di
Daniela
Galiè
La
prima lezione del festival “Bella Storia: narrazioni di strada”,
tenutasi giovedì 7 marzo nel locale Tiaso del quartiere Pigneto, ha
proposto una riflessione sul tema del lavoro e della salute. Una
questione da cui emerge la contraddittorietà tra forze politiche al
potere e territorio. Il primo incontro del festival si è svolto al
quartiere Pigneto, luogo simbolico del tema oggetto della lezione
tenuta dall’antropologo Niso Tommolillo, a sua volta frutto di una
ricerca d’archivio sui registri medici e sulle cartelle del
personale impiegato nell’ex fabbrica della Viscosa di Roma. La
ricostruzione e l’analisi storico-antropologica proposta si
sviluppano lungo due assi caratteristici della vita di fabbrica,
fortemente connessi tra loro: da una parte la “violenza politica”
che si sostanzia nei processi di sfruttamento lavorativo, dall’altra
le malattie professionali e il controllo della vita biologica, che
classificano la salute fisica e psichica in termini di necessità
produttiva.
Attraverso la lettura di frammenti di memorie di operaie
e operai e di alcune cartelle cliniche esemplificative, è stata
messa in luce l’organizzazione della vita lavorativa ai tempi del
fascismo e del dopoguerra e il modo in cui l’ambiente della
fabbrica interagiva con la dimensione privata dei lavoratori. In
termini più ampi, la lezione ha suscitato una riflessione rivolta
all’attualità, attraverso un’analisi storica sempre applicabile
ai dispositivi di potere e alle pratiche di controllo e sfruttamento
tipici del presente. La produzione di malattie e morte sui posti di
lavoro costituisce quel ricatto occupazionale che pone le comunità a
dover optare tra il diritto di vivere o di lavorare, vale a dire
quella che per molto tempo è stata posta come l’unica scelta
possibile. L’inquinamento rappresentato dalla presenza di fabbriche
non è solo un argomento di discussione teorico, ma è una forma
d’aggressione tangibile e sostanziale, che condiziona fortemente la
vita dei cittadini. Una “morte in polvere”, silenziosa, che non
può fare troppo scalpore. Poi, emergono i dati, freddi e anonimi che
non appartengono all’epoca fascista o all’Italia del dopoguerra,
ma parlano degli uomini e delle donne comuni del nostro presente.
Solo nel primo mese del 2019 le denunce di infortunio sul lavoro
presentate all’Inail sono state 47.982 (+7,3% rispetto allo stesso
mese del 2018), 44 delle quali con esito mortale (-34,3%). Ma questo
non è abbastanza. Sono in aumento le denunce di malattia
professionale che, sempre nel primo mese del 2019 sono state 4.907
(+4,1%), quasi 200 in più rispetto al gennaio 2018. La descrizione e
la consistenza di questi infortuni e morti dovrebbero ricordare che
gli incidenti sul lavoro non sono dei fatti casuali, ma sono
strettamente connessi a condizioni e luoghi di lavoro insicuri e
condizioni lavorative precarie. L’eterna domanda se sia meglio
tutelare i posti di lavoro o la salute dei cittadini, continua in
questi anni a creare una situazione di impasse dove a subire le
conseguenze è inevitabilmente il territorio. Nella lezione di “Bella
Storia” il lavoro e la salute, che nell’ultimo ventennio sono
stati al centro di dibattici politici che hanno spaccato frange
partitiche e popolazione e che negli ultimi mesi è tra i temi del
governo giallo-verde con il caso dell’Ilva di Taranto, viene
riproposto attraverso una lettura storico-antropologica che parte
dallo studio di vicende locali ma che si fa paradigma della vita di
generazioni di lavoratori che attraverso la ricostruzione e la
conservazione di memorie hanno lasciato un segno indelebile nella
fisionomia del paesaggio urbano e del suo passato operaio. Niso
Tommolillo ci ricorda come il rapporto tra violenza politica e le
malattie professionali abbia rappresentato una delle cause principali
della sofferenza degli operai e delle operaie e rientri in quello che
l’antropologo americano Paul Farmer definisce come “violenza
strutturale”, che riduce quindi gli individui in condizioni di
precarietà esistenziale. A questo Tommolillo aggiunge un altro tema
fondamentale della vita di fabbrica, vale a dire il concetto di
“istituzione totale”, un aspetto che si intreccia con le
trasformazioni fisiche e geografiche del territorio oggetto
d’analisi. Prima degli anni Settanta dell’800 l’area da Porta
Maggiore a Largo Preneste era un territorio rurale, i cui abitanti
erano in prevalenza dediti ad un tipo d’agricoltura di sussistenza.
In seguito, con l’edificazione delle grandi fabbriche e gli
interventi degli imprenditori del Nord Italia, profittando anche di
possibilità speculative favorevoli, subì una trasformazione
fisiologica considerevole. Il 5 settembre del 1923 viene edificata la
Snia, che avrebbe chiuso nel 1955 a seguito anche di processi di
delocalizzazione industriale, causando uno stravolgimento nella vita
dei cittadini. La nascita dello stabilimento, oltre a essere
considerato dalla stampa fascista uno dei “fiori all’occhiello”
del regime, si accompagnò all’edificazione di una serie di servizi
e strutture destinate ad abbracciare la totalità della vita degli
operai: scuole, asili, percorsi ferroviari, il dopo lavoro con centri
sportivi, corsi di educazione tecnica e scientifica. La fabbrica,
quindi, non era solo un luogo di lavoro, ma un’estensione
persistente nella vita dei lavoratori, creando quindi un rapporto di
dipendenza che andava oltre il salario e sviluppandosi come un
sistema di “istituzione totale”, per dirla con le parole del
sociologo Erving Gofmann. Il tentativo di regolarizzare i ritmi della
vita nella sua totalità ed estensione si conciliava con l’intento
di “addomesticare” i lavoratori. Facendo riferimento alle storie
prese in esame dal relatore della lezione, una colpisce in maniera
particolare: la biografia di Maria Braccante, l’operaia partigiana,
protagonista degli scioperi del 1949, da cui prende nome l’archivio
storico della Viscosa. Licenziata formalmente per ragioni
d’improduttività, Braccante presentava nella sua cartella diverse
note disciplinari relative alla sua partecipazione politica su
questioni relative alle condizioni della fabbrica che lasciano
intendere un allontanamento voluto di matrice politica. Oltre a
suscitare una riflessione sulle forme repressive del dissenso, le
storie delle donne gettano un occhio sulla condizione femminile nel
contesto lavorativo della fabbrica. A esse infatti non veniva
riconosciuta la malattia professionale, al tempo riservata solo ai
reparti chimici a cui le donne non avevano accesso. Inoltre, esse
erano oggetto di una forma specifica di pregiudizio medico: le forme
di nevrosi e psicosi che rappresentavano i sintomi più comuni della
malattia da esalazione di solfuro di carbonio che intacca il sistema
nervoso, erano ritenuti sintomi caratteriali legati all’indole
femminile, escludendo, quindi, la possibilità di contrazione della
malattia. Infine, il legame del concetto di salute, legato alla
capacità produttiva, escludendo qualsiasi interferenza con la sfera
del diritto, rileva come l’esercizio del potere e il ricatto
lavorativo agisca sul corpo del lavoratore attraverso organismi di
controllo più o meno visibili, ridefinendo il concetto stesso di
soggetto politico o detentore di diritti umani e lavorativi. Tutto si
riduce in virtù di un unico soggetto, vale a dire quello di
produttore di merce. Comprendere le dinamiche dei processi di
sfruttamento lavorativo e il modo in cui si sono definiti nel nostro
passato storico, ha lo scopo di far emergere non soltanto il tema
delle diseguaglianze sociali, ma anche dei rapporti di potere che,
attraverso le cornici della storia sviluppano i sintomi di una
violenza politica che non è solo repressione del dissenso, ma
incorporazione in una struttura sociale e lavorativa intessuta di
criticità. Raccontare oggi il mondo del lavoro non può fermarsi
alle cifre e alle percentuali delle vittime, che rimangono a livello
percettivo nell’ombra dell’anonimato statistico, né può restare
una generalizzazione astratta. Occorre un racconto che parta dalle
condizioni di vita concrete, che mostri la precarietà e l’infortunio
non solo come segno di sfortuna individuale ma come forma di violenza
sistematica. Forse oggi, il ricatto del lavoro è ancora più
pericoloso perché la sua promessa non è la fabbrica, ma la start
up, e il modello di massa non è il lavoro salariato o l’operaio,
ma “l’imprenditore di noi stessi”, apparentemente libero, ma
pur sempre disciplinato, docile e ricattabile. Eppure, in qualche
modo la storia di tante donne e uomini di fabbrica può contribuire a
restituire dei simboli che suscitino la produzione di nuove parole
d’ordine, di una nuova creatività politica. Spesso nelle parole e
nei racconti delle operaie e degli operai del passato possiamo
ritrovare quell’intelligenza collettiva che oggi può apparire
folkloristica, ma rimane il prodotto di un sapere e di un vivere
sociale tanto radicato da potercisi ancora riconoscere.
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