INDICE
Maria Nanni mariananni1@gmail.com
COORDINAMENTO AUTORGANIZZATO TRASPORTI: VIAREGGIO GIUSTIZIA DI
PRIMO GRADO
Clash
City Workers cityworkers@gmail.com
SCRIVERE LA CULTURA OPERAIA: IL LAVORO DI SISIFO
Clash
City Workers cityworkers@gmail.com
WELFARE
AZIENDALE: LA FINE DELLO
“STATO SOCIALE” A DANNO DEL TUO SALARIO!
Teoria & Prassi piattaforma_comunista@lists.riseup.net
LA LOTTA
DEI DISOCCUPATI CONTRO LA MISERIA E LA DIVISIONE DI CLASSE
NotizieInMARCIA ! redazione@ancorainmarcia.it
STRAGE DI VIAREGGIO, IN DETTAGLIO LE CONDANNE, LE
ASSOLUZIONI E IL NEO DELLA SENTENZA
Carlo Soricelli carlo.soricelli@gmail.com
FINALMENTE TANTI MORTI SUL LAVORO RESUSCITANO (ALMENO
PER LE STATISTICHE)
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Invio a
seguire e/o in allegato le “Lettere dal fronte”, cioè una raccolta di mail o
messaggi in rete che, tra i tanti che ricevo, hanno come tema comune la tutela
della salute e della sicurezza dei lavoratori e dei cittadini e la tutela del
diritto e della dignità del lavoro.
Il mio vuole
essere un contributo a diffondere commenti, iniziative, appelli relativamente
ai temi del diritto a un lavoro dignitoso, sicuro e salubre.
Invito tutti
i compagni e gli amici della mia mailing list che riceveranno queste notizie a
diffonderle in tutti i modi.
Marco Spezia
ingegnere e
tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro
Progetto “Sicurezza
sul lavoro: Know Your Rights!”
Medicina Democratica
- Movimento di lotta per la salute onlus
e-mail: sp-mail@libero.it
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To:
Sent:
Tuesday, February 07, 2017 12:16 AM
Subject: COORDINAMENTO AUTORGANIZZATO TRASPORTI: VIAREGGIO GIUSTIZIA DI
PRIMO GRADO
COMUNICATO STAMPA
Dopo 7 anni e 7 mesi, il 31 gennaio, la sentenza di 1° grado del processo
sulla strage di Viareggio.
Il 29 giugno 2009 l’asse di un carrello di un treno merci trasportante GPL
si rompe all’entrata della stazione di Viareggio, esplodendo e incendiando
tutto quello che il fuoco ha incontrato.
Sul suo cammino, purtroppo, c’erano 32 persone ignare di quanto stava
accadendo. Strappate alla vita nella sicurezza delle loro case o per le strada
che costeggiano la ferrovia. Vite e famiglie spezzate nel posto in cui ognuno
si sente più al sicuro.
Ed è proprio la sicurezza, quella del trasporto merci ferroviario, che è
stata messa per questi lunghi anni sul banco degli imputati. La sicurezza che
rappresenta un diritto inalienabile del lavoratore e ancor prima dell’essere
umano. Perché mai, come in questo caso, è evidente quanto le lotte per la
sicurezza nei luoghi di lavoro siano non solo legate ai lavoratori ma
rappresentino un bene per tutta la società.
Ma sul banco degli imputati insieme all’astratta sicurezza vi erano persone
in carne ed ossa, vertici del gruppo FS, che dopo oltre 140 udienze e 250.000
carte prodotte durante il dibattimento, perizie e controperizie, sono stati
considerati colpevoli, a vario titolo, di aver deliberatamente messo in secondo
piano il diritto primario della sicurezza a vantaggio del profitto.
Il grande assente in questo processo è lo Stato che ha accettato i
risarcimenti delle assicurazioni. L’assenza non è stata totale, ma quando è
intervenuto lo ha fatto a beneficio del più forte e non delle vittime. Uno
Stato che ha permesso che il principale indagato, poi condannato il 31 gennaio
a 7 anni, potesse continuare a ricoprire i suoi incarichi nel gruppo FS, per
poi passare a dirigere un’altra importante azienda a partecipazione statale e
che venisse addirittura insignito del titolo di cavaliere del lavoro.
Questo ultimo fatto, al di fuori di calcoli e opportunità politiche, è
arrivato come una pugnalata dello Stato a chi invece in questi anni,
accompagnato dal dolore lacerante per la perdita dei suoi cari, ha dovuto
assistere all’assoluzione degli imputati da parte della politica. Perché se è
vero che nessun imputato è colpevole prima della sentenza è anche vero che
finché la magistratura non si pronuncia, per rispetto delle vittime e della
morale, certe prese di posizione andrebbero evitate. D’altra parte la politica,
dopo nomine, rinomine e promozioni, è intervenuta anche pochi giorni prima
della sentenza, quando il Ministro delle Infrastrutture, Del Rio, interferendo
a procedimento in corso tacciando le richieste dei Pubblici Ministeri “enormemente
sproporzionate”.
A essere condannato non è stato solo Moretti ma anche altre figure di
vertice, da Elia a Soprano passando per Margarita che nel frattempo, in un
paradosso senza fine, ricopre posizione di vertice di ANSF, l’Agenzia nazionale
per la sicurezza ferroviaria.
A mettere i bastoni tra le ruote degli intoccabili le vittime della strage
e i loro familiari che con una tenacia, devozione e forza senza eguali, hanno
preteso verità e giustizia e solo grazie a loro, alla mobilitazione popolare di
questi anni, è stato possibile arrivare a sentenza prima che su alcuni reati
(incendio colposo e lesioni gravi!) piombi l a prescrizione, contro cui i
familiari si battono.
Persone straordinarie, che in questo paese invece di ricevere il supporto
delle istituzioni dopo una tragedia del genere hanno dovuto combattere con una
dignità e un rispetto encomiabili anche nei confronti della stessa
magistratura.
Il risultato non era per niente scontato. Le condanne, seppur dimezzate
rispetto alle richieste dei Pubblici Ministeri, ci sono state e, in una nazione
in cui questo genere di tragedie non trovano mai colpevoli, questo rappresenta
un passo avanti.
Abbiamo tanto da imparare da queste persone. In primo luogo dobbiamo
imparare che non si deve mai smettere di lottare per la verità e la giustizia,
neanche in un’Italia dove sembra che questi siano termini sconosciuti. E,
soprattutto, non si scherza sulla sicurezza e noi come lavoratori siamo i primi
a dover lottare per conquistarla e rafforzarla.
Con forza chiediamo quindi il reintegro di
Riccardo Antonini, licenziato, per essersi messo a disposizione dei familiari
delle vittime nella ricerca della verità, e degli altri compagni di lavoro
licenziati in questi anni per essersi battuti sulla sicurezza e la salute per
ferrovieri, viaggiatori, cittadini.
Coordinamento Autorganizzato Trasporti
via dei Campani, 43
00185 Roma
telefono: 329 45 55 203
fax: 010 89 35 794
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From: Clash City
Workers cityworkers@gmail.com
To:
Sent: Tuesday,
February 07, 2017 3:47 PM
Subject: SCRIVERE LA CULTURA OPERAIA: IL LAVORO DI SISIFO
A fine dicembre, a Napoli, abbiamo avuto il piacere
di organizzare un’iniziativa pubblica con Alberto Prunetti. Ci interessava
andare oltre i suoi libri, che abbiamo letto e che ci hanno commosso,
appassionato e spinto a essere ancora più determinati nel lavoro politico.
Allora gli abbiamo chiesto: “Alberto, visto che al
centro dei tuoi scritti ci sono figure operaie, rappresentative di una
condizione che è al contempo individuale e collettiva, che ne dici se partiamo
da queste storie per parlare di cultura operaia? Esiste? Ha ancora senso? E
come possiamo contribuire alla costruzione di un immaginario di emancipazione?”
Ecco, così nascono queste pagine che Alberto ha voluto
mettere nero su bianco.
Per noi sono pagine importanti, perché permettono
di alimentare un dibattito che stiamo cercando di portare avanti da anni.
Quando sosteniamo lavoratori e lavoratrici in lotta, quando siamo con loro a un
picchetto, quando organizziamo una manifestazione o un volantinaggio o anche
quando semplicemente diamo spazio a queste storie sui nostri canali, non lo
facciamo con lo spirito del giornalista. E nemmeno semplicemente con quello del
propagandista o dell’organizzatore.
Dalle migliaia di storie che incontriamo e che
viviamo tutti i giorni cerchiamo di tirar fuori qualcosa in più degli aspetti
vertenziali. Ognuna di queste lotte, per quanto piccola o grande che sia, è
infatti fatta di cuore e sudore, di ansia, insonnia, paura, dignità,
determinazione, speranza nel futuro.
Elementi che però non troviamo nella “cultura”
mainstream, a meno che non servano a svolgere un ruolo di conservazione dell’esistente.
E mai che i lavoratori siano soggetto, al massimo oggetto su cui i benpensanti
possono esercitare il loro odioso pietismo. Queste pagine di Alberto, e il
dibattito avviato con lui, che va oltre queste parole, vogliono invece
delineare una storia diversa.
Buona lettura!
P.S.
Vorremmo che questo fosse tema di dibattito, aperto
ai contributi di tutti. Perché se dobbiamo costruire un immaginario diverso
serviranno la creatività, l’impegno e la dedizione di tante e tanti.
Scriveteci, commentate, domandate, dite. Non siate assenti. Si parla del nostro
futuro…
* * * * *
PROBLEMATICITA? NELLA DEFINIZIONE DI “CULTURA
OPERAIA”
E’ difficile parlare
di cultura operaia per diverse ragioni. In questo campo l’errore più grosso è
quello di fornire definizioni essenzialiste, identitarie, rigide, prive di
sfumature. È quello che accade quando si parla per esempio di “cultura islamica”,
“cultura meridionale”, “cultura italiana”, ecc., associando tutta una ragnatela
semantica di stereotipi. Ultimamente ci troviamo di fronte a frequenti “eccessi
di culture”, per citare il felice titolo di un libro dell’antropologo Marco
Aime. Le culture sono diventate oggetti identitari e tutto (soprattutto gli
stereotipi) viene culturalizzato.
In realtà la cultura
è un campo poroso di relazioni in continua evoluzione, in tensione dialettica,
tutt’altro che statico. E le culture (intese come ambiti simbolici e materiali
in cui si riproducono sistemi di sapere, capacità, percezioni di sé, degli
altri, punti di vista sul mondo) sono elementi che evolvono e risulta difficile
schiacciarli su due assi cartesiani e rappresentarli univocamente.
Quanto agli operai, oggi assistiamo a una vulgata
che li dà per morti e sepolti, salvo riesumarli ogni qual volta ci sia bisogno
di ripulire i panni sudici della borghesia: per esempio,
nonostante i dati elaborati dalla CNN dicessero il contrario, i giornali hanno
parlato di un Trump eletto coi voti della working class, quando le statistiche
indicavano un voto repubblicano costruito sui redditi medio-alti.
Pertanto la classe
operaia non esisterebbe più, ma c’è eccome quando serve: quando c’è da
sfruttarla. Piuttosto, è cambiata la sua struttura sociologica ed è venuta meno
la sua centralità, la sua forza egemonica. Oggi l’operaio non lavora solo nella
grande industria (o almeno non più come prima), ma anche nei servizi e
nella logistica. Invece di un italiano dialettale, può darsi che la lingua che
usa per comunicare coi suoi compagni sia il bengalese o l’arabo.
La classe operaia in Italia non c’è più? C’è,
eccome, è solo che non capite la sua lingua mentre lavora. O non avete orecchi
per intendere o occhi per vederla. (Al riguardo, si veda l’inchiesta operaia
realizzata da Clash City Workers, “Dove sono i nostri? Lavoro, classe,
movimenti”).
Pertanto, ammessa la
problematicità dell’espressione “cultura operaia”, quello che posso dire è che la cultura ha anche a che fare con la consapevolezza ossia con la
coscienza di classe. E quella che abbiamo oggi è una classe
operaia in trasformazione, sotto assalto, divisa, segmentata e iper-sfruttata,
una nuova working class che nella notte delle trasformazioni imposte dal
capitale cerca di trovare una forma dialettica in cui riconoscersi,
manifestarsi, esprimersi, per rimettersi in cammino in un nuovo ciclo di lotte.
Dov’è questa classe? E’ dispersa. L’astuzia del
capitale la fa lavorare al buio, in grandi magazzini lontani dalle città; è una
classe di lavoratori dei servizi che possono spostarsi tra Berlino e Londra,
facendo caffè e pizze, al di fuori del canone della ristorazione artigianale di
un tempo. Un lavoro massificato, di trasformazione di prodotti alimentari
preparati e congelati che si muovono come blocchi inerti sulla catena di
montaggio. Non come un barista ma come un operaio, ormai si lavora da Starbucks
o da McDonald’s. E la stessa routine si impone quando si viene assunti da
Amazon come magazziniere o si fa il commesso in una grande libreria italiana di
catena.
Parlo di una working
class che può offrire un tetto ai precari provenienti dai ceti medi impoveriti.
A questi lavoratori è necessario fornire dei mezzi per storicizzare la propria
condizione, per riconoscerla come un fatto sociologico con un proprio percorso,
per orientarsi nel lavoro e nelle rivendicazioni su coordinate di classe invece
di percepire la propria condizione come una manifestazione di un’occasionale e
privata “sfiga” esistenziale. Per salvarsi tutti assieme, perché un torto fatto
a uno è un torto fatto a tutti.
Ecco, perché questa
nuova classe sociale si riconosca, bisogna vincere le strategie che vorrebbero
segmentarla grazie al razzismo (“prima gli italiani”), distinguendo tra
lavoratori italiani e immigrati, quando la classe operaia da sempre è migrante.
Bisogna lavorare sull’immaginario e sulla prassi,
facendo cose che sono assieme simboliche e pratiche. Perché l’immaginario forma
la prassi e la prassi costruisce l’immaginario.
Bisogna rivendicare diritti e ripartire dal lavoro
di base, nel quartiere, ma prima ancora sui luoghi di lavoro. Costruire dal basso
piccole camere del lavoro precario che funzionino da sportello per i lavoratori
precari, italiani o immigrati. E’ un lavoro fondamentale. Ma da solo non basta.
Dobbiamo anche lavorare sulla scuola, ripartire dalla
formazione permanente, fornire servizi di doposcuola per aiutare i ragazzi
delle famiglie operaie e immigrate, oggi a rischio di nuove esclusioni. Ma anche
questo non basta.
Bisogna ricostruire un immaginario. Perché l’immaginario
fa la cultura. Un immaginario alternativo si costruisce soprattutto coi libri,
coi romanzi, coi film, con le canzoni, con le fotografie. Con le
manifestazioni, con i volantini (non lasciamo, per la miseria, i muri alla
destra).
Quello che sto
provando a fare, come scrittore, con la mia trilogia working class in corso d’opera,
è contribuire alla costruzione di un immaginario per la nuova working class,
legando ponti tra la vecchia classe operaia di fabbrica e la nuova classe
operaia dei servizi e dei lavori di pulizia, e i lavoratori dei call center e i
lavoratori migranti e i lavoratori dell’editoria a collaborazione e i precari
della cultura e i voucher e tutta la filiera dei lavori precari,
esternalizzati, dispersi a rete. Non c’è più una fabbrica davanti alla quale
andare a volantinare come un tempo, è ancora più difficile, ma l’immaginario
soffia dove vuole e raggiunge i lavoratori più dispersi.
ALCUNE DIMENSIONI DELL’IMMAGINARIO OPERAIO DEL
PASSATO
Provo a ragionare di “cultura
operaia” in maniera meno astratta, sulla base di un caso specifico che conosco
bene, quello delle due piccole città operaie in cui sono nato e sono cresciuto:
Piombino e Follonica. Non importa se non sapete trovarle sulla cartina: servono
solo come esempio per coordinate valide universalmente, a Bagnoli come a Sesto
San Giovanni.
FOTO DI GRUPPO E CONVIVIALITA’: L’ICONOGRAFIA
OPERAIA DEL PASSATO
Mi sono imbattuto in
alcune fotografie del passato, pubblicate in appendice a opere sulla classe
operaia dell’Alta Maremma. La bibliografia sta in coda a queste note, comunque
mi riferisco a un’inchiesta prodotta a caldo sulla classe operaia follonichese
nel ‘77 dall’Università degli studi di Siena, un memoriale di un’insegnante che
lavorava con studenti figli di operai, un’inchiesta scritta con sguardo
retrospettivo su una comunità di base di cattolici del dissenso a Piombino (sempre
negli anni Settanta) e un libro fotografico di un comitato di quartiere del
rione operaio dei Diaccioni di Piombino. In questi scatti emerge un elemento
che mi colpisce e che fa entrare in tensione il passato con il presente. Che siano collettivi politici, gruppi di giovani cattolici di sinistra o
classi scolastiche di figli di operai, sono tutte foto di gruppo.
Foto di gruppi e di collettivi che si pensavano in chiave conviviale, che
mangiavano e studiavano assieme, che giocavano e facevano politica assieme, in
gruppo.
Se l’iconografia del
passato è conviviale e comunitaria, quella del presente è ben rappresentata dal
selfie: non solo la fotografia di un singolo, ma di un singolo che riflette se
stesso. Oltre l’autoscatto, che ti poneva di fronte a l’obiettivo, che ti
obbligava almeno a muovere i piedi rapidamente per porti di fronte all’otturatore:
il selfie si produce con la torsione solipsistica del polso ripiegato su se
stesso in un egotismo onanistico, del monitor che ormai ha doppiato la realtà e
non riflette altro che un simulacro, un sembiante di un utente che poi diventa
un avatar e viene immesso in rete nei flussi digitali. E’ una comunità di
utenti spersonalizzati, privi di relazione, quella che ci fa
utenti/amici/consumatori di social network dove non c’è classe ma c’è “gente”.
Al riguardo si veda
il mio articolo sul fascismo social pubblicato da Letteraria e Giap:
Il selfie insomma è
la sintesi dell’iconografia post-thatcherista: “la società non esiste, esistono
solo individui (...)”. E gli individui sono soli, rancorosi e in balia delle
passioni tristi. Il miglior brodo di cultura per la crescita di nuovi fascismi.
Ricominciamo a farci foto di gruppo, allora, a formare collettivi di persone
che mangiano assieme il pane. “Compagni”, sono coloro che
mangiano assieme il pane. Cum Panis. “Cospiratori”, sono coloro che respirano
assieme. Teniamolo a mente.
ALTRE DIMENSIONI
IMPORTANTI DELLA CONDIZIONE OPERAIA
LA
SOLIDARIETA’ DI CLASSE (contro le comunità fittizie cementate del rancore del
presente). Da qui si arriva alla solidarietà. Il nemico non è il povero, ma il
padrone; questo era il senso comune del passato. Oggi l’immaginario del senso
comune insegna, nella logica aziendale del Grande Fratello, che fare le scarpe
al prossimo è il miglior modo per stare al mondo.
L’ATTIVISMO CULTURALE: si prenda come
esempio l’attivismo, negli anni Cinquanta, dell’Ente Culturale Cooperativistico
dei minatori di Massa Marittima, che portò registi come Germi e Lizzani a fare
le prime dei propri film davanti a un pubblico di minatori maremmani; che portò
Vasco Pratolini a leggere inediti di
Metello davanti a un pubblico di 200 lavoratori (150 comprarono il suo romanzo “Cronache
di poveri amanti” in copia autografata). E Luciano
Bianciardi era spesso invitato a parlare su quel palco.
Pensiamo anche che nelle acciaierie di Piombino gli operai, ancora negli anni Ottanta,
riuscirono a ottenere dalla proprietà un punto biblioteca con un
bibliotecario-operaio regolarmente salariato. Altri spunti interessanti di
cultura operaia: l’argentino Roberto Arlt, in
un suo reportage di viaggio in Spagna nei mesi che precedettero la rivoluzione
del ‘36, racconta delle letture ad alta voce che gli operai asturiani facevano
dei romanzi popolari d’appendice. Letture che permettevano sia la comprensione
per gli analfabeti che una fruizione collettiva: spesso il tempo dedicato ai
commenti degli operai sulla vicenda superava quello della lettura. Un altro
scrittore latinoamericano, il cubano Lezama Lima, nel
suo “Paradiso” racconta che nelle manifatture di tabacchi, dove lavoravano
soprattutto le donne, un’operaia leggeva ad alta voce, per gli altri dipendenti
dell’opificio, opere di poesia o di narrativa, per vincere la noia del lavoro
meccanico.
IL TEMPO LIBERO: era quasi
inesistente, ma non era colonizzato dalla società dello spettacolo (e dalle
tecnologie digitali) come adesso. Ai ritmi dei tre turni in fabbrica, si
alternava il lavoro nelle campagne, o il dopolavorismo o il garagismo. E poi le
attività sindacali. Forse il tempo libero non c’era,
perché non c’erano tempi morti. Oggi il tempo morto colonizza
ogni dimensione temporale, del lavoro, del divertimento, delle vacanze. Senza
il presente della lotta e della convivialità, rimane solo il tempo morto del
lavoro e il suo surrogato, il tempo libero delle ferie, per chi ancora ce l’ha,
o quello della disoccupazione, intesa come lavoro alla ricerca di un lavoro.
Da qui si arriva a un
ultimo punto: L’OPEROSITA’. L’operosità
era l’elemento fondamentale che definiva la condizione operaia di un tempo. L’operosità
era il lavoro gioioso alla Fourier che si contrapponeva al lavoro morto della
fabbrica. I nostri vecchi non avevano mai tempo libero, al contrario dei
borghesi che andavano in vacanza, perché, finito il tempo morto del lavoro
sfruttato, iniziava il tempo creativo della manualità operosa. Facevano l’orto,
riparavano motorini, stuccavano mobili, costruivano pollai. Quei “lavoretti” da
metal-mezzadri erano lavoro comunitario, non separato, spesso creativo. Con queste attività rimettevano in discussione la divisione del lavoro,
sia come divisione tra lavoratori che come divisione tra lavoro manuale e
intellettuale. Quell’operosità nasceva da una spiccata manualità, che era poi
una manualità creativa e cognitiva. Erano lavori creativi, in
cui si escogitavano (nei garage o negli orti, nelle piccole officine o nelle
falegnamerie dei seminterrati) soluzioni creative per risolvere i problemi
della vita quotidiana senza rivolgersi a specialisti o al mercato. Si lavorava
tra amici, tra vicini, scambiandosi competenze, senza l’uso dell’equivalente
generale. Non si buttava via nulla, come dicevano i vecchi, perché dal nulla si
creava ogni cosa, rigenerando la società mercantile in un sistema che
soddisfaceva a basso prezzo le necessità delle famiglie operaie. Non da soli,
ma collaborando tra compagni. Lavorando e divertendosi, alla Fourier. Per questo
non servivano le vacanze al mare o le settimane bianche in montagna, perché
lavorare con le mani e con i compagni era bellissimo.
INFINE
Un’amica mi racconta
un episodio curioso: entrata in una grande libreria di catena, chiede una copia
di “Amianto” per fare un regalo. La indirizzano al reparto sociologia. Lei
domanda perché non sia in narrativa. E il commesso risponde: perché c’è scritto
“una storia operaia”.
Quando ho raccontato questo aneddoto alla ricercatrice Marta Fana, mi ha scritto una sola riga di commento: “dobbiamo rifare tutto Alberto, tutto”.
Quando ho raccontato questo aneddoto alla ricercatrice Marta Fana, mi ha scritto una sola riga di commento: “dobbiamo rifare tutto Alberto, tutto”.
Sono d’accordo. È il
lavoro di Sisifo.
BIBLIOGRAFIA SUL CASO DELLA CLASSE OPERAIA PRESA IN
ESAME:
-
Massimo
Squillacciotti (a cura di), “Ricerca universitaria e scuola dell’obbligo:
Indagini socio-culturali sulla classe operaia a Follonica”, Università degli
studi di Siena, Siena, 1977 (con estratti dalla tesi di laurea di Carboncini e
Cei sulla condizione della donna a Follonica e con un saggio che rielabora l’inchiesta
di Bambagini sulla classe operaia del quartiere Cassarello);
-
Tiziana
Noce e altri “Movimenti cattolici e sociali a Piombino e Follonica nel dopo
concilio Vaticano II”, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 2006;
-
Iolanda
Raspollini “Una scuola sul mare, Follonica” Editrice Leopoldo II;
-
Autori
Vari “Villaggio Diaccioni Piombino. Fisionomia e memorie di un villaggio
modello”, Piombino, 2013, tipografia Bandecchi e Vivaldi.
Alberto Prunetti
2 Febbraio 2017
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From: Clash City
Workers cityworkers@gmail.com
To:
Sent: Tuesday,
February 07, 2017 3:47 PM
Subject: WELFARE AZIENDALE: LA FINE DELLO “STATO
SOCIALE” A DANNO DEL TUO SALARIO!
Pubblichiamo un ottimo contributo di Cortocircuito sul welfare
aziendale, elemento che ritroviamo in tutti gli ultimi rinnovi contrattuali
(dalle singole aziende, vedi Eataly o FCA, alle categorie, vedi igiene
ambientale, commercio, metalmeccanici). E’ forse l’unico elemento che mette d’accordo
padroni e sindacati, e che rischia di passare inosservato (e benaccetto) dalla
maggioranza dei lavoratori. L’articolo che segue ha il merito di svelare il
segreto di questa convergenza: a beneficiarne saranno sicuramente imprese e
burocrazie sindacali, meno che mai i lavoratori, per i quali si tratta dell’ennesima
truffa ai danni del loro salario!
* * * * *
Improvvisamente, nel
bel mezzo della crisi, Governo, direzioni sindacali e aziende sembrano aver
trovato la pentola magica: un modo per dare a tutti senza scontentare
nessuno.
E’ il welfare aziendale. Il Governo defiscalizza, il
lavoratore incassa, l’azienda concede. E’ veramente così? Tutto il contrario.
Il welfare aziendale è una tappa ulteriore nello smantellamento dello stato
sociale. Non solo, è anche un
attacco al tuo salario. Lentamente, ma inesorabilmente, le quote di welfare
aziendale saranno considerate sostitutive degli aumenti salariali. Invece di
soldi, riceverai fondi in “benefits”. Non solo si torna al pagamento in natura
degli anni ‘50, ma vieni legato a doppio filo all’azienda: se perdi il lavoro,
perdi quote di servizi e assistenza.
Il welfare aziendale
è un vero e proprio mercato dove operano grandi aziende, assicurazioni, una
serie di soggetti che riescono a guadagnare da servizi come sanità, scuola,
assistenza agli anziani. Com’è possibile che forme di stato sociale
diventino improvvisamente così profittevoli? La risposta è semplice. Se c’è
qualcuno che riesce a lucrare su queste voci, c’è qualcuno che ci perde.
Questo qualcuno sei tu.
La legge di stabilità
2016 del Governo Renzi ha dato ulteriore spinta a questo sistema: “la Legge ha potenziato le
agevolazioni fiscali per le aziende che concedono servizi [...], permette l’erogazione
di premi di risultato in forma di servizi e welfare [...]. Le aziende inoltre
hanno compreso che il welfare sussidiario [...] è fonte di numerose opportunità
[...], contiene i costi [...], fidelizza i dipendenti” (Il Sole 24 Ore, 26
ottobre 2016).
Poco importa che oggi
il welfare venga contrattato con sindacati o RSU e RSA. A lungo andare questo
sistema mina la sindacalizzazione stessa. Il lavoratore può accedere a forme di
welfare solo in un rapporto di collaborazione con l’azienda e tale
collaborazione presuppone l’abbandono di ogni forma di conflittualità. In
ultima analisi prevede l’abbandono del sindacato come strumento di
organizzazione delle rivendicazioni dei lavoratori a favore di un rapporto
corporativo con il proprio datore di lavoro.
COS’È IL WELFARE AZIENDALE?
Per welfare aziendale
si intende tutto quel pacchetto di servizi e agevolazioni che un’azienda offre
ai propri dipendenti teoricamente “in aggiunta” o a volte in sostituzione del
pagamento monetario di stipendio o premi di produzione. Si tratta di misure
come la copertura sanitaria o le spese d’istruzione, che negli ultimi anni
hanno vissuto una vera e propria espansione, sia nel settore pubblico ma in
special modo in quello privato. Non solo, il welfare aziendale si è già evoluto
abbracciando nuovi settori di impiego, come shopping, cultura e benessere,
trasformandosi in un vero e proprio investimento delle aziende nella
fidelizzazione del dipendente.
COME SI E’ EVOLUTO?
Siamo passati dal
buono pasto per la pausa pranzo, al buono spesa per il supermercato, fino ad
arrivare al voucher per pagare rette scolastiche, libri di testo o servizi di
baby sitting. Nelle aziende dove il welfare aziendale è una realtà consolidata,
vengono istituiti nidi aziendali, campus estivi per i figli dei dipendenti e
figure come il maggiordomo, che svolge commissioni in posta o lavanderia al
posto dell’interessato. L’ultima novità del settore è il “flexible benefit”, un
pacchetto retributivo “in natura” nel quale ogni singolo lavoratore può
scegliere l’agevolazione che più gli è congeniale fino al raggiungimento del
plafond stabilito.
QUALI SONO I SETTORI IN CUI E’ PIÙ SVILUPPATO?
Nell’ambito sanitario, il welfare aziendale ha
addirittura superato sé stesso diventando un vero e proprio obbligo: le convenzioni
con cliniche e ambulatori privati ad opera della singola impresa sono state
scavalcate in favore di una gestione nazionale da parte degli enti bilaterali,
composti pariteticamente da associazioni padronali e sindacati confederali. In
questo modo il welfare aziendale ha guadagnato un posto fisso nella
contrattazione collettiva, come nel caso della copertura sanitaria Fondo
Est/Unisalute, pagato dai dipendenti del settore del Commercio direttamente in
busta paga. A integrazione dei fondi di categoria, poi, esistono anche
coperture assicurative che vanno a colmare le prestazioni non rimborsate: un vero e proprio business costruito sulla malattia.
IL WELFARE AZIENDALE E’ UN’OPPORTUNITA’ PER I
LAVORATORI?
A una prima occhiata
sembrerebbe così. Le cose stanno diversamente: se analizziamo da dove
provengono i fondi che defiscalizzano il welfare aziendale e ne immaginiamo le
conseguenze, capiamo che non è tutto oro quel che luccica. La scorsa
finanziaria del governo Renzi, infatti, ha eliminato tutte le tasse previste
sui fondi destinati a questo tipo di benefit, rinunciando a un notevole
introito fiscale. Stiamo parlando di un risparmio che per il dipendente si
aggira intorno al 10%, ma per il datore di lavoro oltrepassa il 40%.
QUINDI CI GUADAGNANO TUTTI?
E’ vero che il
lavoratore risparmia il 10% di trattenute se decide di destinare il proprio
premio al welfare aziendale, ma si tratta solo di una partita
di giro. Lo Stato, avendo meno entrate fiscali, a sua volta
destinerà meno fondi a sanità, istruzione e pensioni pubbliche, perché
integrate privatamente dai dipendenti che hanno accesso al welfare aziendale. Nei fatti è un falso regalo: invece di destinare i nostri soldi alla
fiscalità generale ci stanno incentivando a indirizzarli verso strutture
private per poter smantellare lo stato sociale pubblico. In
realtà stiamo pagando due volte per lo stesso servizio. Il welfare aziendale è
funzionale al disfacimento dei servizi pubblici fondamentali, un apripista alla
loro privatizzazione mascherata da riforma progressista.
CHI CI GUADAGNA REALMENTE?
A spartirsi la torta
del welfare aziendale sono in tanti. Innanzitutto lo Stato, che rinunciando a
una parte degli introiti fiscali può giustificare la riduzione dello stato
sociale. In secondo luogo ci sono le aziende che
vendono reti welfare, società in espansione che vivono dei fondi regalati dallo
Stato alle imprese. A fianco di queste aziende ci sono anche fondi
pensionistici integrativi, casse assicurative, scuole private:
tutte realtà che come parassiti si nutrono sulla distruzione dello stato
sociale, accaparrandosi parte delle nostre trattenute.
IN COSA CONSISTE LA FIDELIZZAZIONE?
Studi recenti
mostrano come le aziende dove il welfare è più sviluppato presentano tassi
inferiori di assenteismo, maggiore produttività e una combattività inferiore.
Non è che nelle aziende dove c’è il welfare aziendale non ci si ammala, ma è
che si viene portati verso il “presenzialismo”. L’azienda le pensa tutte pur di
farti lavorare di più, quindi se tuo figlio sta male ti paga la baby sitter, se
devi ritirare una raccomandata manda il maggiordomo, se vuoi lamentarti ci
pensi due volte perché il datore di lavoro è lo stesso soggetto che ti consente
di avere questi servizi. Il prezzo che paghiamo non sono
solo le tasse, ma è il nostro tempo, un pezzo in più della nostra vita che
trascorreremo al lavoro.
QUALI SONO I RISCHI A BREVE TERMINE?
A breve assisteremo a
una pressione da parte delle aziende per tramutare quote sempre maggiori dello
stipendio in fondi destinati al welfare aziendale. Non solo: gli aumenti contrattuali verranno vincolati sempre di più all’accesso
al welfare aziendale. Se non accedi ai fondi integrativi, perdi
anche gli aumenti contrattuali. Fiat (FCA) sta già spianando la strada. Si
tratta di un risparmio notevole per le aziende, perché di fatto abbassano gli
stipendi integrandoli con benefit pagati dagli stessi lavoratori con la fiscalità
generale. Alla pressione delle imprese si somma anche
quella del sindacato, che gestendo quote di welfare attraverso gli enti
bilaterali, possiede veri e propri interessi economici nella sua diffusione.
Non è un caso che il welfare aziendale sia ormai il protagonista di molti
rinnovi contrattuali.
QUALI SONO I RISCHI NEL LUNGO PERIODO?
Con l’espansione del
welfare aziendale, il nostro modello sociale somiglierà sempre di più a quello
degli USA. Senza copertura assicurativa non potremo accedere alle cure
sanitarie, senza pensione integrativa non avremo redditi durante la
vecchiaia. Tutto questo ci sarà consentito
solo se avremo un posto di lavoro, quindi faremo di tutto per non essere
licenziati: orari e turni massacranti per uno stipendio ridotto, perché l’esclusione
dal ciclo produttivo diventerà l’esclusione da ogni tipo di assistenza. Il
welfare aziendale può sostituire lo stato sociale? Può sostituire ad esempio la
sanità pubblica? Per quanto si possa estendere il welfare
aziendale, questo non riguarderà mai la totalità dei lavoratori in misura
eguale. Le aziende e gli istituti privati che si
sostituiscono al welfare non hanno alcuna intenzione di soddisfare “un diritto”,
hanno semplicemente intenzione di guadagnarci. Appena una voce
risulterà in perdita verrà scansata dal welfare aziendale, facendola ricadere
sulla spesa pubblica. Il risultato? Pagherai la sanità integrativa, ma dovrai
comunque pagarti le prestazioni sanitarie più onerose, preparando uno scenario
da incubo per milioni di persone che scopriranno di non poter accedere alle
cure mediche.
QUAL E’ L’EFFETTO SUI SINDACATI?
Il modo migliore per
contrastare enti bilaterali e welfare aziendale è lottare per aumenti salariali
e per uno stato sociale universale. Questa lotta spetterebbe a un sindacato
degno di questo nome, ma come può avvenire se lo stesso sindacato inizia a
trarre convenienza dalla bilateralità? Non abbiamo cifre chiare
a riguardo, ma quelle poche che ci sono dimostrano come gli enti bilaterali e
la cogestione del welfare aziendale costituiscano una fetta importante dei
bilanci sindacali. Nel 2013 è uscito un rapporto su previdenza integrativa e
Enti Biliaterali: già allora si contavano 536 fondi previdenziali con un giro
di 104 miliardi di Euro (6% del PIL) e 260 fondi di sanità integrativa. Si
tratti di fondi “aperti” o di categoria, si parla comunque di enti privati,
difficilmente controllabili. Sempre nel 2013, 10.000 persone risultavano
impiegate da questo settore. Tra questi molti sono sindacalisti o ex
sindacalisti. Il sindacato incassa i gettoni di presenza
per la partecipazione ai Consigli D’Amministrazione o di Gestione.
Grossa parte dei contributi versati dagli stessi lavoratori finisce proprio
nelle spese di gestione. Guardando i dati del 2013, si nota che le spese per l’erogazione
dei servizi difficilmente superano il 50% del bilancio di un fondo. Il resto
sono costi gestionali. Fonchim (Fondo previdenziale dei Chimici) ha destinato
nel 2013 588.000 Euro annui agli organi statutari e 1,2 milioni di Euro ai
costi di gestione. Il Fondo Cometa ha speso per i suoi “organi” 250.000 Euro
annui più 1,1 milioni per il personale. La defiscalizzazione del welfare
aziendale, quindi, contribuisce anche al “mantenimento” dei sindacati e non
solo delle aziende.
CHE FARE QUINDI?
Se ti stai domandando
se destinare il tuo premio di produttività al welfare aziendale o riceverlo in
busta paga, ti avvisiamo che in entrambi i casi a pagare sarai sempre tu. Dal
nostro punto di vista boicottare il sistema partendo dall’ultimo anello della
catena, ovvero la somma percepita dal dipendente, non servirà a far retrocedere
il governo sulla privatizzazione dello stato sociale. Gli strumenti che
dobbiamo mettere in campo sono ben altri. Il punto è
comprendere che questa impostazione va contestata in tutti i rinnovi
contrattuali e fare pressioni sul nostro sindacato perché il welfare aziendale
non venga fatto passare come una misura progressista, perché così non è. Non
possiamo accettare la logica del baratto dei nostri aumenti salariali in cambio
di fondi da destinare al welfare, così come non vogliamo rinunciare a ore di
ROL o Ferie in cambio di servizi che riducano l’assenteismo, soprattutto se
questi riguardano il tempo libero che impieghiamo con la nostra famiglia. Va
preteso che le organizzazioni dei lavoratori tornino a lottare per uno stato
sociale universale, a cui possano accedere tutti, lavoratori e disoccupati,
pensionati e studenti. Uno stato sociale che garantisca a tutti servizi
fondamentali di qualità e in larga quantità, a partire dall’offerta sanitaria e
da quella scolastica, basato su tasse dirette fortemente progressive dove chi
meno ha, meno paga.
CortocircuitO
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From: Teoria
& Prassi piattaforma_comunista@lists.riseup.net
To:
Sent:
Thursday, February 09, 2017 8:31 AM
Subject: LA LOTTA DEI DISOCCUPATI
CONTRO LA MISERIA E
LA DIVISIONE DI
CLASSE
Dal primo di gennaio, ai licenziati per crisi o maggior profitto aziendale
spetta la nuova indennità di disoccupazione universale, la “Nuova Assicurazione
Sociale per l’Impiego” (NASpI).
Non sono i risultati della nuova beneficenza quelli che devono interessare
i lavoratori, perché essi già sanno quanto scarsi ne siano i frutti.
La NASpI viene presentata come l’assicurazione
contro la disoccupazione estesa a tutto il lavoro dipendente, pur se in verità
ne vengono esclusi oltre ai dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche
amministrazioni, gli operai agricoli a tempo determinato e indeterminato e i
lavoratori extracomunitari con permesso di soggiorno per lavoro stagionale.
La NASpI lusinga con i requisiti
contributivi e lavorativi ammorbiditi, ma la durata dell’erogazione del
sussidio potrà essere al massimo pari alla metà delle settimane contributive
dei 4 anni precedenti (quindi 2 anni), e a regime, dal 2017, non potrà superare
le 78 settimane (un po’ più di 19 mesi). L’importo, parametrizzato al 75% del
salario medio degli ultimi 4 anni (falcidiato dai vari ammortizzatori sociali)
per i primi tre mesi, poi scalerà del 3% ogni mese.
Ma la NASpI
pone per il suo ottenimento la condizione che il rapporto di lavoro si sia
concluso senza contenzioso.
La particolarità più significativa di questa NASpI è dunque l’estensione
della platea di beneficiari e l’introduzione della clausola della risoluzione
senza contenzioso: sono questi i due aspetti che la collegano alla possibilità
di licenziare con indennizzo e all’estensione di questa nuova disciplina anche
ai licenziamenti collettivi.
La NASpI non è solo l’ennesima
arma a disposizione dei capitalisti e degli sfruttatori, i quali minacceranno i
lavoratori di non ricorrere contro il proprio licenziamento perché, a fronte di
un indennizzo misero, perderebbero il sussidio.
Con la NASpI
è la funzione del sindacato come istituzione proletaria ad essere ancora più
compromessa agli occhi dei lavoratori.
La NASpI sottrae all’azione
sindacale i campi sui quali poteva esercitare la sua attività più generale: i
lavoratori saranno costretti ad accettare singolarmente risoluzioni “consensuali”
del rapporto per presentare la loro domanda per accedere alla NASpI.
I lavoratori sindacalizzati si troveranno presto a dover fare i conti,
nonostante tutta la prosopopea e l’arroganza dei capi sindacali, con l’infradiciamento
delle radici del sindacato, che conduce alla sua più rovinosa caduta.
I capitalisti continueranno nello stillicidio dei sussidi insignificanti,
con la volontà di avere a propria disposizione una manodopera assolutamente
indifesa, e quindi in loro completa balia.
Ma non ci si illuda: anche un sistema prolungato di sussidi finisce per
rinviare solo di poco quella condizione di esaurimento, di disperazione in cui
i capitalisti vogliono trascinare i lavoratori per far precipitare le
condizioni del mercato del lavoro.
La classe dei capitalisti ha sempre perseguito con chiarezza uno scopo:
impedire il collegamento tra disoccupati e quelli che non lo sono, cercare che
sul terreno dell’offerta della forza-lavoro si combatta solo una serie di
tenzoni tra il singolo disperato e la fame, privare di forza l’organo
tradizionale della difesa degli interessi dei lavoratori, il sindacato.
Il fenomeno della disoccupazione è strettamente connesso alla crisi del
regime capitalistico, nell’economia capitalista le oscillazioni della
produzione e le crisi continueranno sempre e ad esse corrisponderà un nuovo
fluire di disoccupati.
E’ necessario affermare con insistenza, instancabilmente, che il problema della
disoccupazione non ha soluzione nell’ambito dell’economia capitalista e tale
considerazione deve ispirare l’azione concreta quotidiana sospingendola verso
il suo sbocco logico rivoluzionario.
I capitalisti preparano licenziamenti di massa, nuovi attacchi alle
condizioni di lavoro della classe operaia occupata e disoccupata.
Rinunziare a portare l’azione sul terreno concreto della difesa dell’operaio
disoccupato vorrebbe dire perdere il contatto con la vita operaia per quello
che oggi ne è l’aspetto più espressivo, più tragico, più sentito.
La richiesta di portare il sussidio verso il limite del salario integrale,
a spese dei padroni e dello Stato borghese, deve figurare di buon diritto tra
le parole d’ordine lanciate dal fronte unito sindacale e deve trovare i suoi
sostenitori in tutti gli organismi e le sedi della lotta proletaria, contro
ogni resistenza alla sua diffusione tra le fila dei lavoratori.
L’assistenza ai disoccupati e l’azione in loro difesa è squisitamente
classista, poiché tende a impedire l’isolamento dell’operaio e del salariato,
il suo allontanamento dai compagni che hanno la fortuna di lavorare. Inserire
il diritto alla vita dell’operaio nel bilancio dell’economia borghese significa
portarvi un elemento contraddittorio insanabile, significa lavorare per creare
una situazione rivoluzionaria, poiché nella società capitalista, quando si
inasprisce la lotta di classe, che costituisce la sua base, non vi può essere
nessuna via di mezzo: o la dittatura della borghesia o la dittatura del proletariato.
Inoltre, poiché la disoccupazione colpisce non più i singoli, ma gli stessi
lavoratori organizzati nei sindacati, la ripresa di un’attività generale su
questo terreno porrà i lavoratori di fronte ai risultati più insopportabili
dell’unione dei capi sindacali con la borghesia capitalista.
L’accusa che occorre muovere ai capi sindacali espressione dell’aristocrazia
operaia e della piccola borghesia è di impedire con la forza lo sviluppo dell’iniziativa
sindacale di classe per un’azione di più vasta portata.
Il disoccupato per questi capi riformisti e socialdemocratici non è altro
che l’operaio “povero” che non può pagare le quote al sindacato.
I capi dell’aristocrazia operaia vogliono ridurre il disoccupato all’oggetto
di un’azione di assistenza, di conseguenza impediscono che venga considerato
come soggetto di azione politica sindacale. Il riformismo, con la democrazia
piccolo borghese, vuole ridurlo a materia di provvedimenti legislativi, per
impedirgli di diventare attore, propulsore di un movimento che partecipa alla
lotta per l’affermazione dell’ordinamento socialista che lo liberi dalla sua
triste situazione.
L’unica garanzia che i disoccupati hanno oggi di non cadere in preda ai
capitalisti non è nei sussidi o in questo o quel provvedimento di carattere
particolare, ma nella forza del movimento di massa che svolge la sua azione per
strappare i provvedimenti stessi, quando è la sua forza ad imporli, a
controllarli, a far sentire la sua presenza dietro di essi.
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To:
Sent: Thursday, February 09, 2017 11:35 AM
Subject: STRAGE DI VIAREGGIO, IN DETTAGLIO LE CONDANNE, LE ASSOLUZIONI E IL NEO
DELLA SENTENZA
In un aula gremitissima e silenziosa, alla presenza
dei familiari delle 32 vittime e di moltissimi cittadini, è stato letto il
dispositivo della Sentenza. Fra 90 giorni sarà pubblicato l’intero
provvedimento con le motivazioni.
Il Tribunale di
Lucca, dopo un processo durato oltre sette anni, ha emesso la sentenza sulla
strage di Viareggio del 29 giugno 2009. Nel disastro ferroviario morirono 32
persone a causa delle esplosioni e delle fiamme che avvolsero l’intero
quartiere di via Ponchielli, adiacente alla stazione. La causa fu la rottura di
un asse, il conseguente ribaltamento e la fuoriuscita di circa 30.000 litri di GPL da
una delle 14 cisterne squarciate nell’urto.
LA SENTENZA
In un’aula gremita di
persone all’inverosimile, ma in un silenzio assoluto e quasi irreale, alle 15 in punto il Presidente del
Collegio Gerardo Boragine, ha letto il verdetto che ha condannato 23 imputati
tra 5 e 9 anni, tra loro Mauro Moretti (7 anni), Michele
Elia (7 anni e 6 mesi), Vincenzo Soprano (7 anni e 6 mesi) e Giulio Margarita
(6 anni e 6 mesi) e assolto gli altri dieci. Condannate pure
cinque società per responsabilità amministrative.
CONFERMATA LA SOSTANZA DELLE
ACCUSE
Pur riducendo la
maggior parte delle pene richieste, salvo che per alcuni imputati per i quali
sono state aumentate (e una condanna per un imputato che la procura chiedeva di
assolvere), la Sentenza ha confermato l’impianto accusatorio e l’individuazione
delle responsabilità anche per gli amministratori, sebbene per Mauro Moretti e
Vincenzo Soprano siano stati giudicati non pertinenti alcuni capi d’imputazione.
Dalle scarne righe del dispositivo si rileva che per il primo Il Tribunale ha
ritenuto non sussistente la parte di accusa relativa al suo ruolo alla guida
del Gruppo FS SpA, mentre per il secondo quella relativa alla carica di Presidente
della società FS Logistica SpA. Riconosciuti i risarcimenti per tutte le parti
civili costituite, oltre ai numerosi familiari, le Istituzioni, Comune,
Provincia e Regione, le Associazioni, i sindacati e gli RLS.
MINUZIOSA
DIFFERENZIAZIONE DELLE RESPONSABILITA’
Per la pubblicazione
della Sentenza, completa occorrerà attendere tre mesi e solo allora si potranno
comprendere le motivazioni che hanno guidato il Tribunale nelle scelte ma
appare già evidente una minuziosa e capillare analisi per l’individuazione dei
singoli profili di colpa.
IL NEO DELLA SENTENZA
Un neo della
sentenza, che per questo aspetto mostra una visione miope della realtà e delle
dinamiche in atto nei luoghi di lavoro, lo rileviamo dalla pesante condanna
dell’operaio Uwe Kriebel, l’esecutore
manuale del controllo ad ultrasuoni, ovvero l’ultimo
anello della catena, estraneo a ruoli di comando e di responsabilità. E’ stato condannato a otto anni di
carcere presumibilmente per un errore materiale o una svista nell’esecuzione
delle prove; sostanzialmente al pari di tutti i suoi superiori gerarchici,
amministratori e dirigenti dell’Officina (8, 9 e 9 anni e mezzo), responsabili
delle scelte delle decisioni, dei tempi e degli strumenti utilizzati, nonché
dell’organizzazione dei controlli.
L’OPERAIO E IL
PADRONE, NESSUNA DIFFERENZA
Un operatore può senz’altro
sbagliare ed essere per questo sanzionato, anche penalmente, ma riteniamo
ingiusto non discernere la differenza tra chi può commettere
un errore manuale e chi pur avendone il potere, i mezzi e l’obbligo
giuridico e morale (trattandosi di manutenzioni delicatissime e ad alto impatto
sulla sicurezza) non predispone tutte le misure idonee a “filtrare” e “correggere”
tutti i possibili errori o le imprecisioni in cui l’operatore può incappare.
Una domanda è d’obbligo: se è vero che egli manipolando quel “pezzo” aveva
nelle mani una così grande responsabilità perché non disponeva di strumenti
idonei e tempi adeguati per evitare anche la più remota possibilità di errore?
Oppure dobbiamo pensare che tutta la “sicurezza ferroviaria
europea” è riposta nelle mani callose di un operaio a 1.900 euro al mese e che
deve solo obbedire agli ordini di servizio che gli vengono
imposti? Nel nostro Ordinamento è consolidato il principio (anche di buon senso)
secondo cui l’imprenditore deve prevedere e prevenire in ogni
caso gli effetti degli errori dei lavoratori, conseguenti a
distrazioni imperizia e finanche in caso di negligenza. Tanto più quando si
tratti di lavorazioni da cui possono derivare rischi altissimi.
CONDANNA “INGIUSTAMENTE EGUALITARIA”
Le scala delle profonde
differenze di ruoli gerarchici, di potere, di mansioni e di salario su cui si
regge l’intero sistema economico occidentale, sembra scomparire all’improvviso
di fronte alla legge al momento di graduare le responsabilità e comminare le
pene. L’imposizione dei ritmi di lavoro e di strumenti non adeguati, pongono l’operaio in una condizione di subordinazione gerarchica
e psicologica data dalla natura stessa del rapporto di lavoro dipendente, alla quale dovrebbe corrispondere una proporzionalità delle sanzioni.
Due secoli di lotte politiche e sindacali tra il “padrone e l’operaio” e per
ottenere maggiore uguaglianza e diritti, simbolicamente risolti con due righe
di sentenza: una giustizia “ingiustamente egualitaria”
che abbatte (a scapito del soggetto debole) secoli di differenze sociali e le
caratteristiche intrinseche del sistema capitalista occidentale. Il salario, i
poteri in azienda, le condizioni di lavoro e il prestigio sociale restano
abissalmente diverse ma gli anni di carcere sono
distribuiti “equamente”
tra operaio e amministratore delegato.
ORA IL SISTEMA
FERROVIARIO DEVE CAMBIARE
Questa sentenza ha
messo sotto accusa l’intero sistema ferroviario
internazionale, nelle sue articolazioni industriali e finanziarie e il
condizionamento politico economico operato verso le istituzioni preposte ai
controlli, a partire dall’Agenzia Ferroviaria Europea (ERA).
Sono venute tragicamente alla luce ampie zone grigie di incertezza tecnica e
normativa, divenute intollerabili nel nuovo regime di liberalizzazione che ha
sostituito i controlli “statali”, prima gestiti dalle singole ferrovie
nazionali pubbliche, con scelte di soggetti privati orientate al profitto. Una
giungla ferroviaria sempre più rassomigliante a quella del trasporto
autostradale, con una crescente parcellizzazione degli operatori e la micidiale
rincorsa al risparmio per sostenere una impossibile competizione con il
trasporto su gomma e tra le stesse imprese ferroviarie. Il sistema regolatorio
ferroviario deve essere trasparente e orientato alla massima sicurezza
tecnicamente possibile e non lasciato alle valutazioni “commerciali” delle
imprese (e degli organismi tecnocratici comunitari) sulla compatibilità e convenienza economica dei risarcimenti alle vittime rispetto agli
investimenti in sicurezza.
LA NOSTRA BATTAGLIA PER LA SICUREZZA CONTINUA
In attesa delle
motivazioni della sentenza, è necessaria una vera e propria “campagna d’opinione”, per correggere e modificare le normative europee
sul trasporto di merci pericolose, iniziando dal mettere in discussione l’ERA,
le sue regole e (presumibilmente) i suoi stessi membri. Nessuno
deve dimenticare che quell’organismo tecnocratico, solo 40 giorni prima del 29
giugno 2009, aveva scelto di non rendere obbligatorio il rilevatore di svio
(che avrebbe attenuato gli effetti del deragliamento ed evitato molti altri
incidenti), perché più “costoso” dei risarcimenti per le eventuali vittime
previste per gli anni successivi. Avevano dato un prezzo alle vite
umane, che si sarebbero perse negli anni successivi. Un calcolo
cinico e crudele, rivelatosi oltretutto sbagliato perché dopo solo 40 giorni da
quella decisione, la tragica realtà di Viareggio ha dimostrato che l’ERA non
solo “non ha cuore”, ma neanche le capacità
tecniche di previsione.
A FIANCO AI FAMILIARI
DELLE VITTIME
La sentenza pur
segnando un punto fermo sulle responsabilità, ha lasciato parzialmente
insoddisfatto chi ha perso tra le fiamme una o più persone care. La nostra
rivista proseguirà nell’impegno profuso fino a oggi per sostenere i familiari,
i cittadini di Viareggio ed i ferrovieri organizzati nell’Assemblea 29 giugno. Saremo al loro fianco, come
ferrovieri, nel proseguimento di questa battaglia offrendo tutto il sostegno
possibile. La partecipazione costante, qualificata e consapevole dei familiari,
non soltanto a tutte le fasi del processo ma soprattutto alla mobilitazione
permanente per la divulgazione delle conoscenze tecniche e il coinvolgimento
dell’opinione pubblica e delle Istituzioni, ha dimostrato a tutti quanto sia
importante l’impegno civile e sociale ai fini del miglioramento delle
condizioni di sicurezza del trasporto ferroviario, che non dimentichiamolo mai,
vuol dire sicurezza per tutti.
Il Dispositivo della Sentenza è scaricabile al link:
Le condanne nel dettaglio sono riportate al link:
Ancora IN MARCIA !
Giornale di
cultura, tecnica e informazione politico sindacale, dal 1908.
Partecipa,
sostieni, scrivi e contribuisci al dibattito e alle iniziative di “Ancora IN
MARCIA !”, abbonandoti alla rivista autogestita dai lavoratori dal 1908.
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From: Carlo
Soricelli carlo.soricelli@gmail.com
To:
Sent: Friday,
February 10, 2017 10:44 AM
Subject: FINALMENTE
TANTI MORTI SUL LAVORO RESUSCITANO (ALMENO PER LE STATISTICHE)
Si, come
curatore dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro sono
contento, dopo questa grande inchiesta di Repubblica sui morti che spariscono
dalle statistiche. Finalmente tutti sono stati costretti a prendere posizione.
La
sparizione di tanti morti sul lavoro l’avevo vista già al primo anno di
monitoraggio delle vittime, era il 2009, avevo già raccolto in appositi file i
morti del 2008, quando vennero fuori quelli dell’INAIL per quell’anno mi
accorsi di questa anomalia. Come mai i morti che avevo registrato io erano
molti di più? E da allora che cominciai a domandare a destra e manca delle
ragioni di questa differenza. Ma nessuno mi ascoltava. Del resto ero solo un
metalmeccanico che si era messo in testa di far comprendere le dimensioni del
fenomeno in tempo reale agli italiani. Avevo nomi e cognomi delle vittime, mica
erano fantasmi.
Prima le
notizie più recenti del fenomeno avevano sei mesi o addirittura un anno. Ma
questa discrepanza tra le statistiche che facevo io con l’aiuto dei miei figli
e di qualche amico come Marco Bazzoni, anche lui metalmeccanico, addetto alla
Sicurezza, che avevo conosciuto fin da subito per il suo costante impegno
contro questo fenomeno degli infortuni anche mortali erano enormi, erano
centinaia i morti che “sparivano”.
Anche un
grande giornalista come Santo della Volpe s’interessava costantemente del
fenomeno. Rimasi stupito quando vidi su Facebook la sua richiesta d’amicizia,
avemmo numerosi contatti, venne anche a intervistarmi a casa mia. Ma anche lui,
non riusciva a rompere quel muro d’indifferenza, di menefreghismo e di omertà
che c’era sul fenomeno morti sul lavoro. Come mai i morti sui luoghi di lavoro dell’Osservatorio
erano molti di più?
Guai a chi
tocca la stampa e le televisioni e vuole intimorire i giornalisti. Si sono
interessati del fenomeno tantissimi giornali, direi quasi tutti, pur sapendo
come la pensavo e quel che scrivevo. Anche le televisioni pubbliche di tutti e
tre i canali facevano ottimi servizi denunciando la differenza sul numero
complessivo delle morti sul lavoro. Mentre le televisioni commerciali mai si
sono occupate, se non in modo occasionale del fenomeno. Il TG3 per esempio ha
fatto una campagna durata mesi su queste tragedie.
Ma niente la
politica non ci sentiva. Mail tutti i mesi ai principali partiti e protagonisti
della politica, li mettevo al corrente della situazione che denunciavo con l’Osservatorio,
ma verso la vita di chi lavoro e delle denunce di un fenomeno che doveva far
rizzare i capelli in testa niente.
Anche i
sindacati avevano lo stesso atteggiamento della politica. La stessa
indifferenza. Anche alla Camusso ho scritto diverse volte, con mail alla sua
segreteria. Ma mai un interessamento. Del resto ho mandato mail alla segretaria
Cantone dello stesso SPI CGIL a cui sono iscritto facendo le stesse denunce. La
stessa indifferenza, probabilmente le loro segreterie neppure le informavano
delle mail (almeno lo spero). Poi quando ieri ho letto che la segretaria della
CISL Furlan parlava di un “pugno nello stomaco” dopo aver appreso dall’articolo
di Repubblica della sparizione di tanti morti sul lavoro dalle statistiche,
sono rimasto basito. Eppure i contatti con tanti funzionari di questo sindacato
ci sono stati. Com’è possibile che non comunichino tra di loro su fenomeni che
a un sindacato avrebbe dovuto avere tra le priorità?
Insomma un
cittadino che attraverso un lavoro volontario vuole dare un contributo per
problemi del Paese non conta niente. Ma una cosa ho sentito come gravissima; la
grande lontananza che c’è tra le Istituzioni, di qualsiasi tipo al resto dei
cittadini. Una superiorità che si manifesta con l’indifferenza, con l’ostracismo,
con l’ironia, con la difesa della loro “superiorità”.
Di questo si
dovrebbe occupare il Presidente Mattarella “della distanza tra cittadini e
istituzioni” che sta diventando patologica. Mi ha colpito molto recentemente la
mia cancellazione tra gli amici di Facebook di un sindacalista che occupa un
posto di primo piano sulla Sicurezza, di cui per carità di patria non faccio il
nome. Conosceva i miei dati da anni, spesso condivideva quello che scrivevo,
poi lo vedo in televisione a un incontro con giornalisti, esponenti governativi
e di quella che era la sua naturale controparte. Praticamente dava ragione agli
altri su quasi tutto. Anche che i morti sul lavoro calavano, quando invece dal
2008 sui luoghi di lavoro non sono mai calati e lui lo sapeva bene. Davvero un
colpo allo stomaco. Ovviamente gli ho scritto quello che pensavo, e lui invece
di rispondere in merito, mi ha cancellato dagli amici. Mi risulta che anche con
altri abbia fatto così. Lesa maestà anche dei sindacalisti? Insomma un ottimo
rappresentante del sindacato che rinuncia al suo ruolo.
Ho accolto
con molta soddisfazione la notizia del Disegno di Legge “sull’omicidio sul
lavoro” che ha come prima firma, non a caso un altro metalmeccanico, il
Senatore Barozzino, Finalmente la politica s’interesserà concretamente del
fenomeno? Rinuncerà a fare leggi per diminuire ulteriormente la sicurezza sui
luoghi di lavoro come hanno fatto in questi anni? Ricomincerà a considerare la
vita di chi lavora come tra le cose più importanti che deve tutelare?
Considererà i voucher, il precariato (che fa suicidare i giovani), il lavoro
nero, e leggi come il Jobs Act come violenze contro i lavoratori? Ho forti
dubbi per il semplice fatto che in parlamento sono pochissimi gli eletti che
vengono dal lavoro dipendente. Sarà un Parlamento veramente democratico quando
ci saranno in queste Istituzioni anche la rappresentanza equa di venticinque
milioni di lavoratori dipendenti.
Ma noi metalmeccanici,
anche se in pensione abbiamo la testa dura. Questa sarà la prossima battaglia,
sarà lunga, sarà dura. Ma sarà restituita la rappresentatività politica e
parlamentare al mondo del lavoro.
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