di Donatella
Destefano
«Ero arrivata al punto che rifiutavo i miei figli, non
cucinavo più, a casa non facevo più nulla. Pensavo: ma non è che sono io che
sbaglio». Continua il nostro approfondimento sulle donne lucane vittime di
mobbing. Ha chiesto l’anonimato, per questo motivo il suo nome di fantasia sarà
Marina. Così come non citeremo, per sua espressa richiesta, la fabbrica dove ancora
lavora. Il mobber sa dove e quando colpire. Marina è stata un facile bersaglio
avendo vissuto un periodo post-traumatico da stress, dovuto alla perdita di un
figlio. “Ogni giorno, quando arrivavo davanti la fabbrica avevo dolori di
pancia fortissimi e avvertivo ansia”.
Tutto inizia 17 anni fa in un’azienda della provincia
di Potenza. Nel 2000
Marina perse un bambino e – caduta in depressione – prese un periodo di
malattia al lavoro. Finiti i tre mesi giustificati, avendo anche avuto un parto
cesareo difficile, chiamò il capo, appena assunto, e chiese di poter usufruire
di tutti i giorni di ferie rimasti. “No. Io devo accontentare anche gli altri”-
fu la risposta. A quel punto, Marina – obbligata – prese altri giorni di
malattia e nonostante avvisasse della sua assenza, ogni giorno, a casa,
arrivavano le contestazioni.
Inizio del calvario. Marina tornò a lavoro dopo meno di un anno.
Veniva sbattuta da un reparto all’altro della fabbrica: “Costretta a pulire il
pavimento del lungo corridoio con il raschietto davanti a tutte le persone che
ridevano”-ricorda. Spiata, derisa e umiliata dai capi con frasi di questo tipo:
“E ma qua, purtroppo, cavalli buoni non ne abbiamo”. Obligata a spingere un
pesante carrello pur non potendo.
Un episodio assai terrificante. Un giorno Marina si recò in
infermeria per consegnare i certificati medici del neurologo. “Quella
mattina-racconta- il capo mi prese per il braccio e si mise ad urlare: vieni
con me- ed io gli dissi abbassi le mani, in risposta lui: siediti qua che vado io
a chiamare chi ti aggiusta a te” e andò a chiamare l’altro capo. Ci trovammo
tutti in infermeria. Il mio superiore, con aria arrogante, cominciò a dire:
“lei non offre più garanzia per il lavoro”, “ma lo sai chi sono io”. Io
rispondevo ed urlavo a tono. I due capi avevano paura che, in infermeria,
sentissero e mi portarono in una stanza chiudendo a chiave la porta. Mi fecero
sedere, al tavolo loro erano di fronte a me. Chiesi il permesso di andare in
ospedale perché non mi sentivo bene ma loro dissero “in ospedale solo se ti
esce del sangue”. A quel punto, presa dalla rabbia, gli gettai il tavolo
addosso. Mi consentirono di fare almeno una telefonata interna allo
stabilimento e chiamai i carabinieri. Essendosi accorti di questo, dissero
“chiudete, chiudete, questa ci fa passare i guai”. Poi, riuscii ad andare vie e
mi recai in ospedale accompagnata da mio marito. Il giorno dopo andai a
denunciarli”.
Ricominciano i soprusi. Da quel momento Marina ebbe
molte contestazioni che non rispondevano al vero, come l’aver acceso la
sigaretta prima di andare in bagno e di aver fatto una volta un minuto di
ritardo. Nonostante avesse i certificati medici che attestavano il suo bisogno
di dover andare alla toilette molte volte, la obbligavano a chiedere prima il
permesso ai superiori. La mettevano in difficoltà: doveva sedersi sulle
cassette anziché sulla sedia, doveva togliere il grasso da terra, doveva
arrampicarsi- essendo bassina – per prendere pezzi collocati in alto. Il capo
incitava i colleghi ad andarle contro con frasi del tipo “se voi dovete
lavorare di più è perché lei non fa nulla”.
Il processo. La denuncia di Marina, andò avanti fino ad arrivare al
processo. Soltanto l’anno scorso la vicenda giudiziaria è terminata. Sedici
anni di lotta, le contestazioni vennero ritenute false mentre le testimonianze
in suo favore sono venute meno. “Pur avendo visto, i colleghi hanno avuto paura
di parlare”. Il giorno della causa il suo neurologo negò che Marina stesse male
nonostante avesse esso stesso firmato i certificati. Sparirono anche le carte
sottoscritte dall’Ispettorato del lavoro che attestavano il malessere di Marina
e le azioni di mobbing subite. Al processo, più volte venne messa in difficoltà
ma essendosi scritta su un diario tutto quello che avveniva ogni giorno riuscì
a rispondere a tono.
Finalmente il ‘lieto fine’. Marina e suo marito, anche lui
preso di mira in fabbrica per il solo fatto di essere il marito, sono
stati spostati in un altro reparto e oggi sono più sereni. “Non sarei riuscita
ad affrontare tutto ciò senza l’aiuto di mio marito e di alcuni miei colleghi.
Ho lottato contro il ‘mostro’. Mi recavo a Napoli per seguire i corsi
antimobbing, Sono una donna forte ma la paura di subire mobbing è ancora
forte”- confessa ancora provata nel ricordare quello che le è successo.
La solitudine di chi denuncia. Marina si è sentita molto sola,
abbandonata dalle istituzioni che non l’hanno aiutata. “E’ molto difficile
dimostrare il mobbing-ha spiegato il legale della donna- pur avendo tutti gli
elementi che attestano la veridicità del fatto. Ed è complicato, considerato
che la normativa italiana è carente in materia, che il giudice riconosca il
mobbing. E se mai dovesse essere riconosciuto si creerebbe un precedente come
nel caso di Marina: esempio vincente sul mobbing”.
da basilicata24.it
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