NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA
DEI LAVORATORI
INDICE
DEFINIZIONE
DI UNITA’ PRODUTTIVA E DECADENZA DEI RLS PER LE COOPERATIVE
LE
CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.73
Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR
RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne
fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di
lavoro.
Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di
richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire
con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti dei lavoratori.
Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che
hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.
Esse trattano di argomenti vari sulla materia e
possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a
che fare con casi simili o analoghi.
Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza
ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende
coinvolte.
Marco Spezia
QUESITO
Ciao
Marco,
lavoro
in una cooperativa che ha una sede centrale nazionale, ma diverse sedi
dislocate su tutto il territorio italiano, ma che dipendono comunque dalla sede
centrale.
Ho
chiesto chi fosse l’RLS aziendale della sede in cui lavoro per proporgli i
problemi che abbiamo per la sicurezza, ma la cooperativa mi ha risposto che
devo fare riferimento all’RLS della sede centrale.
Risulta
tra l’altro che tale RLS sia decaduto dall’incarico.
Mi
risulta che l’RLS, secondo il Testo Unico, debba essere eletto per ogni unità
produttiva di una azienda e quindi la prima domanda che ti pongo è se le nostre
sedi distaccate sono unità produttive o meno e quindi se hanno la facoltà di
eleggere un RLS o se dobbiamo invece fare riferimento all’RLS della sede
centrale.
La
seconda domanda è relativa a cosa prevede il Testo Unico sulla decadenza dei
RLS.
Secondo
la cooperativa, l’attuale RLS non decade, noi vorremmo invece vedere di
rieleggerne uno in ogni sede che potrebbe essere considerata un'unità
produttiva autonoma, se mi mandi meglio la definizione.
Il
CCNL in vigore è il CCNL Cooperative sociali, triennio 2010-2012, firmato il 16
dicembre 2011, non rinnovato
Se
puoi dammi un parere.
Grazie.
RISPOSTA
Ciao,
premetto
che il termine “unità produttiva” non è di facile definizione.
A
tale proposito ti riporto a seguire un articolo del quotidiano on-line
PuntoSicuro con un’analisi di dettaglio del termine.
Innanzitutto
la definizione di unità produttiva secondo l’articolo 2, comma 1, lettera t)
del D.Lgs. 81/08 è la seguente:
“stabilimento
o struttura finalizzati alla produzione di beni o all'erogazione di servizi,
dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale”.
Se
la struttura, pur facendo parte di una azienda più ampia, possiede questi
requisiti è unità produttiva.
L’autonomia
finanziaria e tecnico-funzionale va intesa relativamente alla gestione di tutte
le attività legate alla tutela della salute e della sicurezza e deve essere
posta in capo a un datore di lavoro, come definito dalla lettera d)
dell’articolo citato:
“il
soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il
soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il
lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione
stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di
spesa”.
Per semplificare l’unità produttiva è quella
parte di un’azienda al capo della quale è posto un datore di lavoro che ha
pieni poteri decisionali e di spesa e che non deve rispondere ad altri, se non,
eventualmente, al consiglio di amministrazione della intera società.
Tali poteri devono essere formalizzati
all’interno dall’atto costitutivo dell’intera società che specifichi in maniera
chiara l’indipendenza finanziaria e tecnico-funzionale della unità produttiva.
In pratica, come si evince anche dalla lettura
dell’articolo di PuntoSicuro, l’unità produttiva si caratterizza dall’avere un
proprio bilancio e, aggiungo io, un proprio documento di valutazione dei rischi
a firma del datore di lavoro.
Inoltre, secondo le interpretazioni riportate nell’articolo,
l’unità produttiva non si configura solo a seguito di autonomia finanziaria e
organizzativa, ma anche in funzione della capacità di assolvere un intero ciclo
produttivo di un bene o di un servizio.
Nel tuo caso quindi, per poter definire che la sede distaccata
della cooperativa sia unità produttiva, secondo definizione di legge, è
necessario che:
-
la sede abbia autonomia finanziaria e tecnico-funzionale, come
definito all’interno della visura camerale della intera società;
-
la sede sia sotto la piena responsabilità di un datore di lavoro
che, da statuto e da visura camerale, abbia pieni poteri decisionali e di
spesa;
-
la sede abbia un proprio bilancio;
-
la sede abbia un proprio documento di valutazione dei rischi.
Relativamente a quanto disposto per la durata degli RLS, ti
riporto la risposta a una domanda rivolta alla Commissione degli interpelli (ex
articolo 12, comma 2 del D.Lgs. 81/08) in merito a un caso simile.
La
Commissione specifica che “le modalità di elezione o designazione del RLS dovranno essere oggetto
di regolamentazione della contrattazione collettiva di riferimento per
l’azienda”.
In caso di scadenza e mancato rinnovo della contrattazione (come
nel tuo caso) la Commissione
ritiene che “continui ad operare la
precedente disciplina contrattuale, in regime di ultrattività”.
Pertanto per individuare le regole dell’elezione del RLS e la
durata della loro carica occorre partire dal CCNL Cooperative sociali, triennio
2010-2012, del 16/12/11, ancorché scaduto e non rinnovato.
Tale
Contratto esaurisce quanto di competenza a tutela della salute e della
sicurezza all’interno dell’articolo 74 “Tutela della salute e ambiente di lavoro”, che si limita ad affermare
che
“In materia di sicurezza sul
lavoro, fermo restando quanto previsto nel protocollo d'intesa sottoscritto tra
le Organizzazioni Sindacali CGIL, CISL, UIL e le centrali cooperative Legacoop,
Confcooperative, AGCI in data 05/10/95 si fa riferimento al D.Lgs. 81/08
[...]”.
Ora, poiché il D.Lgs. 81/08 nulla dice in merito
alla durata in carica del RLS, occorre fare riferimento al citato Protocollo
d’intesa tra Legacoop, Confcooperative, AGCI e CGIL,
CISL, UIL per l’applicazione del D.Lgs. 626/94 del 05/10/65.
Tale Protocollo riporta al punto 4.10 “Procedure per l’elezione o
individuazione dei RLS” quanto segue:
“Per le imprese cooperative
o unità produttive delle stesse, le Associazioni cooperative e le
Organizzazioni Sindacali dei lavoratori competenti concorderanno le iniziative
idonee allo svolgimento delle elezioni dei RLS.
[...]
Il/i RLS così eletto/i dura/no nell’incarico
per il tempo previsto dall’Accordo 13/09/94 sulle RSU o comunque fino alla
decadenza della RSU”.
A sua volta il Protocollo di intesa per la costituzione delle Rappresentanza
Sindacali Unitarie del 13 settembre 1994 riporta all’articolo 6 “Durata e sostituzione
nell'incarico”, che:
“I componenti della RSU restano in carica per
3 anni, al termine dei quali decadono automaticamente. In caso di dimissioni di
componente elettivo, lo stesso sarà sostituito dal 1° dei non eletti
appartenente alla medesima lista”.
Quindi
e in conclusione il RLS eletto o designato all’interno della RSU rimane in
carica 3 anni o fino alla decadenza della RSU.
A
disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco
*
* * * *
UNITA’
PRODUTTIVA: LA
DEFINIZIONE AI FINI DELLA SICUREZZA SUL LAVORO
Definire l’unità produttiva consente di determinare il numero di RSPP, dirigenti, preposti, RLS e di individuare uno o più datori di lavoro: i requisiti per identificarla presenti nei riferimenti legislativi e nella giurisprudenza.
Definire
ed individuare una unità produttiva è tema assai rilevante in materia di
sicurezza sul lavoro. In particolare troviamo ricadute dirette nella
individuazione del datore di lavoro, nella istituzione di un unico o più
Servizi di prevenzione e protezione con conseguente presenza di più RSPP, nella
organizzazione delle rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza.
Infatti
in una unica società/persona giuridica è possibile come è noto il frazionamento datoriale, ovvero la presenza di più datori di lavori
per un unico soggetto giuridico quando questo si articola in più unità produttive.
Come
chiaramente indica l’articolo 2 del D.Lgs. 81/08 il datore di lavoro è non solo
quello che ha la titolarità del rapporto di lavoro, ma anche eventualmente
colui che “ha la responsabilità della
organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività o della unità produttiva”,
purché ovviamente eserciti “i poteri
decisionali e di spesa”.
Quindi
il definire la unità produttiva determina la possibilità e la fattualità di un frazionamento datoriale o alternativamente
la presenza di un solo datore di lavoro con più dirigenti o
preposti nelle articolazioni aziendali.
E
ancora troviamo, in relazione al Servizio di prevenzione e
protezione, che l’articolo 31 del D.Lgs. 81/08 afferma che il
datore di lavoro “organizza il servizio
di prevenzione e protezione all’interno della azienda o della unità produttiva”, aggiungendo
al comma 8 che “nei casi di aziende con
più unità produttive nonché nei casi di gruppi di imprese, può essere istituito
un unico servizio di prevenzione e protezione”.
Quindi
chiarendo che tale opzione è quindi una scelta organizzativa dei datori di
lavoro che a quel punto saranno più di uno perché presenti più unità
produttive. Infatti il comma 8 aggiunge che “i datori di lavoro [al plurale] possono
rivolgersi a tale struttura per la istituzione del servizio e per la
designazione degli addetti e del responsabile”.
Quindi
tali norme rendono possibile la presenza di più datori
di lavoro e di un unico servizio di prevenzione protezione e
quindi di un unico Responsabile del servizio stesso. Unico accorgimento è che
tale servizio sia “adeguato a garantire
la effettività dello svolgimento dei compiti previsti” (articolo 33 del
D.Lgs. 81/08).
Quali
siano i requisiti per definire una unità produttiva ad oggi
si evincono da qualche riferimento legislativo e da alcuni indirizzi di natura
giurisprudenziale.
LA UNITÀ PRODUTTIVA NELLA DEFINIZIONE DEL D.LGS. N. 81/2008
Il
testo Unico in materia di sicurezza definisce la unità produttiva come “lo stabilimento o la struttura finalizzata
alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale”.
Ora
è bene quindi capire cosa sia la autonomia finanziaria e l’autonomia
tecnico-funzionale.
LA GIURISPRUDENZA DAL D.LGS. 626/94 AL D.LGS. N. 81/2008
La
Giurisprudenza ci offre qualche chiave di lettura, basti
ricordare la Sentenza
della Corte di Cassazione n. 45068 del 22/11/04.
In
questo pronunciamento si afferma che l’organismo, pur restando una emanazione
di una stessa impresa, deve avere “una
fisionomia distinta, presenti un proprio bilancio” e abbia in condizioni di
indipendenza “un proprio riparto di
risorse disponibili” così da permettere in piena autonomia le scelte
organizzative più confacenti alle caratteristiche funzionali e produttive della
unità.
Addirittura
la Cassazione
afferma che la “rilevante autonomia”
di cui è deve essere dotata la unità produttiva “deve anche essere espressamente prevista negli atti della impresa o
della società”.
LA UNITA’ PRODUTTIVA E LO STATUTO DEI LAVORATORI
Un
altro parametro ci viene offerto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori
e dalla giurisprudenza che ne è seguita.
La Legge n. 300/70 si trova
ad affrontare tale tema incidentalmente trattando la tutela del lavoratore da
licenziamento senza giusta causa ed afferma che:
“Il giudice, con la sentenza con cui dichiara
inefficace il licenziamento o annulla il licenziamento intimato senza giusta
causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge
stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore di
reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano ai datori di lavoro, imprenditori e non
imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici
dipendenti e alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale
occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva,
singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore
di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più
di sessanta prestatori di lavoro”.
Vi
è quindi in questo caso per definire la unità produttiva un riferimento a
parametri quantitativi legato al numero dei dipendenti o dei prestatori di
lavoro della singola unità. Vi è peraltro da aggiungere che tale riferimento
quantitativo deve essere preso non rigorosamente in materia di sicurezza sul
lavoro, ma semmai come elemento che sottolinea la dimensione autonoma della
unità produttiva stessa.
Peraltro
la giurisprudenza in applicazione della stessa Legge 300/70 ha affermato
anche che “Agli effetti
della tutela reintegratoria del lavoratore ingiustamente licenziato, per unità produttiva deve intendersi non
ogni sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto dell'impresa, ma soltanto la più consistente e vasta entità aziendale eventualmente
articolata in organismi minori, anche non ubicati tutti nel territorio del
medesimo comune, purché caratterizzati per condizioni imprenditoriali da
indipendenza tecnica e amministrativa tali che in essa si esaurisca per intero
il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell'attività
produttiva aziendale”.
Ne
consegue che deve escludersi la configurabilità di un'unità produttiva in
relazione alle articolazioni aziendali che, sebbene dotate di una certa
autonomia amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a
funzioni ausiliarie sia rispetto ai generali fini dell'impresa, sia rispetto ad
una frazione dell'attività produttiva della stessa. (Sentenze della Cassazione
Civile n. 19837 del 4 ottobre 2004, n. 5892 del 14 giugno 1999, n. 7848 del 19
luglio 1995).
LA UNITA’ PRODUTTIVA E L’ARTICOLO 2103 DEL CODICE CIVILE
Un
altro parametro di riferimento lo troviamo nell’articolo 2103 del Codice
Civile, come sostituito dall’articolo 13 della Legge n. 300/70: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito
alle mansioni per le quali è stato assunto [...]. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad
un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative
e produttive”.
L’assegnazione
a una nuova posizione di lavoro all’interno della stessa unità produttiva, non
costituisce quindi trasferimento. Ora esattamente in relazione a tale categoria
concettuale, la giurisprudenza ha elaborato una indicazione utile a definire la
unità produttiva.
A
questo riguardo la giurisprudenza considera una unità produttiva “ogni articolazione autonoma dell'azienda,
avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in
tutto o in parte, l'attività dell'impresa medesima, della quale costituisca una
componente organizzativa, connotata da indipendenza tecnica ed amministrativa
tali che in essa si possa concludere una frazione
dell'attività produttiva aziendale” (Sentenza della
Cassazione Civile n. 11660 del 29 luglio 2003).
L'unità
produttiva va quindi individuata “in ogni
articolazione autonoma dell'impresa, avente sotto il profilo funzionale e
finalistico idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività di produzione
di beni o servizi dell'impresa medesima, della quale costituisce elemento
organizzativo, restando invece esclusi quegli organismi minori che, se pur
dotati di una certa autonomia, siano destinati a scopi meramente strumentali
rispetto ai fini produttivi dell'impresa” (Sentenze della Cassazione Civile
n. 9636 del 21 luglio 2000 e n. 5892 del 14 giugno 1999).
LA UNITA’ PRODUTTIVA E L’INQUADRAMENTO INAIL
Da
ultimo anche per ciò che riguarda la denuncia di iscrizione all’INAIL la Circolare dell’Ente
stesso del 18 giugno 2001 ha
affermato che la impresa deve fare una sola denuncia intendendosi la sede,
quella dove “si svolge la produzione dei
beni e dei servizi oggetto dell’attività aziendale”, salvo l’azienda svolga
la propria attività in più luoghi di lavoro “purché dotati di autonomia finanziaria e tecnico
funzionale”.
In
mancanza di questa autonomia “l’eventuale
diversa struttura dell’azienda anche se fisicamente separata dalla struttura
principale non va considerata quale autonoma e distinta sede di lavoro e deve
essere ricondotta a fini assicurativi alla sede dalla quale dipende”
(Circolare n. 9 del 2002 e Nota del 18 giugno 2007).
Anche
l’unico inquadramento o la pluralità di denunce di iscrizione all’INAIL si
rileva quindi elemento determinante per stabilire sotto il profilo
dell’applicazione del D.Lgs. 81/08 se vi sia o meno una unità produttiva.
CONCLUSIONI
In
conclusione quindi per dichiarare l’esistenza di una unità produttiva sono
necessari requisiti di autonomia assai stringenti che rendono l’ipotesi della
sua esistenza non certo frequente ed è quindi auspicabile non darne una
superficiale e distorsiva interpretazione estensiva.
Emilio
Del Bono
BICICLETTA:
INFORTUNIO IN ITINERE SEMPRE INDENNIZZATO, ANCHE SU STRADA E PER COLPA
Da
Studio Cataldi
29/03/16
Di
Marina Crisafi
Le
linee guida dell’INAIL sulla nuova disciplina a seguito della norma introdotta
dal collegato ambientale.
Chi
si fa male andando al lavoro in bicicletta sarà indennizzato in ogni caso,
perché la Legge
n. 221/2015, il cosiddetto “collegato ambientale”, ha introdotto il principio
secondo il quale l’uso del velocipede deve intendersi “sempre necessitato”
(cioè sempre indennizzato per chi si fa male mentre va al lavoro in bici).
Ora,
l’INAIL con la Circolare
n. 14 del 25 marzo 2016 provvede a riassumere la disciplina giuridica
dell’infortunio in itinere, dettando le linee guida da seguire alla luce delle
ulteriori novità normative.
USO
“NECESSITATO” ANCHE SU STRADA
Nella
circolare si premette che l’INAIL, considerata la sempre maggiore attenzione a
livello ambientale e sociale orientata a favore di una mobilità sostenibile,
sin dal 2011 ha
riconosciuto l’infortunio occorso al lavoratore che si recava al lavoro in
bicicletta, ma soltanto se l’evento lesivo si verificava su pista ciclabile o
zona interdetta al traffico e non invece su strada aperta al traffico di
veicoli a motore. In tal caso, infatti, l’indennizzo veniva riconosciuto solo
se l’utilizzo della bici si considerava necessario, altrimenti si ricadeva
nell’ambito del cosiddetto “rischio elettivo” non protetto. D’ora in poi, tale valutazione
è superflua, perché dopo il collegato ambientale l’infortunio a bordo del
velocipede è indennizzato a prescindere dal tratto stradale in cui l’evento si
verifica, giacché il suo utilizzo è considerato sempre necessitato.
LA NORMALITA’ DEL PERCORSO
Quanto
alla disciplina giuridica dell’infortunio, l’INAIL ricorda che l’articolo 12
del D.Lgs. 38/00 sancisce che l’assicurazione opera nell’ipotesi di infortunio
occorso a lavoratore assicurato durante il normale percorso di andata e ritorno
dal luogo di abitazione a quello di lavoro.
Per
normalità del percorso, l’istituto ribadisce che il concetto riguarda il
tragitto dal luogo di abitazione a quello di lavoro e viceversa, affrontato
“per esigenze e finalità lavorative e, ovviamente, in orari confacenti con
quelli lavorativi in modo tale che il lavoratore non abbia possibilità di una
scelta diversa, né in ordine al tragitto, né in ordine all’orario”. Ad essere
indennizzato, in buona sostanza, è il percorso normalmente compiuto dal
lavoratore, anche se non coincide con quello più breve, purché sia giustificato
dalla concreta situazione della viabilità (come, ad esempio, per via del
traffico più scorrevole).
LE
INTERRUZIONI O DEVIAZIONI
Anche
con riferimento all’infortunio occorso in bici, ricorda l’INAIL, la tutela
assicurativa non opera nell’ipotesi di interruzioni e deviazioni del normale
percorso, laddove le stesse siano “del tutto indipendenti dal lavoro o comunque
non necessitate”. In presenza di “brevi soste” che non espongano l’assicurato a
un rischio diverso da quello che avrebbe dovuto affrontare se il normale
percorso casa-lavoro fosse stato compiuto senza soluzione di continuità, non
valgono invece ad interrompere il nesso causale tra lavoro e infortunio e,
quindi, non escludono l’indennizzo.
BICICLETTA
EQUIPARATA AL MEZZO PUBBLICO
Mentre
ai fini dell’applicabilità della tutela assicurativa, la scelta del mezzo
privato da parte del lavoratore deve essere valutata, caso per caso, al fine di
vagliarne la “necessità” (ad esempio, quando non esistono mezzi pubblici di
trasporto o gli stessi non coprono l’intero percorso, ovvero quando non c’è
coincidenza di orari, ecc.), per la bicicletta tale valutazione risulta superata,
afferma l’INAIL, ad opera dell’articolo 5 della Legge 221/15, poiché “il suo
utilizzo è considerato dalla norma sempre necessitato e, quindi, equiparato a
quello del mezzo pubblico o al percorso a piedi”.
INFORTUNIO
ANCHE SE C’E’ COLPA
Rimane,
inoltre, confermato ribadisce l’Istituto nella circolare, che ai fini
dell’indennizzabilità dell’infortunio non assumono rilevanza gli aspetti
soggettivi della condotta dell’assicurato. In altre parole, se l’infortunio
avviene per colpa del lavoratore (negligenza, imperizia, violazione di norme,
ecc.) non è interrotto il nesso causale tra rischio lavorativo e sinistro, per
cui l’indennizzo è dovuto, salvo che non si tratti di comportamenti “così
abnormi da sfociare nel rischio elettivo”.
Richiamando
la giurisprudenza della Cassazione in materia, che esclude l’indennizzo
dell’infortunio, laddove “l’elemento psicologico del lavoratore, anche solo
colposo, nella causazione dell’infortunio risulta particolarmente qualificato
per la sua abnorme deviazione dalla corretta esecuzione del lavoro, comportando
un aggravamento del rischio tutelato talmente esorbitante dalle finalità di
tutela, da escluderla”, la
Circolare specifica che anche l’infortunio occorso a bordo
della bici dovrà ritenersi escluso da tutela ogni qualvolta “esaminate le
circostanze nelle quali l’incidente si sia verificato (ad esempio avere
imboccato una strada interdetta alla circolazione del velocipede o essersi
messo alla guida in stato di ubriachezza) la qualificazione dell’elemento
soggettivo del lavoratore debba essere definito in termini di rischio elettivo
e non di colpa”.
La
Circolare INAIL n. 14/2016 è scaricabile all’indirizzo:
RESPONSABILITA’ DEL
DATORE IN CASO DI INFORTUNIO E ALTA PROFESSIONALITA’ DEL DIPENDENTE
Da
Portale Consulenti
24/03/16
Con
la sentenza n. 5233 del 16 marzo 2016, La Corte di Cassazione ha affermato come la messa a
disposizione, da parte del datore di lavoro, dei DPI (Dispositivi di Protezione
Individuale) e la successiva formazione sulla sicurezza, non esime quest’ultimo
dalla responsabilità in caso di infortunio accorso al lavoratore, qualora non
abbia vigilato sull’utilizzo effettivo, da parte dei dipendenti, degli stessi
DPI messi a disposizione.
Si
riporta a seguire il testo della sentenza.
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
Con
sentenza del 09/11/06 il Tribunale di Napoli condannava (...) SpA a pagare a
(...), a titolo risarcitorio dei danni derivatigli da un infortunio sul lavoro
occorso il 09/01/98, la somma di euro 105.000,00 per danno esistenziale e
biologico e quella di euro 23.000,00 per danno morale, il tutto oltre
interessi.
Con
sentenza depositata il 10/01/12 la
Corte d’Appello di Napoli riduceva a complessivi euro
105.000,00 il risarcimento dovuto al lavoratore, confermando nel resto le
statuizioni di prime cure.
Accertavano
i Giudici di merito che il (...) nell’eseguire le operazioni di revisione del
gruppo leveraggio cambio di un automezzo aziendale, era stato colpito da un
bullone che si accingeva a estrarre, riportando una cecità assoluta all’occhio
sinistro e uno stress cronico moderato post-traumatico, con conseguente
inabilità permanente del 37%.
Per
la Cassazione
della sentenza della Corte Territoriale ricorre (...) SpA affidandosi a due motivi.
(...)
resiste con controricorso.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
Il
primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 2087 del
Codice Civile per avere la sentenza impugnata ravvisato la responsabilità della
società pur essendosi accertato che l’infortunio si era verificato sol perché
il lavoratore (operaio tecnico) non aveva inforcato gli occhiali protettivi
regolarmente fornitigli dall’azienda: obietta in proposito la ricorrente di
aver adottato tutte le dovute cautele e cioè di aver formato professionalmente
il lavoratore e di averlo informato circa i rischi del lavoro svolto, munendolo
di occhiali protettivi e di lampade mobili, così rispettando sotto ogni aspetto
il debito di sicurezza di cui all’articolo 2087 del Codice Civile; né (conclude
il motivo) era necessaria una particolare vigilanza del lavoratore durante
l’operazione svolta (lo svitamento d’un bullone), di estrema semplicità.
Analoga
doglianza viene sostanzialmente fatta valere con il secondo mezzo, sotto forma
di denuncia di vizio di motivazione circa l’asserito superamento della soglia
di sicurezza, nonché circa l’obbligo di concreta vigilanza dell’operazione
espletata dal dipendente infortunato e dell’uso, da parte sua, degli occhiali
protettivi.
I
due motivi, da esaminarsi congiuntamente perché connessi, sono infondati.
I
Giudici di merito hanno ravvisato a carico della società una violazione
dell’articolo 2087 del Codice Civile perché l’ambiente di lavoro era
scarsamente illuminato e perché l’azienda non aveva vigilato affinché i
dipendenti utilizzassero gli occhiali protettivi e i sistemi di illuminazione
mobili messi a loro disposizione.
La
società ricorrente contesta l’asserita necessità di vigilanza, in
considerazione del livello di esperienza dell’infortunato e della semplicità
dell’operazione che stava eseguendo.
Osserva
questa Corte che è pur vero che in tema di responsabilità del datore di lavoro
circa il mancato uso di mezzi personali di sicurezza la violazione
dell’articolo 4 lettera c) del D.P.R. 547/55 (vigente all’epoca dell’infortunio
per cui è causa), che obbliga datori di lavoro, dirigenti e preposti a
“disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza e
usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione”, postula un accertamento
che abbia riguardo alle peculiari caratteristiche dell’impresa, ai tipi di
lavorazione ivi effettuati, all’entità del personale e ai diversi gradi di
rischio (confronta, per tutte, Sentenza di Cassazione n. 10066/94).
La
sorveglianza dovuta da datori di lavoro, dirigenti e preposti non deve essere
ininterrotta e con costante presenza fisica del controllore accanto al
lavoratore, ma può anche sostanziarsi in una discreta, seppure continua ed
efficace, vigilanza generica, intesa ad assicurarsi, nei limiti dell’umana
efficienza, che i lavoratori seguano le disposizioni di sicurezza impartite e
utilizzino gli strumenti di protezione prescritti.
Tale
obbligo di vigilanza subisce un’ulteriore attenuazione, in base ad un principio
di ragionevole affidamento nelle accertate qualità del dipendente, in ipotesi
di provetta specializzazione dell’operaio munito di approfondita conoscenza
d’una determinata lavorazione cui sia addetto da lungo tempo (vedi, ancora,
Sentenza di Cassazione n. 10066/94 citata).
Nondimeno
tale mera attenuazione (che, giova ribadire, è configurabile solo in ipotesi di
lavoratore esperto, già adeguatamente formato professionalmente e informato dei
rischi connessi alle mansioni assegnategli) non si identifica con la totale
omissione di controllo, ravvisata nel caso di specie dai giudici di merito,
circa l’uso di lampade mobili e occhiali protettivi, controllo ancor più
necessario viste le condizioni di insufficiente illuminazione dell’ambiente di
lavoro.
Né
esime da tale obbligo la semplicità dell’operazione lavorativa, atteso che il
grado maggiore o minore di complessità del lavoro da espletare non è in rapporto
di proporzionalità diretta con il rischio protetto, ben potendosi dare
lavorazioni complesse, ma non pericolose e, per converso, altre anche semplici,
ma con elevato livello di pericolosità.
Infine,
quanto al superamento della soglia di rischio, si consideri che il fatto
(l’avvenuto infortunio) vince l’ipotesi ventilata dalla ricorrente
(l’inesistenza del superamento d’una soglia di rischio), di guisa che la Sentenza impugnata non
doveva motivare ulteriormente a riguardo.
Ove,
poi, il senso della doglianza fosse quello per cui, vista la natura
dell’operazione affidata al lavoratore, sarebbe stato da escludere a monte, in
virtù di una cosiddetta prognosi postuma, qualsivoglia obbligo di uso di mezzi
personali di protezione e, quindi, di vigilanza datoriale sul loro concreto
impiego, è appena il caso di notare che sì tratterebbe di congettura nuova e contraddittoria
rispetto a tutta l’impostazione del ricorso, che insiste sull’avvenuta messa a
disposizione degli occhiali protettivi, così riconoscendo la pericolosità della
manovra eseguita dall’infortunato.
SENTENZA
In
conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le
spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la
soccombenza e si distraggono ex articolo 93 del Codice di Procedura Civile in
favore del difensore, dichiaratosi antistatario.
la Corte rigetta il ricorso e
condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità,
liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi
professionali, oltre accessori come per legge, da distrarsi in favore
dell’avvocato (...), dichiaratosi antistatario.
CASSAZIONE: INFARTO
DA SUPERLAVORO? IL DATORE E’ SEMPRE “COLPEVOLE”
Da:
LavoroFisco
12
maggio 2014
Di
Andrea Rosana
L’attitudine
del lavoratore a lavorare con grande impegno e al suo coinvolgimento
intellettuale ed emotivo nella realizzazione degli obiettivi aziendali non
escludono in alcun modo la responsabilità del datore di lavoro ove le condizioni
lavorative abbiano svolto un ruolo comunque concausale nella produzione
dell’evento lesivo.
E’
quanto stabilito dalla Corte di Cassazione Civile con la Sentenza n. 9945 dell’8
maggio 2014.
Lavorava
senza tregua, portandosi anche il lavoro a casa, pur di raggiungere gli
obiettivi che il suo datore, una grossa società di telecomunicazioni, gli aveva
assegnato. Stefano S., funzionario della Ericsson, non si era mai lamentato per
questo stress continuo. Ma un carico di undici ore di lavoro al giorno alla
fine lo ha portato all’infarto. Ora la Cassazione ha stabilito che una morte del genere
deve essere risarcita dal datore che non può ignorare “le modalità attraverso
le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro”.
Alla
moglie e alla figlia del dipendente morto per infarto dovuto ai “ritmi
insostenibili” dell’attività lavorativa, la società deve corrispondere,
rispettivamente, 434.000 euro e 425.000 euro, oltre agli oneri accessori.
Senza
successo, la Ericsson
è ricorsa in Cassazione contro la decisione della Corte di Appello di Roma che,
nel 2011, aveva accolto la richiesta di risarcimento danni patrimoniali e
materiali avanzati dalla vedova di Stefano S. anche in nome della loro unica
figlia, ancora minorenne. In primo grado, invece, il Tribunale aveva negato la
responsabilità del datore.
Ad
avviso della Suprema Corte, “con motivazione logicamente argomentata e
giuridicamente corretta”, il verdetto di appello ha ritenuto che “la
responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro fa
carico alla società, la quale non può sottrarsi agli addebiti per gli effetti
lesivi della integrità fisica e morale dei lavoratori che possano derivare
dalla inadeguatezza del modello adducendo l’assenza di doglianze mosse dai
dipendenti”.
Inoltre,
secondo gli “ermellini” il datore non può sostenere “di ignorare le particolari
condizioni di lavoro in cui le mansioni affidate ai lavoratori vengano in
concreto svolte”.
Per
la Cassazione,
“deve infatti presumersi, salvo prova contraria, la conoscenza, in capo
all’azienda, delle modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il
proprio lavoro, in quanto espressione ed attuazione concreta dell’assetto
organizzativo adottato dall’imprenditore con le proprie direttive e
disposizioni interne”.
Nel
caso in questione era emerso che Stefano S. “per evadere il proprio lavoro, era
costretto, ancorché non per sollecitazione diretta, a conformare i propri ritmi
di lavoro all’esigenza di realizzare lo smaltimento nei tempi richiesti dalla
natura e molteplicità degli incarichi affidatigli dalla Ericsson”.
In
base alla Consulenza Tecnica di Ufficio, l’infarto che lo colpì, un martedì
mattina al lavoro, “era correlabile, in via concausale, con indice di
probabilità di alto grado, alle trascorse vicende lavorative”. Senza successo
la società si è difesa dicendo che i “ritmi serratissimi” adottati da Stefano
S. “non erano a lei imputabili ma dipendevano dalla attitudine” del dipendente
“a sostenere e a lavorare con grande impegno e al suo coinvolgimento intellettuale
ed emotivo nella realizzazione degli obiettivi”.
In
ordine alla responsabilità del datore di lavoro, precedentemente la Cassazione Sezione
Lavoro, con Sentenza n. 2038 del 29 gennaio 2013, ha sostenuto che
l’articolo 2087 del Codice Civile non configura un’ipotesi di responsabilità
oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla
violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o
suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Ne
consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa
dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare
l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro,
nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la
prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare
di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del
danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di
tali obblighi.
La
stessa sentenza, peraltro, in una fattispecie di mobbing, ha rilevato che la
riconosciuta dipendenza delle malattie da una “causa di servizio” non implica
necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati
dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, potendo essi dipendere
piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione
lavorativa e dal logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro
impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori
dall’ambito dell’articolo 2087 del Codice Civile, che riguarda una
responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo
possibilistici.
Nel
medesimo senso, la
Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 18626 del 05
agosto 2013, ha
affermato il principio generale in materia secondo il quale la responsabilità
dell’imprenditore ex articolo 2087 Codice Civile non configura un’ipotesi di
responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole
d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo sanzionata
dalla norma l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a
preservare l’integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto
conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di
indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento
storico.
Pertanto,
qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività
lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di
avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le
misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio
espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia.
In
ordine alla rilevanza dell’infarto sul piano infortunistico sul lavoro, la Cassazione Sezione
Lavoro, con Sentenza n. 12685 del 29 agosto 2003, ha precisato che,
nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, la causa
violenta consiste in un evento che con forza concentrata e straordinaria
agisca, in occasione di lavoro, dall’esterno verso l’interno dell’organismo del
lavoratore, dando luogo ad alterazioni lesive. Con riguardo a un infarto cardiaco,
che di per sé non integra la causa violenta, va accertato se la rottura
dell’equilibrio nell’organismo del lavoratore sia da collegare causalmente a
specifiche condizioni ambientali e di lavoro improvvisamente eccedenti la
normale adattabilità e tollerabilità, sì da poter essere considerate, sia pure
in termini di mera probabilità, fattori concorrenti e da far escludere che si
sia trattato del semplice effetto logorante esercitato sull’organismo da
gravose condizioni di lavoro.
Nel
medesimo senso, la
Cassazione Sezione Lavoro, con Sentenza n. 19682 del 23
dicembre 2003, ha
affermato che, in tema di infortuni sul lavoro, lo sforzo fisico, al quale
possono essere equiparati stress emotivi e ambientali, costituisce la causa
violenta, ex articolo 2 del D.P.R. del 30 giugno 1965, n. 1124, che determina
con azione rapida e intensa la lesione. La predisposizione morbosa del
lavoratore non esclude il nesso causale tra lo stress emotivo e ambientale e
l’evento infortunistico, in relazione anche al principio della equivalenza
causale di cui all’articolo 41 del Codice Penale, che trova applicazione nella
materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, dovendosi
riconoscere un ruolo di concausa anche ad una minima accelerazione di una
pregressa malattia (nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla Suprema
Corte, ha ritenuto sussistente l’occasione di lavoro in relazione al decesso
del responsabile di uno stabilimento, già affetto da patologia cardiaca,
avvenuto a causa di un infarto determinato da stress emotivo, conseguente
all’attivazione dell’allarme antincendio dello stabilimento e alla necessità di
un suo intervento, e da stress ambientale, riconducibile alla rigida temperatura
esistente all’esterno).
In
precedenza, la Cassazione
Sezione Lavoro, con Sentenza n. 13982 del 24 ottobre 2000 aveva
affermato che, nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro,
al fine di determinare se a un infarto cardiaco (che di per sé rappresenta una
rottura dell’equilibrio nell’organismo del lavoratore concentrata in una minima
misura temporale e quindi integra una “causa violenta”) è riconoscibile
un’eziologia lavorativa, va accertato se gli atti lavorativi compiuti, ancorché
non caratterizzati da particolari sforzi e non esulanti dalla normale attività
lavorativa esercitata dall’assicurato, abbiano avuto l’efficienza di un
contributo causale nella verificazione dell’infarto.
La
sentenza n. 9945 dell’8 maggio 2014 della Corte di Cassazione Civile è
consultabile all’indirizzo:
NUOVA MODALITA’ PER
LE DENUNCE DI INFORTUNIO E MALATTIA PROFESSIONALE
Da:
PuntoSicuro
24
marzo 2016
Con
Circolare 21 marzo 2016, n. 10, l’INAIL ha fornito le istruzioni per
l’applicazione delle novità procedurali di invio telematico, a cura dei medici
e delle strutture sanitarie, dei certificati di infortunio e malattia
professionale, nonché di trasmissione delle relative denunce a cura del datore
di lavoro.
Le
novità conseguono alle modifiche normative introdotte dal Jobs Act
(D.Lgs.151/15) e sono operative dal 22 marzo 2016.
Pertanto,
da questa data le varie figure coinvolte dovranno procedere come segue.
I
medici e le strutture sanitarie:
-
trasmettono
direttamente all’INAIL, per via telematica, i certificati di infortunio e
malattia professionale, attraverso l’apposito servizio reso disponibile sul
portale dell’Istituto;
-
forniscono
al lavoratore il certificato medico con l’indicazione del numero identificativo
del certificato, della data di rilascio e dei giorni di prognosi;
-
in
fase di avvio del nuovo regime, nel caso in cui non risulti possibile
effettuare la trasmissione telematica, inviano il certificato tramite Posta
Elettronica Certificata alla sede INAIL competente in base al domicilio del
lavoratore, e consegnano il certificato al lavoratore stesso per il successivo
inoltro al datore di lavoro.
Il
lavoratore:
-
fornisce
al datore di lavoro il numero identificativo del certificato, la data di rilascio
e i giorni di prognosi;
-
in
fase di avvio del nuovo regime, qualora non disponga del numero identificativo
del certificato, continua a consegnare al datore di lavoro il certificato
medico in forma cartacea.
Il
datore di lavoro:
-
dal
22 marzo 2016 è esonerato dal trasmettere all’INAIL il certificato medico di
infortunio e malattia professionale;
-
dalla
medesima data è esonerato dal trasmettere all’Autorità Locale di Pubblica
Sicurezza le denunce relative agli infortuni mortali o con prognosi superiore a
30 giorni: queste denunce sono rese disponibili direttamente dall’INAIL;
-
acquisisce
il certificato di infortunio o malattia professionale, tramite PIN, attraverso
la funzione “Ricerca certificati medici” disponibile all’interno dei Servizi
Denunce di Infortunio, Malattia professionale e Silicosi/Asbestosi, sul portale
dell’INAIL (la ricerca del certificato avviene inserendo obbligatoriamente i
seguenti dati: codice fiscale del lavoratore; numero identificativo del
certificato; data di rilascio);
-
invia
telematicamente la denuncia all’INAIL entro i termini previsti, che restano
invariati: tali termini decorrono dalla data in cui il datore di lavoro ha
ricevuto i riferimento del certificato medico dal lavoratore (o il certificato
cartaceo, in fase di avvio del nuovo regime, nel caso in cui il lavoratore non
disponga del numero identificativo); nella denuncia deve indicare
obbligatoriamente il numero identificativo e la data di rilascio del
certificato medico; nel caso in cui il lavoratore non abbia fornito il numero
del codice identificativo del certificato medico, nella denuncia il datore di
lavoro deve indicare un codice fittizio di 12 caratteri alfa-numerici.
La Circolare 21 marzo 2016, n. 10
dell’INAIL è scaricabile all’indirizzo:
Il
Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 151 è scaricabile all’indirizzo:
LE RICHIESTE DEGLI
RLS PER MIGLIORARE LA
PREVENZIONE IN ITALIA
Da:
PuntoSicuro
30
marzo 2016
Di
Tiziano Menduto
Le
questioni sollevate dall’Assemblea nazionale unitaria degli RLS/RLST di CGIL,
CISL e UIL. La mancanza di strategie, i ritardi del SINP e dei decreti
attuativi del Testo Unico, il rafforzamento del ruolo degli RLS e il piano
nazionale amianto.
E’
indiscutibile l’importanza del ruolo dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) per
un’effettiva ed efficace tutela della salute e sicurezza nelle aziende. E
partendo dall’importanza di questa funzione normata dal D.Lgs. 81/08, è
interessante comprendere il parere degli RLS su alcuni dei temi più rilevanti e
delicati in materia di politiche di prevenzione.
Abbiamo
l’occasione di testare il polso di molti RLS italiani attraverso la recente
Assemblea nazionale unitaria degli RLS/RLST di CGIL, CISL e UIL che si è tenuta
a Napoli l’11 febbraio scorso.
Nell’assemblea
nazionale di Napoli, a cui hanno partecipato quasi 400 RLS e diversi rappresentanti
istituzionali, sono stati affrontati diversi temi.
Il
documento/piattaforma relativo al convegno riporta in particolare alcune
“priorità indifferibili” per le quali non vengono solo rilevate le criticità,
ma anche avanzate possibili proposte di lavoro e/o soluzione.
Il
primo punto prioritario è relativo all’assetto istituzionale e di governo della
prevenzione e ricorda quanto già rilevato anche in un analoga assemblea del
2013: la supposta “mancanza di un quadro complessivo di politiche nazionali
italiane in tema di salute e sicurezza sul lavoro che, non determinando le
linee comuni strategiche sulla base delle quali perseguire obiettivi e
programmi specifici di prevenzione, non ha favorito la corretta applicazione
del dettato legislativo e la capitalizzazione degli sforzi messi in campo,
disperdendo risorse umane e economiche impiegate e non raggiungendo gli
obiettivi che ci si proponeva”.
E
“nell’assenza protratta negli anni di una strategia nazionale di prevenzione,
il ruolo dell’INAIL, cresciuto nel tempo (avendo anche assorbito l’ISPESL,
quale soggetto di ricerca e focal point degli interventi comunitari), non ha
trovato quella collocazione chiara, così come quegli specifici ambiti e filoni
di intervento, tali da creare una sinergia costante e costruttiva con i
ministeri competenti, ma non meno con le parti sociali”.
E,
continua il documento degli RLS, “alla vigilia di una importante riforma
costituzionale che interesserà l’intero assetto istituzionale del nostro paese
e la ripartizione dei poteri”, queste sono le principali questioni aperte:
-
a
quando una strategia nazionale di prevenzione?
-
quale
modello di sistema per gli organi di prevenzione e controllo?
-
quale
il ruolo delle parti sociali nel futuro della prevenzione in Italia?
Il
secondo tema affrontato era invece relativo alla “rappresentanza, pariteticità
e applicazione dell’articolo 52 del D.Lgs. 81/08”. Ricordiamo che l’articolo 52
del Testo Unico è relativo al “Sostegno alla piccola e media impresa, ai
rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriali e alla
pariteticità”.
Queste
in particolare le principali questioni aperte:
-
quando
ed in che modo agire per il rafforzamento e la diffusione degli RLS/RLST?
-
organismi
paritetici: riconoscimento e implementazione;
-
sigla
ed implementazione degli accordi interconfederali.
Non
poteva mancare poi un cenno anche alla “decretazione attuativa ancora mancante,
ma prevista dal D.Lgs. 81/08”.
Secondo
il documento la stratificazione di interventi normativi nel settore della
salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, dopo l’approvazione del D.Lgs. 81/08,
“non è stata quasi mai improntata a caratteri di organicità, rilevanza e
positività. Questo perché a volte essa ha inteso rispondere a volontà di
semplificazione non correttamente intesa, o in altri casi poiché ha cercato di
introdurre cambiamenti nell’impianto e nella filosofia complessiva della
legislazione previgente, non rispettando alcuni indirizzi di fondo”.
E
il documento ribadisce il giudizio negativo delle parti sociali sindacali
riguardo agli interventi del Jobs Act.
Infatti
con il Jobs Act si sarebbe “persa l’occasione di introdurre alcune modifiche
positive e rilevanti, e ancora una volta non si è affrontato il tema dell’applicazione
piena delle norme e del completamento della decretazione demandata”.
E
anche “un’ambiziosa operazione come quella della costruzione del SINP (il
Sistema Iinformativo Nazionale di Prevenzione: un utile strumento informativo
che superasse i gap e i ritardi della totalità degli istituti e delle
istituzioni preposti alla vigilanza ed al controllo), è ancora in una
situazione di stallo che non dovrebbe essere perpetuata a lungo”.
Queste
le principali questioni aperte:
-
con
che tempi, modi e con quali priorità avverrà l’emanazione della decretazione
demandata?
-
a
quando l’istituzione e l’effettivo funzionamento del SINP?
Parzialmente
a queste domande risponde uno dei rappresentanti istituzionali presenti
all’assemblea, Romolo De Camillis, il nuovo Direttore della Direzione Generale
della tutela delle condizioni di lavoro e delle relazioni industriali del
Ministero del Lavoro.
De
Camillis ha ammesso i ritardi, “soprattutto sul completamento della
decretazione relativa al Testo Unico e sugli organismi paritetici”. Ma ha
ribadito l’impegno massimo del Ministero anche per “rendere le norme sempre più
chiare, proporre un’azione culturale di diffusione della sicurezza sul lavoro e
comporre le posizioni divergenti che spesso si manifestano sui singoli provvedimenti,
perché senza convergenza di tutti gli attori nessuna buona legge può
funzionare”. E ha anche fatto due anticipazioni:
-
il
Decreto attuativo sul SINP, che sarebbe “pronto e chiuso”, è che è “sul tavolo
della Presidenza del Consiglio” per un varo “ormai imminente”;
-
il
Piano Nazionale Amianto (PNA), per il quale è previsto “il varo del tavolo
tecnico, su iniziativa del ministero della Salute, che dovrebbe avviare il
percorso per la sua realizzazione”.
E
di “amianto” parla anche il documento degli RLS/RLST di CGIL, CISL e UIL.
Si
ricorda infatti che il tema amianto, “per la gravità della situazione e per le
rilevanti conseguenze sulla salute pubblica e sull’ambiente, è purtroppo sempre
attuale e deve essere affrontato dalle Istituzioni preposte e da tutti gli
attori della prevenzione e della salute collettiva con la massima attenzione e
responsabilità”.
E
gli RLS ritengono che “non sia più rinviabile lo sblocco del PNA, attualmente
fermo al Tavolo della Conferenza Stato Regioni” che deve essere reso operativo
al più presto, mettendo in atto “un coordinamento funzionale ed istituzionale
di tutte le attività da parte della Presidenza del Consiglio”. E servono
risorse per la ricerca e per la prevenzione, “ma anche per completare i
censimenti a livello regionale dei siti contenenti amianto e per il corretto
smaltimento”.
Queste,
in conclusione, le principali questioni aperte in materia di amianto:
-
il
PNA, a che punto siamo?
-
serve
una regia unica, a quando la scelta?
-
il
Fondo Vittime Amianto: come renderlo più equo nei confronti di tutti i malati e
delle famiglie delle vittime?
Il
“Documento dell’Assemblea unitaria degli RLS/RLST CGIL CISL e UIL”, relativo
all’assemblea dell’11 febbraio 2016
a Napoli è scaricabile all’indirizzo:
LA VALUTAZIONE DELL’ESPOSIZIONE PROFESSIONALE A SILICE LIBERA CRISTALLINA
Da:
PuntoSicuro
30
marzo 2016
Una
pubblicazione dell’INAIL presenta indicazioni per la valutazione
dell’esposizione professionale alla Silice Libera Cristallina (SLC), un agente
di rischio con livelli di esposizione che persistono elevati in molti settori
produttivi.
E’
disponibile sul sito INAIL il volume “Network Italiano Silice. La valutazione
dell’esposizione professionale a silice libera cristallina”.
Dal
2003 il Network Italiano Silice (NIS), di cui l’INAIL è uno dei fondatori, è
costantemente impegnato a stimolare e promuovere iniziative mirate al
contenimento delle esposizioni, divulgando documenti tecnici utili a gestire
tale rischio in tutti i suoi aspetti. Il volume rappresenta la versione aggiornata
al 2015 dei documenti tecnico-scientifici pubblicati dal NIS nel 2005 in tema di
epidemiologia, normativa, sorveglianza sanitaria e metodi di campionamento e
analisi.
Il
problema dell’esposizione a SLC nei luoghi di lavoro è particolarmente rilevante,
essendo tale agente di rischio presente in numerose attività lavorative. La SLC è infatti estremamente comune
in natura e utilizzata in una vasta gamma di prodotti di uso civile e
industriale. La pericolosità di tale agente, già nota da tempo, è stata rivalutata
dalla International Agency for Research on Cancer
(IARC) che, nella monografia 100C/2010, sulla base di una nuova revisione della
letteratura di merito, ha confermato che la silice è un cancerogeno di
categoria 1, nelle sue forme di cristobalite e quarzo.
La
valutazione del rischio di esposizione a SLC presenta molteplici criticità
connesse sia ad aspetti tecnico-operativi, sia a questioni di carattere
normativo e organizzativo ancora irrisolte, anche per la mancanza di Valori
Limite di Esposizione (VLE) nazionali per le diverse forme di SLC. A tal
proposito va puntualizzato che in Italia, mentre in sede giudiziale e in alcuni
contratti di lavoro collettivi è prassi riferirsi al Threshold Limit Value -
Time-Weighted Average (TLV - TWA) proposto dalla American Conference of Governmental Industrial Hygienists
(ACGIH), il limite di esposizione oltre il quale decorre l’obbligo per le
aziende di essere assicurate contro il rischio silicosi è stabilito dal
Ministero del Lavoro.
Il
documento propone le prassi operative che il Gruppo “Igiene Industriale” del
NIS ha elaborato in tema di accertamento del rischio di esposizione a SLC, allo
scopo di fornire utili indicazioni a tutti gli operatori pubblici e privati
impegnati in tale attività.
Seguendo
per quanto possibile le indicazioni delle norme europee e nazionali vigenti, il
documento fornisce suggerimenti pratici sui temi della strategia di
campionamento, dei sistemi di prelievo delle frazioni dimensionali delle
polveri aerodisperse, delle tecniche e dei metodi di analisi applicabili per il
dosaggio di tale analita nelle polveri. Vengono infine affrontati gli aspetti
della trattazione statistica dei dati e dei sistemi di valutazione della
conformità con il VLE.
Nelle
lavorazioni in cui è prevista la presenza di SLC respirabile è necessario
valutare il rischio e provvedere alla sua gestione, abbattendo o comunque
limitando la diffusione in aria delle polveri contenenti tale sostanza per
ridurne il suo effetto nocivo.
Tenuto
conto dell’attuale classificazione della SLC, le istanze relative alla tutela
della salute in ambito lavorativo e agli aspetti di prevenzione, trovano oggi
rispondenza nel D.Lgs. 81/08 e s.m.i. agli articoli 224 e 225 del Capo I
“Protezione da agenti chimici”, Titolo IX, dove si fa riferimento esplicito
alle misure e ai principi generali per la prevenzione dai rischi di esposizione
a sostanze pericolose e alle misure specifiche di prevenzione e protezione da
adottare per limitare tale rischio (ad esempio sostituzione della sostanza,
progettazione di processi produttivi, misure organizzative e di protezione
collettiva ed individuale e sorveglianza sanitaria).
Nonostante
la classificazione della IARC, non vi è attualmente per la SLC una chiara corrispondenza
ai criteri di classificazione per le sostanze cancerogene o mutagene di
categoria 1A e 1B previste nell’Allegato I del Regolamento CE 1272/08 CLP (Classification, Labelling and Packaging).
Sul
tema, al momento non esiste inoltre una Direttiva europea recepita dallo Stato
Italiano o una Normativa Nazionale o Regionale che identifichi, per la silice,
una modalità di esposizione cancerogena come sostanza, preparato o processo di
cui all’Allegato XLII del D.Lgs. 81/08.
In
estrema sintesi, si può affermare che la normativa nazionale in tema di salute
e sicurezza sul lavoro, di derivazione europea, non può trattare la SLC alla stregua di sostanza
cancerogena in assenza di una classificazione armonizzata.
Il
recepimento delle Direttive comunitarie riguardanti gli agenti chimici
pericolosi e gli agenti cancerogeni e mutageni definisce anche i limiti al di
sopra dei quali è vietata l’esposizione lavorativa, alimentando anche gli
Allegati XXXVIII e XLII del D.Lgs. 81/08 contenenti, rispettivamente, un elenco
di valori limite di esposizione professionale per agenti chimici e un elenco di
sostanze, preparati e processi cancerogeni e mutageni. Allo stato attuale la
silice non è ricompresa nell’elenco di cui agli Allegati.
Il
quadro normativo di riferimento per l’attuazione delle misure di tutela della salute
per l’esposizione a polveri contenenti varie forme di silice è oggi
estremamente complesso.
Infatti,
come descritto, la classificazione delle forme di silice non è compresa
nell’allegato VI del Regolamento CE 1272/08 oggi vigente ai fini della classificazione
armonizzata europea. Per tale motivo la silice, nelle sue forme di quarzo e
cristobalite, è notificata obbligatoriamente all’ECHA (European CHemical
Agency), secondo una autoclassificazione curata dalla azienda che produce o
immette sul mercato la sostanza.
Sul
versante della normativa su salute e sicurezza sul lavoro, sia in ambito
europeo (Direttive agenti chimici e Direttiva su agenti cancerogeni e mutageni
98/24 e 37/04 EC) sia in ambito nazionale (D.Lgs. 81/08) non esistono misure
speciali in funzione della ben nota pericolosità delle polveri respirabili
contenenti silice cristallina. Le esposizioni a SLC ricadono quindi nel Titolo
IX, capo I “Protezione da agenti chimici” dello stesso Decreto.
Nonostante
da tempo la IARC
ha definito, sulla base delle evidenze epidemiologiche, la SLC, nelle sue forme di quarzo
(CAS n. 14808-60-7 e CE n. 238-878-4) e cristobalite (CAS n. 14464-46-1, CE n.
238-455-4), cancerogena certa per l’uomo Categoria 1, tale evidenza non può
essere però utilizzata in ambito normativo a causa della mancata
classificazione armonizzata europea (Allegato VI del Regolamento CE 1272/08).
Infatti il D.Lgs. 81/08 al Titolo IX, Capo II “Protezione da agenti cancerogeni
e mutageni” definisce agenti cancerogeni quelli che sono classificati come
cancerogeni di Categoria 1A e 1B contenuti nell’allegato VI del Regolamento CE
1272/08 CE.
Anche
l’obbligo di fornire informazioni lungo la catena di approvvigionamento per
mezzo della Schede Di Sicurezza (SDS) non sempre è obbligatoriamente prescritta
in assenza di una classificazione armonizzata. Al riguardo si fa riferimento al
caso delle pietre artificiali descritte in allegato, che nella loro qualità di
“articoli” sono esentate dagli obblighi di SDS. Allo scopo di garantire una
protezione dei lavoratori esposti alla SLC nei diversi comparti lavorativi, il
gruppo di lavoro ha verificato la possibilità di procedere ad una richiesta di
classificazione armonizzata per la
SLC, sia essa quarzo o cristobalite, per le quali esistono ad
oggi il maggior numero di informazioni scientifiche.
Dopo
attente analisi delle risultanze scientifiche si è ritenuto più attinente
appoggiare la posizione proposta dalla Unione Europea nelle ultime riunioni
dell’Advisory Committee of Safety and Health per l’individuazione di un
aggiornamento della Direttiva sugli agenti cancerogeni e mutageni contenente un
valore limite occupazionale da recepire obbligatoriamente da parte degli Stati
membri.
Il
documento del Network Italiano Silice di INAIL “La valutazione dell’esposizione
professionale a silice libera cristallina” Edizione 2015 è scaricabile
all’indirizzo:
Nessun commento:
Posta un commento