mercoledì 20 luglio 2016

20 luglio - Da M. Spezia: SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! “LETTERE DAL FRONTE” DEL 20/07/16



INDICE

Rete Nazionale Sicurezza luoghi di lavoro e territori bastamortesullavoro@gmail.com
STRAGE FERROVIARIA: STATO, GOVERNI, AZIENDE SONO I RESPONSABILI!

Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com
IN BANGLADESH CI SONO MOLTI MODI PER MORIRE

Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com
DISASTRO FERROVIARIO IN PUGLIA

Proletari Comunisti pcro.red@gmail.com
SULLA STRAGE FERROVIARIA DI CORATO: COMUNICATO DEI LAVORATORI DELLA CUB TRASPORTI

CITTA’ METROPOLITANA AUTORIZZA LA NUOVA EURECO

LA STRAGE FERROVIARIA DI RUVO DI PUGLIA E’ GUERRA DI STERMINIO NON DICHIARATA


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From: Rete Nazionale Sicurezza luoghi di lavoro e territori bastamortesullavoro@gmail.com
To:
Sent: Wednesday, July 13, 2016 7:11 PM
Subject: STRAGE FERROVIARIA: STATO, GOVERNI, AZIENDE SONO I RESPONSABILI!

Esprimiamo il nostro profondo dolore per la morte di 27 vite di giovani, lavoratori nella strage avvenuta ieri tra Andria e Corato; ci stringiamo ai loro familiari. Speriamo fortemente che ai 27 non si aggiungano altri morti e che i feriti tutti possano guarire al più presto.
Queste morti pesano come macigni, perchè queste vite non dovevano essere stroncate!
Questi 27 giovani, lavoratori sono stati UCCISI!
Respingiamo con rabbia e con sdegno gli “arrivi lampo” ipocriti di Del Rio, di Renzi, delle varie autorità.
I RESPONSABILI DI QUESTA STRAGE, L’ENNESIMA, HANNO PRECISI NOMI E COGNOMI ANCHE QUESTA VOLTA, SONO GLI STESSI E PER LE STESSE RAGIONI.
Ci sono le Ferrovie, i treni di serie A, in cui vi sono sistemi tecnici avanzati di controllo, e ci sono le ferrovie, le tratte, i treni di serie B in cui vi sono i tagli sulla manutenzione, sui controlli, sul personale ferroviario, in cui vengono tagliati fondi o non vengono messi proprio per ammodernare i sistemi di controllo e sicurezza, per raddoppiare i binari; la serie B che viene lasciata ai famelici profitti delle aziende private, che chiaramente non hanno alcun interesse a spendere soldi per la sicurezza.
Nella serie B ci viaggiano soprattutto pendolari, studenti, famiglie di lavoratori. Come non chiamarla quindi questa strage, anche “strage di classe”?!
Quel tratto di ferrovia non è nemmeno automatizzato, siamo alle comunicazioni telefoniche, il cosiddetto “blocco telefonico” in cui una stazione avverte l’altra del convoglio in movimento.
Ma sono decine e decine di stazioni al sud, ma anche al nord, che sono in queste condizioni, è su migliaia di kilometri (3.700) che si viaggia a binario unico!
Che viene a dire il maledetto Renzi: “Bisogna fare chiarezza al più presto”... E’ da anni che purtroppo è chiarissima questa situazione, la cui soluzione come non era in testa dei programmi dei ministri e governi precedenti non lo è neanche in questo.
Mattarella dice: “Occorre accertare subito e con precisione responsabilità ed eventuali carenze”. Eventuali carenze?! Ma questi morti sono il risultato di un barbaro calcolo politico-economico: miliardi vengono messi per la maledetta TAV che distrugge territori, che passa appunto come un “treno” sui diritti e le volontà delle popolazioni; mentre non vengono messi neanche poche decine di milioni per ammodernare, rendere sicuri i treni pendolari, rinviando pure di anni in anni il potenziamento delle tratte di questi treni (per la tratta Andria-Corato il potenziamento era stato inserito nella programmazione dei Fondo Europeo di Sviluppo Regionale nel 2007 per un importo di poco più di 31 milioni, ma solo ad aprile 2016, dopo ben 8 anni, era stato messo a gara).
E’ indecente dover sentire, in questo grande dolore, scempio di corpi, una Boschi dire: “Il governo non farà sconti a nessuno”. Come se le responsabilità fossero sempre degli altri (sicuramente, alla fine, saranno del macchinista che si è per fortuna salvato, o di qualche povero suo collega che non ha avvisato...). Sono loro, i governanti, i ministri, che non dovrebbero avere sconti!
Ma non poteva mancare “la voce del padrone”. Il presidente della Confindustria, Boccia ha parlato come se la colpa fosse astrattamente del ritardo del “Mezzogiorno che deve collegarsi al mondo”; facendo finta di non sapere che dietro questa situazione delle Ferrovie al sud ci sono sporchi profitti di di padroni, di aziende private, che hanno, dallo stesso Stato che fa i treni superlusso, in concessione delle tratte e che non spendono certo i soldi per ammodernare i sistemi di controllo e di sicurezza.
Il Sole 24 Ore riporta che “...sono ben 34 le aziende ferroviarie, a partecipazione sia pubblica che privata, sparse in tutto il paese. Questi soggetti scontano, in qualche caso, un deficit di investimenti... Insomma, esiste un universo intero che si colloca fuori dai circa 16.700 kilometri della rete di RFI. Si tratta delle cosiddette ferrovie ex concesse, la cui costruzione ed esercizio è stata affidata nel tempo dallo Stato a operatori privati. Negli anni, questi soggetti sono transitati nella sfera di competenza di Regioni e Province autonome, che stipulano con loro contratti di servizio... In totale, sono circa 3.700 kilometri, spalmati da Nord a Sud, in cui si incontrano 2.736 passaggi a livello (metà della rete nazionale) e c’è un traffico di circa 34 milioni di treni-chilometri all’anno (un decimo di tutta la rete nazionale). Complessivamente, stiamo parlando di una ventina di gruppi che controllano 34 società a livello locale. Si va da Ferrovie Nord in Lombardia fino a una pluralità di soggetti presenti proprio in Puglia, nello specifico Ferrovie del Gargano, Ferrotramviaria, Ferrovie del Sud Est e Ferrovie Appulo Lucane”.
La Ferrotramviaria che gestiva la tratta in cui vi è stata la strage è emblematica. Veniamo a sapere (sempre dal Sole 24 Ore) che è gestita da una famiglia, Pasquini, con personaggi con problemi giudiziari, con un “vasto giro di trasferimenti di capitali in nero tra l’Italia e vari paradisi fiscali”, e che nel 2015 ha raccolto utili per 4,7 milioni, con un margine operativo lordo del 15% sui ricavi.
E OCCORRE ANCORA “FARE CHIAREZZA”?
MALEDETTI!

13 luglio 2016
Coordinamento nazionale Slai Cobas per il sindacato di classe
cellulare: 347 53 01 704

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From: Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com
To:
Sent: Wednesday, July 13, 2016 11:27 PM
Subject: IN BANGLADESH CI SONO MOLTI MODI PER MORIRE

Si muore da operaia, nell’incendio di una fabbrica o sotto le sue macerie.
Si muore in un corteo, uccisi dalla polizia mentre si chiedono diritti e salario.
Si muore da sindacalista, buttato in un fosso con le ossa spezzate.
Non solo in un ristorante, massacrati da un commando.
C’è un dato che emerge fra le righe delle cronache della strage al Holey Artisan Bakery di Dacca. Un dato che accomuna i mestieri di tutte le nove vittime italiane: il lavoro nel settore dell’abbigliamento come imprenditori, manager, buyer, supervisore, addetta al controllo qualità. E’ bizzarro ritrovare in Bangladesh una tale concentrazione di figure professionali che (se escludiamo i distretti dell’immigrazione imprenditoriale cinese) qua in Italia sembravano avviate all’estinzione.
Secondo l’ISTAT il comparto qui da noi si è ridotto da un milione e centomila occupati nel 1980 a poco più di quattrocentomila nel 2015. Deve trattarsi di uno strano fenomeno, visto che, a detta dell’ICE (Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane), ancor oggi l’Italia è il terzo esportatore mondiale di tessili-abbigliamento dopo Cina e Germania.
Evidentemente qualcosa non torna. Chi lo produce tutto questo “made in Italy”?
C’entrano, per caso, quei 2,5 miliardi di euro di articoli d’abbigliamento importati dalla Cina nel 2015, o quei 952 milioni importati dal Bangladesh, o quei 684 milioni importati dalla Romania?
All’inizio degli anni ‘90 il tessile italiano comincia a spostare all’estero le sue reti di subfornitura. Approfitta del via libera della Comunità Europea al “traffico di perfezionamento”, un regime doganale che consente di esportare materie prime e reimportare prodotti finiti in compensazione, senza oneri tariffari. Sono gli anni in cui i cambi di regime oltre Adriatico aprono possibilità insperate di delocalizzazione, alla portata anche delle medie imprese.
Da allora gli scantinati del Salento o del Nord Est, dove le fabbrichette clandestine tagliano e cuciono per i grandi marchi, iniziano a svuotarsi.
Gradualmente si spostano anche i capannoni delle lavorazioni industriali. Marzotto trasferisce gli impianti dell’ex Lanerossi in Slovacchia e Lituania. Trasferisce le lavorazioni più nocive, come quelle della Marlane, delocalizzata a Brno dopo essersi lasciata dietro 107 operai morti e malati, oltre alle tonnellate di scorie tossiche seppellite sotto lo stabilimento di Praia a Mare. Stefanel e Diesel si spostano a Timisoara, e così via, fino ai giorni nostri, con la OMSA/Golden Lady delocalizzata in Serbia.
Nel 1995 l’annuncio della fine dell’Accordo Multifibre, che limitava le quantità di tessili esportabili dai paesi in via di sviluppo, apre definitivamente la strada dell’Asia. Anche i grandi marchi come Valentino, IT Holding, La Perla, Armani, Mariella Burani, Laura Biagiotti, Roberto Cavalli, cominciano a non disdegnare la produzione di seconde linee o del denim (il tessuto dei jeans) in Cina, India, Turchia, Indonesia, accanto all’Egitto e Repubblica Ceca. Per non parlare di Benetton, che dell’internazionalizzazione ha fatto sistema.
Il fenomeno è accompagnato dalla consueta retorica: “in Italia ci sono i lacci e i laccioli”, “la produzione in patria non è più competitiva”, “la delocalizzazione innalzerà i livelli di professionalità del personale italiano, perché resteranno in Italia le funzioni alte del fashion”, eccetera, eccetera.
Produrre all’estero e fare profitti in patria”, uno studio dal titolo schietto redatto dal Dipartimento di Scienze Economiche della Ca’ Foscari, spiega la faccenda con meno ipocrisie: su 1.000 euro di fatturato, il profitto lordo di un’impresa italiana che produce abbigliamento in patria è di 150 euro. Se produce in Romania diventa 400 euro. Insomma, non è che il profitto in Italia non ci sia, è che ai padroni non basta.
E se possono guadagnare quasi il triplo in Romania, dove il costo del lavoro è un decimo del nostro, figuriamoci in Bangladesh, il paese dove i salari degli operai tessili sono fra i più bassi del mondo. O meglio, delle operaie, visto che l’80% della forza lavoro del settore è femminile.
La retorica del “aiutiamoli a casa loro” insiste sul fatto che quei salari sono commisurati agli standard di quei paesi. Peccato che non siano commisurati alla soglia di sussistenza, che in Bangladesh si aggira attorno ai 260 euro al mese.
I salari al sotto del minimo vitale sono la prima violenza. Costringono a sottomettersi a livelli disumani di straordinario per poter arrotondare la paga. Gli orari lunghissimi pesano sulla salute delle operaie, impediscono di trovare il tempo per riposarsi a sufficienza o per alfabetizzarsi.
Il reddito familiare non permette un’abitazione decente, cibo e cure sufficienti.
Non ci sono soldi per mandare i figli a scuola. Con gli adulti sequestrati al lavoro, i bambini restano semiabbandonati, oppure vengono messi in produzione, per permettere alla famiglia di sopravvivere.
La seconda violenza sono le condizioni di nocività e insicurezza.
Una caratteristica dei processi di delocalizzazione è quella di trasferire all’estero le lavorazioni più nocive per aggirare le patrie restrizioni in materia di ambiente e sicurezza del lavoro.
È così che la sabbiatura (sandblasting), il processo per l’invecchiamento artificiale dei jeans, ha preso la strada dell’Asia, concentrandosi inizialmente in Turchia.
Le modalità di lavoro, attuate in assenza delle più basilari misure di protezione, hanno provocato ben presto in quel paese il dilagare di patologia polmonari (silicosi, tubercolosi, tumori) fra i lavoratori dell’abbigliamento. Nel 2009, le organizzazioni operaie turche e le campagne di denuncia internazionale hanno ottenuto il bando dalla Turchia dell’uso della silice nei processi di sandblasting e così... la lavorazione è stata delocalizzata altrove, in Cina, Bangladesh, India, Pakistan e Nord Africa.
Si stima che circa la metà delle 200.000 paia di jeans esportate dal Bangladesh nel 2012 sia stato sottoposta a processi di sabbiatura.
Nello stesso anno, la Clean Clothes Campaign ha condotto un’indagine sul sandblasting in Bangladesh. Ne è emersa la storia di Abdul, 32 anni, che dopo due di sabbiatura ha cominciato a sentire male al petto, febbre e debolezza, ma non riesce a pagarsi le analisi. Abdul, che ha chiesto invano ai suoi capi che gli cambiassero reparto, perchè tossisce e sputa sabbia.
E poi c’è la storia di Rasheed, 24 anni di vita di cui due di sabbiatura. Rasheed con i polmoni dolenti, pieni di muco. Rasheed che sputa sangue, ma non può permettersi le cure.
Mohammad, sabbiatore venticinquenne, invece si è indebitato per pagare esami medici e farmaci che non servono a niente. Sono costati 1.600 taka, e il suo stipendio era 3.400 tk (32 euro). La fabbrica non glieli rimborsa. Mohammad usa due maschere quando lavora, una sopra l’altra, ma non bastano. A fine turno, dice, tossisce palle di sabbia.
I lavoratori intervistati hanno riconosciuto, sui capi da sabbiare, le etichette delle statunitensi Levi’s, Lee ed Esprit, della svedese H&M, della danese C&A, della spagnola Zara, e delle nostrane Diesel e Dolce & Gabbana.
Negli ultimi 20 anni le esportazioni bengalesi di abbigliamento hanno subito una crescita esponenziale.
Per approfittarne al massimo gli imprenditori locali del settore hanno trasformato in fabbriche molti edifici costruiti per altri scopi. Le imprese hanno innalzato piani supplementari o aumentato la forza lavoro e le macchine oltre la capacità di sicurezza delle strutture.
Questo completo disinteresse verso questioni quali l’adeguatezza delle vie di fuga, la stabilità degli edifici, la sicurezza degli impianti elettrici, ha provocato migliaia di morti e feriti, in un crescendo di incendi e di crolli (i dettagli in appendice) che si sono susseguiti fino al collasso del Rana Plaza, il più grande disastro della storia mondiale dell’industria dell’abbigliamento.
Sotto le macerie del Rana Plaza morirono, il 24 aprile 2013, 1.132 persone (più di 2.000 i feriti), prevalentemente operaie che producevano per una varietà di marchi americani ed europei, fra i quali i nostri Benetton, YesZee, Manifattura Corona e Pellegrini.
Ma se la modernità del capitalismo globale sembra riportare le condizioni di lavoro indietro di un secolo, ai tempi del Triangle Fire, i lavoratori bengalesi non si sono lasciati fare tutto questo senza reagire.
APPENDICE
25 febbraio 2005
Crollo del Phoenix Building nella zona industriale di Tejgaon, Dacca. Il Phoenix Building ospitava varie fabbriche di abbigliamento per l’esportazione, fra cui la Phoenix Garments. Entrambi, Phoenix Building e Phoenix Garments, appartenevano allo stesso proprietario. Nell’edificio era in corso una ristrutturazione per convertire i piani superiori in un ospedale privato. Il crollo ha coinvolto 150 lavoratori edili ed un numero imprecisato di lavoratori tessili.
25 febbraio 2005
Esplode un trasformatore al Gruppo Industriale Imam di Chittagong: 57 lavoratori dell’abbigliamento rimangono feriti.
11 aprile 2005
Crollo della Spectrum: 64 morti, almeno 74 feriti, tra cui diversi lavoratori con invalidità permanenti. La fabbrica, costruita su un terreno paludosi di Savar, a 30 km da Dacca, è crollata sugli operai del turno di notte.
Nei giorni precedenti gli operai avevano segnalato le crepe nei muri. Gli era stato detto di tenere la bocca chiusa e tornare al lavoro. La Spectrum operava in violazione del permesso di costruzione dell’edificio, non rispettava le norme sui minimi salariali e sul giorno libero.
Committenti della Spectrum: Inditex (Spagna), Carrefour, Solo Invest, CMT Windfield (Francia), Cotton Group (Belgio), KarstadtQuelle, New Yorker, Bluhmod (Germania), Scapino (Paesi Bassi), e New Wave Group (Svezia).
23 febbraio 2006
Incendio alla KTS Textile Industries di Chittagong: 61 morti (fra cui tre ragazze di 12, 13 e 14 anni), circa 100 feriti. Al momento dell’incendio, causato da un corto circuito, c’erano dalle 400 alle 500 persone in fabbrica. Il cancello principale era stato bloccato per “impedire furti”. Non c’era nessuna attrezzatura antincendio, né erano mai state fatte esercitazioni.
Della KTS si ricordano anche gli straordinari forzati, sette giorni a settimana di lavoro, il pagamento al di sotto del salario minimo, la negazione dei diritti di maternità previsti dalla legge, la violenza fisica contro i lavoratori, la negazione della libertà di associazione e del diritto di contrattazione collettiva.
Committenti della KTS: Uni Hosiery, Mermain International, ATT Enterprise, VIDA Enterprise, Leslee Scott Inc, Ambiance, Andrew Scott.
25 febbraio 2006
Esplosione all’Imam Group, Chittagong: 57 feriti.
In seguito all’esplosione di un trasformatore i lavoratori si sono precipitati verso le uscite: decine sono stati feriti cercando di uscire dalle porte troppo strette.
Committenti dell’Imam Group: i giganti USA Kmart e Folsom Corporation.
6 marzo 2006
Incendio alla Fashions Sayem, Gazipur: 3 morti, circa 50 feriti.
Scoppia un incendio provocato da un corto circuito presso l’edificio che ospita la Sayem Fashions, la SK Sweater e la Radiance Sweater, a 35 chilometri da Dacca. Le uscite di sicurezza sono ostruite dagli scatoloni in deposito. Le organizzazioni sindacali riferiscono altre violazioni dei diritti dei lavoratori: settimana di sette giorni, lunghi orari di lavoro.
Committenti: Inditex, Charles F. Berg, Wet, Ada Gatti, Bershka Company, BSK Garments, X-Mail, Kreisy, Persival (non confermato).
25 febbraio 2010
Incendio alla Garib and Garib: 21 morti, circa 50 feriti.
Alle 21:30 il fuoco, apparentemente causato da un corto circuito, ha attaccato il primo dei sette piani del palazzo diffondendosi rapidamente sui materiali tessili.
Non c’erano attrezzature antincendio, o erano inappropriate. La scarsa ventilazione ha impedito il defluire del denso fumo nero, e molti son morti soffocati. Anche questa volta la porta d’ingresso era chiusa a chiave e le uscite di sicurezza erano bloccate. Le sbarre alle finestre hanno reso più difficili i soccorsi. La ditta aveva subito altri due incendi, il primo nel 2009 aveva causato due morti, un altro nel 2010 solo feriti.
Committenti della Garib and Garib: H&M, Otto, Teddy (brand Terranova), El Corte Ingles, Ulla Popken, Taha Group (brand LC Waikiki), Provera e Mark’s Work Wearhouse.
14 dicembre 2010
Incendio al That’s It Sportswear (Hameem Group): 29 morti, 11 feriti gravi, numerose ferite lievi.
L’incendio, scoppiato in un edificio moderno, è stato causato da un corto circuito. E’ iniziato al nono piano, rendendo i vigili del fuoco impotenti perché le loro scale non potevano andare oltre il quinto, e gli elicotteri non riuscivano ad atterrare perché il tetto era stato illegalmente trasformato in una mensa. Molti operai sono morti lanciandosi dalle finestre. Non erano mai state fatte esercitazioni antincendio, le uscite erano bloccate e il luogo di lavoro non era adeguatamente sorvegliato.
Inoltre, ai lavoratori era stata negata la libertà di associazione, che avrebbe permesso loro di svolgere un ruolo per affrontare alcune di queste violazioni in anticipo sulla tragedia.
Committenti della That’s It SportswearGap, PVH Corp., VFCorporation, Target, JC Penney, Carter (Oshkosh), Abercrombie and Fitch, Kohl.
3 dicembre 2011
Scoppio di una caldaia alla Eurotex (Continental): 2 morti, 64 feriti.
Esplode una caldaia alla Eurotex, nella città vecchia di Dacca. Si diffonde la voce di un incendio e fra i lavoratori scoppia il panico. Le scale sono sovraffollate e la pressione fa crollare una ringhiera, molta gente cade. Un operaio riferisce che in un primo momento i cancelli erano aperti, ma poi sono stati chiusi da un direttore di fabbrica, che ha invitato la gente a tornare al lavoro dicendo che non era successo niente. Questo testimone sostiene che i morti e i feriti sono stati causati quando i lavoratori hanno iniziato a correre su per le scale spingendosi contro chi tentava di uscire. Jesmin Akter, 20 anni, e Taslima Akter, 22, muoiono calpestate nella calca. Numerosi clienti stranieri avevano già individuato problemi di sicurezza e rischi in fabbrica. Venti giorni dopo lo scoppio della caldaia alla Eurotex, precipita un ascensore presso la Continental, la casa madre, uccidendo un altro lavoratore e ferendone due.
Committenti della Eurotex: Tommy Hilfiger (di proprietà della statunitense PVH Corp.), Zara (di proprietà della spagnola Inditex), Gap (US), Kappahl (Svezia), C & A (Belgio) e Groupe Dynamite Boutique Inc (Canada) – direttamente o tramite subappalto.
24 novembre 2012
Incendio alla Tazreen Fashions: 112 morti.
L’incendio ha origine nei magazzini di stoccaggio dei tessuti e dei filati al piano terra. Parte l’allarme antincendio, ma i capetti dicono agli operai che non sta succedendo niente.
Gli operai dei piani superiori capiscono presto che l’accesso all’uscita del piano terra è impedito dal fuoco. Il fumo riempie tutti i livelli superiori. I soccorsi vengono chiamati mezz’ora dopo l’inizio dell’incendio. Quando arrivano, le fiamme sono già al quinto piano. La gente muore lanciandosi dal sesto. Anche questa volta le porte dei piani risultano bloccate. La maggior parte delle vittime sono donne, per 53 di loro non è stata possibile l’identificazione.
Committenti della Tazreen Fashions: C&A, Kik, Walmart, Li&Fung, Enyce, Edinborough Woollen Mills, Disney, Dickies and Sears/Kmart
24 aprile 2013
Crollo del Rana Plaza: 1.132 morti, più di 2.000 feriti.
Il Rana Plaza di Savar (Dacca) era un edificio di otto piani. Nella struttura operavano, oltre a diversi negozi e una banca, cinque fabbriche di abbigliamento con circa 5.000 dipendenti.
Progettato inizialmente per ospitare solo uffici e negozi, l’edificio era stato sopraelevato abusivamente di quattro piani per far posto alle fabbriche. Al momento del collasso era in costruzione il nono piano.
Il giorno prima del crollo erano apparse delle crepe nei muri del palazzo. I negozi e la banca avevano provveduto all’evacuazione, ma le operaie delle fabbriche erano state costrette a tornare al lavoro, sotto la minaccia di perdere l’intero salario del mese.
Sotto le macerie sono rimasti non solo i corpi delle vittime, ma anche le etichette e i documenti di spedizione che identificavano i clienti delle fabbriche. Altri clienti vennero rintracciati grazie ai siti internet dei fornitori. Risultavano le statunitensi Walmart, Cato Fashion, Children’s Place, Lee Cooper/Iconix, JC Penney, Dress Bam; le tedesche Adler Modemarkt, Kik, Kids for Fashion, C&A, NKD, Gueldenpfenning; le francesi Carrefour, Auchan, Camaieu; le britanniche Bon Marche, Matalan, Premier Clothing, Primark, Store 21; le spagnole El Corte Ingles, Mango, Lefties/Inditex, le danesi Texman e Mascot, la canadese Loblaws e la polacca Cropp/LPP oltre alle italiane Benetton, YesZee, Manifattura Corona e Pellegrini.

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From: Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com
To:
Sent: Thursday, July 14, 2016 8:05 AM
Subject: DISASTRO FERROVIARIO IN PUGLIA

Il 13 luglio avevo scritto: Tanto daranno la colpa ai macchinisti o ai capistazione.
Come volevasi dimostrare:
Alessandra

SCONTRO FRA TRENI, PRIMI INDAGATI PER DISASTRO E OMICIDIO COLPOSO
Le informazioni di garanzia saranno notificate ai due capistazione di Andria e Corato (sospesi dal servizio da Ferrotramviaria) e al responsabile movimento della stazione di Andria.
Quel treno non doveva partire dalla stazione di Andria. La Procura di Trani mette il primo tassello nell’indagine sulla strage nelle campagne pugliesi e iscrive alcuni nominativi nel registro degli indagati. Il fascicolo aperto con le ipotesi di reato di disastro ferroviario colposo e omicidio colposo plurimo punta dunque al personale di Ferrotramviaria che era in servizio nelle stazioni di Andria e Corato al momento dell’incidente: i due capistazione, innanzitutto, più il responsabile movimento della stazione di Andria. Le informazioni di garanzia saranno notificate in occasione delle autopsie sui corpi delle 23 vittime.
I primi accertamenti se non hanno ancora consentito di ricostruire con esattezza la dinamica dell’incidente, hanno però permesso di avere alcuni punti fermi. Primo tra tutti il segnale di partenza dato al treno fermo ad Andria: quel convoglio si è mosso quando non doveva, con l’ok del capostazione e il semaforo verde di via libera. Cosa è accaduto? C’è stato soltanto un errore umano, ipotesi prevalente tra gli inquirenti, o anche un guasto tecnico che ha azionato il semaforo?
Prima di iscrivere i nominativi dei dipendenti di Ferrotramviaria, il procuratore Francesco Giannella ha costituito un pool di quattro magistrati che assieme a lui indagherà in ogni direzione. “Dobbiamo scandagliare ogni possibilità” - ha spiegato il Pubblico Ministero - “anche per non fare l’errore di fermarci a quello che è accaduto”.
La linea è chiara, dunque, ipotizza tre livelli d’indagine: da un lato si procederà a individuare le singole responsabilità nella catena di controllo che ha autorizzato il treno a lasciare la stazione di Andria, dall’altro si prenderanno in considerazione la sicurezza dei controlli da parte degli enti e la questione del raddoppio della linea, la sua messa in sicurezza e l’utilizzo dei fondi per arrivare all’individuazione di altri soggetti che potrebbero avere ruoli tutt’altro che marginali.
Come sono stati usati i fondi europei stanziati per il raddoppio della linea Bari-Barletta? Perché i lavori hanno accumulato così tanto ritardo? E ancora: i sistemi di sicurezza sono adeguati rispetto alla normativa in vigore? Già in passato si erano verificate delle criticità che dovevano far scattare l’allarme e che non sono state segnalate? Tutte domande che richiedono una risposta chiara, perché non è pensabile che le responsabilità di un simile disastro possano essere addebitate soltanto a un errore umano.
La decisione di procedere fin da subito su più fronti ha fatto sì che ogni magistrato si occuperà di un aspetto dell’inchiesta. Ed è ovvio che i primi accertamenti riguarderanno proprio le responsabilità dei capistazione V.P e A.P e gli eventuali loro collaboratori per accertare chi ha sbagliato nel dare il segnale di partenza. Senza dimenticare che la catena di controllo prevede un ruolo attivo anche per i capitreno a bordo dei convogli: uno dei due, Albino Di Nicolo, è però morto nello schianto; l’altro è ricoverato in ospedale.
E’ questo il motivo per cui gli investigatori della Polfer, dopo aver recuperato le scatole nere, hanno proceduto a sequestrare una serie di documenti che serviranno proprio a chiarire i ruoli di ciascuno: i brogliacci di movimento dei treni, le immagini delle telecamere delle stazioni di Andria e Corato e del sistema di videosorveglianza installato su almeno uno dei due convogli, le conversazioni telefoniche tra i due capistazione, trascritte in un fonogramma.
Proprio dalla visione delle immagini delle stazioni, gli investigatori avrebbero già potuto accertare due elementi importanti. Dopo la partenza del treno da Andria non si sono registrate scene di disperazione o attività particolari: significa che nessuno dei due capistazione si è accordo di aver commesso un errore. Inoltre, il macchinista del treno proveniente da Andria non poteva far altro che partire: oltre all’OK del capostazione aveva anche il segnale di via libera sulla linea.
Gli investigatori hanno inoltre verificato che erano due i treni delle Ferrovie del Nord Barese provenienti da Corato e diretti verso nord e che uno di questi viaggiava in ritardo: potrebbe essere stata questa la circostanza che avrebbe indotto il capostazione di Andria a dare il via libera al treno. Un errore che nessuno nega. “Il treno che è partito per secondo” - dice il procuratore Giannella - “non doveva partire”. “L’unica stazione di incrocio è quella di Andria” - aggiunte il direttore generale di Ferrotranviaria, Massimo Nitti - “Quel treno che scendeva da Andria, lì non ci doveva essere”.
Ma Nitti ha anche difeso il sistema di comunicazione e sicurezza basato su un fonogramma, il cosiddetto “consenso telefonico”: “E’ una delle modalità di esercizio che viene regolarmente utilizzata nelle ferrovie”. Sicuramente ha ragione, ma i magistrati vogliono capire se davvero tutti i regolamenti e le norme in vigore sono state rispettate. Così come vogliono far luce sulla questione del raddoppio della linea: il progetto è previsto dal 2008 e doveva concludersi nel 2015. Ovviamente non si è concluso. Perché? “Dobbiamo capire. Ci sono tante cose da vedere e da incrociare”, si limita a dire il procuratore. L’indagine, d’altronde, è soltanto all’inizio.

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From: Proletari Comunisti pcro.red@gmail.com
To:
Sent: Thursday, July 14, 2016 10:06 AM
Subject: SULLA STRAGE FERROVIARIA DI CORATO: COMUNICATO DEI LAVORATORI DELLA CUB TRASPORTI

COMUNICATO SULLA STRAGE FERROVIARIA DI CORATO DEL 12 LUGLIO 2016: MAI PIU!
Il fragore violento di 27 vite spezzate che ha squarciato ieri mattina la campagna di Corato è l’ultimo di una scia nefasta, che continua a seminare sangue sui binari di questo paese.
Nonostante il fiume di denaro pubblico speso in questi ultimi 20 anni per ammodernare la rete ferroviaria italiana si continua a morire tra i binari, perché nell’era delle applicazioni tecnologiche abbiamo migliaia di km di rete non coperta da sistemi di sicurezza adeguati.
Monzuno, Firenze Castello, Crevalcore, Viareggio, sono alcuni dei precedenti più emblematici nella storia recente, ma una lunga catena di incidenti ha imperversato in questi anni, talvolta per incuria, talvolta per errori, talvolta per malfunzionamenti tecnici, causando centinaia di vittime.
Quello che manca è una cultura di sicurezza che prescinda dai budget aziendali e dagli obiettivi industriali; una battaglia per la sicurezza che i ferrovieri, talvolta sanzionati e licenziati, perseguono da anni, inascoltati da istituzioni ed aziende oggi impegnate a commemorare i defunti.
In un paese segnato dalle divisioni economiche, sociali e territoriali, esistono tante ferrovie... esistono linee tra le più moderne del mondo, al servizio delle grandi città industriali e poi un’infinità di realtà minori e dimenticate, dove sopravvivono sistemi tecnici vergognosamente obsoleti, così come il blocco telefonico e il binario unico che vige tra Andria e Corato.
Oltre la metà delle linee ferroviarie italiane è tutt’oggi a semplice binario e il blocco telefonico è il regime di circolazione ancora utilizzabile, in moltissime linee, in caso di degrado e malfunzionamento dei sistemi tecnici, significativo peraltro che le linee più arretrate sono proprio quelle delle ferrovie private, elemento che i fautori della liberalizzazione e delle privatizzazioni dovrebbero tenere bene a mente.
Da anni sosteniamo che era necessario mettere in sicurezza l’intera rete italiana, prima di investire capitali immensi per l’Alta Velocità che serve meno del 10 % del traffico di viaggiatori; ma in linea con le politiche classiste di questi anni, si è scelto di agevolare i flussi finanziari ed economici, anziché servire studenti, pendolari e famiglie. Si tratta della trasformazione delle ferrovie italiane, che da servizio pubblico e sociale hanno lasciato spazio al percorso di privatizzazione commerciale, una trasformazione i cui rischi ed effetti nefasti sono evidentemente stati sottovalutati.
La politica del trasporto ferroviario in Italia, dagli anni novanta a oggi, ha visto la chiusura o l’abbandono di molte linee considerate rami secchi, l’impresenziamento di innumerevoli stazioni e presidi, il taglio drastico di tutti i servizi non AV.
Non dimentichiamo che i due treni stavano entrambi viaggiando con un solo macchinista, sistema macabramente soprannominato “uomo morto” e che nelle stazioni il personale ferroviario di controllo è stato ridotto al minimo in tutta la rete ferroviaria, ciò anche con la complicità di sigle sindacali che in virtù della concertazione e compartecipazione alla gestione aziendale, hanno svenduto in questi anni i diritti di lavoratori e viaggiatori. Peraltro la probabile cancellazione del progetto di sotto-attraversamento e stazione AV di Firenze, dopo che già centinaia di milioni di euro sono stati impiegati in un’opera che i comitati di cittadini da anni hanno bollato come inutile e dannosa, dimostra quanto miope sia stata la politica di investimenti di questi anni.
Di fatto mentre ancora si punta a realizzare contro il volere dei cittadini la TAV in val di Susa con l’investimento di miliardi di euro, 27 urla spezzate nella campagna di Corato mostrano inesorabilmente la dura realtà.
Allora adesso chiamatelo pure errore umano, se volete continuare a mistificare la realtà avallando la rincorsa di profitti sempre maggiori sulle spalle di lavoratori e pendolari.
Chiediamo che si torni a considerare prioritaria la sicurezza di tutti i viaggiatori in tutto il paese, e che si fermino i processi di privatizzazione che hanno causato la mattanza di posti di lavoro anche tra gli addetti al movimento e alla sicurezza; chiediamo il ripristino del doppio agente di macchina e ritmi lavorativi più umani e più sicuri per tutti.
Siamo qui per gridare che non permetteremo che questo ennesimo disastro, sia accantonato e sacrificato in nome del profitto e della speculazione, continueremo a lottare per presidiare sicurezza e qualità del trasporto e della vita di utenti e ferrovieri. Con voci stozzare di rabbia e di dolore, trafitti nel cuore da 27 pugnalate avvelenate, siamo qui per chiedere giustizia e verità. Siamo qui per gridare Mai Più.

Ferrovieri Cub Trasporti

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To:
Sent: Thursday, July 14, 2016 8:21 PM
Subject: CITTA’ METROPOLITANA AUTORIZZA LA NUOVA EURECO

Buonasera 
riceviamo dal Sindaco del Comune di Paderno Dugnano l’informazione che oggi è arrivata l’autorizzazione di Città Metropolitana per il nuovo insediamento di una fabbrica smaltimento rifiuti pericolosi nell’area ex Eureco.
Vi inoltriamo il comunicato stampa del Sindaco e quello del nostro comitato.
Cordiali saluti
Per il Comitato
Loris Brioschi
Lorena Tacco
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Gentili rappresentanti del Comitato a sostegno dei Familiari delle Vittime e dei lavoratori Eureco,
vi comunico che la Città Metropolitana di Milano ha rilasciato l’autorizzazione integrata ambientale alla società Tecnologia & Ambiente per l’attivazione di un impianto presso l’insediamento ex Eureco.
Un esito che purtroppo non ci sorprende visto che il Comune di Paderno Dugnano è rimasto l’unico Ente contrario in sede di Conferenza di Servizi.
Come annunciato con una nota stampa (che vi allego), il Comune valuterà ogni azione possibile da intraprendere a seguito del provvedimento di Città Metropolitana.
Cordialmente.
Il Sindaco 
Marco Alparone
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COMUNICATO STAMPA
Ex Eureco, Città Metropolitana ha rilasciato l’autorizzazione.
“Ignorato l’indirizzo politico. Ora valuteremo le azioni conseguenti”.
Paderno Dugnano 14 luglio 2016.
La Città Metropolitana ha comunicato formalmente il rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale all’impresa Tecnologia & Ambiente per la realizzazione di un impianto per il trattamento di rifiuti speciali presso l’insediamento ex Eureco in via Mazzini.
“Una notizia che purtroppo non ci sorprende visto l’esito dell’ultima conferenza di servizi dove siamo stati l’unico Ente a ribadire e motivare parere contrario” – commenta il Sindaco Alparone – “Mi spiace che l’indirizzo politico espresso dal Consiglio Comunale di Paderno Dugnano, e poi dallo stesso Consiglio Metropolitano, sia stato di fatto superato da un approccio esclusivamente burocratico rispetto ad una vicenda che per la nostra comunità ha anche un valore sociale oltre che ambientale e di sicurezza. Nel 2010 quattro lavoratori persero la vita in quell’impianto che oggi si vuole riattivare sempre a ridosso della Milano-Meda e sempre in prossimità di una derivazione del Canale Villoresi. Adesso valuteremo con i nostri tecnici le azioni da intraprendere a seguito del provvedimento di Città Metropolitana”.
L’Amministrazione Comunale
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COMUNICATO STAMPA
Paderno Dugnano 14 luglio 2016
Apprendiamo dal Comune di Paderno Dugnano, che “La Città Metropolitana ha comunicato formalmente il rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale all’impresa Tecnologia & Ambiente per la realizzazione di un impianto per il trattamento di rifiuti speciali presso l’insediamento ex Eureco in via Mazzini”.
La parte tecnico-burocratica della Città Metropolitana, la Commissione Servizi, non ha preso in considerazione la scelta contraria del Consiglio Comunale di Paderno Dugnano e neppure quella del Consiglio stesso della Città Metropolitana.
Non è possibile lasciare spazio ad aziende di questo tipo a Paderno Dugnano dopo un simile precedente poiché su questa città non pesano solo le morti di 4 operai dell’allora Eureco (Harun Zeqiri, 44 anni, Sergio Scapolan, 63, Salvatore Catalano, 55 e Leonard Shehu, 37), ma anche l’esistenza di altri 3 tuttora abbandonati al loro destino.
Il comune di Paderno Dugnano costituitosi parte civile durante il processo contro l’Eureco, ha l’obbligo morale nei confronti delle vittime di riaffermare con forza quest’opposizione e di far di tutto per impedire che si creino nuove situazioni potenzialmente pericolose.
In qualità di “Comitato a sostegno dei famigliari delle vittime e dei lavoratori Eureco” esprimiamo contrarietà a questo nuovo insediamento, perché la strage accaduta nel 2010 non abbia a ripetersi, chiedendo il sostegno di tutti i cittadini, le forze politiche, le associazioni presenti sul nostro territorio.
Per questo abbiamo richiesto un incontro urgente con Giuseppe Sala attuale sindaco della Città Metropolitana e chiediamo a tutti i cittadini padernesi a partecipare ad un primo presidio di protesta indetto per sabato 16 luglio alle 15,30 davanti alla Ex Eureco in Via Mazzini a Palazzolo Milanese.
Importante sarà la nostra presenza alla Riunione del Consiglio Metropolitano di lunedì 25 luglio 2016 in via Vivaio 1 a Milano.
Altre iniziative verranno programmate in seguito.
COMITATO A SOSTEGNO DEI FAMILIARI DELLE VITTIME E DEI LAVORATORI EURECO

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From: Resistenza resistenza@lists.riseup.net
To:
Sent: Sunday, July 17, 2016 2:25 PM
Subject: LA STRAGE FERROVIARIA DI RUVO DI PUGLIA E’ GUERRA DI STERMINIO NON DICHIARATA

La strage ferroviaria di Ruvo di Puglia è guerra di sterminio non dichiarata che i vertici della Repubblica Pontificia promuovono nel nostro Paese verso le masse popolari!

Raccogliamo e pubblichiamo l’articolo scritto da Giorgio Cremaschi che denuncia le parole criminali che i vari caporioni del Governo Renzi-Bergoglio hanno usato per strumentalizzare una strage i cui mandanti sono chiari, evidenti. Spesso nella nostra pubblicistica diciamo che quella che la borghesia promuove nel nostro paese (e in qualsiasi altro paese imperialista) nei confronti delle masse popolari è una guerra di sterminio non dichiarata e lo diciamo usando gli esempi della vita quotidiana: dallo smantellamento della sanità pubblica, alle centinaia di morti di immigrati nel Mediterraneo, ai morti sul lavoro ecc.
Quella di ieri è l’ennesima manifestazione di questa guerra.
L’unica via di uscita per farla finita con la borghesia è costruire un nuovo ordinamento sociale, costruire la rivoluzione socialista. Oggi più che mai le condizioni oggettive sono mature. La strage ferroviaria di ieri è l’ennesima dimostrazione che quello che manca nella nostra società non sono gli strumenti, le tecnologie, le competenze per evitare lo scontro tra due treni... quello che manca è la volontà e l’interesse di chi dirige la nostra società di farlo!
La società in cui viviamo è diretta da una classe (la borghesia) che ha come suo obiettivo il profitto aldilà di qualsiasi altro interesse. Si muove per fare profitto, investe per fare profitto. Se dalla costruzione del doppio binario non sono previsti profitti allora non viene fatto e se poi muoiono decine di lavoratori, studenti, precari allora significherà che la borghesia troverà il modo di ricavarne un profitto anche dai morti (ricorderete tutte le dichiarazioni dell’imprenditore edile che nella stessa notte del terremoto dell’Aquila gongolava per i futuri profitti o le intercettazioni di Mafia Capitale in cui veniva detto che lo smercio degli immigrati era “conveniente”).
L’unica via di uscita è costruire il socialismo cioè l’ordinamento sociale confacente allo sviluppo delle attuali forze produttive. Il modo migliore, meno doloroso, per arrivarci è far ingoiare ai vertici della Repubblica Pontificia, un Governo d’Emergenza Popolare, un governo delle organizzazioni operaie e popolari del nostro Paese e che mettono mano alla situazione d’emergenza!
Agli esponenti autorevoli come Giorgio Cremaschi diciamo di mettersi (fin da oggi) a contributo della costruzione della governabilità delle organizzazioni operaie e popolari mettendosi a disposizione con ogni loro risorsa, mezzo, capacità.
Partito dei Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo
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CHI PARLA DI ERRORE UMANO E’ UN MASCALZONE!

di Giorgio Cremaschi
La strage ferroviaria di Ruvo di Puglia è come quella di Crevalcore, come quella di Viareggio, come altri omicidi di poveri pendolari e ferrovieri: è colpa dei mancati investimenti sulla sicurezza e del taglio al personale. Chi parla di errore umano è un mascalzone
Voglio fare un ragionamento semplice, mandando subito all’inferno chi ora spenderà paroloni per non farci capire niente e continuare come sempre.
Di fronte alla strage ferroviaria di Ruvo di Puglia, di fronte a quei ragazzi, lavoratori, donne e uomini assassinati solo perché su un treno per poveri, io urlo che la sola colpa è di tutti coloro che hanno tagliato gli investimenti sulla sicurezza e lo stesso personale. Invece sento già parlare di errore umano, come se questo esistesse davvero nel 2016 nei treni. In Svizzera la maggior parte delle linee ferroviarie sono a binario unico, quanti incidenti ci sono? Il sistema dei controlli informatici, la manutenzione continua, i meccanismi di sicurezza e di arresto immediato della circolazione, non appena qualche cosa non vada, il rinnovamento del materiale rotabile e delle infrastrutture, i turni umani per il personale, tutto costruisce un sistema di salvaguardia che impedisce disastri, come quelli che invece sempre più spesso accadono nelle ferrovie italiane. Ma da noi si parla di errore umano, vergogna!
A Crevalcore anni fa c’è stata una strage, si è data la colpa ai macchinisti, opportunamente morti nell’incidente. A Viareggio invece i macchinisti sono sopravvissuti, e hanno contribuito a mettere in luce le criminali gestioni della sicurezza che hanno provocato 31 morti bruciati vivi. Ma il processo per i responsabili delle Ferrovie si avvia verso la prescrizione.
Quanti soldi si stanno buttando via per il traforo della Valle di Susa che non serve a niente e neppure sarà completato? Se con quei soldi si fossero duplicate le linee ferroviarie ad alta pendolarità, si fosse investito in sicurezza, in semafori di blocco, in personale, quanti morti in meno ci sarebbero oggi? Ma i NoTAV e tutti coloro che hanno sollevato la questione degli sprechi per le ferrovie ad alta velocità e dei tagli per quelle per i pendolari, sono stati tacciati di essere nemici della modernità. E i ferrovieri che per anni con i sindacati di base si sono battuti perché a guidare i treni fossero due macchinisti e non solo uno, sono stati accusati di corporativismo e fannullaggine. E ora grazie alla legge Fornero un solo macchinista dovrà condurre fino a 67 anni.
Tutte queste ragioni e altre ancora alla fine risalgono ad un’unica semplice causa: i tagli al trasporto pubblico ferroviario a favore del profitto sulle tratte più redditizie e delle privatizzazioni. Così il nostro paese, che nel trasporto ferroviario negli anni 70 e 80 del secolo scorso era diventato il più sicuro, ora sta diventando uno dei più pericolosi d’Europa. E la UE vorrebbe che ancora più tagliassimo sul trasporto pubblico.
Questi sono i ragionamenti semplici e brutali che dovrebbero essere fatti di fronte ai nuovi poveri morti. Invece si parla di errore umano, di accertamento delle responsabilità e soprattutto di evitare troppo facili semplificazioni, perché la realtà è complessa. Ma almeno tacete, mascalzoni!

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