venerdì 8 aprile 2016

6 aprile - SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! NEWSLETTER N. 250 DEL 05/04/16



NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI
(a cura di Marco Spezia - sp-mail@libero.it)

INDICE

DEFINIZIONE DI UNITA’ PRODUTTIVA E DECADENZA DEI RLS PER LE COOPERATIVE
1
BICICLETTA: INFORTUNIO IN ITINERE SEMPRE INDENNIZZATO, ANCHE SU STRADA E PER COLPA
6
RESPONSABILITA’ DEL DATORE IN CASO DI INFORTUNIO E ALTA PROFESSIONALITA’ DEL DIPENDENTE
8
CASSAZIONE: INFARTO DA SUPERLAVORO? IL DATORE E’ SEMPRE “COLPEVOLE”
10
NUOVA MODALITA’ PER LE DENUNCE DI INFORTUNIO E MALATTIA PROFESSIONALE
13
LE RICHIESTE DEGLI RLS PER MIGLIORARE LA PREVENZIONE IN ITALIA
14
LA VALUTAZIONE DELL’ESPOSIZIONE PROFESSIONALE A SILICE LIBERA CRISTALLINA

16

DEFINIZIONE DI UNITA’ PRODUTTIVA E DECADENZA DEI RLS PER LE COOPERATIVE
LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.73

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti dei lavoratori.
Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.
Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.
Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.
Marco Spezia


QUESITO

Ciao Marco,
lavoro in una cooperativa che ha una sede centrale nazionale, ma diverse sedi dislocate su tutto il territorio italiano, ma che dipendono comunque dalla sede centrale.
Ho chiesto chi fosse l’RLS aziendale della sede in cui lavoro per proporgli i problemi che abbiamo per la sicurezza, ma la cooperativa mi ha risposto che devo fare riferimento all’RLS della sede centrale.
Risulta tra l’altro che tale RLS sia decaduto dall’incarico.
Mi risulta che l’RLS, secondo il Testo Unico, debba essere eletto per ogni unità produttiva di una azienda e quindi la prima domanda che ti pongo è se le nostre sedi distaccate sono unità produttive o meno e quindi se hanno la facoltà di eleggere un RLS o se dobbiamo invece fare riferimento all’RLS della sede centrale.
La seconda domanda è relativa a cosa prevede il Testo Unico sulla decadenza dei RLS.
Secondo la cooperativa, l’attuale RLS non decade, noi vorremmo invece vedere di rieleggerne uno in ogni sede che potrebbe essere considerata un'unità produttiva autonoma, se mi mandi meglio la definizione.
Il CCNL in vigore è il CCNL Cooperative sociali, triennio 2010-2012, firmato il 16 dicembre 2011, non rinnovato
Se puoi dammi un parere.
Grazie.


RISPOSTA

Ciao,
premetto che il termine “unità produttiva” non è di facile definizione.
A tale proposito ti riporto a seguire un articolo del quotidiano on-line PuntoSicuro con un’analisi di dettaglio del termine.

Innanzitutto la definizione di unità produttiva secondo l’articolo 2, comma 1, lettera t) del D.Lgs. 81/08 è la seguente:
stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all'erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale”.
Se la struttura, pur facendo parte di una azienda più ampia, possiede questi requisiti è unità produttiva.

L’autonomia finanziaria e tecnico-funzionale va intesa relativamente alla gestione di tutte le attività legate alla tutela della salute e della sicurezza e deve essere posta in capo a un datore di lavoro, come definito dalla lettera d) dell’articolo citato:
il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”.

Per semplificare l’unità produttiva è quella parte di un’azienda al capo della quale è posto un datore di lavoro che ha pieni poteri decisionali e di spesa e che non deve rispondere ad altri, se non, eventualmente, al consiglio di amministrazione della intera società.
Tali poteri devono essere formalizzati all’interno dall’atto costitutivo dell’intera società che specifichi in maniera chiara l’indipendenza finanziaria e tecnico-funzionale della unità produttiva.

In pratica, come si evince anche dalla lettura dell’articolo di PuntoSicuro, l’unità produttiva si caratterizza dall’avere un proprio bilancio e, aggiungo io, un proprio documento di valutazione dei rischi a firma del datore di lavoro.
Inoltre, secondo le interpretazioni riportate nell’articolo, l’unità produttiva non si configura solo a seguito di autonomia finanziaria e organizzativa, ma anche in funzione della capacità di assolvere un intero ciclo produttivo di un bene o di un servizio.

Nel tuo caso quindi, per poter definire che la sede distaccata della cooperativa sia unità produttiva, secondo definizione di legge, è necessario che:
-         la sede abbia autonomia finanziaria e tecnico-funzionale, come definito all’interno della visura camerale della intera società;
-         la sede sia sotto la piena responsabilità di un datore di lavoro che, da statuto e da visura camerale, abbia pieni poteri decisionali e di spesa;
-         la sede abbia un proprio bilancio;
-         la sede abbia un proprio documento di valutazione dei rischi.

Relativamente a quanto disposto per la durata degli RLS, ti riporto la risposta a una domanda rivolta alla Commissione degli interpelli (ex articolo 12, comma 2 del D.Lgs. 81/08) in merito a un caso simile.

La Commissione specifica che “le modalità di elezione o designazione del RLS dovranno essere oggetto di regolamentazione della contrattazione collettiva di riferimento per l’azienda”.
In caso di scadenza e mancato rinnovo della contrattazione (come nel tuo caso) la Commissione ritiene che “continui ad operare la precedente disciplina contrattuale, in regime di ultrattività”.

Pertanto per individuare le regole dell’elezione del RLS e la durata della loro carica occorre partire dal CCNL Cooperative sociali, triennio 2010-2012, del 16/12/11, ancorché scaduto e non rinnovato.
Tale Contratto esaurisce quanto di competenza a tutela della salute e della sicurezza all’interno dell’articolo 74 “Tutela della salute e ambiente di lavoro”, che si limita ad affermare che
In materia di sicurezza sul lavoro, fermo restando quanto previsto nel protocollo d'intesa sottoscritto tra le Organizzazioni Sindacali CGIL, CISL, UIL e le centrali cooperative Legacoop, Confcooperative, AGCI in data 05/10/95 si fa riferimento al D.Lgs. 81/08 [...]”.

Ora, poiché il D.Lgs. 81/08 nulla dice in merito alla durata in carica del RLS, occorre fare riferimento al citato Protocollo d’intesa tra Legacoop, Confcooperative, AGCI e CGIL, CISL, UIL per l’applicazione del D.Lgs. 626/94 del 05/10/65.
Tale Protocollo riporta al punto 4.10 “Procedure per l’elezione o individuazione dei RLS” quanto segue:
Per le imprese cooperative o unità produttive delle stesse, le Associazioni cooperative e le Organizzazioni Sindacali dei lavoratori competenti concorderanno le iniziative idonee allo svolgimento delle elezioni dei RLS.
[...]
Il/i RLS così eletto/i dura/no nell’incarico per il tempo previsto dall’Accordo 13/09/94 sulle RSU o comunque fino alla decadenza della RSU”.

A sua volta il Protocollo di intesa per la costituzione delle Rappresentanza Sindacali Unitarie del 13 settembre 1994 riporta all’articolo 6 “Durata e sostituzione nell'incarico”, che:
I componenti della RSU restano in carica per 3 anni, al termine dei quali decadono automaticamente. In caso di dimissioni di componente elettivo, lo stesso sarà sostituito dal 1° dei non eletti appartenente alla medesima lista”.

Quindi e in conclusione il RLS eletto o designato all’interno della RSU rimane in carica 3 anni o fino alla decadenza della RSU.

A disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco

* * * * *

UNITA’ PRODUTTIVA: LA DEFINIZIONE AI FINI DELLA SICUREZZA SUL LAVORO

Definire l’unità produttiva consente di determinare il numero di RSPP, dirigenti, preposti, RLS e di individuare uno o più datori di lavoro: i requisiti per identificarla presenti nei riferimenti legislativi e nella giurisprudenza.

Definire ed individuare una unità produttiva è tema assai rilevante in materia di sicurezza sul lavoro. In particolare troviamo ricadute dirette nella individuazione del datore di lavoro, nella istituzione di un unico o più Servizi di prevenzione e protezione con conseguente presenza di più RSPP, nella organizzazione delle rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza.
Infatti in una unica società/persona giuridica è possibile come è noto il frazionamento datoriale, ovvero la presenza di più datori di lavori per un unico soggetto giuridico quando questo si articola in più unità produttive.
Come chiaramente indica l’articolo 2 del D.Lgs. 81/08 il datore di lavoro è non solo quello che ha la titolarità del rapporto di lavoro, ma anche eventualmente colui che “ha la responsabilità della organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività o della unità produttiva”, purché ovviamente eserciti “i poteri decisionali e di spesa”.
Quindi il definire la unità produttiva determina la possibilità e la fattualità di un frazionamento datoriale o alternativamente la presenza di un solo datore di lavoro con più dirigenti o preposti nelle articolazioni aziendali.

E ancora troviamo, in relazione al Servizio di prevenzione e protezione, che l’articolo 31 del D.Lgs. 81/08 afferma che il datore di lavoro “organizza il servizio di prevenzione e protezione all’interno della azienda o della unità produttiva”, aggiungendo al comma 8 che “nei casi di aziende con più unità produttive nonché nei casi di gruppi di imprese, può essere istituito un unico servizio di prevenzione e protezione”.
Quindi chiarendo che tale opzione è quindi una scelta organizzativa dei datori di lavoro che a quel punto saranno più di uno perché presenti più unità produttive. Infatti il comma 8 aggiunge che “i datori di lavoro [al plurale] possono rivolgersi a tale struttura per la istituzione del servizio e per la designazione degli addetti e del responsabile”.
Quindi tali norme rendono possibile la presenza di più datori di lavoro e di un unico servizio di prevenzione protezione e quindi di un unico Responsabile del servizio stesso. Unico accorgimento è che tale servizio sia “adeguato a garantire la effettività dello svolgimento dei compiti previsti” (articolo 33 del D.Lgs. 81/08).

Quali siano i requisiti per definire una unità produttiva ad oggi si evincono da qualche riferimento legislativo e da alcuni indirizzi di natura giurisprudenziale.

LA UNITÀ PRODUTTIVA NELLA DEFINIZIONE DEL D.LGS. N. 81/2008
Il testo Unico in materia di sicurezza definisce la unità produttiva come “lo stabilimento o la struttura finalizzata alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale”.
Ora è bene quindi capire cosa sia la autonomia finanziaria e l’autonomia tecnico-funzionale.

LA GIURISPRUDENZA DAL D.LGS. 626/94 AL D.LGS. N. 81/2008
La Giurisprudenza ci offre qualche chiave di lettura, basti ricordare la Sentenza della Corte di Cassazione n. 45068 del 22/11/04.
In questo pronunciamento si afferma che l’organismo, pur restando una emanazione di una stessa impresa, deve avere “una fisionomia distinta, presenti un proprio bilancio” e abbia in condizioni di indipendenza “un proprio riparto di risorse disponibili” così da permettere in piena autonomia le scelte organizzative più confacenti alle caratteristiche funzionali e produttive della unità.
Addirittura la Cassazione afferma che la “rilevante autonomia” di cui è deve essere dotata la unità produttiva “deve anche essere espressamente prevista negli atti della impresa o della società”.

LA UNITA’ PRODUTTIVA E LO STATUTO DEI LAVORATORI
Un altro parametro ci viene offerto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e dalla giurisprudenza che ne è seguita.
La Legge n. 300/70 si trova ad affrontare tale tema incidentalmente trattando la tutela del lavoratore da licenziamento senza giusta causa ed afferma che:
Il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti e alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro”.
Vi è quindi in questo caso per definire la unità produttiva un riferimento a parametri quantitativi legato al numero dei dipendenti o dei prestatori di lavoro della singola unità. Vi è peraltro da aggiungere che tale riferimento quantitativo deve essere preso non rigorosamente in materia di sicurezza sul lavoro, ma semmai come elemento che sottolinea la dimensione autonoma della unità produttiva stessa.
Peraltro la giurisprudenza in applicazione della stessa Legge 300/70  ha affermato anche che “Agli effetti della tutela reintegratoria del lavoratore ingiustamente licenziato, per unità produttiva deve intendersi non ogni sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto dell'impresa, ma soltanto la più consistente e vasta entità aziendale eventualmente articolata in organismi minori, anche non ubicati tutti nel territorio del medesimo comune, purché  caratterizzati per condizioni imprenditoriali da indipendenza tecnica e amministrativa tali che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell'attività produttiva aziendale.
Ne consegue che deve escludersi la configurabilità di un'unità produttiva in relazione alle articolazioni aziendali che, sebbene dotate di una certa autonomia amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a funzioni ausiliarie sia rispetto ai generali fini dell'impresa, sia rispetto ad una frazione dell'attività produttiva della stessa. (Sentenze della Cassazione Civile n. 19837 del 4 ottobre 2004, n. 5892 del 14 giugno 1999, n. 7848 del 19 luglio 1995).

LA UNITA’ PRODUTTIVA E L’ARTICOLO 2103 DEL CODICE CIVILE
Un altro parametro di riferimento lo troviamo nell’articolo 2103 del Codice Civile, come sostituito dall’articolo 13 della Legge n. 300/70: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto [...]. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.
L’assegnazione a una nuova posizione di lavoro all’interno della stessa unità produttiva, non costituisce quindi trasferimento. Ora esattamente in relazione a tale categoria concettuale, la giurisprudenza ha elaborato una indicazione utile a definire la unità produttiva.
A questo riguardo la giurisprudenza considera una unità produttiva “ogni articolazione autonoma dell'azienda, avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività dell'impresa medesima, della quale costituisca una componente organizzativa, connotata da indipendenza tecnica ed amministrativa tali che in essa si possa concludere una frazione dell'attività produttiva aziendale” (Sentenza della Cassazione Civile n. 11660 del 29 luglio 2003).
L'unità produttiva va quindi individuata “in ogni articolazione autonoma dell'impresa, avente sotto il profilo funzionale e finalistico idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività di produzione di beni o servizi dell'impresa medesima, della quale costituisce elemento organizzativo, restando invece esclusi quegli organismi minori che, se pur dotati di una certa autonomia, siano destinati a scopi meramente strumentali rispetto ai fini produttivi dell'impresa” (Sentenze della Cassazione Civile n. 9636 del 21 luglio 2000 e n. 5892 del 14 giugno 1999).

LA UNITA’ PRODUTTIVA E L’INQUADRAMENTO INAIL
Da ultimo anche per ciò che riguarda la denuncia di iscrizione all’INAIL la Circolare dell’Ente stesso del 18 giugno 2001 ha affermato che la impresa deve fare una sola denuncia intendendosi la sede, quella dove “si svolge la produzione dei beni e dei servizi oggetto dell’attività aziendale”, salvo l’azienda svolga la propria attività in più luoghi di lavoro “purché dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale”.
In mancanza di questa autonomia “l’eventuale diversa struttura dell’azienda anche se fisicamente separata dalla struttura principale non va considerata quale autonoma e distinta sede di lavoro e deve essere ricondotta a fini assicurativi alla sede dalla quale dipende” (Circolare n. 9 del 2002 e Nota del 18 giugno 2007).  
Anche l’unico inquadramento o la pluralità di denunce di iscrizione all’INAIL si rileva quindi elemento determinante per stabilire sotto il profilo dell’applicazione del D.Lgs. 81/08 se vi sia o meno una unità produttiva.

CONCLUSIONI
In conclusione quindi per dichiarare l’esistenza di una unità produttiva sono necessari requisiti di autonomia assai stringenti che rendono l’ipotesi della sua esistenza non certo frequente ed è quindi auspicabile non darne una superficiale e distorsiva interpretazione estensiva.

Emilio Del Bono

 


BICICLETTA: INFORTUNIO IN ITINERE SEMPRE INDENNIZZATO, ANCHE SU STRADA E PER COLPA

Da Studio Cataldi
29/03/16
Di Marina Crisafi

Le linee guida dell’INAIL sulla nuova disciplina a seguito della norma introdotta dal collegato ambientale.
Chi si fa male andando al lavoro in bicicletta sarà indennizzato in ogni caso, perché la Legge n. 221/2015, il cosiddetto “collegato ambientale”, ha introdotto il principio secondo il quale l’uso del velocipede deve intendersi “sempre necessitato” (cioè sempre indennizzato per chi si fa male mentre va al lavoro in bici).
Ora, l’INAIL con la Circolare n. 14 del 25 marzo 2016 provvede a riassumere la disciplina giuridica dell’infortunio in itinere, dettando le linee guida da seguire alla luce delle ulteriori novità normative.

USO “NECESSITATO” ANCHE SU STRADA

Nella circolare si premette che l’INAIL, considerata la sempre maggiore attenzione a livello ambientale e sociale orientata a favore di una mobilità sostenibile, sin dal 2011 ha riconosciuto l’infortunio occorso al lavoratore che si recava al lavoro in bicicletta, ma soltanto se l’evento lesivo si verificava su pista ciclabile o zona interdetta al traffico e non invece su strada aperta al traffico di veicoli a motore. In tal caso, infatti, l’indennizzo veniva riconosciuto solo se l’utilizzo della bici si considerava necessario, altrimenti si ricadeva nell’ambito del cosiddetto “rischio elettivo” non protetto. D’ora in poi, tale valutazione è superflua, perché dopo il collegato ambientale l’infortunio a bordo del velocipede è indennizzato a prescindere dal tratto stradale in cui l’evento si verifica, giacché il suo utilizzo è considerato sempre necessitato.

LA NORMALITA’ DEL PERCORSO

Quanto alla disciplina giuridica dell’infortunio, l’INAIL ricorda che l’articolo 12 del D.Lgs. 38/00 sancisce che l’assicurazione opera nell’ipotesi di infortunio occorso a lavoratore assicurato durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro.
Per normalità del percorso, l’istituto ribadisce che il concetto riguarda il tragitto dal luogo di abitazione a quello di lavoro e viceversa, affrontato “per esigenze e finalità lavorative e, ovviamente, in orari confacenti con quelli lavorativi in modo tale che il lavoratore non abbia possibilità di una scelta diversa, né in ordine al tragitto, né in ordine all’orario”. Ad essere indennizzato, in buona sostanza, è il percorso normalmente compiuto dal lavoratore, anche se non coincide con quello più breve, purché sia giustificato dalla concreta situazione della viabilità (come, ad esempio, per via del traffico più scorrevole).

LE INTERRUZIONI O DEVIAZIONI

Anche con riferimento all’infortunio occorso in bici, ricorda l’INAIL, la tutela assicurativa non opera nell’ipotesi di interruzioni e deviazioni del normale percorso, laddove le stesse siano “del tutto indipendenti dal lavoro o comunque non necessitate”. In presenza di “brevi soste” che non espongano l’assicurato a un rischio diverso da quello che avrebbe dovuto affrontare se il normale percorso casa-lavoro fosse stato compiuto senza soluzione di continuità, non valgono invece ad interrompere il nesso causale tra lavoro e infortunio e, quindi, non escludono l’indennizzo.

BICICLETTA EQUIPARATA AL MEZZO PUBBLICO

Mentre ai fini dell’applicabilità della tutela assicurativa, la scelta del mezzo privato da parte del lavoratore deve essere valutata, caso per caso, al fine di vagliarne la “necessità” (ad esempio, quando non esistono mezzi pubblici di trasporto o gli stessi non coprono l’intero percorso, ovvero quando non c’è coincidenza di orari, ecc.), per la bicicletta tale valutazione risulta superata, afferma l’INAIL, ad opera dell’articolo 5 della Legge 221/15, poiché “il suo utilizzo è considerato dalla norma sempre necessitato e, quindi, equiparato a quello del mezzo pubblico o al percorso a piedi”.

INFORTUNIO ANCHE SE C’E’ COLPA

Rimane, inoltre, confermato ribadisce l’Istituto nella circolare, che ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio non assumono rilevanza gli aspetti soggettivi della condotta dell’assicurato. In altre parole, se l’infortunio avviene per colpa del lavoratore (negligenza, imperizia, violazione di norme, ecc.) non è interrotto il nesso causale tra rischio lavorativo e sinistro, per cui l’indennizzo è dovuto, salvo che non si tratti di comportamenti “così abnormi da sfociare nel rischio elettivo”.
Richiamando la giurisprudenza della Cassazione in materia, che esclude l’indennizzo dell’infortunio, laddove “l’elemento psicologico del lavoratore, anche solo colposo, nella causazione dell’infortunio risulta particolarmente qualificato per la sua abnorme deviazione dalla corretta esecuzione del lavoro, comportando un aggravamento del rischio tutelato talmente esorbitante dalle finalità di tutela, da escluderla”, la Circolare specifica che anche l’infortunio occorso a bordo della bici dovrà ritenersi escluso da tutela ogni qualvolta “esaminate le circostanze nelle quali l’incidente si sia verificato (ad esempio avere imboccato una strada interdetta alla circolazione del velocipede o essersi messo alla guida in stato di ubriachezza) la qualificazione dell’elemento soggettivo del lavoratore debba essere definito in termini di rischio elettivo e non di colpa”.

La Circolare INAIL n. 14/2016 è scaricabile all’indirizzo:



RESPONSABILITA’ DEL DATORE IN CASO DI INFORTUNIO E ALTA PROFESSIONALITA’ DEL DIPENDENTE

Da Portale Consulenti
24/03/16

Con la sentenza n. 5233 del 16 marzo 2016, La Corte di Cassazione ha affermato come la messa a disposizione, da parte del datore di lavoro, dei DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) e la successiva formazione sulla sicurezza, non esime quest’ultimo dalla responsabilità in caso di infortunio accorso al lavoratore, qualora non abbia vigilato sull’utilizzo effettivo, da parte dei dipendenti, degli stessi DPI messi a disposizione.
Si riporta a seguire il testo della sentenza.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 09/11/06 il Tribunale di Napoli condannava (...) SpA a pagare a (...), a titolo risarcitorio dei danni derivatigli da un infortunio sul lavoro occorso il 09/01/98, la somma di euro 105.000,00 per danno esistenziale e biologico e quella di euro 23.000,00 per danno morale, il tutto oltre interessi.
Con sentenza depositata il 10/01/12 la Corte d’Appello di Napoli riduceva a complessivi euro 105.000,00 il risarcimento dovuto al lavoratore, confermando nel resto le statuizioni di prime cure.
Accertavano i Giudici di merito che il (...) nell’eseguire le operazioni di revisione del gruppo leveraggio cambio di un automezzo aziendale, era stato colpito da un bullone che si accingeva a estrarre, riportando una cecità assoluta all’occhio sinistro e uno stress cronico moderato post-traumatico, con conseguente inabilità permanente del 37%.
Per la Cassazione della sentenza della Corte Territoriale ricorre (...) SpA affidandosi a due motivi.
(...) resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 2087 del Codice Civile per avere la sentenza impugnata ravvisato la responsabilità della società pur essendosi accertato che l’infortunio si era verificato sol perché il lavoratore (operaio tecnico) non aveva inforcato gli occhiali protettivi regolarmente fornitigli dall’azienda: obietta in proposito la ricorrente di aver adottato tutte le dovute cautele e cioè di aver formato professionalmente il lavoratore e di averlo informato circa i rischi del lavoro svolto, munendolo di occhiali protettivi e di lampade mobili, così rispettando sotto ogni aspetto il debito di sicurezza di cui all’articolo 2087 del Codice Civile; né (conclude il motivo) era necessaria una particolare vigilanza del lavoratore durante l’operazione svolta (lo svitamento d’un bullone), di estrema semplicità.
Analoga doglianza viene sostanzialmente fatta valere con il secondo mezzo, sotto forma di denuncia di vizio di motivazione circa l’asserito superamento della soglia di sicurezza, nonché circa l’obbligo di concreta vigilanza dell’operazione espletata dal dipendente infortunato e dell’uso, da parte sua, degli occhiali protettivi.
I due motivi, da esaminarsi congiuntamente perché connessi, sono infondati.
I Giudici di merito hanno ravvisato a carico della società una violazione dell’articolo 2087 del Codice Civile perché l’ambiente di lavoro era scarsamente illuminato e perché l’azienda non aveva vigilato affinché i dipendenti utilizzassero gli occhiali protettivi e i sistemi di illuminazione mobili messi a loro disposizione.
La società ricorrente contesta l’asserita necessità di vigilanza, in considerazione del livello di esperienza dell’infortunato e della semplicità dell’operazione che stava eseguendo.
Osserva questa Corte che è pur vero che in tema di responsabilità del datore di lavoro circa il mancato uso di mezzi personali di sicurezza la violazione dell’articolo 4 lettera c) del D.P.R. 547/55 (vigente all’epoca dell’infortunio per cui è causa), che obbliga datori di lavoro, dirigenti e preposti a “disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza e usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione”, postula un accertamento che abbia riguardo alle peculiari caratteristiche dell’impresa, ai tipi di lavorazione ivi effettuati, all’entità del personale e ai diversi gradi di rischio (confronta, per tutte, Sentenza di Cassazione n. 10066/94).
La sorveglianza dovuta da datori di lavoro, dirigenti e preposti non deve essere ininterrotta e con costante presenza fisica del controllore accanto al lavoratore, ma può anche sostanziarsi in una discreta, seppure continua ed efficace, vigilanza generica, intesa ad assicurarsi, nei limiti dell’umana efficienza, che i lavoratori seguano le disposizioni di sicurezza impartite e utilizzino gli strumenti di protezione prescritti.
Tale obbligo di vigilanza subisce un’ulteriore attenuazione, in base ad un principio di ragionevole affidamento nelle accertate qualità del dipendente, in ipotesi di provetta specializzazione dell’operaio munito di approfondita conoscenza d’una determinata lavorazione cui sia addetto da lungo tempo (vedi, ancora, Sentenza di Cassazione n. 10066/94 citata).
Nondimeno tale mera attenuazione (che, giova ribadire, è configurabile solo in ipotesi di lavoratore esperto, già adeguatamente formato professionalmente e informato dei rischi connessi alle mansioni assegnategli) non si identifica con la totale omissione di controllo, ravvisata nel caso di specie dai giudici di merito, circa l’uso di lampade mobili e occhiali protettivi, controllo ancor più necessario viste le condizioni di insufficiente illuminazione dell’ambiente di lavoro.
Né esime da tale obbligo la semplicità dell’operazione lavorativa, atteso che il grado maggiore o minore di complessità del lavoro da espletare non è in rapporto di proporzionalità diretta con il rischio protetto, ben potendosi dare lavorazioni complesse, ma non pericolose e, per converso, altre anche semplici, ma con elevato livello di pericolosità.
Infine, quanto al superamento della soglia di rischio, si consideri che il fatto (l’avvenuto infortunio) vince l’ipotesi ventilata dalla ricorrente (l’inesistenza del superamento d’una soglia di rischio), di guisa che la Sentenza impugnata non doveva motivare ulteriormente a riguardo.
Ove, poi, il senso della doglianza fosse quello per cui, vista la natura dell’operazione affidata al lavoratore, sarebbe stato da escludere a monte, in virtù di una cosiddetta prognosi postuma, qualsivoglia obbligo di uso di mezzi personali di protezione e, quindi, di vigilanza datoriale sul loro concreto impiego, è appena il caso di notare che sì tratterebbe di congettura nuova e contraddittoria rispetto a tutta l’impostazione del ricorso, che insiste sull’avvenuta messa a disposizione degli occhiali protettivi, così riconoscendo la pericolosità della manovra eseguita dall’infortunato.

SENTENZA

In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza e si distraggono ex articolo 93 del Codice di Procedura Civile in favore del difensore, dichiaratosi antistatario.
la Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avvocato (...), dichiaratosi antistatario.

 



CASSAZIONE: INFARTO DA SUPERLAVORO? IL DATORE E’ SEMPRE “COLPEVOLE”

Da: LavoroFisco
12 maggio 2014
Di Andrea Rosana

L’attitudine del lavoratore a lavorare con grande impegno e al suo coinvolgimento intellettuale ed emotivo nella realizzazione degli obiettivi aziendali non escludono in alcun modo la responsabilità del datore di lavoro ove le condizioni lavorative abbiano svolto un ruolo comunque concausale nella produzione dell’evento lesivo.
E’ quanto stabilito dalla Corte di Cassazione Civile con la Sentenza n. 9945 dell’8 maggio 2014.

Lavorava senza tregua, portandosi anche il lavoro a casa, pur di raggiungere gli obiettivi che il suo datore, una grossa società di telecomunicazioni, gli aveva assegnato. Stefano S., funzionario della Ericsson, non si era mai lamentato per questo stress continuo. Ma un carico di undici ore di lavoro al giorno alla fine lo ha portato all’infarto. Ora la Cassazione ha stabilito che una morte del genere deve essere risarcita dal datore che non può ignorare “le modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro”.

Alla moglie e alla figlia del dipendente morto per infarto dovuto ai “ritmi insostenibili” dell’attività lavorativa, la società deve corrispondere, rispettivamente, 434.000 euro e 425.000 euro, oltre agli oneri accessori.
Senza successo, la Ericsson è ricorsa in Cassazione contro la decisione della Corte di Appello di Roma che, nel 2011, aveva accolto la richiesta di risarcimento danni patrimoniali e materiali avanzati dalla vedova di Stefano S. anche in nome della loro unica figlia, ancora minorenne. In primo grado, invece, il Tribunale aveva negato la responsabilità del datore.

Ad avviso della Suprema Corte, “con motivazione logicamente argomentata e giuridicamente corretta”, il verdetto di appello ha ritenuto che “la responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro fa carico alla società, la quale non può sottrarsi agli addebiti per gli effetti lesivi della integrità fisica e morale dei lavoratori che possano derivare dalla inadeguatezza del modello adducendo l’assenza di doglianze mosse dai dipendenti”.

Inoltre, secondo gli “ermellini” il datore non può sostenere “di ignorare le particolari condizioni di lavoro in cui le mansioni affidate ai lavoratori vengano in concreto svolte”.
Per la Cassazione, “deve infatti presumersi, salvo prova contraria, la conoscenza, in capo all’azienda, delle modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro, in quanto espressione ed attuazione concreta dell’assetto organizzativo adottato dall’imprenditore con le proprie direttive e disposizioni interne”.

Nel caso in questione era emerso che Stefano S. “per evadere il proprio lavoro, era costretto, ancorché non per sollecitazione diretta, a conformare i propri ritmi di lavoro all’esigenza di realizzare lo smaltimento nei tempi richiesti dalla natura e molteplicità degli incarichi affidatigli dalla Ericsson”.

In base alla Consulenza Tecnica di Ufficio, l’infarto che lo colpì, un martedì mattina al lavoro, “era correlabile, in via concausale, con indice di probabilità di alto grado, alle trascorse vicende lavorative”. Senza successo la società si è difesa dicendo che i “ritmi serratissimi” adottati da Stefano S. “non erano a lei imputabili ma dipendevano dalla attitudine” del dipendente “a sostenere e a lavorare con grande impegno e al suo coinvolgimento intellettuale ed emotivo nella realizzazione degli obiettivi”.

In ordine alla responsabilità del datore di lavoro, precedentemente la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 2038 del 29 gennaio 2013, ha sostenuto che l’articolo 2087 del Codice Civile non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
La stessa sentenza, peraltro, in una fattispecie di mobbing, ha rilevato che la riconosciuta dipendenza delle malattie da una “causa di servizio” non implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall’ambito dell’articolo 2087 del Codice Civile, che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici.

Nel medesimo senso, la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 18626 del 05 agosto 2013, ha affermato il principio generale in materia secondo il quale la responsabilità dell’imprenditore ex articolo 2087 Codice Civile non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo sanzionata dalla norma l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.
Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia.

In ordine alla rilevanza dell’infarto sul piano infortunistico sul lavoro, la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 12685 del 29 agosto 2003, ha precisato che, nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, la causa violenta consiste in un evento che con forza concentrata e straordinaria agisca, in occasione di lavoro, dall’esterno verso l’interno dell’organismo del lavoratore, dando luogo ad alterazioni lesive. Con riguardo a un infarto cardiaco, che di per sé non integra la causa violenta, va accertato se la rottura dell’equilibrio nell’organismo del lavoratore sia da collegare causalmente a specifiche condizioni ambientali e di lavoro improvvisamente eccedenti la normale adattabilità e tollerabilità, sì da poter essere considerate, sia pure in termini di mera probabilità, fattori concorrenti e da far escludere che si sia trattato del semplice effetto logorante esercitato sull’organismo da gravose condizioni di lavoro.

Nel medesimo senso, la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 19682 del 23 dicembre 2003, ha affermato che, in tema di infortuni sul lavoro, lo sforzo fisico, al quale possono essere equiparati stress emotivi e ambientali, costituisce la causa violenta, ex articolo 2 del D.P.R. del 30 giugno 1965, n. 1124, che determina con azione rapida e intensa la lesione. La predisposizione morbosa del lavoratore non esclude il nesso causale tra lo stress emotivo e ambientale e l’evento infortunistico, in relazione anche al principio della equivalenza causale di cui all’articolo 41 del Codice Penale, che trova applicazione nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, dovendosi riconoscere un ruolo di concausa anche ad una minima accelerazione di una pregressa malattia (nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla Suprema Corte, ha ritenuto sussistente l’occasione di lavoro in relazione al decesso del responsabile di uno stabilimento, già affetto da patologia cardiaca, avvenuto a causa di un infarto determinato da stress emotivo, conseguente all’attivazione dell’allarme antincendio dello stabilimento e alla necessità di un suo intervento, e da stress ambientale, riconducibile alla rigida temperatura esistente all’esterno).

In precedenza, la Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 13982 del 24 ottobre 2000 aveva affermato che, nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, al fine di determinare se a un infarto cardiaco (che di per sé rappresenta una rottura dell’equilibrio nell’organismo del lavoratore concentrata in una minima misura temporale e quindi integra una “causa violenta”) è riconoscibile un’eziologia lavorativa, va accertato se gli atti lavorativi compiuti, ancorché non caratterizzati da particolari sforzi e non esulanti dalla normale attività lavorativa esercitata dall’assicurato, abbiano avuto l’efficienza di un contributo causale nella verificazione dell’infarto.

La sentenza n. 9945 dell’8 maggio 2014 della Corte di Cassazione Civile è consultabile all’indirizzo:



NUOVA MODALITA’ PER LE DENUNCE DI INFORTUNIO E MALATTIA PROFESSIONALE

Da: PuntoSicuro
24 marzo 2016

Con Circolare 21 marzo 2016, n. 10, l’INAIL ha fornito le istruzioni per l’applicazione delle novità procedurali di invio telematico, a cura dei medici e delle strutture sanitarie, dei certificati di infortunio e malattia professionale, nonché di trasmissione delle relative denunce a cura del datore di lavoro.

Le novità conseguono alle modifiche normative introdotte dal Jobs Act (D.Lgs.151/15) e sono operative dal 22 marzo 2016.

Pertanto, da questa data le varie figure coinvolte dovranno procedere come segue.

I medici e le strutture sanitarie:
-         trasmettono direttamente all’INAIL, per via telematica, i certificati di infortunio e malattia professionale, attraverso l’apposito servizio reso disponibile sul portale dell’Istituto;
-         forniscono al lavoratore il certificato medico con l’indicazione del numero identificativo del certificato, della data di rilascio e dei giorni di prognosi;
-         in fase di avvio del nuovo regime, nel caso in cui non risulti possibile effettuare la trasmissione telematica, inviano il certificato tramite Posta Elettronica Certificata alla sede INAIL competente in base al domicilio del lavoratore, e consegnano il certificato al lavoratore stesso per il successivo inoltro al datore di lavoro.

Il lavoratore:
-         fornisce al datore di lavoro il numero identificativo del certificato, la data di rilascio e i giorni di prognosi;
-         in fase di avvio del nuovo regime, qualora non disponga del numero identificativo del certificato, continua a consegnare al datore di lavoro il certificato medico in forma cartacea.

Il datore di lavoro:
-         dal 22 marzo 2016 è esonerato dal trasmettere all’INAIL il certificato medico di infortunio e malattia professionale;
-         dalla medesima data è esonerato dal trasmettere all’Autorità Locale di Pubblica Sicurezza le denunce relative agli infortuni mortali o con prognosi superiore a 30 giorni: queste denunce sono rese disponibili direttamente dall’INAIL;
-         acquisisce il certificato di infortunio o malattia professionale, tramite PIN, attraverso la funzione “Ricerca certificati medici” disponibile all’interno dei Servizi Denunce di Infortunio, Malattia professionale e Silicosi/Asbestosi, sul portale dell’INAIL (la ricerca del certificato avviene inserendo obbligatoriamente i seguenti dati: codice fiscale del lavoratore; numero identificativo del certificato; data di rilascio);
-         invia telematicamente la denuncia all’INAIL entro i termini previsti, che restano invariati: tali termini decorrono dalla data in cui il datore di lavoro ha ricevuto i riferimento del certificato medico dal lavoratore (o il certificato cartaceo, in fase di avvio del nuovo regime, nel caso in cui il lavoratore non disponga del numero identificativo); nella denuncia deve indicare obbligatoriamente il numero identificativo e la data di rilascio del certificato medico; nel caso in cui il lavoratore non abbia fornito il numero del codice identificativo del certificato medico, nella denuncia il datore di lavoro deve indicare un codice fittizio di 12 caratteri alfa-numerici.

La Circolare 21 marzo 2016, n. 10 dell’INAIL è scaricabile all’indirizzo:

Il Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 151 è scaricabile all’indirizzo:

LE RICHIESTE DEGLI RLS PER MIGLIORARE LA PREVENZIONE IN ITALIA

Da: PuntoSicuro
30 marzo 2016
Di Tiziano Menduto

Le questioni sollevate dall’Assemblea nazionale unitaria degli RLS/RLST di CGIL, CISL e UIL. La mancanza di strategie, i ritardi del SINP e dei decreti attuativi del Testo Unico, il rafforzamento del ruolo degli RLS e il piano nazionale amianto.

E’ indiscutibile l’importanza del ruolo dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) per un’effettiva ed efficace tutela della salute e sicurezza nelle aziende. E partendo dall’importanza di questa funzione normata dal D.Lgs. 81/08, è interessante comprendere il parere degli RLS su alcuni dei temi più rilevanti e delicati in materia di politiche di prevenzione.

Abbiamo l’occasione di testare il polso di molti RLS italiani attraverso la recente Assemblea nazionale unitaria degli RLS/RLST di CGIL, CISL e UIL che si è tenuta a Napoli l’11 febbraio scorso.
Nell’assemblea nazionale di Napoli, a cui hanno partecipato quasi 400 RLS e diversi rappresentanti istituzionali, sono stati affrontati diversi temi.

Il documento/piattaforma relativo al convegno riporta in particolare alcune “priorità indifferibili” per le quali non vengono solo rilevate le criticità, ma anche avanzate possibili proposte di lavoro e/o soluzione.

Il primo punto prioritario è relativo all’assetto istituzionale e di governo della prevenzione e ricorda quanto già rilevato anche in un analoga assemblea del 2013: la supposta “mancanza di un quadro complessivo di politiche nazionali italiane in tema di salute e sicurezza sul lavoro che, non determinando le linee comuni strategiche sulla base delle quali perseguire obiettivi e programmi specifici di prevenzione, non ha favorito la corretta applicazione del dettato legislativo e la capitalizzazione degli sforzi messi in campo, disperdendo risorse umane e economiche impiegate e non raggiungendo gli obiettivi che ci si proponeva”.

E “nell’assenza protratta negli anni di una strategia nazionale di prevenzione, il ruolo dell’INAIL, cresciuto nel tempo (avendo anche assorbito l’ISPESL, quale soggetto di ricerca e focal point degli interventi comunitari), non ha trovato quella collocazione chiara, così come quegli specifici ambiti e filoni di intervento, tali da creare una sinergia costante e costruttiva con i ministeri competenti, ma non meno con le parti sociali”.

E, continua il documento degli RLS, “alla vigilia di una importante riforma costituzionale che interesserà l’intero assetto istituzionale del nostro paese e la ripartizione dei poteri”, queste sono le principali questioni aperte:
-         a quando una strategia nazionale di prevenzione?
-         quale modello di sistema per gli organi di prevenzione e controllo?
-         quale il ruolo delle parti sociali nel futuro della prevenzione in Italia?

Il secondo tema affrontato era invece relativo alla “rappresentanza, pariteticità e applicazione dell’articolo 52 del D.Lgs. 81/08”. Ricordiamo che l’articolo 52 del Testo Unico è relativo al “Sostegno alla piccola e media impresa, ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriali e alla pariteticità”.
Queste in particolare le principali questioni aperte:
-         quando ed in che modo agire per il rafforzamento e la diffusione degli RLS/RLST?
-         organismi paritetici: riconoscimento e implementazione;
-         sigla ed implementazione degli accordi interconfederali.

Non poteva mancare poi un cenno anche alla “decretazione attuativa ancora mancante, ma prevista dal D.Lgs. 81/08”.

Secondo il documento la stratificazione di interventi normativi nel settore della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, dopo l’approvazione del D.Lgs. 81/08, “non è stata quasi mai improntata a caratteri di organicità, rilevanza e positività. Questo perché a volte essa ha inteso rispondere a volontà di semplificazione non correttamente intesa, o in altri casi poiché ha cercato di introdurre cambiamenti nell’impianto e nella filosofia complessiva della legislazione previgente, non rispettando alcuni indirizzi di fondo”.

E il documento ribadisce il giudizio negativo delle parti sociali sindacali riguardo agli interventi del Jobs Act.
Infatti con il Jobs Act si sarebbe “persa l’occasione di introdurre alcune modifiche positive e rilevanti, e ancora una volta non si è affrontato il tema dell’applicazione piena delle norme e del completamento della decretazione demandata”.

E anche “un’ambiziosa operazione come quella della costruzione del SINP (il Sistema Iinformativo Nazionale di Prevenzione: un utile strumento informativo che superasse i gap e i ritardi della totalità degli istituti e delle istituzioni preposti alla vigilanza ed al controllo), è ancora in una situazione di stallo che non dovrebbe essere perpetuata a lungo”.
Queste le principali questioni aperte:
-         con che tempi, modi e con quali priorità avverrà l’emanazione della decretazione demandata?
-         a quando l’istituzione e l’effettivo funzionamento del SINP?

Parzialmente a queste domande risponde uno dei rappresentanti istituzionali presenti all’assemblea, Romolo De Camillis, il nuovo Direttore della Direzione Generale della tutela delle condizioni di lavoro e delle relazioni industriali del Ministero del Lavoro.
De Camillis ha ammesso i ritardi, “soprattutto sul completamento della decretazione relativa al Testo Unico e sugli organismi paritetici”. Ma ha ribadito l’impegno massimo del Ministero anche per “rendere le norme sempre più chiare, proporre un’azione culturale di diffusione della sicurezza sul lavoro e comporre le posizioni divergenti che spesso si manifestano sui singoli provvedimenti, perché senza convergenza di tutti gli attori nessuna buona legge può funzionare”. E ha anche fatto due anticipazioni:
-         il Decreto attuativo sul SINP, che sarebbe “pronto e chiuso”, è che è “sul tavolo della Presidenza del Consiglio” per un varo “ormai imminente”;
-         il Piano Nazionale Amianto (PNA), per il quale è previsto “il varo del tavolo tecnico, su iniziativa del ministero della Salute, che dovrebbe avviare il percorso per la sua realizzazione”.

E di “amianto” parla anche il documento degli RLS/RLST di CGIL, CISL e UIL.
Si ricorda infatti che il tema amianto, “per la gravità della situazione e per le rilevanti conseguenze sulla salute pubblica e sull’ambiente, è purtroppo sempre attuale e deve essere affrontato dalle Istituzioni preposte e da tutti gli attori della prevenzione e della salute collettiva con la massima attenzione e responsabilità”.
E gli RLS ritengono che “non sia più rinviabile lo sblocco del PNA, attualmente fermo al Tavolo della Conferenza Stato Regioni” che deve essere reso operativo al più presto, mettendo in atto “un coordinamento funzionale ed istituzionale di tutte le attività da parte della Presidenza del Consiglio”. E servono risorse per la ricerca e per la prevenzione, “ma anche per completare i censimenti a livello regionale dei siti contenenti amianto e per il corretto smaltimento”.
Queste, in conclusione, le principali questioni aperte in materia di amianto:
-         il PNA, a che punto siamo?
-         serve una regia unica, a quando la scelta?
-         il Fondo Vittime Amianto: come renderlo più equo nei confronti di tutti i malati e delle famiglie delle vittime?

Il “Documento dell’Assemblea unitaria degli RLS/RLST CGIL CISL e UIL”, relativo all’assemblea dell’11 febbraio 2016 a Napoli è scaricabile all’indirizzo:


LA VALUTAZIONE DELL’ESPOSIZIONE PROFESSIONALE A SILICE LIBERA CRISTALLINA

Da: PuntoSicuro
30 marzo 2016

Una pubblicazione dell’INAIL presenta indicazioni per la valutazione dell’esposizione professionale alla Silice Libera Cristallina (SLC), un agente di rischio con livelli di esposizione che persistono elevati in molti settori produttivi.

E’ disponibile sul sito INAIL il volume “Network Italiano Silice. La valutazione dell’esposizione professionale a silice libera cristallina”.
Dal 2003 il Network Italiano Silice (NIS), di cui l’INAIL è uno dei fondatori, è costantemente impegnato a stimolare e promuovere iniziative mirate al contenimento delle esposizioni, divulgando documenti tecnici utili a gestire tale rischio in tutti i suoi aspetti. Il volume rappresenta la versione aggiornata al 2015 dei documenti tecnico-scientifici pubblicati dal NIS nel 2005 in tema di epidemiologia, normativa, sorveglianza sanitaria e metodi di campionamento e analisi.

Il problema dell’esposizione a SLC nei luoghi di lavoro è particolarmente rilevante, essendo tale agente di rischio presente in numerose attività lavorative. La SLC è infatti estremamente comune in natura e utilizzata in una vasta gamma di prodotti di uso civile e industriale. La pericolosità di tale agente, già nota da tempo, è stata rivalutata dalla International Agency for Research on Cancer (IARC) che, nella monografia 100C/2010, sulla base di una nuova revisione della letteratura di merito, ha confermato che la silice è un cancerogeno di categoria 1, nelle sue forme di cristobalite e quarzo.
La valutazione del rischio di esposizione a SLC presenta molteplici criticità connesse sia ad aspetti tecnico-operativi, sia a questioni di carattere normativo e organizzativo ancora irrisolte, anche per la mancanza di Valori Limite di Esposizione (VLE) nazionali per le diverse forme di SLC. A tal proposito va puntualizzato che in Italia, mentre in sede giudiziale e in alcuni contratti di lavoro collettivi è prassi riferirsi al Threshold Limit Value - Time-Weighted Average (TLV - TWA) proposto dalla American Conference of Governmental Industrial Hygienists (ACGIH), il limite di esposizione oltre il quale decorre l’obbligo per le aziende di essere assicurate contro il rischio silicosi è stabilito dal Ministero del Lavoro.

Il documento propone le prassi operative che il Gruppo “Igiene Industriale” del NIS ha elaborato in tema di accertamento del rischio di esposizione a SLC, allo scopo di fornire utili indicazioni a tutti gli operatori pubblici e privati impegnati in tale attività.
Seguendo per quanto possibile le indicazioni delle norme europee e nazionali vigenti, il documento fornisce suggerimenti pratici sui temi della strategia di campionamento, dei sistemi di prelievo delle frazioni dimensionali delle polveri aerodisperse, delle tecniche e dei metodi di analisi applicabili per il dosaggio di tale analita nelle polveri. Vengono infine affrontati gli aspetti della trattazione statistica dei dati e dei sistemi di valutazione della conformità con il VLE.

Nelle lavorazioni in cui è prevista la presenza di SLC respirabile è necessario valutare il rischio e provvedere alla sua gestione, abbattendo o comunque limitando la diffusione in aria delle polveri contenenti tale sostanza per ridurne il suo effetto nocivo.
Tenuto conto dell’attuale classificazione della SLC, le istanze relative alla tutela della salute in ambito lavorativo e agli aspetti di prevenzione, trovano oggi rispondenza nel D.Lgs. 81/08 e s.m.i. agli articoli 224 e 225 del Capo I “Protezione da agenti chimici”, Titolo IX, dove si fa riferimento esplicito alle misure e ai principi generali per la prevenzione dai rischi di esposizione a sostanze pericolose e alle misure specifiche di prevenzione e protezione da adottare per limitare tale rischio (ad esempio sostituzione della sostanza, progettazione di processi produttivi, misure organizzative e di protezione collettiva ed individuale e sorveglianza sanitaria).
Nonostante la classificazione della IARC, non vi è attualmente per la SLC una chiara corrispondenza ai criteri di classificazione per le sostanze cancerogene o mutagene di categoria 1A e 1B previste nell’Allegato I del Regolamento CE 1272/08 CLP (Classification, Labelling and Packaging).
Sul tema, al momento non esiste inoltre una Direttiva europea recepita dallo Stato Italiano o una Normativa Nazionale o Regionale che identifichi, per la silice, una modalità di esposizione cancerogena come sostanza, preparato o processo di cui all’Allegato XLII del D.Lgs. 81/08.
In estrema sintesi, si può affermare che la normativa nazionale in tema di salute e sicurezza sul lavoro, di derivazione europea, non può trattare la SLC alla stregua di sostanza cancerogena in assenza di una classificazione armonizzata.
Il recepimento delle Direttive comunitarie riguardanti gli agenti chimici pericolosi e gli agenti cancerogeni e mutageni definisce anche i limiti al di sopra dei quali è vietata l’esposizione lavorativa, alimentando anche gli Allegati XXXVIII e XLII del D.Lgs. 81/08 contenenti, rispettivamente, un elenco di valori limite di esposizione professionale per agenti chimici e un elenco di sostanze, preparati e processi cancerogeni e mutageni. Allo stato attuale la silice non è ricompresa nell’elenco di cui agli Allegati.

Il quadro normativo di riferimento per l’attuazione delle misure di tutela della salute per l’esposizione a polveri contenenti varie forme di silice è oggi estremamente complesso.
Infatti, come descritto, la classificazione delle forme di silice non è compresa nell’allegato VI del Regolamento CE 1272/08 oggi vigente ai fini della classificazione armonizzata europea. Per tale motivo la silice, nelle sue forme di quarzo e cristobalite, è notificata obbligatoriamente all’ECHA (European CHemical Agency), secondo una autoclassificazione curata dalla azienda che produce o immette sul mercato la sostanza.

Sul versante della normativa su salute e sicurezza sul lavoro, sia in ambito europeo (Direttive agenti chimici e Direttiva su agenti cancerogeni e mutageni 98/24 e 37/04 EC) sia in ambito nazionale (D.Lgs. 81/08) non esistono misure speciali in funzione della ben nota pericolosità delle polveri respirabili contenenti silice cristallina. Le esposizioni a SLC ricadono quindi nel Titolo IX, capo I “Protezione da agenti chimici” dello stesso Decreto.
Nonostante da tempo la IARC ha definito, sulla base delle evidenze epidemiologiche, la SLC, nelle sue forme di quarzo (CAS n. 14808-60-7 e CE n. 238-878-4) e cristobalite (CAS n. 14464-46-1, CE n. 238-455-4), cancerogena certa per l’uomo Categoria 1, tale evidenza non può essere però utilizzata in ambito normativo a causa della mancata classificazione armonizzata europea (Allegato VI del Regolamento CE 1272/08). Infatti il D.Lgs. 81/08 al Titolo IX, Capo II “Protezione da agenti cancerogeni e mutageni” definisce agenti cancerogeni quelli che sono classificati come cancerogeni di Categoria 1A e 1B contenuti nell’allegato VI del Regolamento CE 1272/08 CE.

Anche l’obbligo di fornire informazioni lungo la catena di approvvigionamento per mezzo della Schede Di Sicurezza (SDS) non sempre è obbligatoriamente prescritta in assenza di una classificazione armonizzata. Al riguardo si fa riferimento al caso delle pietre artificiali descritte in allegato, che nella loro qualità di “articoli” sono esentate dagli obblighi di SDS. Allo scopo di garantire una protezione dei lavoratori esposti alla SLC nei diversi comparti lavorativi, il gruppo di lavoro ha verificato la possibilità di procedere ad una richiesta di classificazione armonizzata per la SLC, sia essa quarzo o cristobalite, per le quali esistono ad oggi il maggior numero di informazioni scientifiche.
Dopo attente analisi delle risultanze scientifiche si è ritenuto più attinente appoggiare la posizione proposta dalla Unione Europea nelle ultime riunioni dell’Advisory Committee of Safety and Health per l’individuazione di un aggiornamento della Direttiva sugli agenti cancerogeni e mutageni contenente un valore limite occupazionale da recepire obbligatoriamente da parte degli Stati membri.

Il documento del Network Italiano Silice di INAIL “La valutazione dell’esposizione professionale a silice libera cristallina” Edizione 2015 è scaricabile all’indirizzo:


Nessun commento:

Posta un commento