Caporalato, Coldiretti: “Ddl
governo contro lo sfruttamento? Il distretto degli agrumi di Rosarno rischia di
chiudere”
L'associazione degli agricoltori sulle condizioni
disumane dei braccianti immigrati della provincia di Reggio Calabria: “Settore
sotto ricatto delle multinazionali che impongono prezzi impossibili. La
soluzione? Basta lavorare per l'industria dei succhi e riconversione verso
altre colture”. Intanto le campagne si spopolano: i soli ad abitarle sono i
migranti che lavorano per 20 euro al giorno e sono costretti a vivere nelle
baraccopoli in condizioni al di sotto della dignità umana
A sei anni dalla rivolta che li vide
protagonisti, i braccianti stagionali immigrati continuano
a essere spremuti come arance. Allo sfruttamento si è aggiunta la crisi: nella piana
di Gioia Tauro la superficie coltivata ad agrumi da succo è precipitata da
nove e a tremila ettari e loro, i neri, come li chiamano a Rosarno,
continuano a fare una vita da cani (guarda la video-inchiesta). 25 euro al giorno per la
raccolta, di cui tre vanno al caporale che li arruola e porta in furgone
nei campi. Ma il peggio viene la sera quando fanno ritorno nei ghetti
dove sono costretti a vivere: baraccopoli, fabbriche e casolari occupati
nella zona industriale dietro al porto. Lontani dai centri abitati, come
vogliono i residenti e abbandonati a loro stessi senza acqua potabile,
luce e gas. Dal canto loro gli agricoltori non se la passano
molto meglio: vendono la frutta raccolta dai neri a sette centesimi al
chilo. La metà di quanto costa produrla senza illegalità e sfruttamento. E chi
ha detto no ai caporali ha solo due strade: la difficile riconversione
verso altre colture o più semplicemente lasciare le arance sugli
alberi. La crisi del distretto è un domino in cui cadono tutti: chi fa i
succhi concentrati, chi ha la terra e ovviamente chi la lavora. “Una filiera del ricatto imposta
dall’industria delle aranciate”, attacca Pietro Molinaro,
presidente di Coldiretti Calabria che dà la colpa alle
multinazionali come San Pellegrino, San Benedetto
e, prima di abbandonare la Piana in seguito alla rivolta, Coca Cola:
“Pagano un euro e mezzo al litro il succo concentrato prodotto da 18 chili di
arance. Dal frutto allo scaffale il ricarico è del 4300 per cento”. Secondo
l’associazione degli agricoltori, sono i prezzi impossibili che hanno
determinato “una situazione non più gestibile anche dal punto di vista umano”.
E il conto più salato è per gli africani che ogni mattina affollano gli
svincoli stradali alle porte di Rosarno e della vicina San Ferdinando
speranzosi di essere caricati dentro un van diretto in qualche contrada. I
caporali poi sono africani come loro, sono solo un gradino avanti nella
classifica dello sfruttamento. Se la rivolta del 2010 è servita a sbattere in
prima pagina per qualche settimana le condizioni dei braccianti immigrati,
l’opinione pubblica torna a parlare di caporalato la scorsa estate,
quando nei campi in provincia di Andria muore di fatica Paola Clemente,
un’italiana. Troppo anche per il governo che da lì a poco mette a punto col
ministro Maurizio Martina una legge ad hoc, ma ancora attende di
essere approvata. Fra le misure previste, l’inasprimento delle pene, anche patrimoniali,
per chi sfrutta il lavoro nero, aziende comprese, e indennizzi per le
vittime del delitto di caporalato. “Se il ddl dovesse entrare in vigore il
distretto agrumicolo di Rosarno rischia di scomparire”, afferma il capo della
Coldiretti calabrese, però non vuole essere frainteso: “Questa legge è un atto
necessario perché sul caporalato non si possono fare sconti. Se si vuole
tutelare il made in Italy non possono esserci ombre sull’aspetto etico
di tutte le fasi della produzione”. In attesa di vedere le novità, le campagne
continuano a spopolarsi e sono sempre più gli agricoltori che lasciano andare
in malora gli aranceti. Come Alberto Varrà che mentre mostra
il suo campo si lascia andare ai ricordi: “Questi due ettari e mezzo li ha
comprati mio nonno dopo una vita passata negli Stati Uniti a
faticare”. Terra frutto del sudore di un immigrato, almeno così la pensa suo
nipote: “Come faccio a sfruttare gli africani? Preferisco non raccogliere”. Anche
lui, come altri, sta provando a riconvertire la produzione: da arance da succo
a “fresco”, frutta e ortaggi che finiscono sugli scaffali senza
passare dalle maglie dell’industria della trasformazione. “E’ l’unica
possibilità che abbiamo – conclude Molinaro di Coldiretti – Dare il benservito
ai prezzi crudeli delle aziende delle aranciate e e mettersi a
coltivare prodotti che finiscono direttamente sulle tavole degli
italiani”.
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