Poche vicende raccontano meglio il momento presente come l’e-mail ricevuta questa mattina da tre lavoratrici di una scuola di Roma, che – ironia dello stato democratico – è intitolata a Gianni Rodari. Le lavoratrici in questione sono OEPA, “operatrici educative per l’autonomia e la comunicazione” (prima si chiamavano AEC, “assistenti educativi e culturali”), una figura professionale che si occupa degli alunni con disabilità o in condizione di svantaggio sociale, dipendente dalle cooperative sociali a cui il Comune appalta il servizio. La cooperativa Prevenzione e Intervento Roma 81 si rifiuta di pagare l’indennità di malattia nei primi tre giorni come prevede la legge e commette diverse irregolarità nella busta paga (mancanza di pagamento dei permessi, delle ferie, del Bonus Renzi, ecc.). In risposta a questo sopruso, i lavoratori della cooperativa insieme al Comitato Roma AEC, già attivo da diversi anni, organizzano due mobilitazioni per la richiesta di pagamento immediato e la revoca della convenzione: una sotto la sede della cooperativa e un’altra sotto il VII Municipio, l’ente locale che appalta il servizio alla cooperativa. Verso le undici, alla fine della mobilitazione sotto il Municipio (di cui la cooperativa era naturalmente informata), le tre lavoratrici si recano a scuola per iniziare il turno di lavoro ma vengono bloccate all’ingresso; i loro fogli firma vengono sequestrati e portati alla dirigente scolastica che mette le lavoratrici sotto osservazione. L’indomani arriva la mail: “Su disposizioni della dirigente scolastica Angela Palmentieri dell’Istituto Comprensivo Gianni Rodari pervenuta in data 03/12/2020 Prot. 0007945/U La invitiamo a non presentarsi sul posto di lavoro onde evitare ulteriori disagi alla nostra così fragile utenza. Si inviano distinti saluti”. Il linguaggio è quello perverso del “doppio legame”, per cui le vittime dell’abuso che si commette vengono presentate come colpevoli di un altro abuso: la fragilità dell’utenza è usata per legittimare la fragilità del rapporto lavorativo.
Prevenzione e Intervento Roma 81, infatti, è una delle tantissime cooperative sociali che ormai da decenni si interpongono tra chi eroga e chi riceve i servizi fondamentali alla persona, parassitando i bisogni dell’una e dell’altra parte. Dalla fine degli anni Novanta il servizio di sostegno agli alunni con difficoltà è stato progressivamente appaltato al terzo settore, come tanti altri servizi pubblici in ambito socio-sanitario ed educativo, ipotecando di fatto le condizioni lavorative e contrattuali di migliaia di persone. Come altre figure professionali nate negli ultimi anni, gli OEPA-AEC sono invisibili al di fuori dal loro settore: pur lavorando a scuola insieme a maestri e professori sono dipendenti da cooperative sociali che mediano il rapporto tra loro e la scuola. Questa figura non è presente in tutte le regioni, soprattutto in quelle del sud Italia, mentre nelle altre assume denominazioni e regolamentazioni differenti. Questo profilo professionale nasce dalla legge 104 del 1992, che prevede lo stanziamento di risorse e servizi da parte degli enti locali per garantire il diritto allo studio e l’inclusione degli studenti con disabilità. Nel Lazio la figura esiste da decenni, ma è regolamentata da appena tre anni; eppure alcuni regolamenti cambiano in base al territorio o addirittura al municipio di riferimento, persino tra un quartiere e un altro, a seconda delle diverse cooperative appaltatrici. La precarietà degli OEPA è strutturale. Quasi sempre sono persone molto qualificate, ma percepiscono in media sette euro netti l’ora, con un inquadramento contrattuale (C1 del CCNL “cooperative sociali”) che discrepa con le funzioni essenziali che svolgono. Gli operatori cambiano spesso datore di lavoro, perché le gare d’appalto vengono fatte ogni due/tre anni e l’affidamento del servizio nelle scuole passa da una cooperativa a un’altra; questo comporta una serie di inconvenienti per l’utente e il lavoratore, tra cui il cambio di regolamento interno e la salvaguardia dei livelli contrattuali. Gli OEPA, di fatto, sono pagati a cottimo: non prendono stipendio se l’alunno o l’alunna con cui lavorano si ammala; non sono pagati durante la chiusura estiva né durante le vacanze di Natale e Pasqua; non percepiscono nulla quando ci sono chiusure straordinarie – dall’allerta meteo agli scioperi del personale docente o ATA, nonché naturalmente durante la chiusura nazionale delle scuole per il lockdown. Chi lavora sei ore al giorno, affiancando l’alunno durante il pranzo, non riceve il pasto a mensa, perché la cooperativa non paga il servizio. Per questo gran parte degli OEPA svolgono anche un secondo lavoro. Come già rilevato, questi lavoratori dell’inclusione sono di fatto esclusi dalle strutture in cui lavorano: le cooperative li smistano, ma poi loro devono auto-organizzarsi con professori e maestri; poiché non sono dipendenti della scuola, i presidi a volte neanche firmano direttamente le loro presenze. Frammentati tra le tantissime cooperative sociali, a Roma non è stato facile creare una piattaforma che riuscisse a tenere insieme la categoria. Il Comitato romano AEC è nato circa tre anni fa ed è stato sostenuto dai sindacati di base: lavoratori e lavoratrici di scuole differenti, dipendenti da cooperative diverse ma che hanno in comune la battaglia per la (re)internalizzazione del servizio, sono riusciti a estendere progressivamente la partecipazione. A inizio 2019 il Comitato ha lanciato una raccolta firme per una “delibera di iniziativa popolare” finalizzata alla stabilizzazione e all’internalizzazione del servizio. A giugno sono state raccolte e consegnate 12 mila firme e il Comune ha iniziato a interloquire con i lavoratori. L’amministrazione comunale tergiversa e il 12 dicembre 2019 il Comitato proclama il primo sciopero, che porta in Campidoglio oltre cinquecento lavoratori OEPA e un’altissima adesione in molti plessi scolastici. Il lockdown è stato devastante per gran parte dei lavoratori e lavoratrici, rimpallati continuamente tra scuole e cooperative e rimasti in un limbo per tre mesi, ma sempre in modo disomogeneo: alcune scuole li hanno fatto passare alla didattica online, altre no; alcune cooperative hanno coperto l’ottanta per cento dello stipendio con il FIS (cassa integrazione), altre hanno fatto “prestiti” da restituire in busta paga, altre ancora hanno corrisposto tutto quello che dovevano – insomma, un’eterogeneità non concepibile per chi dovrebbe avere le stesse tutele delle strutture pubbliche in cui lavora. Ma il Comitato durante questo periodo è riuscito a mantenere insieme questo panorama disgregato, in vista della delibera sull’internalizzazione. A quel punto però l’organizzazione di base si è scontrata con il clientelismo e la convenienza politica: il 16 ottobre 2020, il giorno della votazione in Assemblea Capitolina sull’internalizzazione del servizio, ventitré consiglieri comunali del Movimento Cinque Stelle e del Partito Democratico si sono astenuti. La delibera non è passata. Il Comitato ha risposto con una nuova mobilitazione, confluita nel Primo sciopero nazionale delle operatrici e degli operatori sociali, con presidi e manifestazioni autorganizzati degli AEC il 13 novembre. La chiave di questa mobilitazione sta nel superamento del corporativismo, una carta che le cooperative giocano in modo subdolo. Il grande accordo tra il datore di lavoro, lo stato e il lavoratore è qui recuperato dalla struttura familista di molte di queste “cooperative”, dentro alle quali il sindacato non può esistere perché i soci-lavoratori sono indotti a credere di essere parte di un progetto collettivo, su cui però non hanno voce perché in realtà la struttura interna è altamente gerarchica. Quello che emerge dalle lotte del Comitato è proprio la possibilità di organizzarsi insieme per non lasciare indietro nessuno, la possibilità di affrontare ogni piccola vertenza, ogni piccola ingiustizia, con la forza che solo la collettività può dare. Un’altra categoria ugualmente vessata da turni insostenibili, frammentata in migliaia di condizioni individuali difficili da ricomporre, è per esempio quella degli OSS, gli operatori socio-sanitari, che percepiscono stipendi ridicoli, forniscono servizi pubblici, ma non godono di nessuno dei diritti e delle tutele che il pubblico deve dare ai suoi lavoratori. Le rivendicazioni che fino a qualche tempo fa erano considerate settoriali, quando non appannaggio di gruppi ristretti, si sono improvvisamente rivelate importanti per molte più persone. Questa è la sostanza principale di cui si compone l’azione politica: i bisogni specifici di un gruppo sociale, invece di presentarsi come richieste corporative, riescono a diventare la chiave per scardinare meccanismi che tengono sotto scacco anche molti altri gruppi. La vicenda delle tre lavoratrici della Roma 81, quindi, è un problema che riguarda chiunque. Dopo trent’anni di esternalizzazione, dovrebbe essere chiaro ormai che le persone che curano, che insegnano, che si occupano dei bambini, dei disabili, che si impegnano per tenere in vita e in salute le persone più vulnerabili, devono poter godere loro stesse di condizioni di vita e di salute per lo meno dignitose. Se a inizio dicembre abbiamo quasi mille morti di Covid-19 al giorno, il tasso più alto del mondo dopo gli Usa, lo si deve, più che al virus, a questo sistema para-mafioso che succhia risorse preziose al sistema sanitario. (chiara davoli / armando alexander napoletano / stefano portelli)
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