mercoledì 3 febbraio 2016

3 febbraio - Coldiretti vuole lo sfruttamento schiavista dei migranti.



Caporalato, Coldiretti: “Ddl governo contro lo sfruttamento? Il distretto degli agrumi di Rosarno rischia di chiudere”
L'associazione degli agricoltori sulle condizioni disumane dei braccianti immigrati della provincia di Reggio Calabria: “Settore sotto ricatto delle multinazionali che impongono prezzi impossibili. La soluzione? Basta lavorare per l'industria dei succhi e riconversione verso altre colture”. Intanto le campagne si spopolano: i soli ad abitarle sono i migranti che lavorano per 20 euro al giorno e sono costretti a vivere nelle baraccopoli in condizioni al di sotto della dignità umana
di Lorenzo Galeazzi e Lucio Musolino | 2 febbraio 2016

A sei anni dalla rivolta che li vide protagonisti, i braccianti stagionali immigrati continuano a essere spremuti come arance. Allo sfruttamento si è aggiunta la crisi: nella piana di Gioia Tauro la superficie coltivata ad agrumi da succo è precipitata da nove e a tremila ettari e loro, i neri, come li chiamano a Rosarno, continuano a fare una vita da cani (guarda la video-inchiesta). 25 euro al giorno per la raccolta, di cui tre vanno al caporale che li arruola e porta in furgone nei campi. Ma il peggio viene la sera quando fanno ritorno nei ghetti dove sono costretti a vivere: baraccopoli, fabbriche e casolari occupati nella zona industriale dietro al porto. Lontani dai centri abitati, come vogliono i residenti e abbandonati a loro stessi senza acqua potabile, luce e gas. Dal canto loro gli agricoltori non se la passano molto meglio: vendono la frutta raccolta dai neri a sette centesimi al chilo. La metà di quanto costa produrla senza illegalità e sfruttamento. E chi ha detto no ai caporali ha solo due strade: la difficile riconversione verso altre colture o più semplicemente lasciare le arance sugli alberi. La crisi del distretto è un domino in cui cadono tutti: chi fa i succhi concentrati, chi ha la terra e ovviamente chi la lavora.   “Una filiera del ricatto imposta dall’industria delle aranciate”, attacca Pietro Molinaro, presidente di Coldiretti Calabria che dà la colpa alle multinazionali come San Pellegrino, San Benedetto e, prima di abbandonare la Piana in seguito alla rivolta, Coca Cola: “Pagano un euro e mezzo al litro il succo concentrato prodotto da 18 chili di arance. Dal frutto allo scaffale il ricarico è del 4300 per cento”. Secondo l’associazione degli agricoltori, sono i prezzi impossibili che hanno determinato “una situazione non più gestibile anche dal punto di vista umano”. E il conto più salato è per gli africani che ogni mattina affollano gli svincoli stradali alle porte di Rosarno e della vicina San Ferdinando speranzosi di essere caricati dentro un van diretto in qualche contrada. I caporali poi sono africani come loro, sono solo un gradino avanti nella classifica dello sfruttamento. Se la rivolta del 2010 è servita a sbattere in prima pagina per qualche settimana le condizioni dei braccianti immigrati, l’opinione pubblica torna a parlare di caporalato la scorsa estate, quando nei campi in provincia di Andria muore di fatica Paola Clemente, un’italiana. Troppo anche per il governo che da lì a poco mette a punto col ministro Maurizio Martina una legge ad hoc, ma ancora attende di essere approvata. Fra le misure previste, l’inasprimento delle pene, anche patrimoniali, per chi sfrutta il lavoro nero, aziende comprese, e indennizzi per le vittime del delitto di caporalato. “Se il ddl dovesse entrare in vigore il distretto agrumicolo di Rosarno rischia di scomparire”, afferma il capo della Coldiretti calabrese, però non vuole essere frainteso: “Questa legge è un atto necessario perché sul caporalato non si possono fare sconti. Se si vuole tutelare il made in Italy non possono esserci ombre sull’aspetto etico di tutte le fasi della produzione”. In attesa di vedere le novità, le campagne continuano a spopolarsi e sono sempre più gli agricoltori che lasciano andare in malora gli aranceti. Come Alberto Varrà che mentre mostra il suo campo si lascia andare ai ricordi: “Questi due ettari e mezzo li ha comprati mio nonno dopo una vita passata negli Stati Uniti a faticare”. Terra frutto del sudore di un immigrato, almeno così la pensa suo nipote: “Come faccio a sfruttare gli africani? Preferisco non raccogliere”. Anche lui, come altri, sta provando a riconvertire la produzione: da arance da succo a “fresco”, frutta e ortaggi che finiscono sugli scaffali senza passare dalle maglie dell’industria della trasformazione. “E’ l’unica possibilità che abbiamo – conclude Molinaro di Coldiretti – Dare il benservito ai prezzi crudeli delle aziende delle aranciate e e mettersi a coltivare prodotti che finiscono direttamente sulle tavole degli italiani”. 

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