giovedì 1 marzo 2018

28 febbraio - La Contro/Informazione di M. Spezia: SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N. 295 DEL 28/02/18



INDICE
- Morire d’amianto, legalmente
- Milano: quattro morti sul lavoro in un solo incidente sono un’enormità
- Lavoro: aggravamento di malattia professionale
- Obbligo di aggiornamento per l’uso di alcune attrezzature di lavoro
- Infortuni per il mancato utilizzo delle scarpe di sicurezza
- Gli incidenti che avvengono nelle autofficine
Marco Spezia
ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro
Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”
Medicina Democratica - Movimento di lotta per la salute onlus

-------------------------------------------
MORIRE D’AMIANTO, LEGALMENTE
Da Contropiano
11/02/18
di alexik65
Roberto Suozzi intervista Laura Mara di Medicina Democratica
Sappiamo, da moltissimo tempo che l’amianto è una sostanza che può provocare il cancro negli esseri umani, tumore ai polmoni e mesotelioma e il mesotelioma peritoneale, rappresenta circa il 20-30% dei mesoteliomi.
Questo è un tumore che origina dal mesotelio, cioè dalle cellule parietali del peritoneo, membrana sierosa che tappezza le pareti della cavità addominale e pelvica.
Le donne possono essere colpite da tumore dell’ovaio dovuto ad amianto anche stando in casa, scuotendo gli abiti da lavoro prima di lavarli, inalano così le pericolose fibrille di amianto.
In uno studio, pubblicato su “Occupational and Enviromental Medicine”, ricercatori britannici hanno evidenziato che l’amianto può aumentare ictus, crisi cardiache e infarti.
Va affermato con forza che la battaglia contro l’amianto riguarda la salute degli operai, dei lavoratori, delle donne, ma anche del territorio e dell’ambiente. Non possiamo sapere, sia per i mesoteliomi che per altre forme tumorali, quando la cellula del nostro organismo dalla fase benigna diventa maligna.
Va anche detto che le fibre di amianto, derivato dalle vecchie tubazioni in cemento-amianto (che si stanno disgregando) potrebbero altamente inquinare l’acqua potabile, le condutture dell’acqua; le tubature in amianto vengono riconosciute come un grande rischio per la nostra salute.
Tumori del tratto gastrointestinale (esofago, stomaco, colon-retto) vennero già associati all’amianto negli anni ‘50 e attualmente le fibre dell’amianto e l’acqua potabile sono oggetto di attenti studi anche per quanto riguarda i tumori della laringe.
L’osservazione, che proviene da numerosi lavori scientifici è che chi beve acqua contaminata, dalle fibre di amianto, è esposto al rischio di tumori dell’apparato gastro-intestinale.
Nella risoluzione del Parlamento Europeo del 2013, sulle minacce per la salute sul luogo di lavoro legate all’amianto, si dice testualmente:
“[...] anche diversi tipi di tumori causati non soltanto dall’inalazione di fibre trasportate nell’aria, ma anche dall’ingestione di acqua contenente tali fibre, proveniente da tubature in amianto, sono stati riconosciuti come un rischio per la salute e possono insorgere dopo alcuni decenni, e in alcuni casi addirittura dopo oltre”.
Vi sono oggi, in alcuni procedimenti giudiziari che trattano le patologie e le morti causate dall’amianto, delle sentenze che lasciano il cittadino veramente basito e provocano amaro dolore, aggiunto a quello della perdita di un loro caro.
In una parola la fiducia nella giustizia è messa fortemente in discussione.
La nostra Costituzione, per quanto riguarda la tutela della salute è chiara e, l’articolo 32, afferma che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Il che indica l’importanza del miglioramento della qualità della vita che, ovviamente, si deve estendere a tutti quegli elementi, o sostanze nocive, ambientali, o causate da terzi, che “possono ostacolarne il reale esercizio”.
Questo articolo deve coinvolgere, direi obbligatoriamente, non solamente i cittadini, i medici, ma anche l’intera classe giuridica, magistratura compresa.
Il Senatore Felice Casson, durante la sua introduzione al Convegno tenutosi al Senato della Repubblica il 13 dicembre del 2017 dal titolo “Fumus mali iuris”, organizzato dal Coordinamento Nazionale Amianto e Associazione Italiana Esposti Amianto Onlus, ha anche parlato di questo.
Il senatore Casson si è soffermato su quanto difficile sia la “[...] trattazione delle questioni di amianto dal punto di vista civilistico, amministrativo e penale. Noi abbiamo visto delle sentenze di Cassazione che ci mettono un po’ in difficoltà [...]”.
Durante questo Convegno è intervenuta l’avvocatessa Laura Mara che ha una grandissima esperienza processuale sul tema di amianto e ci ha concesso una importante intervista.
Sappiamo che la respirazione delle fibre di amianto, o asbesto, può determinare gravi malattie che si manifestano dopo molto tempo.
L’amianto, responsabile di quella infiammazione ai polmoni chiamata asbestosi, è stato classificato sostanza che può provocare il cancro negli esseri umani, tumore ai polmoni e mesotelioma; e diversi studi hanno anche suggerito l’associazione tra esposizione ad amianto e tumori gastrointestinali e colon rettali.
Sembra poi esserci un elevato rischio di cancro anche per trachea, laringe, reni, esofago e cistifellea.
Le fibre dell’amianto, molto sottili, possono penetrare attraverso le vie respiratorie, non solamente nei polmoni, e raggiungere l’alveolo polmonare e formare, col tempo, degli essudati della pleura inguaribili.
Sono morti annunciate, che avverranno anche a distanza di anni.
Il mesotelio è simile a una finissima pellicola, un sottile tessuto, che ricopre la parte interna del torace (pleura), dello spazio attorno al cuore (pericardio) e dell’addome (peritoneo).
Quando un tumore nasce dalle cellule del mesotelio prende il nome di mesotelioma, e non sempre è maligno, ma è in progressivo aumento; quando lo è, è uno dei più pericolosi che si conosca poiché la comparsa della sintomatologia si può avere dopo lungo tempo (anche quarantacinque-cinquanta anni).
Il mesotelioma può coinvolgere i polmoni, il peritoneo, il fegato, la cistifellea, la milza, l’intestino e la tunica vaginale del testicolo.
Non esiste la cosiddetta dose-soglia (soglia di rischio) per l’amianto, può bastare una sola fibra per ammalarsi; ma il rischio aumenta con il tempo di esposizione e con la quantità inalata, ciò vale soprattutto per i lavoratori a diretto, o indiretto, contatto con la sostanza.
Roberto Suozzi
INTERVISTA A LAURA MARA
BUONGIORNO AVVOCATESSA, GRAZIE PER AVERCI CONCESSO QUESTA INTERVISTA. PER VENIRE SUBITO AL PUNTO, NOI SIAMO CONSAPEVOLI DI QUANTO AFFERMAVA IL SENATORE FELICE CASSON (IN RIFERIMENTO A UNA SENTENZA IN CORTE DI APPELLO A VENEZIA): “LA COSTITUZIONE DOVREBBE IMPORRE UN COMPORTAMENTO DIVERSO, COSTITUZIONALMENTE CORRETTO”. ORA IN MANIERA CRUDA E’ GIUSTO PARLARE, NEL CASO DI MORTE DI AMIANTO, DI “OMICIDI COLPOSI”? E POSSIAMO PARLARE, SULLA BASE DI ALCUNE RECENTI SENTENZE NEI PROCESSI DI AMIANTO, DI SENTENZE “NON COSTITUZIONALMENTE ORIENTATE”?
Gentile Professore, buongiorno a Lei.
La sua domanda coglie nel segno. Non solo è corretto, ma è doveroso, dal punto di vista giuridico e sociale, inquadrare gli eventi mortali, causati dall’esposizione ad amianto sui luoghi di lavoro, come omicidi colposi: non a caso nei capi di imputazione formulati dai Pubblici Ministeri all’interno dei diversi processi celebrati in Italia ritroviamo proprio le contestazioni ex articolo 589 del Codice Penale, con l’aggravante di cui al secondo comma per aver commesso il fatto con violazione della normativa (speciale e generica) per la prevenzione degli infortuni/malattie professionali, che prevede un inasprimento della pena della reclusione da due a sette anni.
Purtroppo le ultime sentenze di merito milanesi, confermate recentemente dalla Corte Suprema di Cassazione, hanno accolto una “tesi scientifica” che, da un lato, confonde il piano della causalità con quello propriamente biomedico, legato al processo multistadiale di oncogenesi del tumore, e, dall’altro, impone all’Accusa Pubblica e Privata di fornire una vera e propria prova impossibile (prova diabolica) in punto di causalità individuale.
Il tutto senza considerare l’assesto conforme della comunità scientifica internazionale in punto di teoria dose-risposta per il mesotelioma pleurico (si veda Consensus di Helsinky 1997; Monografie della IARC; Linee Guida 2010 della European Respiratory Society of ThoracicSurgeons for the manegement of pleuralmesothelioma; Documento ufficiale del 1999 della Federazione francese dei Centri di Lotta contro il Cancro; OSHA Federal Register del 1986 e da ultimo, III Consensus di Bari del 2015).
Se così numerosi consessi (anche governativi) nazionali e internazionali si sono espressi a livello ufficiale nei termini sopra descritti, è logico inferire (altra via non esiste) che tali enunciati rappresentino, all’esito di un’analisi critica condotta ai massimi livelli di competenza ed imparzialità, la sintesi del sapere scientifico più diffuso ed accreditato in materia.
In questo senso, possiamo parlare di recenti sentenze non costituzionalmente orientate: si richiede cioè di provare l’inizio e la fine del periodo di induzione (iniziazione + promozione) per essere certi che, in quel periodo temporale, vi sia stato proprio quel determinato imputato a gestire l’azienda.
Si richiede cioè una prova che non può essere fornita, perché non attiene al piano della causalità individuale, in senso stretto, ma al processo biologico di insorgenza e trasformazione della patologia asbesto-correlata, e segnatamente del mesotelioma pleurico.
Processo che, come per tutte le altre formazioni tumorali, non può essere registrato con strumenti fenomenici.
Se si accogliesse una simile interpretazione, sorgerebbero serie questioni di legittimità costituzionale dell’art. 589 del Codice penale in rapporto all’articolo 3 della nostra Costituzione, in quanto vorrebbe dire che il reato di omicidio colposo per violazione delle normativa sulla sicurezza sul lavoro non coprirebbe le patologie asbesto correlate, e più in generale, non coprirebbe più le malattie neoplastiche professionali (che necessitano di un lungo periodo di tempo prima della loro comparsa e la cui cancerogenesi non è registrabile con dati fenomenici), creando in tal modo una falla nel sistema del diritto penale.
Vorrebbe cioè dire che l’articolo 589 del Codice Penale si applicherebbe solo ai casi di infortunio sul lavoro (che è reato istantaneo) e non anche alle malattie professionali neoplastiche (che costituiscono reati-evento a consumazione lenta e prolungata nel tempo, nei quali gli steps di mutazione cellulare non sono MAI verificabili nel momento in cui si producono all’interno dell’organismo umano).
Il che, come facilmente intuibile, violerebbe il principio di uguaglianza sancito dalla nostra Costituzione che non consente una tutela giudiziaria differente a seconda del momento di consumazione dell’evento rispetto alla condotta posta in essere dall’agente.
INTRAVVEDO OGGI LA POSSIBILITÀ DI NUOVO ORIENTAMENTO, CHE VALUTO PERICOLOSO, DI UNA PARTE FORTUNATAMENTE ESIGUA DELLA GIUSTIZIA. SPESSO I CONSULENTI DEGLI IMPUTATI, NEI PROCESSI DI AMIANTO, HANNO OPERATO IN MANIERA IMPROPRIA, ELABORANDO DELLE POSIZIONI (LA TEORIA DELLA “CAUSALITÀ INDIVIDUALE” O ADDIRITTURA “COLLETTIVA”) CHE IN REALTA’ NON HANNO NULLA DI SCIENTIFICO. QUAL E’ IL SUO PENSIERO IN MERITO?
Esattamente. Le difese degli imputati, tramite i loro consulenti, hanno costruito nel tempo un castello di scorrette e finanche inesistenti teorie scientifiche che si sono spinte oltre la logica umana, oltre la comprensione del giurista e del privato cittadino.
In altri termini, si tenta, in maniera erronea, di calcolare una mancata anticipazione della latenza nei singoli soggetti (persone offese) senza tenere conto del fattore dose di esposizione e delle mansioni effettivamente espletate dai lavoratori in vita, confondendo i dati sulla latenza media (che attengono a studi di coorte) con quelli relativi alla latenza individuale di ogni persona che, in quanto tali, sono soggetti a diverse variabili.
Mi scusi se insisto sul tema, ma quello che più mi ha fatto indignare è la storia della “causalità”. Ci tengo a sottolineare che mio padre, ferroviere, morì nel 1990 per mesotelioma provocato dall’esposizione all’amianto e mio zio Donato emigrato in Australia, morì nel 2005 per la stessa causa, lavorando alle massicciate delle ferrovie. Come lei ha detto al convegno:
“Un dato è certo: le difese degli imputati, tramite i loro consulenti, hanno costruito nel tempo un castello di scorrette e finanche inesistenti teorie scientifiche che si sono spinte oltre la logica umana, oltre la comprensione del giurista e del privato cittadino. Faccio riferimento al tema della causalità individuale nei processi penali che, secondo alcuni recenti orientamenti, anche della Cassazione, deve essere accertata con strumenti in realtà inesistenti nella realtà fenomenica-scientifica-giuridica”.
DAL PUNTO DI VISTA STRETTAMENTE GIURIDICO, QUANTO PESA QUESTA “CAUSALITA’ INDIVIDUALE” NEI PROCESSI PENALI? COME PUO’ ESSERE ACCETTATA NEGLI ATTI PROCESSUALI UNA TESI PRESENTATA DA “TECNICI” DI PARTE CHE NON SVOLGONO NEANCHE LA PROFESSIONE MEDICA? CHE COSA E’ QUESTA “CAUSALITÀ INDIVIDUALE”?
Il problema sta a monte e purtroppo molti di questi consulenti tecnici svolgono la professione medica ai più alti livelli, anche universitari. In sostanza oggi la magistratura, accedendo a questa interpretazione scientifica non corretta, esige che venga data la prova (con che strumenti non è dato capirlo) del momento esatto in cui la cellula da benigna inizia a progredire verso la malignità, nonché la successiva prova della fine di questo (lunghissimo) periodo multistadiale per poter imputare la responsabilità penale proprio a quel dirigente che, in quel preciso momento (coincidente con la mutazione cellulare della vittima), gestiva concretamente la società.
Purtroppo, come noto, non esiste un cronometro per i tumori che possa fermare l’istante in cui la cellula inizia a proliferare verso la malignità! Questo è il limite della scienza medica applicabile a qualsivoglia malattia tumorale.
Non per questo è legittimo dedurre che tale (logica) incertezza biomedica si possa tradurre in incertezza sul nesso di causa: mai la Cassazione ha sostenuto che nei processi per patologie tumorali (la cui evoluzione interna all’organismo umano non è evidentemente registrabile con nessuno strumento), che formavano oggetto di imputazioni per omicidi colposi, vi fosse stata la violazione della regola di diritto della condanna oltre ogni ragionevole dubbio.
Ragionando in altro modo, lo si ripete, si arriverebbe alla conseguenza, evidentemente non accettabile, di non poter più celebrare processi per omicidi colposi consistiti in malattie professionali neoplastiche incurabili ed infauste, frutto di comportamenti (soggettivamente e oggettivamente) colposi posti in essere dai diversi datori di lavoro, che, nel tempo, si sono succeduti nelle diverse posizioni di garanzia all’interno di una determinata realtà industriale.
Appare pertanto condivisibile l’orientamento di legittimità secondo il quale è impossibile la conoscenza di tutti gli antecedenti sinergicamente inseriti nella catena causale e di tutte le leggi pertinenti (...) poiché il Giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, né procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi (vedi Sentenza della Cassazione Sezioni Unite n. 30328/2002) e dunque potrà ritenersi provata l’esistenza di un nesso causale tra condotta umana, commissiva e anche omissiva, e un evento quando sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed alternativo nesso causale.
La mia impressione è che si stia facendo in modo di realizzare una “rete di protezione giuridica” per le imprese, per facilitare la loro assoluzione nelle cause per malattie professionali, impedendo anche il riconoscimento economico del danno.
FORSE LE MIE SONO SEMPLICI ILLAZIONI, MA NON SAREBBE IL CASO DI COSTRUIRE DELLE CLASS ACTION, SOPRATTUTTO PER QUANTO RIGUARDA LE GRANDI IMPRESE? IN FONDO, COME LEI HA RICORDATO NEL SUO INTERVENTO NEL CONVEGNO: “[...] PIÙ LA PERSONA RIMANEVA ESPOSTA PIÙ SI AMMALAVA DOPO [...], PIÙ SEI ESPOSTO ALL’AMIANTO E PIÙ TI FA BENE PERCHÉ TI AMMALI DOPO”. QUAL È IL SUO PENSIERO IN MERITO
Molte delle ultime sentenze assolutorie intervenute su questo specifico tema hanno, lo ripeto, confuso il piano della causalità individuale (nesso di causa sulla singola persona offesa del processo) con quello della causalità generale (nesso di causa verificabile su una determinata coorte di soggetti studiata dagli epidemiologi che hanno poi elaborato una vera e propria legge scientifica di copertura), addivenendo anche a una indebita commistione fra piano biomedico e piano causale.
L’esempio classico riportato in queste pronunce è proprio quello da lei ricordato: in maniera non corretta si prende in esame solo l’inizio dell’attività della singola persona offesa e il momento dell’insorgenza della patologia per provare il contrario di quello che afferma la comunità scientifica, ovvero che a maggiore esposizione corrisponderebbe una latenza più lunga.
Questi calcoli e queste verifiche non sono attendibili perché non considerano il fattore dose (concentrazione di fibre di amianto) e la mansione effettivamente espletata dal lavoratore. Potremo quindi avere una persona esposta, per un tempo breve, ad una concentrazione elevatissima di fibre di amianto che si ammala in un tempo minore (latenza più corta) rispetto ad un soggetto che pur essendo stato esposto per un periodo più lungo, è stato sottoposto ad una concentrazione di asbesto inferiore, proprio perché svolgeva mansioni differenti dalla prima.
E’ quindi chiaro che il fattore dose gioca un ruolo altrettanto importante, così come il tempo. Ma se nel calcolo non si tiene in considerazione la concentrazione di fibre/polveri di amianto cui il lavoratore è stato esposto (dose) si avranno dei risultati inficiati ab origine, in quanto non ha alcun senso, perché non esprime una regola scientificamente validata, parlare solo del tempo in funzione dell’esordio della malattia.
L’idea di una Class Action è certamente percorribile, ma in sede civile e comunque non sposterebbe l’asse del problema della responsabilità penale dei singoli imputati che è e resta una responsabilità personale.
Credo a questo punto che l’unico passo percorribile alla luce di queste sentenze possa essere il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione dei diritti inviolabili dell’Uomo e della Donna, quali quelli alla vita ed alla salute (articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo), nonché per violazione della regola dell’equo processo (articolo 6 della Convenzione citata), secondo la quale non può essere richiesta a una sola parte, nel rispetto del principio del contraddittorio, una prova impossibile da fornire in quanto inesistente sul piano scientifico, biologico e giuridico.
CONVENGO CON LEI AVVOCATESSA.
UNA CLASS ACTION E’ SICURAMENTE IMPORTANTE, E’ CERTAMENTE PERCORRIBILE, MA NON INCIDEREBBE E NON SPOSTA IL PUNTO FOCALE, COME LEI HA AFFERMATO, DELLA RESPONSABILITA’ PENALE DI OGNI IMPUTATO, CHE PER L’APPUNTO E’ DI OGNUNO DI LORO, E’ PERSONALE.
Sono perfettamente convinto che vada fatto un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la European Convention in Human Right.
Tengo a precisare che questa Corte Internazionale, alla quale aderiscono i membri del Consiglio d’Europa, fu istituita nel 1959 non è affatto una istituzione che fa parte dell’Unione Europea.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sede in Francia, a Strasburgo, esattamente nel Palazzo dei Diritti dell’Uomo. L’Unione Europea la Corte di Giustizia (CGUE) ha sede nel Lussemburgo, esattamente nel Palais de la Cour de Justice a Lussemburgo.
La ringrazio molto.
-------------------------------------------
MILANO: QUATTRO MORTI SUL LAVORO IN UN SOLO INCIDENTE SONO UN’ENORMITA’
Da Lavoro e Salute
01/01/18
Superata in un solo giorno la media nazionale, record europeo, di tre assassinii al giorno sul lavoro. Dopo questi, altri 13 morti.
E’ il risultato di un infortunio avvenuto a Milano in una fabbrica (la Lamina) del quartiere di Greco, della periferia Nord. Al di là delle cause che lo hanno determinato di cui se ne stanno occupando gli inquirenti, si tratta di un ulteriore oggettivo crimine che si aggiunge ai numerosi che abbiamo conosciuto in questi ultimi tempi.
Pensiamo ai 7 morti della ThyssenKrupp di Torino, ai 4 della Eureco di Paderno Dugnano e, in questo caso è giusto ricordare coloro che sono morti sul lavoro in cisterne e altri angusti ambienti soffocati da gas venefici: in primis 13 marzo 1987 13 operai morti sulla Elisabetta Montanari nel porto di Ravenna a seguire 3 marzo 2008 Molfetta 5 morti; 11 giugno 2008 6 vittime a Mineo (Catania); 26 maggio 2009 3 morti alla raffineria Sarroch in Sardegna; 15 giugno 2009 due operai morti caduti in una vasca di acque nere a Riva Ligure; 12 gennaio 2010 due operai morti tra Sale e Tortona (Alessandria); 11 settembre 2010 3 operai morti in un silos di un’azienda di Afragola (Caserta), 8 aprile 2014 due operai padre e figlio muoiono Molfetta; 24 luglio 2014, altri due morti in un impianto di compostaggio ad Aprilia (latina); 22 settembre 2014 quattro morti in provincia di Rovigo per esalazioni di anidride solforosa; 9 settembre 2015 altri due morti in Raffineria questa volta in Sicilia a Priolo, 29 novembre 2016 3 operai lasciano la vita nel porto di Messina, all’interno di una cisterna.
Chiediamoci il perché e perché queste stragi si ripetono; non solo ma constatiamo che quando l’ucciso è uno solo non vi è alcun clamore (anche se sono in media 3 al giorno).
Non dimentichiamo le migliaia di vittime dovute a malattie professionali che avvengono ad anni di distanza da esposizioni a sostanze tossiche e cancerogene, come l’amianto.
Succede, nella gran parte dei casi che tutti costoro restano senza giustizia e non meno senza risarcimenti: il 17 gennaio ad esempio la Corte di Cassazione ha mandato assolti gli imputati della Pirelli di Milano, ieri il Tribunale di Padova ha assolto perché il fatto non sussiste gli imputati della fonderia Valbruna.
Per i reati connessi all’amianto l’assoluzione di questi tempi è diventata una regola: pur sapendo che i morti sono dovuti alla sua esposizione; pur sapendo che le leggi non erano applicate, pur sapendo che non esistevano le più elementari misure di sicurezza, si è finito per ritenere che l’uso dell’amianto era un fatto accettato e condiviso sul piano sociale e politico. Un giudice ha detto che non possiamo prendercela con i responsabili delle imprese che l’hanno utilizzato e di certo non è compito del giudice condannare il sistema.
E’ in corso il grande processo contro ILVA di Taranto. Un fatto che è diventato politico: si deve accettare che per salvaguardare l’occupazione si può mettere a repentaglio la salute?
In questo caso non solo quella dei lavoratori, ma anche quella dei cittadini di un intero territorio.
Abbiamo visto che il Presidente di Regione Puglia e il Sindaco di Taranto hanno promosso un ricorso al TAR per ricordare le loro competenze e per chiedere che la nuova proprietà che subentra attui tutte le misure necessarie a far cessare l’inquinamento su Taranto.
Tutto ciò è positivamente da sottolineare.
Il lavoro non può essere messo in contrasto con la salute e, oggi, se vogliamo, dobbiamo dire prima la salute e poi l’occupazione.
Ci informano i COBAS di Taranto che come noi sono parte civile nel processo ILVA che in questi giorni di udienze dopo le tentennanti testimonianze di alcuni “fiduciari”, che hanno anche ritrattato quello già dichiarato alla Guardia di Finanza anni fa, è entrata nella grigia aula della Corte d’Assise, una ventata di protesta. A dimostrazione che gli operai dell’ILVA, pur spesso da soli, abbandonati e ostacolati dai sindacati confederali, hanno sempre cercato di lottare per la salute, la sicurezza, l’ambiente.
Nonostante le pesanti “zeppe” degli avvocati di Riva e complici al processo ILVA, si comincia a sentire una vera denuncia. Non è un caso che questa denuncia/verità delle aperte e continue gravi violazioni sulla sicurezza si sentano dalla testimonianza di un operaio ILVA, Rito, che, come ha detto in aula, dopo la morte del lavoratore Zaccaria per il crollo della gru, ha detto “basta” e ha portato in ogni occasione la sua protesta, la rivendicazione della sicurezza, della difesa della salute degli operai come dei cittadini, contestando apertamente capi e capetti che da un lato cercavano miseramente di sminuire le responsabilità dell’ILVA (“si muore a tutte le parti…”, “chi l’ha detto che i morti, gli ammalati di tumore dipendano dall’ILVA…”, e squallori del genere); dall’altro con minacce o “promesse” cercavano di far stare zitto l’operaio.
GLI INFORTUNI, LE MALATTIE PROFESSIONALI, LA MANCANZA DI GIUSTIZIA DEVONO SEMPRE ESSERCI?
Dobbiamo fare in modo che non sia così. E non è solo un problema di controlli, che peraltro esiste se solo pensiamo alla riduzione della spesa sanitaria e sociale che ha ridotto il personale
tecnico nelle strutture a esso dedicato. E’ lo stesso rapporto di lavoro che deve essere cambiato. Occorre dire basta alla precarietà del lavoro, ai salari che non garantiscano situazioni di vita dignitose.
Non bastano, pur essenziali, ed oggi molto carenti, le strutture e gli interventi preventivi ci vuole un impegno generale degli stessi lavoratori, di conoscenza, di controllo e di verifica, come stabilisce l’articolo 9 della Legge 300/70 “Statuto dei lavoratori”.
SENZA PARTECIPAZIONE NON C’E’ PREVENZIONE!
Per Medicina Democratica
Fulvio Aurora, Responsabile delle vertenze giudiziarie
Per Associazione Italiana Esposti Amianto
Maura Crudeli, Presidente
-------------------------------------------
LAVORO: AGGRAVAMENTO DI MALATTIA PROFESSIONALE
Da Studio Cataldi
19/02/18
di Marco Sicolo
Guida legale con riferimenti normativi e indicazioni utili sull’aggravamento di malattia professionale, come quelli sugli effetti della domanda, i termini per la richiesta di verifica dell’aggravamento, l’aggravamento dovuto al protrarsi dell’esposizione al rischio.
La malattia professionale è una patologia contratta nell’esercizio e a causa dell’attività lavorativa.
Mentre la causa degli infortuni sul lavoro è per lo più istantanea e con effetto immediato, nella malattia professionale la causa è solitamente prolungata nel tempo e attiene all’esposizione del lavoratore ai rischi legati alle mansioni da lui svolte e all’ambiente in cui opera.
La principale normativa di riferimento in materia è contenuta nel D.P.R. 1124/65 “Testo Unico sull’Assicurazione per gli infortuni sul lavoro e malattie professionali”, poi parzialmente modificato dal D.Lgs. 38/00.
IL NESSO TRA PATOLOGIA E ATTIVITA’ LAVORATIVA
Al fine di organizzare in modo lineare ed esaustivo la disciplina della materia, il legislatore ha predisposto delle tabelle in cui si individuano varie categorie di malattie. Qualora il lavoratore dimostri il manifestarsi di una di esse, opera la presunzione legale che l’insorgere della stessa sia dovuto all’esercizio dell’attività lavorativa da lui svolta.
In tali casi, pertanto, la malattia è qualificata come professionale e il diritto alle prestazioni indennitarie sorge automaticamente.
Diversamente, se il lavoratore lamenta l’insorgere di una malattia che non rientri tra quelle elencate in tabella, sarà suo onere quello di dimostrare la sussistenza del nesso eziologico tra patologia e attività lavorativa, ai fini del riconoscimento delle prestazioni indennitarie.
L’AGGRAVAMENTO DELLA PATOLOGIA: L’ARTICOLO 137 DEL D.P.R. 1124/65
L’entità della malattia può variare nel tempo, in miglioramento o in peggioramento. Per tale motivo, è in facoltà del lavoratore richiedere l’aggiornamento delle prestazioni dovute, in conseguenza dell’aggravamento delle sue condizioni di salute derivato dalla medesima malattia professionale.
Sebbene il testo dell’articolo 137 del D.P.R. 1124/65 faccia riferimento all’attitudine al lavoro, come parametro per valutare le condizioni del richiedente, l’articolo 13 del D.Lgs. n. 38/00 ha introdotto il concetto di danno biologico come riferimento per la quantificazione dell’indennizzo. Adesso, pertanto, occorre riferirsi al concetto di menomazione dell’integrità psicofisica e non più a quello di capacità di produzione del reddito.
Al fine del riconoscimento dell’aggravamento, l’interessato deve inoltrare apposita domanda all’Ente previdenziale (INAIL), per ottenere una nuova valutazione sull’entità della patologia e la conseguente revisione delle prestazioni dovute. La richiesta dev’essere corredata da un certificato medico attestante l’aggravamento.
EFFETTI DELLA DOMANDA E PROVVEDIMENTI DELL’ENTE
In conseguenza della richiesta, l’INAIL può disporre le opportune visite mediche sulla persona del lavoratore. Se questi rifiuta di sottoporvisi, l’ente ha facoltà di sospendere il pagamento della rendita.
Il provvedimento di accoglimento o rigetto va adottato entro il termine di 90 giorni dal ricevimento della domanda. In caso di rigetto, il lavoratore può inoltrare reclamo ai sensi dell’articolo 104 del D.P.R. 1124/65 e, successivamente, adire l’autorità giudiziaria.
I TERMINI PER LA RICHIESTA DI VERIFICA DELL’AGGRAVAMENTO
La richiesta di verifica dell’aggravamento può essere inoltrata una volta trascorsi 6 mesi dalla scadenza del periodo di inabilità temporanea assoluta oppure, se la patologia non ha comportato l’assenza dal lavoro, trascorso un anno dall’insorgere della stessa.
E’ possibile presentare successivamente ulteriori domande di revisione, a intervalli non inferiori di un anno l’una dall’altra. In base all’articolo 137 del D.P.R. 1124/65, l’ultima domanda di aggiornamento può essere presentata entro 15 anni dalla decorrenza della rendita.
AGGRAVAMENTO CONNESSO AL PROTRARSI DELL’ESPOSIZIONE AL RISCHIO: I CHIARIMENTI DELL’INAIL
Sebbene l’articolo 137 del D.P.R. 1124/65 faccia riferimento al solo caso in cui il lavoratore sia titolare di rendita, una lettura organica del quadro normativo, comprensiva del D.Lgs. 38/00, consente di affermare che la disciplina dell’aggravamento è applicabile anche a quei lavoratori a cui, in origine, la malattia è stata riconosciuta ma non indennizzata, o indennizzata solo in capitale, in virtù del basso grado di menomazione.
E’ quanto chiarito, peraltro, dall’INAIL con la circolare n. 32/15: tale provvedimento, giunto dopo il tortuoso percorso interpretativo degli ultimi anni, sancisce che l’aggravamento denunciato oltre il termine di 15 anni va considerato come denuncia di nuova malattia, a condizione che il peggioramento sia riconducibile al protrarsi dell’esposizione del lavoratore allo stesso rischio morbigeno, anche in azienda diversa da quella in cui si è inizialmente manifestata la malattia.
-------------------------------------------
OBBLIGO DI AGGIORNAMENTO PER L’USO DI ALCUNE ATTREZZATURE DI LAVORO
Da: PuntoSicuro
14/02/18
di Gerardo Porreca
E’ in scadenza il 12 marzo 2018 il termine entro il quale devono aggiornarsi alcuni operatori abilitati alla conduzione di particolari attrezzature di lavoro. Vediamo quali sono.
Scade il 12 marzo 2018 il termine ultimo per l’adempimento dell’obbligo di aggiornamento per alcuni dei soggetti abilitati alla conduzione di particolari attrezzature di lavoro di cui all’articolo 73, comma 5 del D.Lgs. 81/08 e le cui modalità sono state definite dall’Accordo raggiunto nell’ambito della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano nella seduta del 22/02/12.
Con tale Accordo, entrato in vigore il 12/03/13, sono state individuate e riportate nella sezione A) dell’Allegato A le attrezzature per la conduzione delle quali è necessario possedere una specifica abilitazione. Esse sono le:
le piattaforme di lavoro mobili elevabili (PLE);
le gru a torre;
le gru mobili;
le gru per autocarro;
i carrelli elevatori semoventi con conducente a bordo (a braccio telescopico, industriali semoventi, sollevatori/elevatori semoventi telescopici rotativi);
i trattori agricoli o forestali;
le macchine movimento terra (escavatori idraulici, a fune, pale caricatrici frontali, terne, autoribaltabile a cingoli);
le pompe per calcestruzzo.
Lo stesso Accordo Stato Regioni del 22/02/12, al punto 6, ha anche stabilito che l’abilitazione deve essere rinnovata entro i 5 anni dalla data di rilascio dell’attestato previa verifica della partecipazione a un corso di aggiornamento avente una durata minima di 4 ore delle quali almeno 3 ore relative agli argomenti dei moduli pratici di cui agli allegati III e seguenti. Con esso inoltre è stata riconosciuta, al punto 9.1, una formazione pregressa alla sua entrata in vigore e più precisamente sono stati riconosciuti validi i corsi già effettuati entro tale data purché possedessero però, per ciascuna tipologia di attrezzatura, i seguenti requisiti:
corsi di formazione della durata complessiva non inferiore a quella prevista dagli allegati, composti di modulo teorico, modulo pratico e verifica finale dell’apprendimento;
corsi, composti di modulo teorico, modulo pratico e verifica finale dell’apprendimento, di durata complessiva inferiore a quella prevista dagli allegati a condizione che gli stessi siano integrati tramite il modulo di aggiornamento di cui al punto 6, entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore del presente accordo;
corsi di qualsiasi durata non completati da verifica finale di apprendimento a condizione che entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore del presente accordo siano integrati tramite il modulo di aggiornamento di cui al punto 6 e verifica finale dell’apprendimento.
Con riferimento poi alla data di decorrenza dei 5 anni era stato stabilito, al punto 9.2 dell’Accordo, che gli attestati di abilitazione conseguenti ai corsi avevano validità di 5 anni a decorrere rispettivamente dalla data di attestazione di superamento della verifica finale di apprendimento.
Quest’ultimo punto però è stato successivamente modificato dall’Accordo Stato Regioni del 07/07/16 sulla formazione degli RSPP/ASPP, che come è noto ha provveduto anche a modificare altre disposizioni riguardanti la formazione in generale in materia di salute e sicurezza sul lavoro, ed è stato in parte riscritto, prevedendo che gli attestati di abilitazione avessero validità di 5 anni a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’Accordo.
Pertanto è stata sostanzialmente modificata la data di decorrenza dei cinque anni, intendendola non più a far data dal completamento del corso e della verifica di apprendimento, ma entro il 12/03/18.
L’Accordo del 22 febbraio 2012 della Conferenza Permanente per i Rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano, concernente l’individuazione delle attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori, nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione, i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi e i requisiti minimi di validità della formazione è scaricabile all’indirizzo:
-------------------------------------------
INFORTUNI PER IL MANCATO UTILIZZO DELLE SCARPE DI SICUREZZA
Da: PuntoSicuro
01/02/18
di Tiziano Menduto
Esempi di infortuni in cui è stata rilevata l’assenza di dispositivi di protezione dei piedi in relazione a cadute in piano o a cadute di gravi dall’alto. Gli infortuni, i fattori causali e i criteri di scelta del Dispositivi di Protezione Individuale (DPI).
Abbiamo visto in precedenti puntate della rubrica “Imparare dagli errori”, e in numerosi articoli in materia di DPI, quanto sia importante nei luoghi di lavoro proteggere i piedi attraverso idonee scarpe di sicurezza.
E se sono molti i rischi (fisici, chimici, biologici, elettrici, termici, ecc.) a cui possono essere soggetti i piedi, il rischio più usuale per questa parte del corpo è correlato alle conseguenze delle cadute (ad esempio cadute in piano o cadute di materiali).
Analizziamo oggi proprio alcune tipologie di eventi infortunistici da caduta in cui si evidenzia una mancata fornitura o un mancato utilizzo delle scarpe di sicurezza.
Le dinamiche degli infortuni presentati sono tratte dalle schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi.
Il primo caso riguarda un infortunio avvenuto in un punto vendita.
Una addetta di mercato (cassiera), entra nel corridoio che porta allo spogliatoio, in quanto deve prendere servizio nel punto vendita ove è impiegata. Improvvisamente, nel percorrere il corridoio scivola in terra a causa del pavimento bagnato, urtando violentemente il viso in terra e battendo il piede destro contro il pavimento.
Il pavimento era bagnato per cause ignote. Immediatamente viene soccorsa dai colleghi che le prestano le prime cure prima del trasporto al vicino ospedale ove viene riscontrata una contusione cranica non commotiva con ferita lacerocontusa labiale superiore e frattura del V metatarso del piede destro.
Al momento dell’infortunio la cassiera indossava scarpe con la parte posteriore aperta (sul tallone) come ciabatta. L’azienda inoltre dispone di ditta esterna per l’effettuazione delle pulizie e dei lavaggi, con precisi compiti e procedure di lavoro che prevedono anche l’utilizzo di cartellonistica per evidenziare le zone bagnate con pericolo di caduta.
Scarsa importanza è data agli accessori d’abbigliamento. Le dipendenti devono infatti indossare la divisa, ma viene lasciata la libertà di indossare scarpe proprie (nell’intento di far utilizzare ai dipendenti calzature di adeguato confort, specie se in presenza di particolari problemi anatomici).
Non sono state contemplate fonti di rischio derivanti dall’utilizzo di calzature proprie, anche perché la natura dell’attività non lasciava presupporre problematiche in tal senso.
Questi i fattori causali dell’incidente rilevati dalla scheda:
scarpe di proprietà dell’infortunato;
assenza di segnaletica.
Il secondo caso riguarda un infortunio con caduta di materiale sul piede.
Un lavoratore viene investito alla punta del piede destro dalla caduta di un bancale in legno che sta posizionando su una pila dove sono stoccati altri bancali riportando la frattura della falange ungueale del primo dito del piede destro.
Il lavoratore non indossa le scarpe antinfortunistica in quanto non fornitegli dal datore di lavoro contrariamente a quanto previsto dal Documento di Valutazione dei Rischi.
Questi i fattori causali dell’incidente rilevati dalla scheda:
caduta di un bancale in legno che l’infortunato stava posizionando;
scarpe antinfortunistiche non fornite.
Il terzo caso riguarda un infortunio avvenuto in una fase di movimentazione manuale.
Un lavoratore è impegnato a movimentare insieme a un collega un pacco di piastrelle di marmo.
Durante questa operazione al collega scivola dalle mani il pacco che cadendo colpisce al piede destro l’infortunato che non indossava scarpe antinfortunistiche.
L’infortunato ha riportato una frattura al piede destro.
Questi i fattori causali rilevati:
al collega scivolava di mano il pacco di piastrelle;
mancato utilizzo di scarpe antinfortunistiche.
Ci soffermiamo su alcune indicazioni contenute nel documento “Prime indicazioni operative per l’applicazione del D.Lgs. 81/08 Titolo III Capo II Uso dei dispositivi di protezione individuale” prodotto dall’Azienda Sanitaria Locale Roma H (ASL Roma 6).
In tale documento si ricordano le indicazioni normative, con riferimento all’Allegato VIII del D.Lgs. 81/20, che segnalano che per la protezione dei piedi nelle lavorazioni in cui esistono specifici pericoli di ustioni, di causticazione, di punture o di schiacciamento, i lavoratori devono essere provvisti di calzature resistenti e adatte alla particolare natura del rischio. Tali calzature devono potersi sfilare rapidamente.
Il documento riporta anche alcune delle caratteristiche che devono avere le scarpe di sicurezza.
In particolare devono essere:
comode, leggere e tali da consentire la traspirazione;
in gomma se richieste buone caratteristiche dielettriche;
con puntale di acciaio e solette antiperforazione se rischio da schiacciamento o perforazione;
alte ai malleoli e imbottite se vi è rischio di urti o contusioni;
a rapido sfilamento in caso di infortunio o intrappolamento;
con suole antisdrucciolevole se si ha accesso su suoli instabili.
In conclusione forniamo alcune informazioni sui criteri di scelta dei DPI per i piedi con riferimento ai contenuti del progetto multimediale “Impresa Sicura”, un progetto elaborato da EBER, EBAM, Regione Marche, Regione Emilia-Romagna e INAIL.
Nel documento “ImpresaSicura_DPI”, correlato al progetto, si segnala che prima di scegliere il modello più adatto all’utilizzatore, tra calzature basse o alla caviglia, stivali al polpaccio o al ginocchio o alla coscia, è indispensabile conoscere i rischi legati all’ambiente di lavoro, le condizioni ambientali e la mansione di colui che le deve indossare. Ed è necessario operare una scelta fra le tre differenti categorie di calzature antinfortunistiche (S, P, O), in base ai rischi meccanici, e poi, se necessario, in base ai requisiti supplementari.
Quando, ad esempio, è presente il rischio di caduta di gravi e di schiacciamento delle dita (imprese edili, industrie metallurgiche, lavori agricoli, demolizioni di fabbricati, ecc.) a seconda dell’entità del rischio saranno necessarie calzature di sicurezza o di protezione con puntali (SB, da S1 a S5, PB, da P1 a P5).
Quando è presente il rischio di perforazioni della suola da parte di oggetti appuntiti (ad esempio ristrutturazione di rustici, lavori stradali, lavori su impalcatura, demolizioni, cantieri edili in generale ed aree di deposito) è necessario come requisito aggiuntivo la resistenza alla perforazione (P).
Non bisogna, infine, dimenticare che la scelta di calzature inadatte può comportare problemi e rischi aggiuntivi per l’operatore: peso eccessivo della calzatura, suola troppo rigida, cattiva traspirazione, sensibilizzazione, scorretta posizione del piede sul piano di calpestio o scelta inadatta rispetto al suolo su cui si deve camminare, fanno sì che l’operatore rinunci all’utilizzo di questi DPI, esponendosi così al rischio.
Il sito web di INFOR.MO., di cui nell’articolo sono state presentate le schede numero 6041, 3922 e 1861, è consultabile all’indirizzo:
Il documento “Prime indicazioni operative per l’applicazione del D.Lgs. 81/08 Titolo III Capo II Uso dei dispositivi di protezione individuale” prodotto dall’Azienda Sanitaria Locale Roma H (ASL Roma 6) è scaricabile all’indirizzo:
Il documento “ImpresaSicura_DPI” di EBER, EBAM, Regione Marche, Regione Emilia Romagna e INAIL è scaricabile all’indirizzo:
-------------------------------------------
Da: PuntoSicuro
01/02/18
di Tiziano Menduto
Esempi di infortuni avvenuti in autofficine per la riparazione di veicoli a motore. Infortuni con un ponte sollevatore e a causa di un’esplosione. La dinamica degli infortuni, i fattori causali e le indicazioni generali di prevenzione.
Dopo esserci soffermati nella rubrica “Imparare dagli errori”, dedicata al racconto e all’analisi degli infortuni professionali, sui rischi correlati al settore agroalimentare, iniziamo oggi con un breve viaggio attraverso gli infortuni che possono avvenire nell’attività di riparazione e manutenzione dei veicoli.
Sono infatti diversi i pericoli a cui sono soggetti i lavoratori di autofficine, carrozzerie, officine di verniciatura o per pneumatici. E in questi luoghi di lavoro non mancano gli eventi infortunistici, a volte anche gravi e mortali, e le possibilità di contrarre malattie professionali in relazione, ad esempio, all’uso di particolari impianti e attrezzature o all’impiego di sostanze pericolose e infiammabili.
Esaminiamo oggi, in particolare, alcuni infortuni che sono avvenuti nelle autofficine e che sono stati registrati dal sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi attraverso le schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio.
Il primo caso riguarda un infortunio avvenuto nell’utilizzo del ponte sollevatore in un’autofficina.
Il giorno dell’infortunio un lavoratore al fine di controllare la cinghia e la puleggia del ponte di sollevamento delle auto, in quanto fa rumore, sale sul braccio del ponte in corrispondenza della colonna sulla cui sommità risulta installato il motore elettrico e la puleggia con la relativa cinghia di trasmissione del moto.
La cinghia risulta installata alla quota di 2,5 m dal pavimento e per raggiungere tale quota il lavoratore, una volta salito sul braccio del ponte, aziona il pulsante di salita. A questo punto l’operatore, dopo aver rimosso il carter di protezione, ed essendosi accertato dello stato di usura della cinghia, decide di scendere per poter prendere una chiave che gli consenta di smontare la cinghia stessa.
Per poter azionare autonomamente il pulsante di discesa (posto sulla colonna a quota inferiore rispetto alla sua posizione) da sopra il braccio del ponte, in cui si trova in piedi, si piega su se stesso e mentre con la mano destra aziona il pulsante improvvisamente perde l’equilibrio e d’istinto cerca appiglio con la mano sinistra sulla sommità della colonna. La puleggia e la cinghia sono in movimento (per la fase di discesa in atto) e non è stato riposizionato il carter. Il lavoratore inserisce involontariamente la mano tra la cinghia e la puleggia. L’infortunato riporta un’amputazione alla mano sinistra.
Il fattore causale dell’infortunio, come riportato dalla scheda, è relativo al fatto che il lavoratore dopo aver rimosso il carter di protezione, azionava il pulsante di discesa del ponte dove era salito e perdeva l’equilibrio.
Il secondo caso riguarda un infortunio mortale dovuto ad un’esplosione.
Un meccanico lavora da solo all’interno della propria autofficina ed è intento a riparare una pompa di benzina del motore di un autoveicolo facendosi luce con lampada di ispezione collegata all’impianto elettrico quando, a causa di probabile danneggiamento del cavo di alimentazione, si sprigiona una scintilla che innesca la benzina fuoriuscita dalla pompa ed immediatamente dopo lo scoppio della stessa pompa.
Le fiamme investono il lavoratore che resta ustionato al 60% della superficie corporea e in particolare al volto, alle mani e alle braccia con ustioni di 2° e 3° grado.
Lesioni che nei giorni successivi all’incidente lo portano alla morte.
Questi i fattori causali dell’incidente rilevati dalla scheda:
cavo della lampada danneggiato;
incendio della benzina e successivo scoppio della pompa.
Per trovare alcune indicazioni generali di prevenzione nel settore della riparazione dei veicoli possiamo fare riferimento ad un documento, dal titolo “Sicurezza e tutela della salute nel settore dei veicoli”, prodotto in Svizzera dalla Commissione Federale di Coordinamento per la Sicurezza sul Lavoro (CFSL).
Dal documento riprendiamo alcune indicazioni sui problemi correlati a impianti e apparecchi.
Gli impianti e gli apparecchi che devono essere:
conformi alle regole della tecnica riconosciute;
concepiti in modo da non nuocere a nessuno se utilizzati correttamente e rispettando le dovute precauzioni: le installazioni che presentano carenze dal punto di vista della sicurezza devono essere adeguate o, se necessario, sostituite;
sottoposti ad adeguata manutenzione periodica da personale specializzato e qualificato secondo le indicazioni del fabbricante: ogni intervento manutentivo deve essere documentato;
utilizzate da personale addestrato e formato regolarmente.
Raccogliamo anche le misure di prevenzione proposte per i diversi tipi di attrezzature e impianti:
impianti di autolavaggio: regolamentare gli accessi, schermare i punti di schiacciamento, riscaldare il pavimento, posare un rivestimento antiscivolo;
banco prova freni: coprire, segnalare, schermare i rulli; evitare i lavori di registrazione sui veicoli con le ruote in movimento;
gru/apparecchi di sollevamento: eseguire la manutenzione e manovrare la gru secondo le indicazioni del costruttore, verificare il dispositivo di sicurezza del gancio; tener conto della portata; controllare regolarmente gli accessori di imbracatura (cinghie, funi, catene);
ponti sollevatori per veicoli: ispezionare gli accessori di presa del carico, il dispositivo di arresto del braccio portante e il dispositivo anticaduta;
cric: usare cavalletti di sostegno, rispettare la portata indicata; sbloccare il freno a mano durante le operazioni di sollevamento e discesa;
ruota: appoggiare la ruota per evitare il ribaltamento del carico (ruota);
carrelli elevatori: utilizzo solo da personale qualificato; utilizzare solo i carrelli dotati di dispositivo di ritenuta;
stazione caricabatterie: garantire una buona ventilazione (naturale o artificiale); utilizzare caricabatterie elettronici; segnaletica di avvertimento, protezione degli occhi (usare occhiali antiacido, mettere a disposizione docce oculari); tra i rischi segnalati è presente il pericolo di esplosione (gas tonante) e la causticazione dovuta al contatto con acidi;
impianto di aria compressa, compressore: usare raccordi di sicurezza e pistole ad aria di sicurezza oppure limitare/ridurre la pressione ad un massimo di 3,5 bar; impedire l’inserimento delle mani negli organi di trasmissione; si segnala il rischio di lesioni provocate dal getto di aria compressa e dalla proiezione di frammenti e il rischio di schiacciamento e presa (avviamento automatico, trasmissioni non schermate);
macchina per il montaggio dei pneumatici: osservare le prescrizioni del costruttore, formare il personale, impostare la valvola limitatrice di pressione su 3,5 bar, usare un tubo flessibile lungo minimo 1 m tra l’impugnatura dell’apparecchio di gonfiaggio e il nipplo spinato, durante l’operazione di gonfiaggio togliere le mani dalla valvola, gonfiare i pneumatici con problemi nella gabbia di sicurezza, usare un sollevatore; sono diversi i rischi segnalati: schiacciamento di parti del corpo nella macchina monta gomme; scoppio di pneumatici durante il gonfiaggio; essere colpiti da parti del cerchione; lesioni alla schiena;
macchina equilibratrice: in relazione al rischio dei pneumatici in rotazione e dell’intossicazione da piombo, si suggerisce di montare una copertura di protezione, rispettare le indicazioni del costruttore, formare il personale, indossare i guanti di protezione;
ruote multipezzo e ruote speciali: far smontare le ruote o i cerchioni solo da personale istruito secondo le indicazioni della ditta costruttrice del veicolo e del cerchione;
apparecchi per la pulitura di pezzi (pulitrice per piccoli pezzi): adottare cuffia di protezione, luogo ventilato; allontanare ogni fonte di innesco (molatrici, impianti di saldatura, ecc.); utilizzare esclusivamente liquidi con punto di infiammabilità inferiore a 30° C;
pulitrice ad alta pressione: verificare periodicamente i tubi flessibili dell’alta pressione e i dispositivi di azionamento; indossare i Dispositivi di Protezione Individuale (guanti e visiere);
impianti di saldatura a gas e di brasatura: assicurare le bombole di gas contro il ribaltamento, verificare i rubinetti e i tubi flessibili; rimuovere la crosta (scoria) che si è formata sopra la saldatura; saldare le parti sporche (ad esempio tubo di scappamento) solo con la maschera di protezione delle vie respiratorie; disporre sistema di aspirazione alla fonte dei fumi di saldatura; proteggere gli occhi;
elettrosaldatura e saldatura in gas protettivo: proteggere gli occhi e la pelle dai raggi UV; non saldare in spazi ristretti (recipienti); adottare sistema di aspirazione alla fonte dei fumi di saldatura; verificare lo stato dei cavi;
pressarifiuti: osservare le indicazioni riportate nel manuale d’uso;
utensili a mano: utilizzare un utensile idoneo in perfette condizioni;
utensili elettrici a mano e lampade di lavoro: usare gli interruttori salvavita;
trapani portatili e a colonna: indossare gli occhiali di protezione; fissare i pezzi in lavorazione; non usare i guanti in prossimità di elementi in rotazione;
mola portatile e fissa: utilizzare occhiali a mascherina; regolare correttamente il riparo e la base di appoggio; indossare i protettori auricolari; indossare una maschera con filtro antiparticolato;
utensili pneumatici: indossare adeguati occhiali di protezione; collegare gli apparecchi solo con raccordi di sicurezza; indossare i protettori auricolari; utilizzare schermi fonoisolanti;
scale a pioli e scale mobili: controllare i piedini antiscivolo; verificarne periodicamente lo stato; sostituire le scale difettose; usare scale e ausili di salita adeguati.
Gli eventuali riferimenti legislativi contenuti nel documento del CFSL riguardano la realtà svizzera, i suggerimenti indicati sono comunque utili per tutti i lavoratori.
Il sito web di INFOR.MO., di cui nell’articolo sono state presentate le schede numero 635 e 5354, è consultabile all’indirizzo:
Il documento “Sicurezza e tutela della salute nel settore dei veicoli”, prodotto in Svizzera dalla Commissione Federale di Coordinamento per la Sicurezza sul Lavoro (CFSL) è scaricabile all’indirizzo:

Nessun commento:

Posta un commento