Marco Spezia
ingegnere e tecnico
della salute e della sicurezza sul lavoro
Progetto “Sicurezza sul
Lavoro! Know Your Rights”
Medicina Democratica - Movimento di lotta
per la salute onlus
INDICE
-Il lavoro è tre volte più pericoloso della guerra
-Lavoro: tornano i voucher con la manovrina
-Il caporalato: disciplina e aspetti critici
-“Tempo-tuta”: cosa è e quando va retribuito
- Telecamere per controllare i dipendenti: gli obblighi
per il datore di lavoro
-L’esposizione alle radiazioni ottiche artificiali nei
luoghi di lavoro
-Incidenti nell’utilizzo di funi e catene
-Quando a infortunarsi sono gli apprendisti
-Gli infortuni tra i giovani lavoratori
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IL LAVORO E’ TRE VOLTE PIU’ PERICOLOSO DELLA GUERRA
Da “Il libro dell’ignoranza” di John Lloyd e John Mitchinson
Il lavoro è un killer molto più efficiente dell’alcol, della droga o della
guerra.
Ogni anno muoiono circa 2.000.000 (2 milioni) di persone per incidenti e
malattie legate al lavoro, in confronto alle “sole” 650.000 che vengono
ammazzate in questo o quel conflitto.
In tutto il mondo, i lavori più pericolosi sono nei campi dell’agricoltura,
dell’industria estrattiva e delle costruzioni.
Secondo l’Ufficio statistiche del Ministero del lavoro statunitense, nel
2000 sono morte sul lavoro ben 5.915 persone [negli Stati Uniti], incluse
quelle che hanno avuto un attacco cardiaco alla scrivania.
I tagliaboschi sono risultati i lavoratori più a rischio, con 122 vittime
su 100.000 addetti al settore. Il secondo lavoro più pericoloso è risultato la
pesca e il terzo pilotare un aereo, con un tasso di mortalità di 101 lavoratori
su 100.000, Vi rassicurerà sapere che tutti i piloti sono deceduti in incidenti
occorsi a piccoli aerei e non ai jet passeggeri.
Gli operai edili e metallurgici e gli addetti a estrazione e trivellazione
si sono piazzati al quarto e quinto posto, sebbene il tasso di mortalità fosse
per entrambi meno della metà di quello dei tagliaboschi.
In tutte le occupazioni, la terza causa di morte sul lavoro si è rilevato
l’omicidio, con 677 lavoratori: i poliziotti uccisi erano 50, i commercianti
205.
Al secondo posto le cadute con il 12% del totale. Vittime principali
costruttori e riparatori di tetti, oltre agli operai edili e metallurgici.
Quanto alla causa di morte sul lavoro più comune, si trattava degli
incidenti di auto: il 23 % del totale. Perfino gli agenti di polizia avevano
più probabilità di morire al volante che per omicidio
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LAVORO: TORNANO I VOUCHER CON LA MANOVRINA
Da Studio Cataldi
25/05/17
di Valeria Zeppilli
PRONTO PER ESSERE PRESENTATO L’EMENDAMENTO
CHE REINTRODUCE IL LAVORO OCCASIONALE, SEPPUR CON LIMITI STRINGENTI
SINDACATI SUL PIEDE DI GUERRA
I voucher, recentemente aboliti dal
Governo, potrebbero presto rientrare nel nostro ordinamento già con la
manovrina. A prevederlo è un emendamento del Governo che ha rischiato di
spaccare la maggioranza e sul quale si sono alternate smentite e conferme.
La bozza che sta circolando nelle ultime
ore, come anticipa l’ANSA, riformula le proposte presentate in Commissione
bilancio alla Camera. Intanto, i sindacati sono sul piede di guerra e
annunciano la riproposizione del referendum che, si ricorda, era stato
“accantonato” a seguito dell’addio alla normativa sui voucher dei mesi scorsi.
L’emendamento circolato sino a poche ore
fa, ripristina il lavoro occasionale sia per le famiglie che per le piccole
imprese che impiegano sino a 5 dipendenti. Viene disegnato in pratica un nuovo
voucher di minimo 4 ore di lavoro, ognuna retribuita con 12,50 euro lordi, con
un doppio tetto massimo: uno per i datori di lavoro e l’altro per i lavoratori.
I primi potranno ricorrere al nuovo
voucher sino a massimo di 5.000 euro annui, eccezionalmente elevabili a 7.500
euro in caso di “assunzione” di lavoratori di disoccupati, studenti o
pensionati.
I lavoratori, invece, potranno guadagnare
con tale forma di impiego sino a massimo di 2.500 euro annui.
In ogni caso non sarà possibile utilizzare
il nuovo lavoro occasionale in edilizia e nelle attività pericolose, come
scavi-estrazioni e miniere.
Dovranno poi essere preventivamente
indicati tutti gli estremi idonei a identificare l’azienda, l’utilizzatore e il
tempo e il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa.
Venendo ai contributi previdenziali, essi
ammonteranno al 32%, al pari di un contratto di collaborazione. Eliminati anche
i premi INAIL, il netto che dovrebbe restare al lavoratore è di circa 9 euro.
Secondo la bozza circolata nelle ultime
ore, la nuova proposta per sostituire i voucher viaggia su un binario doppio:
da un lato, il libretto di famiglia, già annunciato nei giorni scorsi,
dall’altro il contratto occasionale per le imprese sotto i 5 lavoratori, di cui
alla prima stesura dell’emendamento soprariportata.
In tale ultimo caso, viene confermato il
tetto di 5.000 euro per le prestazioni per ogni lavoratore (e per ogni datore
di lavoro) con l’elevazione di 2.500 euro annui per le prestazioni rese ad un
datore singolo.
In ogni caso, il montante massimo delle
ore lavorate in un anno non potrà essere superiore alle 280 ore; in caso
contrario, il lavoratore dovrà essere assunto a tempo indeterminato. Vengono
fissati invece limiti diversi per l’agricoltura.
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IL CAPORALATO: DISCIPLINA E ASPETTI
CRITICI
Da Studio Cataldi
15/05/17
LA FATTISPECIE EX ARTICOLO 603-BIS DEL
CODICE PENALE ALL’INDOMANI DELLA RIFORMA DEL 2016
di Alessandra Di Marco
La fattispecie ex articolo 603-bis del
Codice Penale “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, che ha
subito profonde modifiche a opera della L. 199/16, viene genericamente identificata
con la locuzione “caporalato” che indica lo sfruttamento del lavoro nell’ambito
agricolo.
L’innovazione principale apportata dalla
L. 199/16 è sicuramente costituita dall’introduzione di una nuova figura del
responsabile.
Infatti l’articolo 603-bis del Codice
Penale ante-riforma puniva la sola condotta dell’intermediario, mentre
all’indomani della riforma del 2016 viene inserito il comma 2 che prevede la
responsabilità penale anche dell’utilizzatore ovvero del datore di lavoro, ciò
in quanto, come formulato in origine l’articolo 603-bis sembrava violare il
principio di eguaglianza, pertanto si è ritenuto essenziale estendere la
sanzione penale anche al datore di lavoro che approfittando della condizione di
bisogno del lavoratore lo sfrutti.
L’ulteriore innovazione di rilievo, oltre
alle specifiche aggravanti, è poi certamente individuabile nel comma 3
dell’articolo 603-bis del Codice Penale, ove sono indicati i cosiddetti “indici
rivelatori” della fattispecie, cioè sono stati specificati una serie di elementi
in presenza dei quali dovrebbe ritenersi configurato il reato.
La nuova fattispecie ex articolo 603-bis
del Codice Penale risulta essere caratterizzata dallo sfruttamento dei
lavoratori mediante l’utilizzo di violenza, minaccia o intimidazione, approfittando
dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori.
Ne consegue che la fattispecie risulta
essere molto più completa e molto più incisiva. Tuttavia non mancano già forti
critiche soprattutto in merito ai criteri indicati al comma 3 dell’articolo
603-bis che introducono un margine abbastanza ampio nella valutazione delle
condotte delittuose.
E’ bene infatti evidenziare che il delitto
“de quo” si colloca, all’interno del Codice Penale, tra i delitti contro la
libertà personale, la stessa collocazione lascia pensare che tra tutti gli
elementi caratterizzanti il “caporalato” devono considerarsi come essenziali
quelli della minaccia, violenza nonché lo sfruttamento dello stato di bisogno
in cui versa i lavoratore.
Risulta infatti molto più marginale il
criterio attinente alla retribuzione, criterio che certamente caratterizza la
condotta e che deve essere tenuto in considerazione, ma è ovvio che una simile
fattispecie non potrà ritenersi integrata solo o in virtù del fatto che si
registri il mancato versamento della retribuzione, ancorché unico elemento
accertato.
Infatti la collocazione del delitto tra le
fattispecie contro la libertà personale mira a garantire che la sanzione penale
colpisca per lo più tutte quelle condotte che ledono materialmente la libertà
del singolo ponendolo in una condizione di assoluto soggezione rispetto a chi
risulta essere economicamente più forte.
Il nuovo testo normativo appare piuttosto
“magniloquente”, ma ciò che preme adesso comprendere sarà la portata reale
della nuova disciplina e soprattutto i reali effetti che riuscirà a sortire sia
in termini di maggior tutela del lavoratore sia in termini di riduzione del
fenomeno in sé.
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CAPORALATO: IL DISEGNO DI LEGGE E’ LEGGE
di Marina Crisafi
E’ arrivato nella serata di ieri il via
libera definitivo alla nuova legge contro il caporalato, fortemente voluta dal
Ministro delle politiche agricole Maurizio Martina e attesa da tempo.
Montecitorio ha dato l’OK (con 190 voti a favore, 32 astenuti e nessun
contrario) al testo, nella veste approvata dal Senato lo scorso agosto, che
mira a garantire una maggiore efficacia all’azione di contrasto del caporalato,
introducendo significative modifiche all’attuale disciplina e inasprendo le
pene (con carcere fino a 6 anni e confisca dei beni) per chi sfrutta i
lavoratori dell’agricoltura.
Il fenomeno del caporalato, ossia
“l’intermediazione illegale e lo sfruttamento lavorativo, prevalentemente in
agricoltura” coinvolge, oggi, secondo le stime, circa 400.000 lavoratori in
Italia, sia italiani che stranieri, ed è diffuso in tutte le aree del Paese.
Con questa legge, “attesa da almeno cinque
anni” - ha commentato a caldo il ministro Martina a margine dell’approvazione –
“ora ci sono gli strumenti utili per continuare una battaglia che deve essere
quotidiana, perché sulla dignità delle persone non si tratta”.
La nuova legge, che si compone di 12
articoli, riscrive innanzitutto il reato di caporalato introducendo la
sanzionabilità anche del datore di lavoro, l’applicazione di un’attenuante nel
caso di collaborazione con le autorità; l’arresto obbligatorio in flagranza di
reato; il rafforzamento dell’istituto della confisca e l’adozione di misure
cautelari e il potenziamento della “Rete del lavoro agricolo di qualità”, in
funzione di strumento di controllo e prevenzione del lavoro nero in
agricoltura.
In particolare, il provvedimento riformula
il delitto di “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, già
inserito all’articolo 603-bis del Codice Penale, prevedendo la pena della
reclusione da uno a sei anni per l’intermediario e per il datore di lavoro e la
multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato, approfittando del loro
stato di bisogno.
Viene sancito, inoltre, che se i fatti
sono commessi mediante violenza o minaccia, la pena della reclusione, rispetto
alla fattispecie-base, aumenta da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a
2.000 euro per ogni lavoratore reclutato; è previsto l’arresto in flagranza.
Le nuove regole individuano quale indice
di sfruttamento anche la corresponsione reiterata di retribuzioni palesemente
difformi dai contratti collettivi territoriali e la violazione delle norme
sugli orari di lavoro di lavoro e sui periodi di riposo.
Previste attenuanti per si adopera ad
evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori o per
assicurare le prove dei reati o l’individuazione degli altri responsabili
ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite.
La nuova legge, inoltre, sancisce che,
come avviene con le organizzazioni criminali mafiose, al reato si accompagni
sempre la confisca obbligatoria dei beni, del denaro o delle altre utilità di
cui il condannato risulti titolare (o abbia la disponibilità a qualsiasi
titolo) e non possa giustificarne la provenienza.
Il provvedimento inoltre estende le
finalità del Fondo Anti-tratta anche alle vittime del reato di caporalato,
prevedendo l’assegnazione dei proventi delle confische ordinate a seguito di
sentenza di condanna o di patteggiamento per il delitto ex articolo 603-bis del
Codice Penale.
La modifica comporta la destinazione delle
risorse del Fondo anche all’indennizzo delle vittime del reato di caporalato.
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“TEMPO-TUTA”: COSA E’ E QUANDO VA
RETRIBUITO
Da Studio Cataldi
22/05/17
di Laura Bazzan
LA RETRIBUZIONE DELLA VESTIZIONE NEL
RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO
Il cosiddetto “tempo-divisa” o
“tempo-tuta” è il tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli indumenti da
lavoro. Secondo quanto precisato dalla giurisprudenza, il tempo necessario alla
vestizione del lavoratore va considerato e retribuito quale lavoro effettivo,
ossia quale lavoro che richiede un’occupazione assidua e continua ai sensi del
articolo 3 del Regio Decreto n. 629/23, quando l’operazione sia diretta dal
datore di lavoro, che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, oppure
si tratti di operazione avente carattere strettamente necessario e obbligatorio
per lo svolgimento dell’attività lavorativa (si veda tra le molte la Sentenza
di Cassazione n. 2135/2011).
In altre parole, il tempo-divisa va
retribuito quando la scelta dei tempi e dei luoghi in cui procedere alla
vestizione e alla svestizione della divisa non è rimessa al lavoratore ma
imposta per eterodeterminazione, la quale “può derivare dall’esplicita
disciplina d’impresa, o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti
da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello
svolgimento della prestazione” (Sentenza di Cassazione n. 1352/2016).
Viceversa, “ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo
ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di
recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza
preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve
essere retribuita” (Sentenza di Cassazione n. 19273/2006).
Nel tempo, la giurisprudenza ha
individuato degli indici rivelatori della sussistenza di eterodeterminazione in
relazione a vestizione e vestizione degli indumenti da lavoro, precisando che
“si tratta di operazioni imposte da un obbligo interno al rapporto di lavoro,
che espone il lavoratore a responsabilità disciplinare in caso di inosservanza;
né rileva in senso contrario la circostanza che il datore di lavoro non abbia
adottato prescrizioni sui tempi entro i quali compiere le operazioni in
questione, avendo comunque egli potuto farlo” (Sentenza di Cassazione n.
1697/2012).
Ulteriori indici sono costituiti dallo
svolgimento delle stesse operazioni all’interno dei locali aziendali all’uopo
predisposti (spogliatoi) e dalla registrazione dell’orario di entrata in
servizio con timbratura del cartellino.
Sulla scorta di tali considerazioni, ad
esempio, è stato riconosciuto il diritto alla retribuzione di un addetto alla
lavorazione di gelati e surgelati, per il tempo dallo stesso impiegato ad
indossare tuta, scarpe antinfortunistiche, copricapo e indumenti intimi forniti
dall’azienda, che richiedeva la sua presenza sul luogo di lavoro prima
dell’inizio del turno, accertato che le operazioni di vestizione e svestizione
si svolgevano nei locali aziendali e, solo dopo aver indossato tali abiti ed
essere passato da un tornello con marcatura del badge, lo stesso dipendente
poteva accedere al proprio reparto (Sentenza di Cassazione n. 2837/2014).
Per contro, la retribuzione aggiuntiva
rispetto al salario già percepito in virtù del contratto di lavoro è stata
negata a un’infermiera che registrava la presenza prima di indossare camice e
zoccoli e timbrava l’uscita solo dopo essersi cambiata, in quanto le operazioni
venivano realizzate nell’orario di lavoro e dovevano ritenersi comprese nella
diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore
(Sentenza di Cassazione n. 11755/2016).
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TELECAMERE PER CONTROLLARE I DIPENDENTI:
GLI OBBLIGHI PER IL DATORE DI LAVORO
Da Studio Cataldi
22/05/17
TELECAMERE PER CONTROLLARE I DIPENDENTI:
COSA RISCHIA IL DATORE?
COMMETTE REATO IL DATORE CHE INSTALLA
TELECAMERE IN AZIENDA SENZA L’ACCORDO CON I SINDACATI
di Lucia Izzo
Il rispetto della privacy dei lavoratori
non è un optional, ma un diritto che deve essere tutelato anche sul luogo di
lavoro. Un regime particolarmente stringente in materia si riscontra in
relazione ai controlli effettuati tramite l’installazione di telecamere in
azienda.
L’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori
(L. 300/70), come modificato dal Jobs Act (D.Lgs. 151/15, art. 23) ha stabilito
il divieto dell’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per
finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
Tuttavia, prosegue la norma, è possibile
l’installazione di impianti e apparecchiature di controllo che siano richiesti
da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma se
da questi ne deriva anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei
lavoratori è necessario un previo accordo con le rappresentanze sindacali
aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In
difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del
Lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti.
Ciò significa che, in mancanza del
necessario accordo e dell’autorizzazione dei sindacati, oppure del
provvedimento della Direzione Territoriale del Lavoro, l’installazione di
telecamere che controllano i dipendenti resta una violazione della privacy e
dunque un reato punibile ai sensi degli articoli 4 e 38 dello Statuto dei
Lavoratori.
La punibilità ai sensi di quest’ultima
norma, si desume dal combinato disposto degli articoli 114 e 171 del D.Lgs.
196/03 (Codice della Privacy): il datore di lavoro, salvo che il fatto non
costituisca più grave reato, rischia un’ammenda oppure l’arresto da 15 giorni a
un anno.
Per la giurisprudenza, il reato del datore
di lavoro che installi impianti e apparecchiature audiovisive senza il
necessario accordo rappresenta un reato di pericolo, essendo diretto a
salvaguardare le possibili lesioni della riservatezza dei lavoratori.
Pertanto, ai fini della sua integrazione è
sufficiente la mera predisposizione di apparecchiature idonee a controllare a
distanza l’attività dei lavoratori, anche non funzionanti o mai utilizzate,
poiché per la punibilità non è richiesta la messa in funzione o il concreto
utilizzo delle attrezzature.
L’accordo con i sindacati, dunque, è
sempre indispensabile e non se ne può fare a meno neppure se sia stato
acquisito il consenso scritto dei dipendenti. Tanto si desume da un recente
orientamento della Corte di Cassazione, che ha ribaltato il precedente che
aveva ritenuto non integrato il reato laddove il datore avesse acquisito il
consenso di tutti i lavoratori.
Nella Sentenza numero 22148/2017, il
Collegio ha ritenuto che il consenso espresso dai lavoratori, scritto od orale,
non può mai scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato
gli impianti di videosorveglianza senza rispettare l’apposita normativa.
Ciò in quanto la norma impone di tutelare
non gli interessi di carattere individuale, ma collettivo e superindividuale.
In altre parole, “la condotta datoriale,
che pretermette l’interlocuzione con le rappresentanze sindacali unitarie o
aziendali procedendo all’installazione degli impianti dai quali possa derivare
un controllo a distanza dei lavoratori, produce l’oggettiva lesione degli
interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici”.
In ambito penale, tuttavia, la stessa
Corte di Cassazione, nella Sentenza numero 33567/2016, ha confermato la
condanna per due dipendenti fannulloni, indagati per truffa aggravata e
continuata nei confronti del Comune, alle dipendenze del quale avevano prestato
servizio con le mansioni di usciere.
I due, allontanatisi dal posto di lavoro
timbrando il cartellino segnatempo in orari di entrata e uscita diversi da
quelli effettivi, avevano affermato la non utilizzabilità delle captazioni di
immagini audiovisive effettuate dalla polizia giudiziaria.
Sul punto, i giudici hanno affermato che,
in tema di apparecchiature di controllo dalle quali derivi la possibilità di
verificare a distanza l’attività dei lavoratori, le garanzie procedurali
previste dall’articolo 4, comma 2, dello Statuto dei Lavoratori non trovano
applicazione quando si procede all’accertamento di fatti che costituiscono
reato. Tali garanzie riguardano solo l’utilizzabilità delle risultanze delle
apparecchiature di controllo nei rapporti interni, di diritto privato, tra
datore di lavoro e lavoratore.
La loro eventuale inosservanza, precisano
gli Ermellini, non assume pertanto alcun rilievo nell’attività di repressione
di fatti costituenti reato, al cui accertamento corrisponde sempre l’interesse
pubblico alla tutela del bene penalmente protetto, anche qualora sia possibile
identificare la persona offesa nel datore di lavoro.
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TELECAMERE IN AZIENDA: REATO ANCHE CON IL
CONSENSO DEI LAVORATORI
LA CASSAZIONE CAMBIA ROTTA E SANCISCE CHE
NON E’ MAI POSSIBILE PRESCINDERE DALL’ACCORDO CON I SINDACATI O
DALL’AUTORIZZAZIONE DELLA DIREZIONE TERRITORIALE DEL LAVORO
di Valeria Zeppilli
Se il datore di lavoro installa in azienda
delle telecamere di videosorveglianza dopo aver acquisito il consenso scritto
dei dipendenti, non per ciò solo si salva dalla condanna penale: l’accordo con
i sindacati è infatti sempre indispensabile.
Questo, almeno, è quanto sancito dalla
Corte di Cassazione con la sentenza numero 22148/2017, che, tuttavia,
rappresenta un netto cambio di rotta rispetto all’orientamento interpretativo
sino ad ora seguito dai giudici di legittimità in materia di controllo dei
lavoratori a distanza.
La controversia aveva preso le mosse
dall’installazione di due telecamere in un negozio, collegate tramite wi-fi a
un monitor, da parte della titolare dello stesso. Tali telecamere, infatti,
permettevano il controllo dell’attività lavorativa dei dipendenti dell’attività
commerciale, ma la loro installazione non era stata preceduta né da un accordo
sindacale né dall’autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro.
Dinanzi alla condanna penale al pagamento
di 600 euro a titolo di ammenda inflittale dal giudice del merito, la titolare
del negozio ha provato a modificare la propria sorte ricorrendo alla Corte di
Cassazione e tentando di far valere dinanzi al giudice delle leggi
l’orientamento, sancito ad esempio dalla Sentenza numero 22611/2012, in forza
del quale il reato non può dirsi integrato se il datore di lavoro, in casi come
quello di specie, ha preventivamente acquisito il consenso di tutti i
dipendenti (cosa che la ricorrente aveva effettivamente provveduto a fare).
Con la Sentenza in commento, tuttavia, la
Cassazione ha ribaltato un simile orientamento, ritenendo che il consenso
espresso dai lavoratori, sia esso scritto od orale, non può mai scriminare la
condotta del datore di lavoro che abbia installato gli impianti di
videosorveglianza senza rispettare l’apposita normativa.
La norma penale rilevante nel caso di
specie, infatti, tutela degli interessi di carattere non individuale ma
collettivo e superindividuale. Come affermato dai giudici, in altre parole, “la
condotta datoriale, che pretermette l’interlocuzione con le rappresentanze
sindacali unitarie o aziendali procedendo all’installazione degli impianti dai
quali possa derivare un controllo a distanza dei lavoratori, produce
l’oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze
sindacali sono portatrici”.
Il comportamento tenuto dalla titolare del
negozio, oltretutto, integra anche un’ipotesi di condotta antisindacale,
censurabile con il procedimento speciale di cui all’articolo 28 dello Statuto
dei Lavoratori, ed è idoneo, sulla base di quanto insegna il garante della
privacy, a rappresentare un’ipotesi di illecito trattamento dei dati personali
tramite videosorveglianza.
Si tratta, insomma, di un orientamento
interpretativo innovativo, dinanzi al quale occorrerà ora attendere del tempo
per verificare quanto effettivamente lo stesso troverà riscontro nella
giurisprudenza.
In ogni caso, come precisato anche nella
sentenza in commento, esso vale con riferimento alla formulazione dell’articolo
4 dello Statuto dei Lavoratori sia antecedente che successiva all’entrata in
vigore del Jobs Act.
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Da: PuntoSicuro
17 maggio 2017
Un volume dedicato alle Piccole e Medie Imprese e al mondo dell’artigianato
riepiloga la normativa in materia di salute e sicurezza. Focus sui rischi
derivanti dall’esposizione alle radiazioni ottiche artificiali: normativa,
formazione e prevenzione.
Riguardo ai rischi derivanti dall’esposizione alle radiazioni ottiche il
D.Lgs. 81/08 si sofferma in particolare, attraverso il Capo V (Protezione dei
lavoratori dai rischi di esposizione a radiazioni ottiche artificiali) del
Titolo VIII (Agenti fisici), sulle radiazioni ottiche artificiali (ROA).
Per parlare del rischio correlato all’esposizione a queste radiazioni, con
particolare riferimento al mondo dell’artigianato e delle Piccole e Medie
Imprese (PMI), possiamo sfogliare il volume “Salute e Sicurezza nelle imprese
artigiane e nelle PMI: cosa occorre sapere e cosa si deve fare”, realizzato
dall’Organismo Paritetico Regionale per l’Artigianato Lombardia (OPRA
Lombardia) e dai vari Organismi Paritetici Territoriali Artigiani (OPTA), una
pubblicazione che nasce come strumento di consultazione per favorire una
corretta applicazione delle vigenti disposizioni di legge.
Il documento, che sottolinea come sia comunque buona prassi nelle aziende
valutare anche i rischi dell’eventuale esposizione a radiazioni solari, per le
ROA riporta alcuni riferimenti normativi:
- Allegato XXXVII del
D.Lgs. 81/08 che contiene i limiti di esposizione alle ROA;
- Direttiva 2006/25/CE del
Parlamento e del Consiglio del 5 aprile 2006 “Prescrizioni minime di sicurezza
e di salute, relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli
agenti fisici (ROA);
- norma UNI EN
14255–1:2005: “Misurazione e valutazione dell’esposizione personale a
radiazioni ottiche incoerenti - Parte 1: radiazioni ultraviolette emesse da
sorgenti artificiali nel posto di lavoro”;
- norma UNI EN
14255–2:2006 “Misurazione e valutazione dell’esposizione personale a radiazioni
ottiche incoerenti - Parte 2: Radiazioni visibili ed infrarosse emesse da
sorgenti artificiali nei posti di lavoro”;
- UNI EN 14255-4:2007:
“Misurazione e valutazione dell’esposizione personale a radiazioni ottiche
incoerenti - Parte 4: Terminologia e le grandezze da utilizzare per le
misurazioni.
Il documento ricorda poi che le radiazioni ottiche sono caratterizzate in
prima linea dalla loro lunghezza d’onda. In particolare si differenzia fra
radiazione ultravioletta (UV), radiazione visibile (VIS) e infrarossa (IR).
Inoltre si differenziano ulteriormente le radiazioni ottiche in “coerenti”
(emettono su un’unica lunghezza d’onda, ad esempio i laser) ed “incoerenti”.
I laser (radiazioni ottiche coerenti) possono essere ad esempio usati per
lavorazioni di materiali (taglio, saldatura, marcatura e incisione), per
applicazioni mediche e per uso estetico, in campo informatico o elettronico.
Si hanno invece esempi di sorgenti di radiazioni incoerenti nelle fonti
radianti emittenti di temperatura come il sole o le lampadine a incandescenza,
ma anche nelle operazioni di saldatura, di saldatura ad arco, nella
fotoincisione, nell’uso di lampade germicide per la sterilizzazione, nei centri
di abbronzatura.
Quali sono i rischi per la salute del lavoratore dall’esposizione a queste
radiazioni?
Il documento sottolinea che l’effetto delle radiazioni sull’occhio o sulla
pelle dipende dalla loro lunghezza d’onda e dalla loro potenza.
E oltre ai rischi per la salute dovuti all’esposizione diretta alle
radiazioni ottiche artificiali esistono ulteriori rischi indiretti, quali:
- sovraesposizione a luce
visibile: disturbi temporanei visibili, quali abbagliamento, accecamento
temporaneo;
- rischi di incendio e di
esplosione innescati dalle sorgenti stesse e/o dal fascio di radiazione;
- rischi associati alle
apparecchiature/lavorazioni che utilizzano ROA quali stress termico, contatti
con superfici calde, rischi di natura elettrica”.
Inoltre poiché le sorgenti laser possono generare radiazioni di
elevatissima intensità, i danni conseguenti possono risultare estremamente
gravi.
Il documento si sofferma poi sui dispositivi di protezione, sulla
sorveglianza sanitaria e sulla cartellonistica di sicurezza, ad esempio
ricordando, riguardo a quest’ultimo aspetto, che le aree in cui è possibile il
superamento dei limiti di esposizione vanno segnalate e, ove possibile,
delimitate. E laddove venga ravvisata la necessità di adottare dispositivi di
protezione, occorre segnalarne l’obbligatorietà per mezzo di apposita
cartellonistica.
Il documento riporta poi informazioni sulla formazione specifica
sottolineando che la normativa vigente parte dal presupposto che “i lavoratori
devono essere formati, informati e addestrati”. E la formazione degli operatori
è necessaria per quelli a rischio di superamento dei livelli di esposizione
definiti dalla legge, ma anche per quei lavoratori che si trovano in presenza
di sorgenti, pur non superando i limiti di esposizione.
In particolare la formazione deve riguardare la conoscenza dei rischi, il
contenimento degli stessi, le procedure di lavoro da seguire e i dispositivi di
protezione da utilizzare, nonché l’attività di sorveglianza sanitaria.
Senza dimenticare che laddove i valori limite sono superati, oppure sono
identificati effetti nocivi sulla salute:
- il medico o altra
persona debitamente qualificata comunica al lavoratore i risultati che lo
riguardano; il lavoratore riceve in particolare le informazioni e i pareri
relativi al controllo sanitario cui dovrebbe sottoporsi dopo la fine
dell'esposizione;
- il datore di lavoro è
informato di tutti i dati significativi emersi dalla sorveglianza sanitaria
tenendo conto del segreto professionale.
Infine il documento ricorda cosa sia possibile fare per migliorare nelle
aziende le condizioni di sicurezza.
Si indica che oltre all’adozione delle misure di tutela previste dai
manuali di istruzione delle attrezzature di lavoro (macchine) marcate CE, si
possono adottare soluzioni tecniche e procedurali quali:
- il contenimento della
sorgente all’interno di ulteriori idonei alloggiamenti schermanti (la
radiazione UV si può schermare con finestre di vetro o materiali plastici
trasparenti nel visibile);
- l’adozione di schermi
ciechi o inattinici a ridosso delle sorgenti (ad esempio i normali schermi che
circondano le postazioni di saldatura);
- la separazione fisica
degli ambienti nelle quali si generano ROA potenzialmente nocive dalle
postazioni di lavoro vicine;
- l’impiego di automatismi
(interblocchi) per disattivare le sorgenti ROA potenzialmente nocive (ad
esempio lampade germicide a raggi UV) sugli accessi ai locali nei quali queste
sono utilizzate;
- la definizione di “zone
ad accesso limitato”, contrassegnate da idonea segnaletica di sicurezza.
Inoltre, può essere in linea generale necessario:
- individuare metodi di
lavoro e/o attrezzature che comportano una minore esposizione alle radiazioni
ottiche;
- attuare opportuni
programmi di manutenzione delle attrezzature di lavoro, dei luoghi e delle
postazioni di lavoro;
- limitare la durata
dell’esposizione.
Concludiamo segnalando che nel documento è presente una breve check-list
relativa all’esposizione alle radiazioni ottiche nei luoghi di lavoro.
Il documento dell’Organismo Paritetico Regionale per l’Artigianato
Lombardia, “Salute e Sicurezza nelle imprese artigiane e nelle PMI: cosa
occorre sapere e cosa si deve fare”è scaricabile all’indirizzo:
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Da: PuntoSicuro
18 maggio 2017
di Tiziano Menduto
Esempi di infortuni correlati all’utilizzo di funi e catene. Problemi con
il cavo d’acciaio di una gru e con la catena di un paranco. La dinamica degli
infortuni, i fattori causali e i suggerimenti nella scelta delle funi di
sollevamento.
Nelle operazioni di movimentazione dei carichi sono diversi i rischi di
infortunio correlati allo stato di accessori di sollevamento come funi e
catene. Ad esempio nell’uso delle funi i rischi possono essere relativi alla
caduta del carico per rottura della fune a seguito dell’usura o scorretto
utilizzo, alle lacerazioni delle mani a causa dei fili rotti dei trefoli o allo
sbilanciamento del carico a seguito di deformazioni delle funi.
Con questa puntata di “Imparare dagli errori”, la rubrica dedicata al
racconto e all’analisi degli infortuni lavorativi, ci soffermiamo proprio su
alcuni incidenti avvenuti con diverse tipologie di utilizzo di funi e catene di
acciaio e su alcuni suggerimenti sulla scelta e manutenzione di questi
accessori.
Le dinamiche infortunistiche che presentiamo sono tratte dall’archivio di
INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato
al sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi.
Il primo caso riguarda la realizzazione di una trave in cemento armato.
Un lavoratore è in piedi sulle casseforme durante la realizzazione di una
trave in cemento armato al 5° piano di una palazzina. A poca distanza si trova
una gru munita di cestello che carica il materiale.
All’improvviso si spezza il cavo di acciaio che regge il cestello, portando
con sé il moncone di cavo spezzato. Il cavo nella caduta urta il lavoratore
che, perdendo l’equilibrio, cade al suolo morendo sul colpo.
Questi i fattori causali rilevati dalla scheda:
- rottura del cavo;
- mancanza di DPI.
Nel secondo caso l’incidente avviene su una nave.
Mentre tre dipendenti di una società marittima si trovano sul portellone
prodiero di una nave che sta effettuando manovra, cadono da una altezza che va
da 2 a 5 metri circa a causa della rottura della catena del paranco.
La catena del paranco si è rotta a causa di un guasto alla puleggia di
rinvio lato sinistro che si è divelta facendo venire in bando il cavo di
acciaio. In questo modo tutto il peso del portellone veniva sopportato dalla
catena del paranco che non essendo idonea a sopportare tale peso, si spezzava.
I fattori causali rilevati dalla scheda:
- rottura della catena del
paranco a causa del guasto a una puleggia;
- i lavoratori erano posti
sul portellone durante la manovra di messa a secco di una nave.
Rimandando alla lettura dei vari articoli di PuntoSicuro sulle buone prassi
relative alla movimentazione dei carichi, all’ uso dei paranchi e alla
manutenzione di funi e catene, prendiamo qualche spunto per la prevenzione da
un documento, prodotto dalla ULSS 22 della Regione Veneto, che si sofferma
sulla sicurezza delle funi di sollevamento.
In “Funi di sollevamento: criteri di scelta, manutenzione, verifica e
sostituzione” (documento che fa particolare riferimento al settore lapideo
veronese, dove la movimentazione avviene in gran parte mediate l’uso di funi
metalliche e solo in minima parte con catene e fasce) vengono riportate utili
indicazioni sulla scelta del tipo di fune adatta al carico da
sollevare/movimentare:
- determinazione del peso:
è indispensabile conoscere il peso del carico da sollevare per poter scegliere
correttamente la fune ed il metodo di imbraco più idoneo (è consigliato
trascrivere il peso sul blocco dalla bolla di consegna o di pesatura); si
sottolinea che quando il carico è sorretto da una due brache semplici (cioè le
due funi vengono fatta passare sotto il carico e agganciate al gancio
dell’impianto di sollevamento) bisogna considerare la portata di solo due
bracci;
- lunghezza: la lunghezza
della fune incide in modo significativo sullo sforzo che gli accessori di
sollevamento devono resistere; tanto più l’angolo al vertice è acuto tanto più
la fune viene sollecitata a trazione indipendentemente dalla massa sollevata;
- sagoma del carico: la
sagoma irregolare del materiale da sollevare può compromettere la stabilità del
carico e dell’impianto di sollevamento stesso in quanto si potrebbero
verificare dei sobbalzi/aggiustamenti del carico dovuti al suo spostamento o a
quello delle funi; per questo motivo quando si effettua la movimentazione di
carichi con la sagoma irregolare bisogna sollevare lentamente il carico e
verificare che le funi siano regolarmente posizionale e il carico stabile;
- eventuali protezioni
degli spigoli vivi: tra la fune e gli spigoli vivi del materiale da sollevare
devono essere posizionati degli spessori o delle protezioni/accessori in modo
che la fune non subisca delle flessioni che potrebbero deformare la fune stessa
in modo permanente.
Inoltre si ricorda l’importanza di:
- stoccaggio: è necessario
provvedere alla manutenzione della fune durante la sua vita, lubrificandola
regolarmente in caso di prolungata inattività, nel caso di condizioni di lavoro
intense o nel caso che l’ambiente in cui vengono impiegate sia particolarmente
sfavorevole (umidità, freddo, acqua, gelo, ecc.); il lubrificante da utilizzare
deve essere compatibile con quello consigliato dal fabbricante della fune; la
conservazione delle funi deve avvenire in un luogo asciutto e le stesse devono
essere avvolte in modo tale da non pregiudicarne lo stato di conservazione (ad
esempio utilizzando delle rastrelliere, senza che si creino delle pieghe,
ecc.);
- primo impiego: per
stabilizzare la fune è consigliato effettuare un adeguato numero di cicli di
funzionamento (5-10 sollevamenti) con un carico di circa il 10/15% del carico
nominale della fune.
Ricordiamo infine che il documento, che riporta indicazioni sulle verifiche
delle funi, si sofferma anche sulla norma UNI ISO 4309:2011, relativa alla
cura, manutenzione, ispezione e scarto delle funi di acciaio.
Per favorire la gestione corretta delle funi d’acciaio per sollevamento da
parte degli utilizzatori, la norma definisce le linee guida per la cura,
l’installazione, la manutenzione e i controlli delle funi di acciaio in
servizio sugli apparecchi di sollevamento ed elenca i criteri per lo scarto che
devono essere applicati per implementare un utilizzo sicuro degli apparecchi di
sollevamento.
Il documento “Funi di sollevamento: criteri di scelta, manutenzione,
verifica e sostituzione”, realizzato dalla ULSS 22 della Regione Veneto è
scaricabile all’indirizzo:
Il sito web di INFOR.MO., di cui nell’articolo abbiamo presentato le schede
numero 1617 e 6217 è consultabile all’indirizzo:
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Da: PuntoSicuro
25 maggio 2017
di Tiziano Menduto
Esempi di infortuni professionali nel lavoro degli apprendisti. Le attività
artigianali di produzione di vetri e i rischi di caduta nei lavori in quota. Le
dinamiche degli infortuni, i fattori che li hanno causati e i suggerimenti per
gli apprendisti.
Molti articoli di PuntoSicuro hanno sottolineato come, nel mondo del
lavoro, i ragazzi di età compresa tra i 18 e i 24 anni abbiano almeno il 50% di
probabilità in più di subire un infortunio sul lavoro rispetto ai lavoratori
con maggiore esperienza e anzianità.
Con riferimento a questi dati, tratti da una campagna lanciata nel 2006
dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, abbiamo deciso di
dedicare alcune puntate della rubrica “Imparare dagli errori”, dedicata al
racconto e all’analisi degli infortuni lavorativi, al mondo dell’apprendistato,
agli infortuni che avvengono tra gli apprendisti.
I casi presentati sono tratti, come sempre, dalle schede di INFOR.MO.,
strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema
di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi
Il primo caso riguarda un infortunio avvenuto in un capannone che ospita le
attività artigianali di produzione di vetri.
Un lavoratore è intento a svolgere le proprie mansioni di “apprendista”
presso la linea di produzione del “vetro camera” per la produzione di vetri
coibentanti. In particolare il lavoratore si trova nella zona di caricamento
dei vetri che posiziona su un alloggiamento per la successiva lavorazione
automatica di accoppiamento tra lastre.
I vetri che sta movimentando sono dello spessore di 4 mm e delle dimensioni
90 x 180 cm. Nel caricare uno di questi vetri il lavoratore tocca con la lastra
un’altra lì depositata provocando la rottura del vetro in caricamento. Uno dei
pezzi risultanti dalla rottura lo colpisce di taglio al collo, sia nella parte
posteriore che nella parte destra (questa seconda ferita è quella risultata poi
più profonda e grave; la diagnosi è stata di ferita lacero contusa
laterocervicale destra con lesione dei piccoli vasi. L’infortunio ha causato un’inabilità
temporanea di 105 giorni e permanente del 2%.
La zona di caricamento dell’impianto di accoppiamento vetri non risultava
adeguatamente spaziosa per consentire una agevole manovra di movimentazione di
vetri di considerevoli dimensioni a causa del deposito, disordinato e
debordante, di altri vetri. La rottura della lastra è avvenuta per urto della
stessa contro un’altra, depositata nelle vicinanze, per un errore di manovra
dell’infortunato, ma l’incidente è stato favorito dagli spazi ristretti a disposizione
per la lavorazione.
Questi i fattori causali individuati:
- errore di manovra
dell’infortunato che urta la lastra di vetro in lavorazione con un’altra
depositata nelle vicinanze;
- spazi ristretti a
disposizione per la lavorazione a causa del deposito di altre lastre nelle
vicinanze.
Il secondo caso riguarda un infortunio avvenuto ad un’apprendista
carpentiere.
A una ditta appaltata erano stati affidati dall’appaltatore unico, i lavori
di carpenteria e di copertura del tetto della casa in costruzione in un
cantiere.
L’apprendista, insieme con il capomastro, stava applicando dei pannelli di
legno a copertura della parete esterna della soffitta, lato sud-ovest della
casa. Il capomastro prendeva i pannelli nell’interno della soffitta e, uscendo
sul balcone della soffitta, li passava all’apprendista, che stando su una scala
doppia, sistemata sul balcone del 1° piano, a una altezza da terra di circa 6
m, applicava sulla parete esterna della soffitta i pannelli uno sopra l’altro,
appoggiando quello superiore, lungo la sua scanalatura, su quello inferiore,
fornito di un rilievo in lunghezza. Il capomastro, sul balcone della soffitta,
fissava con viti i pannelli ad un listello verticale. Arrivato al 5° pannello,
l’apprendista si accorgeva che esso, per essere inserito completamente, doveva
essere adattato, a un estremo, alla forma del trave inferiore del tetto. Nel
tentativo di sollevare il pannello con la mano sinistra, per portarlo a sé ed
eseguire il lavoro con lo scalpello tenuto con la destra, questo si staccava
improvvisamente dalla giunzione con il pannello inferiore, facendogli perdere
l’equilibrio che cadeva dalla scala, oltre il parapetto di protezione del
balcone, sul terreno ghiacciato, compiendo un volo di 6 m circa. L’infortunio è
da ricondurre alla mancata adozione di ponteggi o in alternativa al mancato uso
da parte dell’apprendista di dispositivi personali anticaduta, come la cintura
di sicurezza e la fune di trattenuta.
L’indagine metteva inoltre in luce quanto segue:
- i dispositivi personali
anticaduta erano rimasti inutilizzati nel container del cantiere della ditta
appaltata;
- il coordinatore per la
progettazione e l’esecuzione dei lavori, dopo aver preparato il piano di
coordinamento e sicurezza, che risultava di tipo standard con descrizione anche
di rischi non presenti nel cantiere, aveva affidato l’incarico di coordinatore
per l’esecuzione dei lavori ad altra persona, che aveva modificato il piano,
sostituendo l’installazione di ponteggi per i lavori di carpenteria, con
semplici recinzioni sui balconi;
- al momento
dell’affidamento dell’incarico, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori
stava ancora frequentando il corso per coordinatori e non era pertanto in
possesso dell’attestato di frequenza del corso.
Questi i fattori causali individuati:
- mancato uso di
dispositivi anticaduta;
- il lavoratore operava
sulla scala con entrambe le mani occupate;
- attrezzatura inadeguata
per l’operazione da svolgere.
Al di là dei fattori causali già individuati nelle schede e delle varie
buone prassi che avrebbero dovuto essere applicate dai lavoratori infortunati,
ci soffermiamo brevemente oggi sul documento di SUVA, Istituto svizzero per
l’assicurazione e la prevenzione degli infortuni, dal titolo “10 mosse per un
tirocinio in sicurezza. Materiale di approfondimento. Per i formatori
professionali, gli apprendisti, i genitori interessati, i superiori”.
Riprendiamo alcune indicazioni di prevenzione generica che, benché
elaborate con riferimento alle forme di tirocinio e apprendistato in Svizzera,
si possono adattare anche al mondo del nostro apprendistato.
Ci soffermiamo brevemente sulle prime tre regole.
STOP IN CASO DI PERICOLO
Si sottolinea che nessun lavoro è così importante da rischiare la vita.
Tutti, anche gli apprendisti, hanno il diritto di sospendere i lavori in caso
di minaccia per la propria vita e salute. Spesso ci vuole coraggio. Di fronte a
un pericolo i ritmi pressanti a volte ci impediscono di dire “stop” e di
sospendere l’attività. Spesso ci vuole coraggio e un’azienda alle spalle che lo
permetta. In tutto questo i formatori professionali svolgono un ruolo centrale.
CONOSCERE I PERICOLI E TUTELARSI DA QUESTI
Per non farsi male sul lavoro o ammalarsi, è necessario conoscere i
potenziali pericoli in azienda e sapere come proteggersi al meglio. Per questo
motivo, oltre alle “regole vitali”, ci sono ulteriori regoli da rispettare.
Lavorare e restare in salute: questo è un obiettivo di tutti. L’importante è
che gli apprendisti capiscano l’importanza e la necessità di certe regole; solo
così rispettarle sarà più facile. Ulteriori istruzioni per l’apprendista: prima
di accingermi a svolgere una nuova mansione:
- chiedo precise
istruzioni;
- mi informo sul significato
dei cartelli di sicurezza;
- applico sempre le regole
di sicurezza.
ATTREZZATURE: SO USARLE?
Spesso gli apprendisti non conoscono il loro nuovo posto di lavoro e non
sanno come utilizzare le macchine e le apparecchiature che incontrano per la
prima volta sul loro cammino professionale. E’ quindi fondamentale istruirli in
modo approfondito e graduale prima di lasciarli usare le attrezzature. E come
addestrare qualcuno in modo corretto? Per prima cosa il formatore professionale
mostra come usare una determinata attrezzatura. Poi, l’apprendista dovrà
ripeterne le mosse. Il formatore verifica se l’apprendista sta facendo le cose
correttamente e gli mostra dove sbaglia e se necessario bisognerà ripetere
tutto daccapo. L’addestramento deve trattare anche i seguenti argomenti:
impiego secondo il manuale del fabbricante;
- pericoli prevedibili;
- guasti prevedibili;
- eliminazione guasti;
- controlli necessari;
- DPI necessari.
Ulteriori istruzioni per l’apprendista:
- prima di usare per la
prima volta un apparecchio o una macchina chiedo sempre istruzioni;
- svolgo i controlli
necessari e utilizzo l’attrezzatura di lavoro secondo l’uso previsto;
- uso sempre i DPI;
- in caso di guasti o
anomalie sospendo i lavori;
- solo un tecnico o uno
specialista può eliminare i guasti;
- riprendo l’attività solo
dopo che l’attrezzatura è stata riparata.
Nelle prossime puntate di “Imparare dagli errori” ci soffermeremo sulle
altre regole del documento di SUVA e sulle specifiche della sicurezza degli
apprendisti secondo la normativa italiana.
Il documento del SUVA, Istituto svizzero per l’assicurazione e la
prevenzione degli infortuni, dal titolo “10 mosse per un tirocinio in
sicurezza. Materiale di approfondimento. Per i formatori professionali, gli
apprendisti, i genitori interessati, i superiori” è scaricabile all’indirizzo:
Il sito web di INFOR.MO., di cui nell’articolo abbiamo presentato le schede
numero 8038 e 6379 è consultabile all’indirizzo:
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Da: PuntoSicuro
01 giugno 2017
di Tiziano Menduto
Esempi di infortuni professionali nel lavoro degli apprendisti. Infortuni
nell’uso di una pressa piegatrice e in attività di produzione di sacchetti di
plastica. Le dinamiche degli infortuni, i fattori che li hanno causati e le
regole per gli apprendisti.
I dati relativi agli infortuni nell’Unione Europea, con riferimento alla
campagna di prevenzione del 2006 dell’Agenzia Europea per la sicurezza e la
salute sul lavoro (EU-OSHA), mostrano come, rispetto ai colleghi di lavoro con
più esperienza, gli apprendisti riportino infortuni con una frequenza
decisamente superiore.
Per questo motivo abbiamo iniziato un viaggio, attraverso la rubrica
“Imparare dagli errori”, dedicata al racconto e all’analisi degli infortuni
lavorativi, attraverso gli infortuni che avvengono tra gli apprendisti. Un
percorso che non si sofferma sono sugli infortuni ma vuole anche ricordare
alcune buone prassi generali di prevenzione per il mondo dell’apprendistato.
I casi presentati sono tratti, come sempre, dalle schede di INFOR.MO.,
strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema
di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi
Il primo caso riguarda un infortunio avvenuto ad un apprendista di nuova
assunzione.
Un lavoratore, apprendista da poco assunto, coadiuva un collega nelle
operazioni di piegatura ad una pressa piegatrice azionata dal comando a doppi
pulsanti.
Durante la fase di posizionamento della lamiera di medie dimensioni (m 1,5
x 2,0) sullo stampo inferiore l’infortunato si accorge del difettoso
allineamento del pezzo e cerca di riposizionarlo entrando con il braccio nella
zona operativa della macchina.
Il punzone era già nella fase d’avvicinamento in discesa veloce in quanto
attivato dalla pulsantiera dall’ignaro collega. Tale discesa si arresta
automaticamente a 4 centimetri dallo stampo inferiore e va riavviata con nuovo
impulso per la piegatura.
Lo stampo superiore coglie l’avambraccio dell’infortunato provocandogli la
frattura con lesioni. Il collega libera l’arto dell’infortunato agendo sui
comandi di risalita del punzone.
La pressa piegatrice era priva di protezioni.
Questi i fattori causali individuati:
- un lavoratore mette il
braccio nella zona operativa della macchina mentre scende il punzone;
- un lavoratore aziona i
pulsanti di comando della piegatrice senza guardare;
- pressa piegatrice priva
di protezioni.
Il secondo caso riguarda un infortunio, con amputazione della falange
distale del II e II dito della mano sinistra, di un apprendista saldatore di
materie plastiche.
Il lavoratore è impegnato in questa attività da circa 7 mesi. L’infortunio
avviene mentre il lavoratore è impegnato nella produzione di sacchetti di
plastica di piccolo taglio, quando nota che la macchina saldatrice si è
bloccata in emergenza, a seguito di inceppamento del film plastico nella zona
di saldatura.
Posto il selettore di comando in posizione manuale avvia così le operazioni
di sblocco della macchina. Tale operazione del selettore si è accertato,
by-passa gli switch di protezione posti sugli schermi di plexiglas che
impediscono gli eventuali accessi agli organi meccanici in movimento della zona
saldatura, che invece agiscono regolarmente durante il normale funzionamento
della macchina.
Il lavoratore apre lo schermo in plexiglas e estrae il film plastico
inceppato, aziona con la mano destra la discesa della lama a ghigliottina
premendo il manuale posizionato sulla parte esterna della macchina e
precisamente quello nei pressi della zona saldatura, questa operazione causa
l’amputazione.
Si ritiene che l’infortunio è avvenuto per la incompleta formazione e
informazione del lavoratore e per la non conformità della macchina ai requisiti
di sicurezza.
Questi i fattori causali individuati:
- inadeguatezza dei
requisiti di protezione;
- rimozione di film
plastico inceppato.
Ci siamo soffermati precedentemente su alcuni suggerimenti generali per gli
apprendisti tratti dal documento di SUVA, Istituto svizzero per l’assicurazione
e la prevenzione degli infortuni, dal titolo “10 mosse per un tirocinio in
sicurezza. Materiale di approfondimento. Per i formatori professionali, gli
apprendisti, i genitori interessati, i superiori”.
Dopo aver presentato nella scorsa puntata le tre prime regole (STOP in caso
di pericolo; conoscere i pericoli e tutelarsi da questi; attrezzature: so usarle?),
ci soffermiamo brevemente sulle altre tre regole per gli apprendisti:
LAVORI RISCHIOSI: SI’, MA SOLO SE PIANIFICATI
Si ricorda che spesso gli infortuni gravi sono dovuti a una scarsa
pianificazione dei lavori, a una carente comunicazione, a misure di sicurezza
incomplete, a fretta, improvvisazione o a una mole ingestibile di lavoro.
Ancora più importante è il fatto che i lavori siano sempre pianificati con cura
e non vengano fatti di fretta.
Queste sono le quattro domande cruciali alle quali devono rispondere gli
apprendisti per riconoscere i pericoli, pianificare i lavori e svolgerli in
condizioni di sicurezza:
- l’incarico è chiaro?
- i lavori sono stati
pianificati?
- la sicurezza è
garantita?
- ho tutto sotto
controllo?
CHIEDERE NON E’ PECCATO:
Il documento di SUVA sottolinea che ogni inizio è difficile. Questo si vede
anche nel rischio di infortunio tra gli apprendisti, decisamente più elevato
rispetto ai colleghi con più esperienza. Gli apprendisti hanno il diritto di
fare domande finché non hanno chiarito tutti i dubbi. Se per dubbi o
insicurezza si corre il rischio di subire un infortunio, a maggior ragione gli
apprendisti hanno il sacrosanto dovere di chiedere. Chiedere non è peccato.
Spesso gli apprendisti non osano fare domande, per paura di sbagliare o fare
una figuraccia. Quindi: prendere sempre sul serio le domande degli apprendisti;
non ci sono domande stupide, ma solo risposte stupide; una persona di
riferimento è sempre utile; bisogna motivare gli apprendisti a fare domande;
una cultura aperta in materia di comunicazione facilita questo compito; le
questioni confidenziali vengono trattate con discrezione.
DPI: NIENTE DI PIU’ OVVIO
Si sottolinea che i Dispostivi di Protezione Individuale (DPI) servono a
proteggere la persona da eventuali infortuni e malattie professionali. Non
possono eliminare i pericoli, ma servono a ridurre o a eliminare le conseguenze
avverse dei pericoli. Ulteriori istruzioni per l’apprendista:
- uso sempre i DPI e rispetto
le regole di sicurezza;
- osservo i cartelli di
sicurezza che mi invitano a usare i DPI;
- ho cura dei miei DPI;
- porto al formatore i DPI
difettosi, vecchi e non più igienici affinché me li sostituisca.
Il documento del SUVA, Istituto svizzero per l’assicurazione e la
prevenzione degli infortuni, dal titolo “10 mosse per un tirocinio in
sicurezza. Materiale di approfondimento. Per i formatori professionali, gli
apprendisti, i genitori interessati, i superiori” è scaricabile all’indirizzo:
Il sito web di INFOR.MO., di cui nell’articolo abbiamo presentato le schede
numero 6257 e 6077 è consultabile all’indirizzo:
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