Italcantieri di Monfalcone, il giudice non ha ancora
scritto le motivazioni Insorgono i familiari degli 85 morti di tumore: “Così si
rischia la prescrizione”
SANDRO DE
RICCARDIS,
LA GIUSTIZIA
si è fermata dopo un processo lungo tre anni, 94 udienze, una condanna in primo
grado, le lacrime in aula di vedove e parenti. È il 15 ottobre 2013 quando il
giudice Matteo Trotta infligge 13 condanne per omicidio colposo per la morte di
85 operai dell’Italcantieri di Monfalcone, il cantiere navale in provincia di
Gorizia, uccisi dall’asbestosi tra il ‘92 e il 2005.
Da allora,
da 16 mesi, le loro famiglie aspettano il deposito delle motivazioni di una
sentenza che ha inflitto pene per un totale di oltre 56 anni di reclusione.
Ritenuti responsabili, tra gli altri, dei decessi per asbestosi — malattia dei
polmoni legata all’inalazione di fibre di amianto — Vittorio Fanfani, 94 anni e
Manlio Lippi, 93, ex direttori di Italcantieri (sette anni e sei mesi), e Corrado
Antonini, 81, ex direttore generale Italcantieri (quattro anni e quattro mesi).
Quel giorno,
vedove e orfani degli operai, sindacati e associazioni di difesa delle vittime
dell’amianto, istituzioni e semplici cittadini hanno ascoltato per mezz’ora la
lettura di una sentenza che era il primo riconoscimento di una giustizia attesa
per troppi anni, dai primi decessi di una strage cominciata negli anni ‘90. Da
allora però tutto si è fermato. Le motivazioni, che dovevano essere depositate
«entro novanta giorni», non sono mai arrivate. E cronici problemi di
amministrazione della giustizia in un piccolo tribunale di provincia, con una
decina di magistrati, si sono aggiunti alla circostanza che il giudice Trotta è
stato trasferito, nell’ottobre 2013, a Trieste come presidente del tribunale.
Mese dopo mese, l’attesa per i familiari delle vittime si è fatta
insostenibile. Con la conta delle settimane e dei giorni, e lo spettro della
prescrizione che ha già coperto la tragedia di alcuni operai e si prepara a travolgerne
sempre di più.
il legale
della fiom giustifica il ritardo
«La
sentenza è stata molto complessa per il numero degli imputati e delle persone
offese», ammette anche Francesco Donolato, legale della Fiom, parte civile per
la provincia di Gorizia. D’altronde, la storia giudiziaria dei morti per
asbestosi al cantiere di Monfalcone, ricostruita in questo processo dai pm
Valentina Bossi e Luigi Leghissa, parte dai primi anni ‘90 e si conclude nel
2005. È la storia di saldatori, falegnami, carpentieri, tubisti. Artigiani che
hanno trascorso tutta la loro vita nei cantieri navali respirando senza saperlo
quelle fibre assassine, finché un mesotelioma o un carcinoma non li ha portati
via.
Già a fine
anni ’80 i decessi si susseguivano uno all’altro, ma esposti e denunce
rimbalzavano contro un muro di gomma impenetrabile. C’erano le prime
segnalazioni dell’anatomopatologo dell’ospedale locale, il professore Claudio
Bianchi, poi quelle dell’associazione Esposti amianto di Monfalcone. Ma per
avere un’inchiesta e poi un processo, partito nel 2008 e arrivato a sentenza
nel 2003, le famiglie hanno dovuto scrivere al Presidente della Repubblica e al
Csm, fino a ottenere l’avocazione di una trentina di fascicoli da parte della
procura generale. I parenti scendevano in piazza, i sindacalisti denunciavano,
artisti e scrittori come Massimo Carlotto organizzavano spettacoli per tenere
alta l’attenzione su morti apparentemente scollegate. «Donne sessantenni che
non avevano mai visto la piazza come un luogo di rivendicazione, iniziavano a
manifestare — ricorda oggi Chiara Paternoster, dell’associazione Esposti
amianto Monfalcone — La sentenza è stata vissuta come un grande successo,
questo rallentamento è ora un trauma ulteriore, che svilisce tante lotte. Molti
vorrebbero che il processo finisse per chiudere una parentesi e non rivivere a
ogni udienza l’agonia dei loro cari. La nostra è stata la più grande strage
civile in tempo di pace, quasi duemila vittime d’amianto tra Trieste e
Gorizia».
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