiliva che il RLS “riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente la
valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti le sostanze e i preparati pericolosi, le macchine, gli impianti,
l’organizzazione e gli ambienti di lavoro, gli infortuni e le malattie professionali”.
La
legge di delega, Legge 3 agosto 2007, n. 123 (“Misure in tema di tutela della
salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il riassetto e la
riforma della normativa in materia”), articolo 3, comma 1, lettera e), deciderà
addirittura l’obbligo di consegna del registro infortuni al RLS:
“Al Decreto Legislativo 19
settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti
modifiche:
e) all’articolo 19, il comma 5 è
sostituito dal seguente:
‘5. Il datore di lavoro è tenuto
a consegnare al rappresentante per la sicurezza, su richiesta di questi e per
l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’articolo 4,
commi 2 e 3, nonché del registro degli infortuni sul lavoro di cui all’articolo
4, comma 5, lettera o)’”.
Con
l’attuazione della delega da parte del D.Lgs. 81/08, abbiamo visto, l’istituto
assume carattere transitorio, in attesa della costituzione del SINP. Eppure il
legislatore del 2008/2009 si pone il problema del diritto di accesso al
registro da parte del RLS, e lo risolve con l’articolo 18, comma 1, lettera o):
“[...] consentire al medesimo rappresentante di
accedere ai dati di cui alla lettera r) [...]”, cioè ai dati relativi agli infortuni sul lavoro oggetto della
trasmissione in via telematica all’INAIL.
Esso
inoltre, nell’articolo 50 (Attribuzioni del rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza), comma 1, lettera e), pone la medesima disposizione del D.Lgs.
626/94626/94: “[...] riceve le informazioni e la
documentazione aziendale inerente [...] agli infortuni”.
Entrando
ora nel vivo della problematica, pare evidente la “prova muscolare”
dell’attuale legislatore, anche nella formulazione secca dell’articolo 21,
comma 4, del cosiddetto “Decreto semplificazione”.
Tuttavia,
un approccio basato su ragionevolezza dovrà riconoscere che le derivazioni da
tale norma potranno avere ricadute positive, ad esempio nella pratica degli
Organi di vigilanza.
Ciò
che invece pare non esser stato considerato (ed è precisamente il compito che
si era posto il legislatore delegante del 2007) è che la consultazione del
registro degli infortuni rappresenta parte essenziale della “cassetta degli
attrezzi” del RLS. Rappresenta cioè uno strumento fondamentale di verifica
sull’efficacia della politica aziendale di prevenzione.
Suonano
perciò poco comprensibili, e paiono non proprio lungimiranti, certi giubili immediatamente
successivi all’emanazione del provvedimento e relativi alla soppressione di “un adempimento da più parti ritenuto
ormai inutile”.
Seguiti,
nella logica del “niente prigionieri”, da considerazioni del tipo: poiché il
D.P.R. 547/55, il D.Lgs. 626/94 e lo stesso D.Lgs. 81/08 fanno riferimento
all’obbligo di “tenere” il registro degli infortuni, dovrà conseguire che il
datore di lavoro sia sollevato dall’obbligo non solo, dopo il 23 dicembre 2015,
di istituirlo ma anche di conservarlo, di mantenerlo in quanto “storico” degli
eventi accaduti prima dell’abrogazione.
Fortunatamente,
a fare un po’ di chiarezza è intervenuta la Circolare INAIL n.
92 del 23 dicembre 2015. INAIL che, non scordiamo, ai sensi dell’articolo 8,
comma 3 del D.Lgs. 81/08, è il deputato gestore del SINP (e gestore in atto
delle parti, di quello, già concretamente operative).
Detta
Circolare afferma esplicitamente: “Resta inteso che gli infortuni
avvenuti in data precedente a quella del 23 dicembre 2015 saranno consultabili nel registro infortuni
abolito dalla norma in esame”.
L’INAIL
ha poi tamponato il vuoto regolamentare, rendendo telematicamente disponibile
un “cruscotto infortuni” “nel quale sarà possibile
consultare gli infortuni occorsi a partire dal 23 dicembre 2015”. In tal
senso l’INAIL ha predisposto un “Manuale utente” per l’accesso e la ricerca
al/nel servizio informatico dell’Istituto.
L’obbligo
di conservazione del registro infortuni vale per quattro anni a decorrere dall’ultima registrazione o, se non si sono verificati
infortuni, dalla data di vidimazione (oppure di istituzione, in quelle Regioni
che avevano già eliminato l’obbligo di vidimazione).
Ovviamente,
con l’abrogazione del registro infortuni nulla cambia rispetto all’obbligo del datore di lavoro di denunciare all’INAIL gli
infortuni occorsi ai dipendenti prestatori d’opera, come previsto dall’articolo
53 del D.P.R. 1124/65 (Testo unico delle disposizioni per
l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie
professionali), modificato dal D.Lgs. 151/15 articolo 21
comma 1, lettera b).
Peraltro,
come richiama il D.Lgs. 81/09 all’articolo 18, comma 1, lettera r) seconda
parte: “l’obbligo di comunicazione degli infortuni sul
lavoro che comportino un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni si considera
comunque assolto per mezzo della denuncia di cui all’articolo 53 del Testo
Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni
sul lavoro e le malattie professionali, di cui al Decreto del Presidente della
Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124;”
Tale
articolo, come modificato dal D.Lgs. 151/15, dispone che
“Il datore di lavoro è tenuto a
denunciare all’Istituto assicuratore gli infortuni da cui siano colpiti i
dipendenti prestatori d’opera, e che siano prognosticati non guaribili entro
tre giorni [...].
La denuncia dell’infortunio deve
essere fatta entro due giorni da quello in cui il datore di lavoro ne ha avuto
notizia e deve essere corredata dei riferimenti al certificato medico già trasmesso all’Istituto assicuratore
per via telematica direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria
competente al rilascio”.
Il
“cruscotto infortuni” INAIL sarà
accessibile solamente da:
-
ispettori
delle ASL;
-
ispettori
dell’INAIL;
-
ispettorato
nazionale del lavoro c/o le DTL (Direzioni Territoriali del Lavoro).
Ciò
potrà certo concorrere, come accennato, al miglioramento dell’attività
ispettiva e consulenziale, significativamente depauperata nel corso degli anni.
Ciò
che qui si rileva è che anche in questo caso il RLS viene privato di uno
strumento necessario alla verifica e proposizione che la legge espressamente
gli assegna: “riceve le informazioni e la documentazione
aziendale inerente [...] agli infortuni [...]”, “promuove l’elaborazione, l’individuazione e l’attuazione delle misure
di prevenzione idonee a tutelare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori”
(articolo 50, comma 1, lettere e) e h) del D.Lgs. 81/08).
Sotto
questa luce, la norma in esame si pone senza dubbio in conflitto con le
previsioni del D.Lgs. 81/08. Segnatamente, con quelle appena indicate
dell’articolo 50 e insieme con l’obbligo di consentire al RLS l’accesso ai dati
infortunistici, stabilito dall’articolo 18, comma 1, lettera o) seconda parte
(vedi sopra).
E’
evidente la necessità di un intervento riequilibratore.
In
tal senso, una proposta molto interessante viene da Gino Rubini di “Diario per
la prevenzione”.
Scrive
Rubini:
“L’atto del Governo sarebbe stato
positivo e utile se, in consonanza con l’abrogazione del Registro cartaceo
avesse incaricato INAIL di predisporre una piattaforma più evoluta rispetto
all’improvvisato ‘cruscotto’, con programmi di software gestionali adatti a
monitorare il fenomeno e a elaborare ‘profili aziendali di rischio’, usando i
dati provenienti dalle notifiche.
La ‘semplificazione’ sarebbe
stata per davvero un passo avanti nella modernizzazione della gestione dei dati
per porre sotto governo il fenomeno infortunistico.
Si può ancora rimediare?
Si, se verrà affidato ad INAIL il
compito di predisporre un sistema esperto con il quale i dati delle notifiche
vengono elaborati e restituiti in automatico alle aziende, che debbono renderli
disponibili anche ai RLS. In questo senso avremmo una vera innovazione che
semplifica il lavoro delle aziende senza deprivare della conoscenza dei dati i
RLS e i lavoratori interessati”.
Sarebbe
comunque necessario, e urgente, almeno un chiarimento ministeriale.
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