Maruti Suzuki Cars, Manesar,
India: cronaca dell’attuale lotta degli operai in fabbrica
24 Novembre
2014
Quella che
segue è una cronaca e una riflessione su un recente episodio della storia della
classe operaia che ha prodotto qualcosa di clamoroso, non da ultimo all’interno
della classe operaia stessa. Ha dato origine a diverse interpretazioni, nei
resoconti che i partiti politici di sinistra e altre organizzazioni della
società civile ne hanno fatto e nel modo in cui i media elettronici e la stampa
l’hanno riportata, comprese le cronache dettagliate e le analisi del foglio operaio
Faridabad Majdoor Samachar (FMS). La nostra ricostruzione attinge
principalmente a FMS e a nostre conversazioni con persone ad esso legate.
Il sogno del
figlio del primo ministro Indira Gandhi, Sanjay, di produrre in India piccole
auto non è mai decollato e, dopo la sua morte, nel 1983 la società da lui
fondata fu nazionalizzata. Fu firmato un accordo di collaborazione con la
Suzuki Motor Corporation in e quello stesso anno il primo esemplare usciva
dalle fabbrica di Gurgaon, in Haryana. Nel 2007 il secondo stabilimento della
società veniva inaugurato nella Industrial Model Town (IMT) di Manesar.
Nel 2011
nello stabilimento di Manesar c’erano 950 lavoratori a tempo indeterminato, 500
in formazione, 200 apprendisti, 1200 lavoratori dell’appalto di lavorazioni
direttamente coinvolte nel processo di produzione e circa 1500 lavoratori
assunti da appaltatori per varie lavorazioni ausiliarie. I ritmi di lavoro
erano tali che si montava una macchina ogni 45 secondi. Alcuni lavoratori a
tempo indeterminato tentarono di organizzarsi in un altro sindacato, contro il
sindacato ufficiale. Le pressanti manovre della direzione per far accettare il
sindacato già esistente ai lavoratori a tempo indeterminato (la maggior parte
dei quali neppure sapevano del tentativo di formare un’altra organizzazione
sindacale) produsse un clima carico di tensioni. Il malcontento generale
precipitò in un’improvvisa fermata del lavoro. Il 4 giugno 2011 i lavoratori
dei turni A e B, ancora tutti dentro la fabbrica, occuparono tutti i varchi in
entrata e uscita. Oggi la maggior parte degli operai nelle fabbriche del
subcontinente sono lavoratori precari - la percentuale dei lavoratori a tempo
indeterminato varia dallo 0% al 5% fino al 25% della forza lavoro. Quel 4
giugno si unirono i lavoratori a tempo indeterminato, quelli in formazione, gli
apprendisti e i precari dell’appalto, e prese così forma l’organizzazione
operaia adatta alla situazione data, sorpassando le normative di legge per cui
solo i lavoratori a tempo indeterminato possono essere membri del sindacato di
una fabbrica. Si potrebbe definire quella che iniziò quel 4 giugno e continuò
per 13 giorni una “de-occupazione” della fabbrica. Per tutti quei giorni circa
3000 operai vissero in un’atmosfera liberata all’interno della fabbrica.
L’azienda e
il governo furono presi alla sprovvista. Durante la “de-occupazione” si
svilupparono forti legami tra tutti i lavoratori con contratti diversi. Per
riprendere la produzione l’impresa fu costretta a fare un passo indietro e
revocare la risoluzione del contratto per 11 lavoratori.
In fabbrica
ci fu un brusco cambio di clima. I legami tra i lavoratori continuarono a
crescere e i capi erano sempre più sulla difensiva. L’azienda fu costretta a
fare i suoi piani e manovre per riprendere il controllo. Andò presso gli
istituti tecnici industriali più lontani a reclutare in segreto centinaia di
ragazzi. Il 28 agosto, giorno di riposo settimanale, 400 agenti di polizia
arrivarono nottetempo. I capi erano già lì ad attenderli. Con lamiere d’acciaio
blindarono la fabbrica come una base militare. La mattina del 29, all’arrivo
degli operai del turno delle 7, annunciarono licenziamenti e sospensioni, e che
potevano entrare solo a quei lavoratori a tempo indeterminato che firmavano un
impegno scritto a tenere una buona condotta.
Tutti gli
operai, sia a tempo indeterminato che precari, rimasero fuori della fabbrica.
All’interno c’erano solo i nuovi assunti e degli operai trasferiti dalla
fabbrica di Gurgaon della stessa azienda, più pochi lavoratori a tempo indeterminato
dello stesso impianto di Manesar. Avevano allestito dormitori per tenerli in
fabbrica tutto il tempo. Capi, quadri, dirigenti e vigilanti dovevano lavorare
alla catena insieme agli operai in turni di 12 ore. Una mossa ben studiata
della direzione nella partita a scacchi contro gli operai, per ammorbidirli e
imporre le sue condizioni.
Ci furono
ripetute provocazioni per istigare i lavoratori alla violenza. Gli operai le
respinsero, ma comunque alcuni di loro, chiamati dal governo dello stato a negoziare,
furono arrestati seduta stante.
Fuori della
fabbrica, più 3000 di lavoratori si autorganizzarono in picchetti con turni di
12 ore. In qualsiasi momento del giorno o della notte c’erano più di 1500
lavoratori che presidiavano i varchi di ingresso del personale. Si andò avanti
così per tutto settembre 2011. C’erano discussioni di ogni tipo. I legami tra i
lavoratori delle diverse categorie di fecero un ulteriore salto. Ogni tipo di
tendenza politica era presente ai cancelli della fabbrica: sinistra
parlamentare, sinistra extra-parlamentare, radicali, attivisti di
organizzazioni per i diritti democratici e civili, studenti universitari e
sindacati ufficiali. Il dato più significativo è che gli operai prendevano il
posto dei contadini, entrando prepotentemente nella scena socio-politica del
subcontinente. Gli operai, tutti intorno ai vent’anni di età, non erano né
demoralizzati né ammorbiditi, neanche dopo un mese di picchetti fuori della
fabbrica. La partita a scacchi studiata dalla direzione era un punto morto. Da
parte loro, gli operai non avevano raggiunto i lavoratori delle altre fabbriche
per aumentare la loro forza. Si era in una situazione di stallo. In questo
contesto, il 30 settembre fu firmato un accordo tripartito tra il sindacato
ufficiale, azienda e dipartimento del lavoro del governo dello stato. I
lavoratori lo accettarono. Quando, il 3 ottobre 2011, gli operai tornarono in
fabbrica, come previsto dall’accordo, lavoratori a tempo indeterminato, in
formazione e apprendisti furono ripresi in servizio, ma 1500 lavoratori precari
assunti attraverso gli appalti furono tenuti fuori. Un’altra mossa da
scacchista dell’azienda.
L’azienda
aveva anche sospeso 44 lavoratori a tempo indeterminato. La mattina del 7
ottobre, l’aggressione a un lavoratore sospeso cambiò di nuovo completamente la
situazione. Mentre gli operai dei turni A e B erano ancora tutti all’interno
della fabbrica, occuparono ancora una volta tutti i varchi di entrata e uscita.
La fabbrica era “de-occupata” per la seconda volta. Questa volta non ci fu solo
questa de-occupazione, contemporaneamente altre 11 fabbriche della zona furono
de-occupate dai lavoratori.
Ancora una
volta, azienda e governo furono presi alla sprovvista. La fabbrica della Maruti
Suzuki fu de-occupata dai lavoratori nonostante la presenza di 400 poliziotti e
di centinaia di altri vigilanti. La contemporanea de-occupazione di altre 11
fabbriche apriva nuove possibilità, anche nelle migliaia di altre fabbriche
della IMT. Fecero ogni tipo di pressione e, in sette fabbriche, la
de-occupazione ebbe fine, ma continuava nei quattro stabilimenti del gruppo
Suzuki. L’elezione per un seggio parlamentare fermò temporaneamente la mano del
governo. Appena dopo il voto del 13 ottobre, la sera stessa, alla Maruti Suzuki
di Manesar furono inviati di rinforzo altri 4000 poliziotti.
I leader
delle diverse forze dichiaravano a gran voce che se il governo avesse usato la
polizia per cacciare gli operai dalla fabbrica, avrebbero fermato l’intero
comparto industriale, in tutto lo stato. Per tutto il 14 ottobre, i lavoratori
della Maruti Suzuki di Manesar tentarono ripetutamente di contattare questi
leader, invano. Né le ordinanze di liberare la fabbrica da parte dell’Alta
Corte dello stato né i tentativi della direzione di convincere i lavoratori a
obbedire alle ordinanze del tribunale ottennero alcun effetto. Dopo aver
resistito per l’intera giornata alla pressione dei 4000 poliziotti
supplementari, il 14 ottobre, intorno alle 20, gli operai decisero di lasciare
la fabbrica e di unirsi ai loro compagni fuori dell’impianto, 1.500 lavoratori
temporanei, per fronteggiare la nuova situazione.
Ciò che
colpisce è come né l’azienda né il governo siano stai in grado di comprendere
le mosse dei lavoratori. Le crepe si andavano diffondendo ed erano evidenti i
rischi della situazione per il governo. Il governo impose un terzo accordo. I
1500 lavoratori precari degli appalti furono ripresi. L’azienda pagò
segretamente una notevole somma di denaro ai 30 lavoratori a tempo
indeterminato che riteneva responsabili e il governo dello stato assicurò loro
un altro posto di lavoro, per ottenerne le dimissioni. Questi lavoratori
avevano conquistato la fiducia dei loro compagni di lavoro, grazie al ruolo
attivo svolto nei sei mesi di lotte. Liberando la fabbrica da questi
lavoratori, di fatto azienda e governo allontanavano dai lavoratori quella che
avrebbe potuto essere una potenziale leva per roversciarli. Il 22 ottobre la
produzione nei 4 stabilimenti riprese.
“Che cosa
vogliono gli operai?” Per il governo e l’azienda era incomprensibile. L’azienda
aveva fatto concessioni dopo concessioni. Ora, invece che 45 secondi, il tempo
previsto per la produzione di un’auto era stato portato a un minuto. Tutti i
salari per i lavoratori in formazione, apprendisti e precari degli appalti
erano stati aumentati. Ai lavoratori a tempo indeterminato erano stati promessi
aumenti significativi. Anche i genitori erano stati inclusi nei piani di
copertura sanitaria. Il numero delle ferie per anno era stato aumentato. I pesanti
tagli alla paga per 1 o 2 giorni di assenza erano stati cancellati. La
direzione aveva inviato i suoi funzionari ad agevolare la registrazione di un
secondo sindacato dei lavoratori a tempo indeterminato. L’azienda aveva
riconosciuto subito il nuovo sindacato e avviato la trattativa per un accordo a
lungo termine. I nuovi rappresentanti non avevano molto credito ma neanche
trovavano opposizione tra i lavoratori, erano considerati un organismo ad hoc
per la trattativa. Nel frattempo, aveva inizio della produzione nel secondo
reparto di assemblaggio della fabbrica, portando il numero di lavoratori a più
di 4000.
È stato
detto che le de-occupazioni di giugno e ottobre 2011 hanno portato alla ribalta
questioni importanti connesse alla condizione, ai tempi, alle relazioni, alla
rappresentanza, all’articolazione, alla vita di fabbrica. Così diceva un
lavoratore:
“I giorni dal 7 al 14 ottobre sono i
più belli in fabbrica alla Maruti Suzuki. Non più tensione sul lavoro. Non più
pressioni sull’orario di entrata e uscita. Non più stress per prendere un posto
sull’autobus. Non più lagne su cosa cucinare. Non più questioni se oggi la cena
deve essere servita alle 19 o alle 21. Niente più angoscia su che giorno o che
ora è. Parlavamo tanto con gli altri, anche di cose personali. In quei sette
giorni tutti siamo stati più vicini l’uno all’altro di quanto eravamo mai stati
prima”
Sulla stessa
scia, alla fine di ottobre, dopo che si era conosciuta la vicenda dei 30
lavoratori, un altro operaio diceva:
“Prima eravamo abituati a rivolgerci
al direttore, al segretario generale, al caporeparto ed ad aspettare la
risposta. Ora invece ogni lavoratore si dà le risponde. Su ogni questione,
ognuno dà la sua opinione. L’atmosfera è cambiata”
Già in
febbraio-aprile 2012, nonostante le numerose e importanti concessioni fatte
dall’azienda, i lavoratori cominciavano a sentire e a dire che in realtà non
era cambiato nulla. Qualsiasi discorso sull’importanza delle concessioni fatte
era considerato un discorso filo-aziendalista. Anche dopo aver lottato così
tanto, i lavoratori salariati erano rimasti lavoratori salariati. Che cosa era
cambiato? Questo è il contesto degli eventi del 18 luglio 2012.
Quella
mattina accadde un fatto di tutti i giorni, una lite tra un supervisore e un
operaio. Il lavoratore fu sospeso e fu avviata la trattativa tra la direzione e
il sindacato. Il dipartimento del lavoro del governo dello stato inviò un
funzionario in fabbrica per facilitare una soluzione. Arrivò l’ora del
cambio-turno e anche gli operai del turno B. I lavoratori a fine turno si
rifiutarono di lasciare la fabbrica. Gli operai dei turni A e B erano ancora
tutti insieme. Tutte le tensioni accumulate presero slancio e verso esplosero
in tempesta. I rappresentanti che trattavano con la direzione non sapevano che
fare. Nelle loro stesse parole: “se cerchiamo di fermare gli operai, saremo i
primi a essere picchiati”.
Dopo tutte
le concessioni fatte dall’ottobre-novembre 2011 in poi – concessioni da ogni
punto di vista molto significative, nel sistema del lavoro salariato – i
lavoratori si ribellavano contro l’essere lavoratori salariati. Gli operai
attaccarono i due simboli del sistema del lavoro salariato: i dirigenti e gli
uffici della direzione. I numerosi vigilanti e 60-70 poliziotti rimasero spettatori
silenziosi. Nessuna guardia o poliziotto fu ferito. Non era l’azione di un
gruppetto di 20 o 50, ma di migliaia di lavoratori, nuovi e vecchi, a tempo
indeterminato e precari, che partecipavano alla rivolta. Per puro caso è
accaduto il 18 luglio – lo stesso avrebbe potuto accadere 15 maggio o il 25
agosto. Di fatto i dirigenti e gli uffici erano solo simboli della realtà delle
relazioni sociali che essi esprimevano ma, nella pratica, prima le forme
incarnate e tangibili diventano bersagli e poi, attraverso questo, appaiono le
relazioni sociali. Dopo un attacco durato 30-45 minuti, i lavoratori si
dileguarono dalla fabbrica … i padroni erano in ambasce, non solo nella
capitale dello stato, anche altrove.
Lo stato ha
dislocato permanentemente alla IMT di Manesar 600 commandos di cento uomini
l’uno. 147 lavoratori sono stati arrestati, e per altri 65 sono stati emessi
mandati di cattura. 546 lavoratori a tempo indeterminato sono stati licenziati
e i 2500 lavoratori precari assunti negli appalti sommariamente liquidati.
Ancora a metà ottobre 2014, a nessuno dei lavoratori rinchiusi in carcere è
stata concessa la libertà a su cauzione. I mandati di arresto per gli altri 65
lavoratori sono ancora in esecuzione. Secondo il presidente della Maruti
Suzuki: “Questa è guerra di classe”. Secondo un operaio della Maruti Suzuki di
Manesar: “Se il 18 luglio ci fosse stato in tutta la IMT di Manesar, allora sì
che sarebbe davvero successo stato qualcosa”.
In sintesi:
al 18 luglio 2012 erano state riconosciute a tutti i lavoratori quelle che si
potrebbero considerare concessioni molto significative, nel sistema del lavoro
salariato. I lavoratori a tempo indeterminato erano garantiti ed erano in corso
trattative che li avrebbero resi tra i meglio pagati nella regione. La fabbrica
aveva iniziato la produzione nel 2007 e tutti i lavoratori avevano intorno ai
vent’anni di età. I lavoratori non sono stati diretti o sotto il controllo di
questo o quel gruppo / organizzazione / tendenza. L’azione operaia non è stata
uno scoppio improvviso di rabbia. Non è stata una reazione a una qualche
iniziativa dell’azienda. Lavoratori a tempo indeterminato, in formazione,
apprendisti, lavoratori precari assunti negli appalti, nuovi operai assunti per
lavorare nel secondo impianto di assemblaggio - la sera del 18 luglio 2012
tutti questi operai, circa 4000, con un’azione deliberata hanno attaccato due
simboli del sistema del lavoro salariato: dirigenti e uffici. Non era questo o
quel capo cattivo il bersaglio, ma piuttosto ogni e qualsiasi padrone. Quindi,
centinaia di dirigenti, i dirigenti in
quanto tali, sono diventati un bersaglio. È questo che rende gli eventi
alla fabbrica Maruti Suzuki di Manesar di importanza generale. Che la
repressione generi ribellione è cosa ben nota, ma il rifiuto in massa delle
concessioni è un fenomeno nuovo. È un punto partenza radicalmente nuovo. I
fatti alla Maruti Suzuki Manesar sono un grande esempio, ma ciò che è più
importante è che tra i lavoratori di fabbrica nella regione della capitale
nazionale dell’India fatti simili, in diverso stadio e a diversi livelli, si
stanno facendo strada.
Nei giorni
successivi, le duemila fabbriche della IMT Manesar offrivano una base
importante per gli operai, per incontrare altri operai e legarsi a loro. E
invece … le centrali sindacali sono intervenute immediatamente spostando la
sede della mobilitazione a 25 km, a Gurgaon, costituendo un comitato di 16
dirigenti sindacali, che avrebbe deciso quali passi intraprendere. I 546
lavoratori a tempo indeterminato licenziati, quelli rimasti fuori del carcere,
sono stati ridotti a galoppini di questa commissione. Altre forze che
rappresentano / sostengono gli operai, critiche verso i sindacati centrali ma
che guardano ai lavoratori come a povere vittime prive di coscienza, hanno cancellato
il ruolo attivo dei lavoratori del 18 luglio. Dicono invece che l’azienda è
stata la forza attiva, che ha complottato e assunto dei tirapiedi per attaccare
i lavoratori e provocarli. I poveri lavoratori avrebbero agito solo per in
reazione a questi e così sarebbero caduti nella trappola tesa dalla direzione.
60-70.000 volantini pieni di queste falsità sono stati distribuiti tra i
lavoratori della IMT di Manesar, Gurgaon, Delhi e Faridabad. Consapevolmente o
no, queste anime belle hanno spinto i lavoratori a prendere strade faticose ed
inconcludenti. Petizioni, manifestazioni, proteste dei familiari dei lavoratori
licenziati e imprigionati, scioperi della fame, marce di protesta in bicicletta
… iniziative che hanno dato un certo sostegno alla causa degli operai, ma che,
se ci si affida esclusivamente a queste, non fanno che stancare e demotivare i
lavoratori. A fronte dell’inefficacia del comitato dei 16, le posizioni più di
sinistra hanno guadagnato terreno. Allora la sede è stata spostata a 200 km di
distanza, in una zona prevalentemente contadina.
Nel luglio
2013 la completa bancarotta di tutti quelli che considerano i lavoratori povere
vittime sfruttate è arrivata al punto che le loro “azioni di lotta” hanno fatto
una fine ingloriosa: il 18 luglio 2013, in una veglia a lume di candela fatta
in pieno giorno in un parco assegnato dal governo, hanno portato in corteo il
ritratto del manager morto nel 2012 ...
È molto
significativo come, nel riflettere sulle azioni degli operai alla Maruti Suzuki
di Manesar, un lavoratore dalla lunga esperienza ha commentato: “chiamare queste azioni semplicemente una
‘occupazione’ è come guardare a quello che i lavoratori stavano facendo
attraverso una lente che lo riduce. ‘Occupazione’ è termine sbagliato,
fuorviante. Occupazione è il modo in cui le gerarchie sociali esistenti
mantengono la loro posizione. Le aziende e i governi oggi si affannano per
impadronirsi di tutto. Quello che vogliamo è creare un bene comune. In questo
contesto, chiamare quello che i lavoratori della IMT di Manesar hanno fatto una
‘occupazione’ è rifiutare l’essenza delle loro azioni; è come calpestare le
possibilità che hanno creato”.
I lavoratori
della Maruti Suzuki hanno testimoniato abbondantemente che tra il 7 e il 14
ottobre, quando avevano sciolto la fabbrica dal controllo della direzione e del
governo, hanno provato una gioia di vivere che di solito neppure immaginavano.
Il significato di ciò che i lavoratori hanno fatto, quindi, sta nell’essere
stato un punto di partenza a cui sono seguite una serie di altre
de-occupazioni. Visto attraverso questa lente, appare chiaro il significato
dello stesso movimento ‘Occupy’, iniziato negli Stati Uniti, come l’essere in
effetti un movimento che chiede de-occupazione, una presa di distanza dal
controllo che le imprese e i governi esercitano.
La
ricostruzione ed analisi qui proposte riuniscono gli elementi critici che
definiscono gli eventi del 18 luglio e ne estrapolano anche le possibilità e
potenzialità per un’azione operaia più estesa e radicale, che vada al di là del
sindacato, centrato sulle richieste di concessioni e riforme all’interno del
sistema esistente, attaccando le fondamenta stesse della società capitalistica,
vale a dire il sistema del lavoro salariato. Inoltre, ciò non è visto come il
risultato meccanico di una particolare congiuntura storica, ma come un evento
che porta in primo piano dal lato della classe operaia l’imperativo
dell’attività cosciente e dell’autorganizzazione. Infine, ciò che si descrive
è, non in minima parte, il prodotto di un pensiero che lo ha voluto, lo si può
comprendere se vi si riconosce una potenzialità che insiste più generalmente
nelle caratteristiche particolari della fase contemporanea dello sviluppo
capitalistico a livello globale.
Circa 200
anni fa, l’uso del carbone e dell’energia del vapore al posto della forza umana
e animale è stato un grande salto delle forze produttive, che ha staccato i
produttori dai loro attrezzi e instaurato il lavoro salariato. Successivamente,
il petrolio e macchinari elettrici produssero altri significativi incrementi
delle forze produttive, ma il salto prodotto dall’elettronica è incomparabile.
A livello globale, l’elettronica ha cambiato la vita sociale al punto che cose
di uso comune solo pochi anni fa oggi sembrano già antiche.
In America,
Europa e Giappone l’elettronica è entrata nella produzione negli anni 70. In
Cina dieci anni dopo. Dieci anni dopo la Cina, l’elettronica è entrata nella
produzione in India. Nel 1992 c’era in Giappone un dibattito tra i padroni su
lavoratori precari e a tempo indeterminato. I lavoratori a tempo indeterminato
sono costosi, ma sviluppano una certa fedeltà verso l’azienda. I lavoratori
precari costano meno, ma non hanno alcuna fedeltà nei confronti dell’azienda.
Questi erano alcuni dei temi in discussione. È la crescente debolezza delle
aziende e dei governi che si manifesta nella loro incapacità di mantenere
lavoratori a tempo indeterminato. In tutto il mondo in questi 10 anni il numero
di lavoratori precari è aumentato enormemente. Inoltre, l’ingresso
dell’elettronica nella produzione ha rapidamente accelerato il ritmo delle
nuove invenzioni. La crescente possibilità di introduzione di nuove macchine ha
ulteriormente ristretto lo spazio per l’assunzione di lavoratori a tempo
indeterminato. Fabbriche che per più di cento anni hanno continuato a crescere
sempre di più, oggi sono facilmente suddivise in centinaia di unità produttive
disperse nel territorio. Le piattaforme dell’auto, come quelle di Gurgaon,
Pune, Chennai, in India come altrove nel mondo, sono espressione di questa
tendenza. È significativo che, come già sottolineato, il crescente numero di
lavoratori temporanei non sia indice della forza di aziende e governi, ma
piuttosto della loro debolezza. La totale assenza di fedeltà all’azienda,
l’esperienza di lavoratori di 20 a 25 anni di età in 10 o anche 20 posti di
lavoro diversi, distruggono molte illusioni e rendono i lavoratori precari un pericolo
per aziende e governi. In altre parole, questo scenario, insieme ai legami
creatisi negli anni alla Maruti Suzuki tra i lavoratori precari e a tempo
indeterminato, rafforzati dalle esperienze condivise nella ‘de-occupazione’
della fabbrica, hanno prodotto la scintilla dei fatti del 18 luglio e
costituiscono una base potenziale per un’azione radicale della classe operaia
in futuro, qui e altrove. Innumerevoli esempi di queste azioni, che hanno luogo
dentro e intorno a Delhi, sono sempre più visibili.
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