PUBBLICHIAMO LA STORIA DI UNA GIOVANE LAVORATRICE ALLE
PRESE CON COLLOQUI, LAVORETTI, “VOLONTARIATO” E TANTO SFRUTTAMENTO...
La mia storia è una delle tante, comuni, sulla
flessibilità lavorativa permanente e la precarietà esistenziale.
Dopo essermi laureata in scienze politiche con pieni
voti, ho passato sei mesi nei quali ho svolto diversi “lavoretti”, espedienti
che molti miei coetanei trovano per “svoltare la giornata” e che spesso
diventano una norma, anche per anni.
Nel frattempo, continuavo la mia distribuzione di
curriculum, senza successo. La risposta era quasi sempre la stessa: “abbiamo
bisogno di persone con esperienze lavorative dirette”. L’obiezione viene
naturale: come faccio ad accumulare esperienza se ad ogni colloquio mi viene
sbattuta la porta in faccia?
Dopo questi sei mesi ho deciso di ovviare al problema
aderendo a un progetto di leva civica locale. Non sapendo nemmeno di cosa si
trattasse, ho fatto subito delle ricerche in Internet: viene presentata come
“uno strumento di cittadinanza attiva, un’esperienza utile per te e per la
comunità in cui vivi” e, tra i suoi obiettivi, vi è quello di “costituire
un’occasione di reinserimento o inserimento in attività che prefigurino il
mondo del lavoro”.
Decisamente poco interessata alle altisonanti, e
strumentali, motivazioni sulla “difesa della patria” e sullo sviluppo della
cittadinanza attiva (tuttora non capisco il senso di questo termine), ho deciso
di provare, spinta più che altro dalla necessità di fare “esperienza” e “curriculum”
e dal piccolo guadagno che ne ricavavo.
Si tratta in sostanza di volontariato semi rimborsato
della durata di un anno: la paga, se così si può chiamare, è di 300 euro al
mese per 20 ore minime di lavoro a settimana. Facendo un rapido calcolo, ho preso
circa 3 euro l’ora per dodici mesi di lavoro. Nella situazione in cui versavo,
avrei accettato qualsiasi cifra pur di uscire dall’empasse in cui mi trovavo,
pur di accumulare questa benedetta “esperienza” che sembra essere essenziale
per poter lavorare.
Al momento della firma del contratto, ho sottoscritto
una nota con la quale mi rendevo disponibile a proseguire, una volta finito
l’anno di leva civica, l’attività lavorativa presso il medesimo ente. Lo stesso
operatore incaricato di seguirmi non ha mai negato il fatto che potessi essere
successivamente assunta, anzi: per tutta la durata del mio servizio, mi hanno
sempre fatto delle semi-promesse mantenendo alta la mia speranza.
Le mansioni che svolgevo non richiedevano nessuna
qualifica particolare e non mi hanno fornito nessuna “formazione” specifica: si
trattava semplicemente di mandare mail, ritirare la posta, scrivere comunicati
stampa, ordinare l’ufficio e altro, alla faccia della cittadinanza attiva e del
servizio alla comunità...
Finito il periodo di leva civica, le speranze di una
possibile assunzione sono crollate definitivamente: lo stesso operatore, che mi
faceva delle mezze promesse sul mio futuro, ora mi parla di tagli ai fondi, al
personale, alle spese.
Insomma, per me lì non c’é più posto. E’ stato
rassicurante però scoprire che pochi mesi dopo la fine della mia leva, hanno
indetto subito un altro bando per un nuovo volontario.
E’ chiaro che l’intenzione delle strutture che
utilizzano questa forma di collaborazione sia volta al risparmio, costa meno
pagare una persona con la scusa della formazione lavorativa senza però
inserirla realmente nel mondo del lavoro continuando così a creare precariato
tra i giovani che si susseguono di anno in anno, per 300 euro al mese, sperando
così di crearsi il curriculum ideale e l’esperienza lavorativa richiesta.
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