lunedì 1 giugno 2020

1 giugno - su emergenza coronavirus e licenziamenti 1: Licenziare in emergenza covid è vietato. È davvero cosi? - Da un commento dell'Avv. Giulia Gallizioli Dott.ssa Eugenia Tarini


L’attuale assetto normativo prevede all’articolo 46 del D.L. 18/2020 un divieto di licenziamento per motivi economici, con l’obiettivo di blindare gli organigrammi aziendali e mantenere di conseguenza stabili i livelli occupazionali. Tale divieto, inizialmente previsto per il periodo compreso tra il 17 marzo ed il 15 maggio 2020, è stato esteso dal Decreto Rilancio fino al 17 agosto. Per tutto il tempo di vigenza del divieto non possono essere iniziate o proseguite (se già avviate, ma non ancora concluse) procedure di licenziamento collettivo e non possono essere disposti, indipendentemente dal numero di persone occupate, licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della L. 604/66.
Con riferimento ai licenziamenti individuali, la disposizione lascia però spazio a diversi dubbi interpretativi circa il suo campo di applicazione, sia sul piano soggettivo sia sul piano oggettivo, fermo restando che restano certamente fuori dal divieto i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo “in senso stretto”, vale a dire quelli per motivi disciplinari determinati da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, oltre che quelli per giusta causa.
Sul piano soggettivo saranno oggetto di approfondimento le posizioni dei dirigenti e dei lavoratori in
prova; dal punto di vista oggettivo si tratteranno invece le ipotesi di licenziamento per superamento del periodo di comporto, i licenziamenti intimati prima del 17 marzo 2020, ed i casi di licenziamento per inidoneità psicofisica e per impossibilità sopravvenuta di rendere la prestazione.
DIRIGENTI
Il divieto di licenziamenti individuali, così come attualmente formulato, sembra anzitutto escludere alcune tipologie di dirigenti ai quali, per costante giurisprudenza, non si applica l’articolo 3 della L. 604/1966 (si veda sul punto ad esempio Cass. civ. Sez. VI – Lavoro, 26/10/2018, n. 27199).

Quella del dirigente è infatti una figura professionale complessa, caratterizzata da un regime particolare che trova la propria ragion d’essere nel peculiare rapporto che la lega al datore di lavoro. Dottrina e giurisprudenza sono nel tempo pervenute ad operare una distinzione all’interno della categoria: da un lato i dirigenti apicali o medi, ossia i dirigenti convenzionali, qualificati come tali dai CCNL, che non sono coperti dalle tutele della L. 604/66 e dall’altro quelli non apicali o i cosiddetti pseudo-dirigenti, vale a dire coloro che, pur avendone la qualificazione e il trattamento, svolgono mansioni non del tutto riconducibili al profilo (e più simili ad esempio ai quadri), ai quali si applicano le tutele di cui alla medesima legge. L’art. 46 di conseguenza, in conformità con il consolidato orientamento, sembra ritenersi applicabile solamente ai secondi e non ai primi. Tale conclusione, che pure pare condivisibile, presta comunque il fianco ad alcuni dubbi di legittimità. Si pensi infatti che il divieto di licenziamenti collettivi ricomprende invece anche tutte le figure dirigenziali, dando luogo al paradosso per cui un dirigente potrebbe essere licenziato per giustificato motivo oggettivo, ma non nell’ambito di una procedura collettiva, che pure si fonda sulle stesse ragioni. Siccome la ratio del divieto di licenziamenti, individuali e collettivi, è la medesima, potrebbe essere plausibile un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 46 che estenda il divieto di licenziamento individuale anche ai dirigenti apicali, laddove per il principio di uguaglianza e di sicuro per buon senso tale distinzione non troverebbe altrimenti alcuna giustificazione.
LAVORATORI IN PROVA
Un ulteriore interrogativo si pone con riferimento ai lavoratori in prova. Come noto, il licenziamento durante il periodo di prova rientra nella cosiddetta area della recedibilità a-causale, ossia quella per cui l’esercizio del recesso (tecnicamente non viene nemmeno definito “licenziamento”) non richiede giustificazione (cosiddetto recesso ad nutum). Tuttavia, per pacifica e costante giurisprudenza, la risoluzione del rapporto non può essere frutto di mero arbitrio del datore di lavoro. In particolare, il diritto potestativo datoriale si esprime nel perimetro del patto di prova stipulato legittimamente (ossia per iscritto, esplicitamente sottoscritto per accettazione dal lavoratore quantomeno contestualmente all’inizio del rapporto). Per considerarsi legittimo, il recesso deve poi aver consentito l’esperimento dell’oggetto della prova garantendo che quest’ultima duri un tempo minimo ragionevole, anche laddove non espressamente previsto dal suddetto patto di prova. Infine, è bene osservare che la valutazione negativa della prova operata dal datore di lavoro dovrà riguardare unicamente le capacità e la professionalità del lavoratore con riferimento al mansionario descritto nella lettera di assunzione.
Ciò detto, è concreto il rischio di elusione del divieto di cui all’art. 46: dietro al licenziamento di un lavoratore in prova potrebbe infatti nascondersi un recesso dettato da ragioni economiche, con il solo obiettivo di ridurre l’organico aziendale. In particolare, vi sono due ipotesi che a parere di chi scrive potrebbero aprire spazi per invocare il divieto di licenziamento anche per questa categoria di lavoratori.
Il primo caso riguarda quei dipendenti in prova licenziati laddove vi siano evidenze che il recesso sia addebitabile unicamente alla riduzione dell’attività lavorativa conseguente al Covid-19: dovendo la valutazione della prova vertere unicamente sulle capacità professionali, potrebbe essere considerato illegittimo quel licenziamento intimato proprio in concomitanza con il lockdown, benché, ad esempio, in presenza di comprovati apprezzamenti dell’operato del dipendente. Il secondo caso è, invece, quello in cui il  lavoratore non sia stato posto nelle condizioni di sostenere la prova. Appare, se non altro, non del tutto infondato ritenere l’illegittimità del licenziamento di un lavoratore che abbia svolto il periodo di prova per un lasso di tempo risibile prima del cosiddetto lockdown, poiché in concreto il datore di lavoro non avrebbe avuto nemmeno il tempo per formulare alcuna valutazione sulla professionalità e sull’adeguatezza del dipendente.
LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO
Il campo di applicazione del divieto sembrerebbe voler escludere anche il cosiddetto licenziamento per superamento del periodo di comporto, che è fattispecie a sé rispetto ai licenziamenti per ragioni inerenti l’attività d’impresa, e trova il suo fondamento nell’articolo 2110 del Codice Civile.
Di norma, il recesso datoriale è legittimo qualora la somma dei singoli episodi di malattia fruiti dal lavoratore superi, per mero calcolo aritmetico, il periodo massimo complessivo previsto dal CCNL (cosiddetto comporto). L’articolo 26 c. 1 del Cura Italia specifica che, per i lavoratori del settore privato, il periodo di quarantena con sorveglianza attiva, perché affetti dalla malattia o perché si sono avuti stretti contatti con casi confermati di Covid-19, oppure il tempo trascorso in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva perché provenienti da zone a rischio secondo le classificazioni dell’OMS, sono equiparati alla malattia. Tuttavia, per esplicita previsione normativa tali periodi non sono computabili ai fini del superamento del periodo di comporto e non si sommano dunque ad eventuali altri giorni di malattia di cui il prestatore di lavoro dovesse aver fruito in precedenza.
Il licenziamento per superamento del periodo di comporto che venisse calcolato includendo la malattia o la quarantena per Covid-19 risulterebbe quindi pacificamente illegittimo per violazione dell’articolo 26 c. 1 del Cura Italia. Questo naturalmente nell’ottica di garantire la conservazione del posto di lavoro a chi dovesse trovarsi a contrarre la patologia o comunque impossibilitato a svolgere la prestazione lavorativa perché sottoposto a misure di quarantena. Il secondo comma dell’articolo 26, così come modificato dall’art. 74 del D.L. Rilancio, estende poi la non computabilità ai fini del comporto fino al 31 luglio 2020 ai dipendenti, pubblici e privati “in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità  ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché per i lavoratori in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della medesima legge n. 104 del 1992”. Si rinvia a questo articolo (https://www.studiolegaleassociato.it/riflessioni-sul-protocollo-del-24-4-2020-il-dpcm-26-4-2020-e-la-legge-n-27-del-24-4-2020-alla-luce-del-diritto-al-lavoro-e-alla-salute-in-particolare-dei-lavoratori-disab/?fbclid=IwAR1cyVf5HPQnfZOQ3JT2bn4f8Mqa9hkrtRRtoDqe-j_2ehqFDWmevx19nWM) per una disamina più completa del diritto di assentarsi dal lavoro per i cosiddetti lavoratori fragili.
LICENZIAMENTO INTIMATO PRIMA DEL 17 MARZO 2020
Il divieto di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo decorre dall’entrata in vigore del decreto “Cura Italia” il 17 marzo 2020; la normativa inizialmente non prevedeva però quale sorte dovesse toccare alle procedure di licenziamento ex art. 7 L. 604/66 avviate prima dell’entrata in vigore del testo di legge e non ancora concluse. Come noto, si tratta della procedura, introdotta con la L. 92/2012, che le imprese aventi i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 comma 8 della L. 300/1970 devono attivare presso il competente Ispettorato Territoriale del Lavoro per procedere al licenziamento per motivi economici dei lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015.
Ed invero, molti datori di lavoro, avendo già lamentato o comunque previsto perdite di fatturato a causa dell’epidemia di Covid-19, avevano dato avvio a procedure di licenziamento individuale già dagli inizi di febbraio 2020. Con l’intensificarsi del fenomeno epidemiologico che è seguito però, molti uffici, tra cui gli Ispettorati del Lavoro, hanno chiuso l’accesso al pubblico e le procedure ex art. 7 L. 92/2012 sono rimaste sospese. In data 24 marzo 2020 l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha diramato la nota n. 2211/2020 (http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2020/03/INLnota-2201-23-3-2020.pdf ) che prevedeva – in conformità con la sospensione di tutti i procedimenti amministrativi latamente intesi (tranne le eccezioni elencate) disposta dall’art. 103 del D.L. 18/2020 come convertito dalla L. 27/2020 – la sospensione sino al 16 aprile 2020 anche della decorrenza del termine di 7 giorni per la convocazione delle parti prevista dall’art. 7 L. 604/66. Alcune sedi territoriali dell’Ispettorato del Lavoro (ad esempio quella di Mantova) hanno poi valutato di prorogare tale periodo.
Rimaneva tuttavia da chiarire se le procedure pendenti alla data del 17 marzo 2020 dovessero ritenersi anch’esse sospese, e con quali effetti sul trattamento dei lavoratori, o se invece fossero da considerarsi decadute.
A far luce sulla situazione è intervenuto il nuovo Decreto Rilancio tramite l’articolo 80, che inserisce all’articolo 46 del D.L. 18/2020 il seguente periodo: “sono altresì sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
Poiché la sola comunicazione di avvio della procedura non costituisce atto di recesso (si veda tra tutte Cass. civile sez. lav., 05/09/2018 n. 21676), si ritiene che per tutto il periodo in cui la procedura è sospesa il lavoratore conservi il diritto alla retribuzione, ferma restando la possibilità per il datore di lavoro di attivare gli ammortizzatori sociali. Non è specificato invece se parte datoriale possa far decorrere il periodo di preavviso durante i mesi di sospensione della procedura o se l’effetto sospensivo operi anche con riferimento alla decorrenza del preavviso, soprattutto nelle ipotesi in cui il lavoratore avesse offerto la prestazione lavorativa. Al termine del periodo di sospensione poi, le procedure riprenderanno il loro normale decorso, ma qualora si dovessero concludere con l’intimazione di un licenziamento è ragionevole sostenere che, in un vaglio di legittimità, si dovrà guardare non solo all’effettiva sussistenza dei motivi addotti al tempo dell’apertura della procedura, ma anche e soprattutto al perdurare di questi, operando una valutazione aggiornata al momento dell’effettiva intimazione del licenziamento, che tenga conto delle eventuali circostanze nel frattempo sopravvenute.
Infine si evidenzia che, nell’intento di ridurre il possibile contenzioso e di incentivare le aziende al mantenimento dei livelli occupazionali precedenti all’emergenza sanitaria, il comma 1 bis dell’articolo 46 del D.L. 18/2020, recentissimamente introdotto dal nuovo Decreto Rilancio, dà la possibilità ai datori di lavoro di revocare i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo eventualmente intimati nel periodo tra il 23 febbraio e il 17 marzo 2020, purché contestualmente facciano richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale in deroga dalla data in cui tali licenziamenti abbiano avuto efficacia. In tale ipotesi, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità e senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro, diversamente, sotto questo ultimo profilo, dalla disciplina ordinaria della revoca del licenziamento che, se effettuata oltre 15 giorni dall’impugnazione, non impediva al lavoratore di optare per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, pari a 15 mensilità.
LICENZIAMENTO PER SOPRAVVENUTA INIDONEITÀ PSICOFISICA
Per quanto attiene alle ipotesi di licenziamento per impossibilità della prestazione conseguente alla sopravvenuta inidoneità psico-fisica del lavoratore, queste vengono ritenute dalla maggioranza della dottrina pacificamente soggette al divieto di licenziamento ex art. 46 D.L. 18/2020, in quanto relative al regolare funzionamento dell’attività produttiva e dell’organizzazione aziendale, e conseguentemente non sarebbe in contraddizione  con l’espresso richiamo all’art. 3 della legge n. 604/66 (“ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”). Tale posizione dottrinale trova il suo fondamento in primis nell’art. 18 comma 7 della L. 300/1970, che definisce espressamente un motivo oggettivo di licenziamento quello consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore (per gli assunti dopo il 5 marzo 2015 il licenziamento per motivo di disabilità fisica o psichica è disciplinato dall’art. 2, d.lgs. 23/2015). Secondariamente, la legittimità di tale recesso è strettamente legata ad una valutazione sulla possibilità rioccupazionale del dipendente inidoneo nell’organizzazione aziendale. Sul punto, si vedano alcune recenti pronunce di legittimità in tema di repêchage (tra cui la capofila Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 02/05/2018, n. 10435), le quali hanno ritenuto che “costituirebbe una grave aporia sistematica ritenere che la violazione dell’obbligo di repêchage possa determinare una tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per motivi economici e precluderla invece nel caso di lavoratore affetto da inidoneità fisica o psichica” (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent.,12/12/2018, n. 32158). Dunque, poiché sottoposta all’obbligo di repêchage ed in ogni caso poiché espressamente qualificata come motivo oggettivo di licenziamento, la fattispecie in esame deve pacificamente considerarsi ricompresa nelle ipotesi di cui all’articolo 3 della L. 604/66 e di conseguenza soggetta alla preclusione di cui all’articolo 46 del D.L. 18/2020.

LICENZIAMENTO PER SOPRAVVENUTA IMPOSSIBILITÀ DI RENDERE LA PRESTAZIONE
Da prendere in considerazione è poi il caso del licenziamento per sopravvenuta impossibilità di rendere la prestazione per requisiti propri del lavoratore. Si tratta della fattispecie in cui il licenziamento è determinato dalla perdita, da parte del dipendente, di quei requisiti soggettivi necessari per rendere la prestazione, come autorizzazioni o licenze. Si pensi, ad esempio, alla guardia giurata alla quale viene ritirato il porto d’armi, oppure al lavoratore impiegato all’interno di un aeroporto al quale sia ritirato il tesserino aeroportuale, con conseguente impossibilità di accesso nei locali. Alla perdita di tali requisiti può conseguire la risoluzione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 1464 c.c., ove sia dimostrato che il datore di lavoro non ha interesse alla prosecuzione del rapporto, costituendo questa una ragione inerente l’organizzazione del lavoro e il funzionamento dell’attività produttiva. La Giurisprudenza ha infatti più volte ribadito che “l’ipotesi di impossibilità relativa della prestazione, che può comportare il recesso del datore ex art. 1464 c.c. per mancato interesse alla prosecuzione, è da configurarsi quale licenziamento per giustificato motivo oggettivo” (Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 11/11/2019, n. 29104). Non è quindi da escludere che il licenziamento per sopravvenuta impossibilità di rendere la prestazione rientri anch’esso nell’ambito delle preclusioni di cui all’articolo 46 del D.L. 18/2020.
REGIME SANZIONATORIO
Alla luce di tutto quanto finora esaminato, ci si domanda quali debbano essere le sanzioni da adottare in caso di recesso per giustificato motivo oggettivo disposto in violazione dell’articolo 46 del Decreto 18/2020.
Benché il Decreto 18/2020, così come convertito in legge, non faccia alcuna menzione delle sanzioni, si reputa che i licenziamenti così disposti possano essere ritenuti affetti da nullità per contrarietà a norma imperativa ai sensi dell’articolo 1418 c. 1 del Codice Civile, non trovando ragionevole che si tratti di una mera inefficacia. Pertanto, indipendentemente dal numero di lavoratori addetti, per le imprese che dovessero licenziare dipendenti assunti prima del 7 marzo 2015 riteniamo debba trovare applicazione l’articolo 18 c. 1. Parimenti, per i dipendenti con contratti a tutele crescenti si applicherebbe la tutela di cui all’articolo 2 c.1 della L. 23/2015. In entrambi i casi infatti l’illegittimità consegue ad un caso di “nullità prevista dalla legge”. In tale ipotesi il lavoratore che, nelle ipotesi sopra dettagliate, si sia visto intimare il licenziamento durante il periodo di vigenza del divieto avrà dunque diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e ad un risarcimento del danno in misura non inferiore a 5 mensilità di retribuzione[2]. Altrimenti dovrebbe comunque applicarsi la tutela di diritto comune (un atto nullo non è idoneo a produrre effetti giuridici) con conseguenze sostanzialmente analoghe, avendo il lavoratore diritto al ripristino del rapporto e al pagamento di tutti gli arretrati, e questo a prescindere dal numero dei dipendenti occupati.
Avv. Giulia Gallizioli Dott.ssa Eugenia Tarini

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