martedì 6 giugno 2017

5 giugno - SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! - NEWSLETTER N. 281 DEL 05/06/17



Marco Spezia
ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro
Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”
Medicina Democratica - Movimento di lotta per la salute onlus


INDICE
-Il lavoro è tre volte più pericoloso della guerra
-Lavoro: tornano i voucher con la manovrina
-Il caporalato: disciplina e aspetti critici
-“Tempo-tuta”: cosa è e quando va retribuito
- Telecamere per controllare i dipendenti: gli obblighi per il datore di lavoro
-L’esposizione alle radiazioni ottiche artificiali nei luoghi di lavoro
-Incidenti nell’utilizzo di funi e catene
-Quando a infortunarsi sono gli apprendisti
-Gli infortuni tra i giovani lavoratori

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IL LAVORO E’ TRE VOLTE PIU’ PERICOLOSO DELLA GUERRA
Da “Il libro dell’ignoranza” di John Lloyd e John Mitchinson
Il lavoro è un killer molto più efficiente dell’alcol, della droga o della guerra.
Ogni anno muoiono circa 2.000.000 (2 milioni) di persone per incidenti e malattie legate al lavoro, in confronto alle “sole” 650.000 che vengono ammazzate in questo o quel conflitto.
In tutto il mondo, i lavori più pericolosi sono nei campi dell’agricoltura, dell’industria estrattiva e delle costruzioni.
Secondo l’Ufficio statistiche del Ministero del lavoro statunitense, nel 2000 sono morte sul lavoro ben 5.915 persone [negli Stati Uniti], incluse quelle che hanno avuto un attacco cardiaco alla scrivania.
I tagliaboschi sono risultati i lavoratori più a rischio, con 122 vittime su 100.000 addetti al settore. Il secondo lavoro più pericoloso è risultato la pesca e il terzo pilotare un aereo, con un tasso di mortalità di 101 lavoratori su 100.000, Vi rassicurerà sapere che tutti i piloti sono deceduti in incidenti occorsi a piccoli aerei e non ai jet passeggeri. 
Gli operai edili e metallurgici e gli addetti a estrazione e trivellazione si sono piazzati al quarto e quinto posto, sebbene il tasso di mortalità fosse per entrambi meno della metà di quello dei tagliaboschi.
In tutte le occupazioni, la terza causa di morte sul lavoro si è rilevato l’omicidio, con 677 lavoratori: i poliziotti uccisi erano 50, i commercianti 205.
Al secondo posto le cadute con il 12% del totale. Vittime principali costruttori e riparatori di tetti, oltre agli operai edili e metallurgici.
Quanto alla causa di morte sul lavoro più comune, si trattava degli incidenti di auto: il 23 % del totale. Perfino gli agenti di polizia avevano più probabilità di morire al volante che per omicidio
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LAVORO: TORNANO I VOUCHER CON LA MANOVRINA
Da Studio Cataldi
25/05/17
di Valeria Zeppilli
PRONTO PER ESSERE PRESENTATO L’EMENDAMENTO CHE REINTRODUCE IL LAVORO OCCASIONALE, SEPPUR CON LIMITI STRINGENTI
SINDACATI SUL PIEDE DI GUERRA
I voucher, recentemente aboliti dal Governo, potrebbero presto rientrare nel nostro ordinamento già con la manovrina. A prevederlo è un emendamento del Governo che ha rischiato di spaccare la maggioranza e sul quale si sono alternate smentite e conferme.
La bozza che sta circolando nelle ultime ore, come anticipa l’ANSA, riformula le proposte presentate in Commissione bilancio alla Camera. Intanto, i sindacati sono sul piede di guerra e annunciano la riproposizione del referendum che, si ricorda, era stato “accantonato” a seguito dell’addio alla normativa sui voucher dei mesi scorsi.
L’emendamento circolato sino a poche ore fa, ripristina il lavoro occasionale sia per le famiglie che per le piccole imprese che impiegano sino a 5 dipendenti. Viene disegnato in pratica un nuovo voucher di minimo 4 ore di lavoro, ognuna retribuita con 12,50 euro lordi, con un doppio tetto massimo: uno per i datori di lavoro e l’altro per i lavoratori.
I primi potranno ricorrere al nuovo voucher sino a massimo di 5.000 euro annui, eccezionalmente elevabili a 7.500 euro in caso di “assunzione” di lavoratori di disoccupati, studenti o pensionati.
I lavoratori, invece, potranno guadagnare con tale forma di impiego sino a massimo di 2.500 euro annui.
In ogni caso non sarà possibile utilizzare il nuovo lavoro occasionale in edilizia e nelle attività pericolose, come scavi-estrazioni e miniere.
Dovranno poi essere preventivamente indicati tutti gli estremi idonei a identificare l’azienda, l’utilizzatore e il tempo e il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa.
Venendo ai contributi previdenziali, essi ammonteranno al 32%, al pari di un contratto di collaborazione. Eliminati anche i premi INAIL, il netto che dovrebbe restare al lavoratore è di circa 9 euro.
Secondo la bozza circolata nelle ultime ore, la nuova proposta per sostituire i voucher viaggia su un binario doppio: da un lato, il libretto di famiglia, già annunciato nei giorni scorsi, dall’altro il contratto occasionale per le imprese sotto i 5 lavoratori, di cui alla prima stesura dell’emendamento soprariportata.
In tale ultimo caso, viene confermato il tetto di 5.000 euro per le prestazioni per ogni lavoratore (e per ogni datore di lavoro) con l’elevazione di 2.500 euro annui per le prestazioni rese ad un datore singolo.
In ogni caso, il montante massimo delle ore lavorate in un anno non potrà essere superiore alle 280 ore; in caso contrario, il lavoratore dovrà essere assunto a tempo indeterminato. Vengono fissati invece limiti diversi per l’agricoltura.
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IL CAPORALATO: DISCIPLINA E ASPETTI CRITICI
Da Studio Cataldi
15/05/17
LA FATTISPECIE EX ARTICOLO 603-BIS DEL CODICE PENALE ALL’INDOMANI DELLA RIFORMA DEL 2016
di Alessandra Di Marco
La fattispecie ex articolo 603-bis del Codice Penale “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, che ha subito profonde modifiche a opera della L. 199/16, viene genericamente identificata con la locuzione “caporalato” che indica lo sfruttamento del lavoro nell’ambito agricolo.
L’innovazione principale apportata dalla L. 199/16 è sicuramente costituita dall’introduzione di una nuova figura del responsabile.
Infatti l’articolo 603-bis del Codice Penale ante-riforma puniva la sola condotta dell’intermediario, mentre all’indomani della riforma del 2016 viene inserito il comma 2 che prevede la responsabilità penale anche dell’utilizzatore ovvero del datore di lavoro, ciò in quanto, come formulato in origine l’articolo 603-bis sembrava violare il principio di eguaglianza, pertanto si è ritenuto essenziale estendere la sanzione penale anche al datore di lavoro che approfittando della condizione di bisogno del lavoratore lo sfrutti.
L’ulteriore innovazione di rilievo, oltre alle specifiche aggravanti, è poi certamente individuabile nel comma 3 dell’articolo 603-bis del Codice Penale, ove sono indicati i cosiddetti “indici rivelatori” della fattispecie, cioè sono stati specificati una serie di elementi in presenza dei quali dovrebbe ritenersi configurato il reato.
La nuova fattispecie ex articolo 603-bis del Codice Penale risulta essere caratterizzata dallo sfruttamento dei lavoratori mediante l’utilizzo di violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori.
Ne consegue che la fattispecie risulta essere molto più completa e molto più incisiva. Tuttavia non mancano già forti critiche soprattutto in merito ai criteri indicati al comma 3 dell’articolo 603-bis che introducono un margine abbastanza ampio nella valutazione delle condotte delittuose.
E’ bene infatti evidenziare che il delitto “de quo” si colloca, all’interno del Codice Penale, tra i delitti contro la libertà personale, la stessa collocazione lascia pensare che tra tutti gli elementi caratterizzanti il “caporalato” devono considerarsi come essenziali quelli della minaccia, violenza nonché lo sfruttamento dello stato di bisogno in cui versa i lavoratore.
Risulta infatti molto più marginale il criterio attinente alla retribuzione, criterio che certamente caratterizza la condotta e che deve essere tenuto in considerazione, ma è ovvio che una simile fattispecie non potrà ritenersi integrata solo o in virtù del fatto che si registri il mancato versamento della retribuzione, ancorché unico elemento accertato.
Infatti la collocazione del delitto tra le fattispecie contro la libertà personale mira a garantire che la sanzione penale colpisca per lo più tutte quelle condotte che ledono materialmente la libertà del singolo ponendolo in una condizione di assoluto soggezione rispetto a chi risulta essere economicamente più forte.
Il nuovo testo normativo appare piuttosto “magniloquente”, ma ciò che preme adesso comprendere sarà la portata reale della nuova disciplina e soprattutto i reali effetti che riuscirà a sortire sia in termini di maggior tutela del lavoratore sia in termini di riduzione del fenomeno in sé.
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CAPORALATO: IL DISEGNO DI LEGGE E’ LEGGE
di Marina Crisafi
E’ arrivato nella serata di ieri il via libera definitivo alla nuova legge contro il caporalato, fortemente voluta dal Ministro delle politiche agricole Maurizio Martina e attesa da tempo. Montecitorio ha dato l’OK (con 190 voti a favore, 32 astenuti e nessun contrario) al testo, nella veste approvata dal Senato lo scorso agosto, che mira a garantire una maggiore efficacia all’azione di contrasto del caporalato, introducendo significative modifiche all’attuale disciplina e inasprendo le pene (con carcere fino a 6 anni e confisca dei beni) per chi sfrutta i lavoratori dell’agricoltura.
Il fenomeno del caporalato, ossia “l’intermediazione illegale e lo sfruttamento lavorativo, prevalentemente in agricoltura” coinvolge, oggi, secondo le stime, circa 400.000 lavoratori in Italia, sia italiani che stranieri, ed è diffuso in tutte le aree del Paese.
Con questa legge, “attesa da almeno cinque anni” - ha commentato a caldo il ministro Martina a margine dell’approvazione – “ora ci sono gli strumenti utili per continuare una battaglia che deve essere quotidiana, perché sulla dignità delle persone non si tratta”.
La nuova legge, che si compone di 12 articoli, riscrive innanzitutto il reato di caporalato introducendo la sanzionabilità anche del datore di lavoro, l’applicazione di un’attenuante nel caso di collaborazione con le autorità; l’arresto obbligatorio in flagranza di reato; il rafforzamento dell’istituto della confisca e l’adozione di misure cautelari e il potenziamento della “Rete del lavoro agricolo di qualità”, in funzione di strumento di controllo e prevenzione del lavoro nero in agricoltura.
In particolare, il provvedimento riformula il delitto di “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, già inserito all’articolo 603-bis del Codice Penale, prevedendo la pena della reclusione da uno a sei anni per l’intermediario e per il datore di lavoro e la multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato, approfittando del loro stato di bisogno.
Viene sancito, inoltre, che se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, la pena della reclusione, rispetto alla fattispecie-base, aumenta da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ogni lavoratore reclutato; è previsto l’arresto in flagranza.
Le nuove regole individuano quale indice di sfruttamento anche la corresponsione reiterata di retribuzioni palesemente difformi dai contratti collettivi territoriali e la violazione delle norme sugli orari di lavoro di lavoro e sui periodi di riposo.
Previste attenuanti per si adopera ad evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove dei reati o l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite.
La nuova legge, inoltre, sancisce che, come avviene con le organizzazioni criminali mafiose, al reato si accompagni sempre la confisca obbligatoria dei beni, del denaro o delle altre utilità di cui il condannato risulti titolare (o abbia la disponibilità a qualsiasi titolo) e non possa giustificarne la provenienza.
Il provvedimento inoltre estende le finalità del Fondo Anti-tratta anche alle vittime del reato di caporalato, prevedendo l’assegnazione dei proventi delle confische ordinate a seguito di sentenza di condanna o di patteggiamento per il delitto ex articolo 603-bis del Codice Penale.
La modifica comporta la destinazione delle risorse del Fondo anche all’indennizzo delle vittime del reato di caporalato.
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“TEMPO-TUTA”: COSA E’ E QUANDO VA RETRIBUITO
Da Studio Cataldi
22/05/17
di Laura Bazzan
LA RETRIBUZIONE DELLA VESTIZIONE NEL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO
Il cosiddetto “tempo-divisa” o “tempo-tuta” è il tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli indumenti da lavoro. Secondo quanto precisato dalla giurisprudenza, il tempo necessario alla vestizione del lavoratore va considerato e retribuito quale lavoro effettivo, ossia quale lavoro che richiede un’occupazione assidua e continua ai sensi del articolo 3 del Regio Decreto n. 629/23, quando l’operazione sia diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, oppure si tratti di operazione avente carattere strettamente necessario e obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa (si veda tra le molte la Sentenza di Cassazione n. 2135/2011).
In altre parole, il tempo-divisa va retribuito quando la scelta dei tempi e dei luoghi in cui procedere alla vestizione e alla svestizione della divisa non è rimessa al lavoratore ma imposta per eterodeterminazione, la quale “può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa, o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione” (Sentenza di Cassazione n. 1352/2016). Viceversa, “ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita” (Sentenza di Cassazione n. 19273/2006).
Nel tempo, la giurisprudenza ha individuato degli indici rivelatori della sussistenza di eterodeterminazione in relazione a vestizione e vestizione degli indumenti da lavoro, precisando che “si tratta di operazioni imposte da un obbligo interno al rapporto di lavoro, che espone il lavoratore a responsabilità disciplinare in caso di inosservanza; né rileva in senso contrario la circostanza che il datore di lavoro non abbia adottato prescrizioni sui tempi entro i quali compiere le operazioni in questione, avendo comunque egli potuto farlo” (Sentenza di Cassazione n. 1697/2012).
Ulteriori indici sono costituiti dallo svolgimento delle stesse operazioni all’interno dei locali aziendali all’uopo predisposti (spogliatoi) e dalla registrazione dell’orario di entrata in servizio con timbratura del cartellino.
Sulla scorta di tali considerazioni, ad esempio, è stato riconosciuto il diritto alla retribuzione di un addetto alla lavorazione di gelati e surgelati, per il tempo dallo stesso impiegato ad indossare tuta, scarpe antinfortunistiche, copricapo e indumenti intimi forniti dall’azienda, che richiedeva la sua presenza sul luogo di lavoro prima dell’inizio del turno, accertato che le operazioni di vestizione e svestizione si svolgevano nei locali aziendali e, solo dopo aver indossato tali abiti ed essere passato da un tornello con marcatura del badge, lo stesso dipendente poteva accedere al proprio reparto (Sentenza di Cassazione n. 2837/2014).
Per contro, la retribuzione aggiuntiva rispetto al salario già percepito in virtù del contratto di lavoro è stata negata a un’infermiera che registrava la presenza prima di indossare camice e zoccoli e timbrava l’uscita solo dopo essersi cambiata, in quanto le operazioni venivano realizzate nell’orario di lavoro e dovevano ritenersi comprese nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore (Sentenza di Cassazione n. 11755/2016).
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TELECAMERE PER CONTROLLARE I DIPENDENTI: GLI OBBLIGHI PER IL DATORE DI LAVORO
Da Studio Cataldi
22/05/17
TELECAMERE PER CONTROLLARE I DIPENDENTI: COSA RISCHIA IL DATORE?
COMMETTE REATO IL DATORE CHE INSTALLA TELECAMERE IN AZIENDA SENZA L’ACCORDO CON I SINDACATI
di Lucia Izzo
Il rispetto della privacy dei lavoratori non è un optional, ma un diritto che deve essere tutelato anche sul luogo di lavoro. Un regime particolarmente stringente in materia si riscontra in relazione ai controlli effettuati tramite l’installazione di telecamere in azienda.
L’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/70), come modificato dal Jobs Act (D.Lgs. 151/15, art. 23) ha stabilito il divieto dell’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
Tuttavia, prosegue la norma, è possibile l’installazione di impianti e apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma se da questi ne deriva anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori è necessario un previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del Lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti.
Ciò significa che, in mancanza del necessario accordo e dell’autorizzazione dei sindacati, oppure del provvedimento della Direzione Territoriale del Lavoro, l’installazione di telecamere che controllano i dipendenti resta una violazione della privacy e dunque un reato punibile ai sensi degli articoli 4 e 38 dello Statuto dei Lavoratori.
La punibilità ai sensi di quest’ultima norma, si desume dal combinato disposto degli articoli 114 e 171 del D.Lgs. 196/03 (Codice della Privacy): il datore di lavoro, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, rischia un’ammenda oppure l’arresto da 15 giorni a un anno.
Per la giurisprudenza, il reato del datore di lavoro che installi impianti e apparecchiature audiovisive senza il necessario accordo rappresenta un reato di pericolo, essendo diretto a salvaguardare le possibili lesioni della riservatezza dei lavoratori.
Pertanto, ai fini della sua integrazione è sufficiente la mera predisposizione di apparecchiature idonee a controllare a distanza l’attività dei lavoratori, anche non funzionanti o mai utilizzate, poiché per la punibilità non è richiesta la messa in funzione o il concreto utilizzo delle attrezzature.
L’accordo con i sindacati, dunque, è sempre indispensabile e non se ne può fare a meno neppure se sia stato acquisito il consenso scritto dei dipendenti. Tanto si desume da un recente orientamento della Corte di Cassazione, che ha ribaltato il precedente che aveva ritenuto non integrato il reato laddove il datore avesse acquisito il consenso di tutti i lavoratori.
Nella Sentenza numero 22148/2017, il Collegio ha ritenuto che il consenso espresso dai lavoratori, scritto od orale, non può mai scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato gli impianti di videosorveglianza senza rispettare l’apposita normativa.
Ciò in quanto la norma impone di tutelare non gli interessi di carattere individuale, ma collettivo e superindividuale.
In altre parole, “la condotta datoriale, che pretermette l’interlocuzione con le rappresentanze sindacali unitarie o aziendali procedendo all’installazione degli impianti dai quali possa derivare un controllo a distanza dei lavoratori, produce l’oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici”.
In ambito penale, tuttavia, la stessa Corte di Cassazione, nella Sentenza numero 33567/2016, ha confermato la condanna per due dipendenti fannulloni, indagati per truffa aggravata e continuata nei confronti del Comune, alle dipendenze del quale avevano prestato servizio con le mansioni di usciere.
I due, allontanatisi dal posto di lavoro timbrando il cartellino segnatempo in orari di entrata e uscita diversi da quelli effettivi, avevano affermato la non utilizzabilità delle captazioni di immagini audiovisive effettuate dalla polizia giudiziaria.
Sul punto, i giudici hanno affermato che, in tema di apparecchiature di controllo dalle quali derivi la possibilità di verificare a distanza l’attività dei lavoratori, le garanzie procedurali previste dall’articolo 4, comma 2, dello Statuto dei Lavoratori non trovano applicazione quando si procede all’accertamento di fatti che costituiscono reato. Tali garanzie riguardano solo l’utilizzabilità delle risultanze delle apparecchiature di controllo nei rapporti interni, di diritto privato, tra datore di lavoro e lavoratore.
La loro eventuale inosservanza, precisano gli Ermellini, non assume pertanto alcun rilievo nell’attività di repressione di fatti costituenti reato, al cui accertamento corrisponde sempre l’interesse pubblico alla tutela del bene penalmente protetto, anche qualora sia possibile identificare la persona offesa nel datore di lavoro.
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TELECAMERE IN AZIENDA: REATO ANCHE CON IL CONSENSO DEI LAVORATORI
LA CASSAZIONE CAMBIA ROTTA E SANCISCE CHE NON E’ MAI POSSIBILE PRESCINDERE DALL’ACCORDO CON I SINDACATI O DALL’AUTORIZZAZIONE DELLA DIREZIONE TERRITORIALE DEL LAVORO
di Valeria Zeppilli
Se il datore di lavoro installa in azienda delle telecamere di videosorveglianza dopo aver acquisito il consenso scritto dei dipendenti, non per ciò solo si salva dalla condanna penale: l’accordo con i sindacati è infatti sempre indispensabile.
Questo, almeno, è quanto sancito dalla Corte di Cassazione con la sentenza numero 22148/2017, che, tuttavia, rappresenta un netto cambio di rotta rispetto all’orientamento interpretativo sino ad ora seguito dai giudici di legittimità in materia di controllo dei lavoratori a distanza.
La controversia aveva preso le mosse dall’installazione di due telecamere in un negozio, collegate tramite wi-fi a un monitor, da parte della titolare dello stesso. Tali telecamere, infatti, permettevano il controllo dell’attività lavorativa dei dipendenti dell’attività commerciale, ma la loro installazione non era stata preceduta né da un accordo sindacale né dall’autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro.
Dinanzi alla condanna penale al pagamento di 600 euro a titolo di ammenda inflittale dal giudice del merito, la titolare del negozio ha provato a modificare la propria sorte ricorrendo alla Corte di Cassazione e tentando di far valere dinanzi al giudice delle leggi l’orientamento, sancito ad esempio dalla Sentenza numero 22611/2012, in forza del quale il reato non può dirsi integrato se il datore di lavoro, in casi come quello di specie, ha preventivamente acquisito il consenso di tutti i dipendenti (cosa che la ricorrente aveva effettivamente provveduto a fare).
Con la Sentenza in commento, tuttavia, la Cassazione ha ribaltato un simile orientamento, ritenendo che il consenso espresso dai lavoratori, sia esso scritto od orale, non può mai scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato gli impianti di videosorveglianza senza rispettare l’apposita normativa.
La norma penale rilevante nel caso di specie, infatti, tutela degli interessi di carattere non individuale ma collettivo e superindividuale. Come affermato dai giudici, in altre parole, “la condotta datoriale, che pretermette l’interlocuzione con le rappresentanze sindacali unitarie o aziendali procedendo all’installazione degli impianti dai quali possa derivare un controllo a distanza dei lavoratori, produce l’oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici”.
Il comportamento tenuto dalla titolare del negozio, oltretutto, integra anche un’ipotesi di condotta antisindacale, censurabile con il procedimento speciale di cui all’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori, ed è idoneo, sulla base di quanto insegna il garante della privacy, a rappresentare un’ipotesi di illecito trattamento dei dati personali tramite videosorveglianza.
Si tratta, insomma, di un orientamento interpretativo innovativo, dinanzi al quale occorrerà ora attendere del tempo per verificare quanto effettivamente lo stesso troverà riscontro nella giurisprudenza.
In ogni caso, come precisato anche nella sentenza in commento, esso vale con riferimento alla formulazione dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori sia antecedente che successiva all’entrata in vigore del Jobs Act.
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Da: PuntoSicuro
17 maggio 2017
Un volume dedicato alle Piccole e Medie Imprese e al mondo dell’artigianato riepiloga la normativa in materia di salute e sicurezza. Focus sui rischi derivanti dall’esposizione alle radiazioni ottiche artificiali: normativa, formazione e prevenzione.
Riguardo ai rischi derivanti dall’esposizione alle radiazioni ottiche il D.Lgs. 81/08 si sofferma in particolare, attraverso il Capo V (Protezione dei lavoratori dai rischi di esposizione a radiazioni ottiche artificiali) del Titolo VIII (Agenti fisici), sulle radiazioni ottiche artificiali (ROA).
Per parlare del rischio correlato all’esposizione a queste radiazioni, con particolare riferimento al mondo dell’artigianato e delle Piccole e Medie Imprese (PMI), possiamo sfogliare il volume “Salute e Sicurezza nelle imprese artigiane e nelle PMI: cosa occorre sapere e cosa si deve fare”, realizzato dall’Organismo Paritetico Regionale per l’Artigianato Lombardia (OPRA Lombardia) e dai vari Organismi Paritetici Territoriali Artigiani (OPTA), una pubblicazione che nasce come strumento di consultazione per favorire una corretta applicazione delle vigenti disposizioni di legge.
Il documento, che sottolinea come sia comunque buona prassi nelle aziende valutare anche i rischi dell’eventuale esposizione a radiazioni solari, per le ROA riporta alcuni riferimenti normativi:
-         Allegato XXXVII del D.Lgs. 81/08 che contiene i limiti di esposizione alle ROA;
-         Direttiva 2006/25/CE del Parlamento e del Consiglio del 5 aprile 2006 “Prescrizioni minime di sicurezza e di salute, relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli agenti fisici (ROA);
-         norma UNI EN 14255–1:2005: “Misurazione e valutazione dell’esposizione personale a radiazioni ottiche incoerenti - Parte 1: radiazioni ultraviolette emesse da sorgenti artificiali nel posto di lavoro”;
-         norma UNI EN 14255–2:2006 “Misurazione e valutazione dell’esposizione personale a radiazioni ottiche incoerenti - Parte 2: Radiazioni visibili ed infrarosse emesse da sorgenti artificiali nei posti di lavoro”;
-         UNI EN 14255-4:2007: “Misurazione e valutazione dell’esposizione personale a radiazioni ottiche incoerenti - Parte 4: Terminologia e le grandezze da utilizzare per le misurazioni.
Il documento ricorda poi che le radiazioni ottiche sono caratterizzate in prima linea dalla loro lunghezza d’onda. In particolare si differenzia fra radiazione ultravioletta (UV), radiazione visibile (VIS) e infrarossa (IR). Inoltre si differenziano ulteriormente le radiazioni ottiche in “coerenti” (emettono su un’unica lunghezza d’onda, ad esempio i laser) ed “incoerenti”.
I laser (radiazioni ottiche coerenti) possono essere ad esempio usati per lavorazioni di materiali (taglio, saldatura, marcatura e incisione), per applicazioni mediche e per uso estetico, in campo informatico o elettronico.
Si hanno invece esempi di sorgenti di radiazioni incoerenti nelle fonti radianti emittenti di temperatura come il sole o le lampadine a incandescenza, ma anche nelle operazioni di saldatura, di saldatura ad arco, nella fotoincisione, nell’uso di lampade germicide per la sterilizzazione, nei centri di abbronzatura.
Quali sono i rischi per la salute del lavoratore dall’esposizione a queste radiazioni?
Il documento sottolinea che l’effetto delle radiazioni sull’occhio o sulla pelle dipende dalla loro lunghezza d’onda e dalla loro potenza.
E oltre ai rischi per la salute dovuti all’esposizione diretta alle radiazioni ottiche artificiali esistono ulteriori rischi indiretti, quali:
-         sovraesposizione a luce visibile: disturbi temporanei visibili, quali abbagliamento, accecamento temporaneo;
-         rischi di incendio e di esplosione innescati dalle sorgenti stesse e/o dal fascio di radiazione;
-         rischi associati alle apparecchiature/lavorazioni che utilizzano ROA quali stress termico, contatti con superfici calde, rischi di natura elettrica”.
Inoltre poiché le sorgenti laser possono generare radiazioni di elevatissima intensità, i danni conseguenti possono risultare estremamente gravi.
Il documento si sofferma poi sui dispositivi di protezione, sulla sorveglianza sanitaria e sulla cartellonistica di sicurezza, ad esempio ricordando, riguardo a quest’ultimo aspetto, che le aree in cui è possibile il superamento dei limiti di esposizione vanno segnalate e, ove possibile, delimitate. E laddove venga ravvisata la necessità di adottare dispositivi di protezione, occorre segnalarne l’obbligatorietà per mezzo di apposita cartellonistica.
Il documento riporta poi informazioni sulla formazione specifica sottolineando che la normativa vigente parte dal presupposto che “i lavoratori devono essere formati, informati e addestrati”. E la formazione degli operatori è necessaria per quelli a rischio di superamento dei livelli di esposizione definiti dalla legge, ma anche per quei lavoratori che si trovano in presenza di sorgenti, pur non superando i limiti di esposizione.
In particolare la formazione deve riguardare la conoscenza dei rischi, il contenimento degli stessi, le procedure di lavoro da seguire e i dispositivi di protezione da utilizzare, nonché l’attività di sorveglianza sanitaria.
Senza dimenticare che laddove i valori limite sono superati, oppure sono identificati effetti nocivi sulla salute:
-         il medico o altra persona debitamente qualificata comunica al lavoratore i risultati che lo riguardano; il lavoratore riceve in particolare le informazioni e i pareri relativi al controllo sanitario cui dovrebbe sottoporsi dopo la fine dell'esposizione;
-         il datore di lavoro è informato di tutti i dati significativi emersi dalla sorveglianza sanitaria tenendo conto del segreto professionale.
Infine il documento ricorda cosa sia possibile fare per migliorare nelle aziende le condizioni di sicurezza.
Si indica che oltre all’adozione delle misure di tutela previste dai manuali di istruzione delle attrezzature di lavoro (macchine) marcate CE, si possono adottare soluzioni tecniche e procedurali quali:
-         il contenimento della sorgente all’interno di ulteriori idonei alloggiamenti schermanti (la radiazione UV si può schermare con finestre di vetro o materiali plastici trasparenti nel visibile);
-         l’adozione di schermi ciechi o inattinici a ridosso delle sorgenti (ad esempio i normali schermi che circondano le postazioni di saldatura);
-         la separazione fisica degli ambienti nelle quali si generano ROA potenzialmente nocive dalle postazioni di lavoro vicine;
-         l’impiego di automatismi (interblocchi) per disattivare le sorgenti ROA potenzialmente nocive (ad esempio lampade germicide a raggi UV) sugli accessi ai locali nei quali queste sono utilizzate;
-         la definizione di “zone ad accesso limitato”, contrassegnate da idonea segnaletica di sicurezza.
Inoltre, può essere in linea generale necessario:
-         individuare metodi di lavoro e/o attrezzature che comportano una minore esposizione alle radiazioni ottiche;
-         attuare opportuni programmi di manutenzione delle attrezzature di lavoro, dei luoghi e delle postazioni di lavoro;
-         limitare la durata dell’esposizione.
Concludiamo segnalando che nel documento è presente una breve check-list relativa all’esposizione alle radiazioni ottiche nei luoghi di lavoro.
Il documento dell’Organismo Paritetico Regionale per l’Artigianato Lombardia, “Salute e Sicurezza nelle imprese artigiane e nelle PMI: cosa occorre sapere e cosa si deve fare”è scaricabile all’indirizzo:
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Da: PuntoSicuro
18 maggio 2017
di Tiziano Menduto
Esempi di infortuni correlati all’utilizzo di funi e catene. Problemi con il cavo d’acciaio di una gru e con la catena di un paranco. La dinamica degli infortuni, i fattori causali e i suggerimenti nella scelta delle funi di sollevamento.
Nelle operazioni di movimentazione dei carichi sono diversi i rischi di infortunio correlati allo stato di accessori di sollevamento come funi e catene. Ad esempio nell’uso delle funi i rischi possono essere relativi alla caduta del carico per rottura della fune a seguito dell’usura o scorretto utilizzo, alle lacerazioni delle mani a causa dei fili rotti dei trefoli o allo sbilanciamento del carico a seguito di deformazioni delle funi.
Con questa puntata di “Imparare dagli errori”, la rubrica dedicata al racconto e all’analisi degli infortuni lavorativi, ci soffermiamo proprio su alcuni incidenti avvenuti con diverse tipologie di utilizzo di funi e catene di acciaio e su alcuni suggerimenti sulla scelta e manutenzione di questi accessori.
Le dinamiche infortunistiche che presentiamo sono tratte dall’archivio di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi.
Il primo caso riguarda la realizzazione di una trave in cemento armato.
Un lavoratore è in piedi sulle casseforme durante la realizzazione di una trave in cemento armato al 5° piano di una palazzina. A poca distanza si trova una gru munita di cestello che carica il materiale.
All’improvviso si spezza il cavo di acciaio che regge il cestello, portando con sé il moncone di cavo spezzato. Il cavo nella caduta urta il lavoratore che, perdendo l’equilibrio, cade al suolo morendo sul colpo.
Questi i fattori causali rilevati dalla scheda:
-         rottura del cavo;
-         mancanza di DPI.
Nel secondo caso l’incidente avviene su una nave.
Mentre tre dipendenti di una società marittima si trovano sul portellone prodiero di una nave che sta effettuando manovra, cadono da una altezza che va da 2 a 5 metri circa a causa della rottura della catena del paranco.
La catena del paranco si è rotta a causa di un guasto alla puleggia di rinvio lato sinistro che si è divelta facendo venire in bando il cavo di acciaio. In questo modo tutto il peso del portellone veniva sopportato dalla catena del paranco che non essendo idonea a sopportare tale peso, si spezzava.
I fattori causali rilevati dalla scheda:
-         rottura della catena del paranco a causa del guasto a una puleggia;
-         i lavoratori erano posti sul portellone durante la manovra di messa a secco di una nave.
Rimandando alla lettura dei vari articoli di PuntoSicuro sulle buone prassi relative alla movimentazione dei carichi, all’ uso dei paranchi e alla manutenzione di funi e catene, prendiamo qualche spunto per la prevenzione da un documento, prodotto dalla ULSS 22 della Regione Veneto, che si sofferma sulla sicurezza delle funi di sollevamento.
In “Funi di sollevamento: criteri di scelta, manutenzione, verifica e sostituzione” (documento che fa particolare riferimento al settore lapideo veronese, dove la movimentazione avviene in gran parte mediate l’uso di funi metalliche e solo in minima parte con catene e fasce) vengono riportate utili indicazioni sulla scelta del tipo di fune adatta al carico da sollevare/movimentare:
-         determinazione del peso: è indispensabile conoscere il peso del carico da sollevare per poter scegliere correttamente la fune ed il metodo di imbraco più idoneo (è consigliato trascrivere il peso sul blocco dalla bolla di consegna o di pesatura); si sottolinea che quando il carico è sorretto da una due brache semplici (cioè le due funi vengono fatta passare sotto il carico e agganciate al gancio dell’impianto di sollevamento) bisogna considerare la portata di solo due bracci;
-         lunghezza: la lunghezza della fune incide in modo significativo sullo sforzo che gli accessori di sollevamento devono resistere; tanto più l’angolo al vertice è acuto tanto più la fune viene sollecitata a trazione indipendentemente dalla massa sollevata;
-         sagoma del carico: la sagoma irregolare del materiale da sollevare può compromettere la stabilità del carico e dell’impianto di sollevamento stesso in quanto si potrebbero verificare dei sobbalzi/aggiustamenti del carico dovuti al suo spostamento o a quello delle funi; per questo motivo quando si effettua la movimentazione di carichi con la sagoma irregolare bisogna sollevare lentamente il carico e verificare che le funi siano regolarmente posizionale e il carico stabile;
-         eventuali protezioni degli spigoli vivi: tra la fune e gli spigoli vivi del materiale da sollevare devono essere posizionati degli spessori o delle protezioni/accessori in modo che la fune non subisca delle flessioni che potrebbero deformare la fune stessa in modo permanente.
Inoltre si ricorda l’importanza di:
-         stoccaggio: è necessario provvedere alla manutenzione della fune durante la sua vita, lubrificandola regolarmente in caso di prolungata inattività, nel caso di condizioni di lavoro intense o nel caso che l’ambiente in cui vengono impiegate sia particolarmente sfavorevole (umidità, freddo, acqua, gelo, ecc.); il lubrificante da utilizzare deve essere compatibile con quello consigliato dal fabbricante della fune; la conservazione delle funi deve avvenire in un luogo asciutto e le stesse devono essere avvolte in modo tale da non pregiudicarne lo stato di conservazione (ad esempio utilizzando delle rastrelliere, senza che si creino delle pieghe, ecc.);
-         primo impiego: per stabilizzare la fune è consigliato effettuare un adeguato numero di cicli di funzionamento (5-10 sollevamenti) con un carico di circa il 10/15% del carico nominale della fune.
Ricordiamo infine che il documento, che riporta indicazioni sulle verifiche delle funi, si sofferma anche sulla norma UNI ISO 4309:2011, relativa alla cura, manutenzione, ispezione e scarto delle funi di acciaio.
Per favorire la gestione corretta delle funi d’acciaio per sollevamento da parte degli utilizzatori, la norma definisce le linee guida per la cura, l’installazione, la manutenzione e i controlli delle funi di acciaio in servizio sugli apparecchi di sollevamento ed elenca i criteri per lo scarto che devono essere applicati per implementare un utilizzo sicuro degli apparecchi di sollevamento.
Il documento “Funi di sollevamento: criteri di scelta, manutenzione, verifica e sostituzione”, realizzato dalla ULSS 22 della Regione Veneto è scaricabile all’indirizzo:
Il sito web di INFOR.MO., di cui nell’articolo abbiamo presentato le schede numero 1617 e 6217 è consultabile all’indirizzo:
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Da: PuntoSicuro
25 maggio 2017
di Tiziano Menduto
Esempi di infortuni professionali nel lavoro degli apprendisti. Le attività artigianali di produzione di vetri e i rischi di caduta nei lavori in quota. Le dinamiche degli infortuni, i fattori che li hanno causati e i suggerimenti per gli apprendisti.
Molti articoli di PuntoSicuro hanno sottolineato come, nel mondo del lavoro, i ragazzi di età compresa tra i 18 e i 24 anni abbiano almeno il 50% di probabilità in più di subire un infortunio sul lavoro rispetto ai lavoratori con maggiore esperienza e anzianità.
Con riferimento a questi dati, tratti da una campagna lanciata nel 2006 dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, abbiamo deciso di dedicare alcune puntate della rubrica “Imparare dagli errori”, dedicata al racconto e all’analisi degli infortuni lavorativi, al mondo dell’apprendistato, agli infortuni che avvengono tra gli apprendisti.
I casi presentati sono tratti, come sempre, dalle schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi
Il primo caso riguarda un infortunio avvenuto in un capannone che ospita le attività artigianali di produzione di vetri.
Un lavoratore è intento a svolgere le proprie mansioni di “apprendista” presso la linea di produzione del “vetro camera” per la produzione di vetri coibentanti. In particolare il lavoratore si trova nella zona di caricamento dei vetri che posiziona su un alloggiamento per la successiva lavorazione automatica di accoppiamento tra lastre.
I vetri che sta movimentando sono dello spessore di 4 mm e delle dimensioni 90 x 180 cm. Nel caricare uno di questi vetri il lavoratore tocca con la lastra un’altra lì depositata provocando la rottura del vetro in caricamento. Uno dei pezzi risultanti dalla rottura lo colpisce di taglio al collo, sia nella parte posteriore che nella parte destra (questa seconda ferita è quella risultata poi più profonda e grave; la diagnosi è stata di ferita lacero contusa laterocervicale destra con lesione dei piccoli vasi. L’infortunio ha causato un’inabilità temporanea di 105 giorni e permanente del 2%.
La zona di caricamento dell’impianto di accoppiamento vetri non risultava adeguatamente spaziosa per consentire una agevole manovra di movimentazione di vetri di considerevoli dimensioni a causa del deposito, disordinato e debordante, di altri vetri. La rottura della lastra è avvenuta per urto della stessa contro un’altra, depositata nelle vicinanze, per un errore di manovra dell’infortunato, ma l’incidente è stato favorito dagli spazi ristretti a disposizione per la lavorazione.
Questi i fattori causali individuati:
-         errore di manovra dell’infortunato che urta la lastra di vetro in lavorazione con un’altra depositata nelle vicinanze;
-         spazi ristretti a disposizione per la lavorazione a causa del deposito di altre lastre nelle vicinanze.
Il secondo caso riguarda un infortunio avvenuto ad un’apprendista carpentiere.
A una ditta appaltata erano stati affidati dall’appaltatore unico, i lavori di carpenteria e di copertura del tetto della casa in costruzione in un cantiere.
L’apprendista, insieme con il capomastro, stava applicando dei pannelli di legno a copertura della parete esterna della soffitta, lato sud-ovest della casa. Il capomastro prendeva i pannelli nell’interno della soffitta e, uscendo sul balcone della soffitta, li passava all’apprendista, che stando su una scala doppia, sistemata sul balcone del 1° piano, a una altezza da terra di circa 6 m, applicava sulla parete esterna della soffitta i pannelli uno sopra l’altro, appoggiando quello superiore, lungo la sua scanalatura, su quello inferiore, fornito di un rilievo in lunghezza. Il capomastro, sul balcone della soffitta, fissava con viti i pannelli ad un listello verticale. Arrivato al 5° pannello, l’apprendista si accorgeva che esso, per essere inserito completamente, doveva essere adattato, a un estremo, alla forma del trave inferiore del tetto. Nel tentativo di sollevare il pannello con la mano sinistra, per portarlo a sé ed eseguire il lavoro con lo scalpello tenuto con la destra, questo si staccava improvvisamente dalla giunzione con il pannello inferiore, facendogli perdere l’equilibrio che cadeva dalla scala, oltre il parapetto di protezione del balcone, sul terreno ghiacciato, compiendo un volo di 6 m circa. L’infortunio è da ricondurre alla mancata adozione di ponteggi o in alternativa al mancato uso da parte dell’apprendista di dispositivi personali anticaduta, come la cintura di sicurezza e la fune di trattenuta.
L’indagine metteva inoltre in luce quanto segue:
-         i dispositivi personali anticaduta erano rimasti inutilizzati nel container del cantiere della ditta appaltata;
-         il coordinatore per la progettazione e l’esecuzione dei lavori, dopo aver preparato il piano di coordinamento e sicurezza, che risultava di tipo standard con descrizione anche di rischi non presenti nel cantiere, aveva affidato l’incarico di coordinatore per l’esecuzione dei lavori ad altra persona, che aveva modificato il piano, sostituendo l’installazione di ponteggi per i lavori di carpenteria, con semplici recinzioni sui balconi;
-         al momento dell’affidamento dell’incarico, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori stava ancora frequentando il corso per coordinatori e non era pertanto in possesso dell’attestato di frequenza del corso.
Questi i fattori causali individuati:
-         mancato uso di dispositivi anticaduta;
-         il lavoratore operava sulla scala con entrambe le mani occupate;
-         attrezzatura inadeguata per l’operazione da svolgere.
Al di là dei fattori causali già individuati nelle schede e delle varie buone prassi che avrebbero dovuto essere applicate dai lavoratori infortunati, ci soffermiamo brevemente oggi sul documento di SUVA, Istituto svizzero per l’assicurazione e la prevenzione degli infortuni, dal titolo “10 mosse per un tirocinio in sicurezza. Materiale di approfondimento. Per i formatori professionali, gli apprendisti, i genitori interessati, i superiori”.
Riprendiamo alcune indicazioni di prevenzione generica che, benché elaborate con riferimento alle forme di tirocinio e apprendistato in Svizzera, si possono adattare anche al mondo del nostro apprendistato.
Ci soffermiamo brevemente sulle prime tre regole.
STOP IN CASO DI PERICOLO
Si sottolinea che nessun lavoro è così importante da rischiare la vita. Tutti, anche gli apprendisti, hanno il diritto di sospendere i lavori in caso di minaccia per la propria vita e salute. Spesso ci vuole coraggio. Di fronte a un pericolo i ritmi pressanti a volte ci impediscono di dire “stop” e di sospendere l’attività. Spesso ci vuole coraggio e un’azienda alle spalle che lo permetta. In tutto questo i formatori professionali svolgono un ruolo centrale.
CONOSCERE I PERICOLI E TUTELARSI DA QUESTI
Per non farsi male sul lavoro o ammalarsi, è necessario conoscere i potenziali pericoli in azienda e sapere come proteggersi al meglio. Per questo motivo, oltre alle “regole vitali”, ci sono ulteriori regoli da rispettare. Lavorare e restare in salute: questo è un obiettivo di tutti. L’importante è che gli apprendisti capiscano l’importanza e la necessità di certe regole; solo così rispettarle sarà più facile. Ulteriori istruzioni per l’apprendista: prima di accingermi a svolgere una nuova mansione:
-         chiedo precise istruzioni;
-         mi informo sul significato dei cartelli di sicurezza;
-         applico sempre le regole di sicurezza.
ATTREZZATURE: SO USARLE?
Spesso gli apprendisti non conoscono il loro nuovo posto di lavoro e non sanno come utilizzare le macchine e le apparecchiature che incontrano per la prima volta sul loro cammino professionale. E’ quindi fondamentale istruirli in modo approfondito e graduale prima di lasciarli usare le attrezzature. E come addestrare qualcuno in modo corretto? Per prima cosa il formatore professionale mostra come usare una determinata attrezzatura. Poi, l’apprendista dovrà ripeterne le mosse. Il formatore verifica se l’apprendista sta facendo le cose correttamente e gli mostra dove sbaglia e se necessario bisognerà ripetere tutto daccapo. L’addestramento deve trattare anche i seguenti argomenti:
impiego secondo il manuale del fabbricante;
-         pericoli prevedibili;
-         guasti prevedibili;
-         eliminazione guasti;
-         controlli necessari;
-         DPI necessari.
Ulteriori istruzioni per l’apprendista:
-         prima di usare per la prima volta un apparecchio o una macchina chiedo sempre istruzioni;
-         svolgo i controlli necessari e utilizzo l’attrezzatura di lavoro secondo l’uso previsto;
-         uso sempre i DPI;
-         in caso di guasti o anomalie sospendo i lavori;
-         solo un tecnico o uno specialista può eliminare i guasti;
-         riprendo l’attività solo dopo che l’attrezzatura è stata riparata.
Nelle prossime puntate di “Imparare dagli errori” ci soffermeremo sulle altre regole del documento di SUVA e sulle specifiche della sicurezza degli apprendisti secondo la normativa italiana.
Il documento del SUVA, Istituto svizzero per l’assicurazione e la prevenzione degli infortuni, dal titolo “10 mosse per un tirocinio in sicurezza. Materiale di approfondimento. Per i formatori professionali, gli apprendisti, i genitori interessati, i superiori” è scaricabile all’indirizzo:
Il sito web di INFOR.MO., di cui nell’articolo abbiamo presentato le schede numero 8038 e 6379 è consultabile all’indirizzo:
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Da: PuntoSicuro
01 giugno 2017
di Tiziano Menduto
Esempi di infortuni professionali nel lavoro degli apprendisti. Infortuni nell’uso di una pressa piegatrice e in attività di produzione di sacchetti di plastica. Le dinamiche degli infortuni, i fattori che li hanno causati e le regole per gli apprendisti.
I dati relativi agli infortuni nell’Unione Europea, con riferimento alla campagna di prevenzione del 2006 dell’Agenzia Europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA), mostrano come, rispetto ai colleghi di lavoro con più esperienza, gli apprendisti riportino infortuni con una frequenza decisamente superiore.
Per questo motivo abbiamo iniziato un viaggio, attraverso la rubrica “Imparare dagli errori”, dedicata al racconto e all’analisi degli infortuni lavorativi, attraverso gli infortuni che avvengono tra gli apprendisti. Un percorso che non si sofferma sono sugli infortuni ma vuole anche ricordare alcune buone prassi generali di prevenzione per il mondo dell’apprendistato.
I casi presentati sono tratti, come sempre, dalle schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi
Il primo caso riguarda un infortunio avvenuto ad un apprendista di nuova assunzione.
Un lavoratore, apprendista da poco assunto, coadiuva un collega nelle operazioni di piegatura ad una pressa piegatrice azionata dal comando a doppi pulsanti.
Durante la fase di posizionamento della lamiera di medie dimensioni (m 1,5 x 2,0) sullo stampo inferiore l’infortunato si accorge del difettoso allineamento del pezzo e cerca di riposizionarlo entrando con il braccio nella zona operativa della macchina.
Il punzone era già nella fase d’avvicinamento in discesa veloce in quanto attivato dalla pulsantiera dall’ignaro collega. Tale discesa si arresta automaticamente a 4 centimetri dallo stampo inferiore e va riavviata con nuovo impulso per la piegatura.
Lo stampo superiore coglie l’avambraccio dell’infortunato provocandogli la frattura con lesioni. Il collega libera l’arto dell’infortunato agendo sui comandi di risalita del punzone.
La pressa piegatrice era priva di protezioni.
Questi i fattori causali individuati:
-         un lavoratore mette il braccio nella zona operativa della macchina mentre scende il punzone;
-         un lavoratore aziona i pulsanti di comando della piegatrice senza guardare;
-         pressa piegatrice priva di protezioni.
Il secondo caso riguarda un infortunio, con amputazione della falange distale del II e II dito della mano sinistra, di un apprendista saldatore di materie plastiche.
Il lavoratore è impegnato in questa attività da circa 7 mesi. L’infortunio avviene mentre il lavoratore è impegnato nella produzione di sacchetti di plastica di piccolo taglio, quando nota che la macchina saldatrice si è bloccata in emergenza, a seguito di inceppamento del film plastico nella zona di saldatura.
Posto il selettore di comando in posizione manuale avvia così le operazioni di sblocco della macchina. Tale operazione del selettore si è accertato, by-passa gli switch di protezione posti sugli schermi di plexiglas che impediscono gli eventuali accessi agli organi meccanici in movimento della zona saldatura, che invece agiscono regolarmente durante il normale funzionamento della macchina.
Il lavoratore apre lo schermo in plexiglas e estrae il film plastico inceppato, aziona con la mano destra la discesa della lama a ghigliottina premendo il manuale posizionato sulla parte esterna della macchina e precisamente quello nei pressi della zona saldatura, questa operazione causa l’amputazione.
Si ritiene che l’infortunio è avvenuto per la incompleta formazione e informazione del lavoratore e per la non conformità della macchina ai requisiti di sicurezza.
Questi i fattori causali individuati:
-         inadeguatezza dei requisiti di protezione;
-         rimozione di film plastico inceppato.
Ci siamo soffermati precedentemente su alcuni suggerimenti generali per gli apprendisti tratti dal documento di SUVA, Istituto svizzero per l’assicurazione e la prevenzione degli infortuni, dal titolo “10 mosse per un tirocinio in sicurezza. Materiale di approfondimento. Per i formatori professionali, gli apprendisti, i genitori interessati, i superiori”.
Dopo aver presentato nella scorsa puntata le tre prime regole (STOP in caso di pericolo; conoscere i pericoli e tutelarsi da questi; attrezzature: so usarle?), ci soffermiamo brevemente sulle altre tre regole per gli apprendisti:
LAVORI RISCHIOSI: SI’, MA SOLO SE PIANIFICATI
Si ricorda che spesso gli infortuni gravi sono dovuti a una scarsa pianificazione dei lavori, a una carente comunicazione, a misure di sicurezza incomplete, a fretta, improvvisazione o a una mole ingestibile di lavoro. Ancora più importante è il fatto che i lavori siano sempre pianificati con cura e non vengano fatti di fretta.
Queste sono le quattro domande cruciali alle quali devono rispondere gli apprendisti per riconoscere i pericoli, pianificare i lavori e svolgerli in condizioni di sicurezza:
-         l’incarico è chiaro?
-         i lavori sono stati pianificati?
-         la sicurezza è garantita?
-         ho tutto sotto controllo?
CHIEDERE NON E’ PECCATO:
Il documento di SUVA sottolinea che ogni inizio è difficile. Questo si vede anche nel rischio di infortunio tra gli apprendisti, decisamente più elevato rispetto ai colleghi con più esperienza. Gli apprendisti hanno il diritto di fare domande finché non hanno chiarito tutti i dubbi. Se per dubbi o insicurezza si corre il rischio di subire un infortunio, a maggior ragione gli apprendisti hanno il sacrosanto dovere di chiedere. Chiedere non è peccato. Spesso gli apprendisti non osano fare domande, per paura di sbagliare o fare una figuraccia. Quindi: prendere sempre sul serio le domande degli apprendisti; non ci sono domande stupide, ma solo risposte stupide; una persona di riferimento è sempre utile; bisogna motivare gli apprendisti a fare domande; una cultura aperta in materia di comunicazione facilita questo compito; le questioni confidenziali vengono trattate con discrezione.
DPI: NIENTE DI PIU’ OVVIO
Si sottolinea che i Dispostivi di Protezione Individuale (DPI) servono a proteggere la persona da eventuali infortuni e malattie professionali. Non possono eliminare i pericoli, ma servono a ridurre o a eliminare le conseguenze avverse dei pericoli. Ulteriori istruzioni per l’apprendista:
-         uso sempre i DPI e rispetto le regole di sicurezza;
-         osservo i cartelli di sicurezza che mi invitano a usare i DPI;
-         ho cura dei miei DPI;
-         porto al formatore i DPI difettosi, vecchi e non più igienici affinché me li sostituisca.
Il documento del SUVA, Istituto svizzero per l’assicurazione e la prevenzione degli infortuni, dal titolo “10 mosse per un tirocinio in sicurezza. Materiale di approfondimento. Per i formatori professionali, gli apprendisti, i genitori interessati, i superiori” è scaricabile all’indirizzo:
Il sito web di INFOR.MO., di cui nell’articolo abbiamo presentato le schede numero 6257 e 6077 è consultabile all’indirizzo:


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